Più ci maceriava sopra, più ci firriava torno torno, più ci passava ranto ranto, sempre più si faceva convinto che s’era messo sulla strata giusta. Non aveva avuto manco bisogno della solita passiàta meditativa fino alla cima del molo, appena nisciùto da casa Burgio con la fotografia nuziale in sacchetta s’era diretto sparato alla volta di Montelusa.
«C’è il dottore?».
«Sì, ma sta travagliando, ora l’avverto» disse il custode.
Pasquano e i suoi due assistenti stavano attorno al piano di marmo sul quale c’era un cadavere, nudo e con gli occhi sgriddrati. E aveva ragione, il morto, a tenere gli occhi spalancati come per stupore dato che i tre stavano brindando con bicchieri di carta. Il dottore aveva una bottiglia di spumante in mano.
«Venga, venga, stiamo festeggiando».
Montalbano ringraziò un assistente che gli passava un bicchiere, Pasquano gli versò due dita di spumante.
«Alla salute di chi?» spiò il commissario.
«Alla mia. Con questo qua, sono arrivato al millesimo esame autoptico».
Montalbano bevve, chiamò il dottore in disparte, gli mostrò la foto.
«La morta del crasticeddru poteva avere una faccia come questa picciotta della foto?».
«Perché non va a cacare? » domandò dolcemente Pasquano.
«Mi scusi» fece il commissario.
Girò sui tacchi e uscì. Era uno stronzo, lui, non il dottore. S’era lasciato pigliare dall’entusiasmo ed era andato a fare a Pasquano la domanda più cretina che si potesse concepire.
Non ebbe miglior fortuna alla Scientifica.
«C’è Jacomuzzi?».
«No, è dal signor questore».
«Chi si occupa del laboratorio fotografico?».
«De Francesco, al piano sotterraneo».
De Francesco taliò la foto come se ancora non l’avessero informato della possibilità di riprodurre immagini su pellicole sensibili alla luce.
«Che vuole da me?».
«Sapere se si tratta di un fotomontaggio».
«Ah, non è partita mia. Io ne capisco solo a fotografare e a sviluppare. Le cose più difficili le mandiamo a Palermo».
Poi la rota firriò nel senso giusto e principiò la serie positiva. Telefonò al fotografo della rivista che aveva pubblicato la recensione al libro di Maraventano e di cui si ricordava il cognome.
«Mi perdoni se la disturbo, è lei il signor Contino?».
«Sì, sono io, chi parla?».
«Sono il commissario Montalbano, avrei bisogno di vederla».
«Mi fa piacere conoscerla. Venga anche ora, se vuole».
Il fotografo abitava nella parte vecchia di Montelusa, in una delle poche case superstiti di una frana che aveva fatto scomparire un intero quartiere dal nome arabo.
«Veramente io di professione non faccio il fotografo, insegno storia al liceo, ma mi diletto. Sono a sua disposizione».
«Lei è in grado di dirmi se questa fotografia è un fotomontaggio?».
«Posso provarci» disse Contino taliando la foto. «Quando è stata scattata, lo sa?».
«M’hanno detto verso il ’46».
«Ripassi dopodomani».
Montalbano calò la testa e non disse niente.
«E cosa urgente? Allora facciamo così, io, tra due ore, mettiamo, posso darle una prima risposta che però ha bisogno di conferma».
«D’accordo».
Le due ore le passò in una galleria d’arte dove c’era una mostra d’un pittore siciliano settantenne, ancora legato a una certa retorica populista ma felice nel colore, intenso, vivissimo. Comunque prestò alle tele un occhio distratto, impaziente com’era per la risposta di Contino, ogni cinque minuti taliava il ralogio.
«Allora mi dica».
«Ho finito ora ora. A mio giudizio, si tratta proprio di un fotomontaggio. Assai ben fatto».
«Da che lo capisce?».
«Dalle ombre sullo sfondo. La testa della ragazza è stata montata in sostituzione della testa della vera sposa».
E questo Montalbano non glielo aveva detto. Contino non era stato messo sull’avviso, non era stato indotto a quella conclusione dallo stesso commissario.
«Le dirò di più: l’immagine della ragazza è stata ritoccata».
«In che senso?».
«Nel senso che la si è, come dire, un pochino invecchiata».
«Posso riprendermela?».
«Certo, a me non serve più. La cosa la credevo più difficile, non c’è bisogno di conferma, come le avevo detto».
«Lei mi è stato straordinariamente utile». «Senta, commissario, il mio è un parere del tutto privato, mi spiego? Non ha nessun valore legale».
Il questore non solo l’accolse subito, ma allargò le braccia con gioia.
«Che bella sorpresa! Ha tempo? Venga con me, andiamo a casa mia, aspetto una telefonata da mio figlio, mia moglie sarà veramente felice di vederla».
Il figlio del questore, Massimo, era un medico che apparteneva ad una associazione di volontari. Si definivano senza frontiere e andavano nei paesi dilaniati dalla guerra, prestavano la loro opera come meglio potevano.
«Mio figlio è pediatra, lo sa? Attualmente si trova in Ruanda. Sono veramente in pensiero per lui».
«Ci sono ancora scontri?».
«Non mi riferivo agli scontri. Ogni volta che riesce a telefonarci, lo sento sempre più sopraffatto dall’orrore, dallo strazio».
Poi il questore tacque. E fu certo per distrarlo dai pinsèri in cui si era serrato che Montalbano gli comunicò la notizia.
«Sono al novantanove per cento certo di sapere nome e cognome della ragazza trovata morta al crasticeddru».
Il questore non parlò, lo taliò a bocca aperta.
«Si chiamava Elisa Moscato, aveva diciassette anni».
«Come diavolo ha fatto?».
Montalbano gli contò tutto.
La moglie del questore gli tenne la mano come a un picciliddro, se lo fece assittare sul divano. Parlarono tanticchia, poi il commissario si susì, disse che aveva un impegno, che doveva andare via. Non era vero, solo che non voleva esserci quando arrivava la telefonata, il questore e la signora dovevano godersela da soli e in pace la voce lontana del loro figlio, magari se le parole erano carriche d’angoscia, di dolore. Niscì dalla casa che squillava il telefono.
«Sono stato di parola, come vede. Le ho riportato la fotografia».
«Trasìssi, trasìssi».
La signora Burgio si fece di lato per lasciarlo passare.
«Cu è? » spiò a voce alta dalla càmmara di mangiare il marito.
«Il commissario è».
«Ma fallo accomodare!» ruggì il preside come se sua moglie si fosse rifiutata di farlo trasìri.
Stavano cenando.
«Metto un piatto?» spiò invitante la signora. E senza aspettare la risposta, lo mise. Montalbano s’assittò, la signora gli servì brodo di pesce, ristretto a come voleva Dio e rianimato dal prezzemolo.
«È riuscito a capirci qualcosa? » spiò la donna senza rilevare l’occhiataccia del marito che stimava inopportuno quell’assalto.
«Purtroppo sì, signora. Credo che si tratti di un fotomontaggio».
«Dio mio! Allora chi me l’ha mandata ha voluto farmi credere una cosa per un’altra!».
«Sì, penso che lo scopo sia stato questo. Tentare di mettere un punto fermo alle sue domande su Lisetta».
«Lo vedi che avevo ragione?» gridò quasi la signora al marito e si mise a chiàngiri.
«Ma perché fai così?» domandò il preside.
«Perché Lisetta è morta e invece m’hanno voluto fare credere che fosse viva, felice e maritata!».
«Sai, può essere stata la stessa Lisetta a...».
«Ma non dire cretinate!» disse la signora buttando il tovagliolo sul tavolo.
Si fece un silenzio imbarazzato. Poi la signora ripigliò.
«È morta, vero, commissario?».
«Temo di sì».
La signora si susì, niscì dalla càmmara di mangiare coprendosi la faccia con le mani, appena fòra la sentirono abbandonarsi ad una specie di mugolìo lamentioso.
«Mi dispiace» disse il commissario.
«Se l’è cercata» fece impietoso il preside seguendo una sua logica di dispute coniugali.
«Mi permetta una domanda. Lei è sicuro che tra Lillo e Lisetta c’era solo quel tipo d’affetto di cui lei e la sua signora m’hanno parlato?».
«Si spieghi meglio».
Montalbano decise di parlare papale papale.
«Lei esclude che Lillo e Lisetta fossero amanti?».
Il preside si mise a ridere, spazzò via l’ipotesi con un gesto della mano.
«Guardi, Lillo era innamorato cotto di una ragazza di Montelusa, la quale non ha più avuto notizie di lui dopo il luglio del ’43. E non può essere il morto del crasticeddru per la semplice ragione che il contadino che lo vide ferito, caricato su un camion e trasportato non so dove dai soldati, era una persona quatrata, seria».
«Allora» disse Montalbano «il tutto sta a significare una cosa sola, che non è vero che Lisetta se ne sia scappata con un soldato americano. Di conseguenza, il padre di Lisetta ha raccontato una farfanterìa, una menzogna, a sua moglie. Chi era il padre di Lisetta?».
«Mi pare di ricordare che si chiamasse Stefano».
«E ancora vivo?».
«No, è morto vecchio almeno cinque anni fa».
«Che faceva?».
«Commerciava in legname, mi pare. Ma in casa nostra non si parlava di Stefano Moscato».
«Perché?».
«Perché magari lui non era una persona per la quale. Era in combutta con i suoi parenti Rizzitano, mi spiego? Aveva avuto guai con la giustizia, non so di che tipo. In quei tempi, nelle famiglie delle persone civili, perbene, non si discorreva di questa gente. Era come parlare della cacca, mi scusi».
Tornò la signora Burgio, gli occhi arrossati, una vecchia lettera in mano.
«Questa è l’ultima che ho ricevuto da Lisetta mentre stavo ad Acquapendente, dove mi ero trasferita con i miei».
Serradifalco, 10 giugno 1943 Angelina mia cara, come stai? Come stanno quelli della tua famiglia? Tu non puoi capire quanto io t’invidii perché la tua vita in un paese del nord non può essere nemmeno lontanamente paragonabile al carcere in cui passo le mie giornate. Non credere eccessiva la parola carcere. Oltre alla sorveglianza asfissiante di papà, c’è la vita monotona e stupida di un paese fatto di quattro case. Pensa che domenica scorsa, all’uscita di chiesa, un ragazzo di qui che manco conosco m’ha rivolto un saluto. Papà se n’è accorto, l’ha chiamato in disparte e l’ha pigliato a schiaffi. Cose da pazzi! Unico mio svago è la lettura. Ho per amico Andreuccio, un bambino di dieci anni, figlio dei miei cugini. E intelligente. Hai mai pensato che i bambini possano essere più spiritosi di noi?
Da qualche giorno, Angelina mia, vivo nella disperazione. Ho ricevuto, in un modo tanto avventuroso che sarebbe lungo spiegarti, un bigliettino di quattro righe di Lui, di Lui, di Lui, mi dice che è disperato, che non regge più a non vedermi, che hanno ricevuto, dopo tanto tempo che stavano fermi a Vigàta, l’ordine di partire a giorni. Io mi sento morire a non vederlo. Prima che parta, che vada via, devo, devo, devo passare qualche ora con lui, a costo di una pazzia. Ti farò sapere e intanto ti abbraccio forte forte. Tua
Lisetta
«Lei dunque non ha mai saputo chi fosse questo lui» disse il commissario.
«No. Non ha mai voluto dirmelo».
«Dopo questa lettera non ne ha ricevuto altre?».
«Vuole scherzare? È già un miracolo che l’abbia avuta, in quei giorni lo Stretto di Messina non era attraversabile, lo bombardavano continuamente. Poi il nove luglio sono sbarcati gli americani e le comunicazioni si sono interrotte definitivamente».
«Mi scusi, signora, ma se lo ricorda l’indirizzo della sua amica a Serradifalco?».
«Certo. Presso famiglia Sorrentino, via Crispi 18».
Fece per mettere la chiave nella toppa, ma si fermò allarmato. Da dentro la sua casa venivano voci e rumori. Pensò di tornare in macchina e armarsi di pistola, ma non ne fece nulla. Raprì la porta cautamente, senza fare la minima rumorata.
E tutt’inzèmmula si ricordò che s’era completamente scordato di Livia che chissà da quanto l’aspettava.
Ci mise mezza nottata a fare la pace.
Alle sette del mattino si susì a pedi lèggio, fece un numero di telefono, parlò a bassa voce.
«Fazio? Mi devi fare un favore, ti devi dare malato».
«Non c’è problema».
«Voglio, entro stasera, vita, morte e miracoli di un tale Stefano Moscato, morto qua a Vigàta un cinque anni fa. Domanda in paese, talìa nello schedario e dove ti pare a te. Mi raccomando».
«Stia tranquillo».
Posò il telefono, pigliò carta e penna, scrisse.
Amore, devo scappare per un impegno urgente e non voglio svegliarti. Tornerò a casa sicuramente nel primo pomeriggio. Perché non ti pigli un tassì e te ne vai a rivedere i templi? Sono sempre splendidi. Un bacio.
Se ne niscì come un ladro, se Livia rapriva l’occhio, sarebbe stato un casino serio.
Per arrivare a Serradifalco ci mise un’ora e mezza, la giornata era chiara, gli venne magari di fischiettare, si sentiva contento. Gli tornò a mente Caifas, il cane di suo padre che girava casa casa stufato e malinconico, ma che si faceva vispo appena vedeva il padrone dedicarsi alla preparazione delle cartucce e poi si tramutava in un ammasso d’energia quando veniva portato sul campo di caccia. Trovò subito via Crispi, al numero 18 corrispondeva un palazzetto ottocentesco a due piani. C’era un campanello con la scritta «Sorrentino». Una ragazza simpatica, d’una ventina d’anni, gli spiò cosa desiderava.
«Vorrei parlare con il signor Andrea Sorrentino».
«È mio padre, non è in casa, lo può trovare in Comune».
«Lavora lì?».
«Sì e no. È il sindaco».
«Certo che mi ricordo di Lisetta» disse Andrea Sorrentino. Portava benissimo i suoi sessanta e passa anni, solo qualche capello bianco, l’aria prestante.
«Ma perché mi domanda di lei?».
«È un’indagine molto riservata. Sono spiacente di non poterle dire nulla. Mi creda però, per me è molto importante avere qualche notizia».
«E va bene, commissario. Guardi, di Lisetta ho ricordi bellissimi, facevamo lunghe passeggiate in campagna e io allato a lei mi sentivo orgoglioso, un uomo grande. Mi trattava come se io avessi avuto la sua stessa età. Dopo che la sua famiglia lasciò Serradifalco e se ne tornò a Vigàta, non ebbi più sue notizie dirette».
«Come mai?».
Il sindaco ebbe un momento d’esitazione.
«Beh, glielo dico perché sono storie ormai passate. Credo che mio padre e il padre di Lisetta si siano sciamati a morte, abbiano litigato. Verso la fine dell’agosto del ’43 mio padre tornò una sera a casa stravolto. Era stato a Vigàta, a trovare u zu Stefanu, come lo chiamavo io, per non so quale questione. Era pallido, aveva la febbre, mi rammento che mamma si spaventò molto e anche io, di conseguenza, mi spaventai. Non so cosa sia accaduto fra i due, però il giorno dopo, a tavola, mio padre disse che nella nostra casa il nome dei Moscato non doveva più essere detto. Ubbidii, magari se avevo un grande desiderio di spiargli di Lisetta. Sa, questi tremendi litigi tra parenti...».
«Lei si ricorda del soldato americano che Lisetta conobbe qua?».
«Qua? Un soldato americano?».
«Sì. Almeno così credo d’avere capito. Conobbe a Serradifalco un soldato americano, s’innamorarono, lei lo seguì e qualche tempo dopo si maritarono in America».
«Di questa storia del matrimonio ne ho sentito vagamente parlare, perché una mia zia, sorella di mio padre, ricevette una foto che ritraeva Lisetta in abito da sposa con un soldato americano».
«Allora perché si è meravigliato?».
«Mi sono meravigliato del fatto che lei dica che Lisetta l’americano lo conobbe qua. Vede, quando gli americani occuparono Serradifalco, Lisetta era scomparsa da casa nostra da almeno dieci giorni».
«Ma che dice?».
«Sissignore. Un pomeriggio, saranno state le tre o le quattro, vidi Lisetta che si preparava a uscire di casa. Le spiai quale sarebbe stata quel giorno la meta della nostra passeggiata. Mi rispose che non mi dovevo offendere, ma quel giorno preferiva andare a spasso da sola. Mi offesi profondamente. La sera, all’ora di cena, Lisetta non tornò. Zio Stefano, mio padre, alcuni contadini uscirono a cercarla, ma non la trovarono. Passammo ore terribili, c’erano in giro soldati italiani e tedeschi, i grandi pensarono a una violenza... Il pomeriggio del giorno seguente, u zu Stefanu ci salutò e disse che non sarebbe tornato se prima non trovava sua figlia. A casa nostra rimase la mamma di Lisetta, povera donna, schiantata. Poi successe lo sbarco e noi restammo divisi dal fronte. Il giorno stesso che il fronte passò, tornò Stefano Moscato a ripigliarsi la moglie, ci disse che aveva ritrovato Lisetta a Vigàta, che la fuga era stata una bambinata. Ora, se lei mi ha seguito, avrà capito che Lisetta non può avere conosciuto il suo futuro marito qua a Serradifalco, ma a Vigàta, al suo paese».