Thora Gudmundsdottir si spazzolò via in fretta i cereali dai pantaloni e si diede una rapida sistemata prima di entrare nello studio legale. Niente male. La battaglia mattutina, che consisteva nel far arrivare a scuola in orario la figlia di sei anni e il figlio di sedici, era stata ancora una volta vinta. Stavolta la bambina si era improvvisamente rifiutata di mettersi il vestito rosa, il che non avrebbe creato alcun problema se il suo guardaroba non fosse stato quasi interamente costituito da abiti di quel colore. Suo figlio invece si sarebbe felicemente accontentato di indossare gli stessi abiti consumati tutto l’anno, a condizione che su ognuno fosse stampata la figura di un teschio. La più grande impresa materna era riuscire a farlo alzare la mattina. Certo, non era semplice allevare due figli da sola, però non lo era stato nemmeno prima del divorzio. L’unica differenza allora era che, alle fatiche del mattino, si aggiungevano i litigi con il marito. Il pensiero che almeno quel periodo si fosse concluso la fece tornare di buonumore. Un tenue sorriso le apparve sulle labbra nel momento in cui aprì la porta.
«Buongiorno», disse con malcelata allegria.
La segretaria non rispose al saluto, rimase con lo sguardo fisso sullo schermo del computer e continuò a strapazzare il mouse. Sempre la solita simpaticona, pensò Thora e maledì in silenzio per l’ennesima volta l’atmosfera sgradevole che questa segretaria creava continuamente. Non aveva alcun dubbio che lo studio legale stesso ne subisse notevoli ripercussioni negative, visto che tutti i clienti si lamentavano della ragazza, che non era soltanto maleducata ma anche particolarmente poco attraente. Non che fosse bassa, anzi era più alta della media, ma aveva un aspetto totalmente trasandato. Come se ciò non bastasse, i suoi genitori l’avevano battezzata, forse per pura e semplice cattiveria, con l’assurdo nome di Bella. Se solo si fosse licenziata di sua spontanea volontà! Era chiaro che non era affatto felice della sua posizione in quello studio legale e che avrebbe sicuramente voluto cambiare vita, benché Thora faticasse a immaginare che tipo di occupazione avrebbe potuto tirarla su di morale. Ma di licenziarla, loro stessi, non ne potevano neppure parlare.
Quando Thora e Bragi, suo socio più anziano e più esperto, avevano deciso di fondare assieme il nuovo studio legale, erano stati talmente affascinati dall’immobile della futura sede, da lasciarsi convincere dal proprietario di includere, nel contratto di locazione, la clausola di assunzione permanente di sua figlia in qualità di segretaria. Certo non avrebbero mai immaginato allora le conseguenze cui andavano incontro. La ragazza aveva una magnifica lettera di raccomandazione da parte dell’agenzia immobiliare che per ultima aveva affittato gli uffici. Thora si era ormai convinta che quella dannata agenzia si fosse trasferita da quel bellissimo angolo del centro di Reykjavik solamente per sbarazzarsi di quella segretaria infernale. Sicuramente stavano ancora sbellicandosi dalle risate per il modo in cui li avevano abbindolati. Certo, facendo causa all’agenzia avrebbero potuto far cancellare la clausola evidentemente estorta con raccomandazioni false o per lo meno esagerate, ma, in quel caso, quel minimo di rispettabilità che lo studio legale si era procurato con il tempo sarebbe andato in malora. Chi si sarebbe più rivolto ad avvocati che si proclamavano esperti di contratti… ma che non avevano saputo concludere al meglio i propri? Senza parlare del fatto che, pur liberandosi di quella piaga, non è che fuori ci fosse la fila di segretarie in gamba pronte a farsi assumere.
«Ha telefonato qualcuno», bofonchiò Bella incollata allo schermo.
Thora distolse lo sguardo dall’attaccapanni su cui stava appendendo il suo piumino: «Ah, sì?» rispose e aggiunse con flebile speranza: «Hai una qualche idea di chi fosse?»
«No, parlava tedesco, penso. Non ho capito niente.»
«Ti ha detto per caso se richiamava?»
«Non lo so. Ho riattaccato. Senza volerlo.»
«Se per un caso fortuito quella persona dovesse richiamare, sebbene tu gli abbia sbattuto il telefono in faccia, ti dispiacerebbe passarlo a me personalmente? Ho studiato in Germania e parlo tedesco.»
«Hmpf», grugnì Bella, scrollando le spalle. «Forse non era affatto tedesco. Poteva benissimo essere russo. E poi era una donna. Mi pare. O magari un uomo…»
«Bella, chiunque chiami, una donna dalla Russia o un uomo dalla Germania, fosse anche un cane dalla Grecia, mi faresti il favore di passarmelo? Ok?» Thora non attese la risposta (sarebbe stato comunque inutile) e si affrettò verso il suo ascetico ufficio privato.
Si sedette e accese il computer. Sul tavolo non c’era la solita confusione di sempre. Il giorno precedente aveva passato un’ora buona ad archiviare i documenti che si erano ammassati nell’ultimo mese. Gettò nell’icona del cestino sullo schermo tutta la spazzatura e le barzellette stupide inviatele da amici e conoscenti, arrivate per e-mail. Rimanevano in tutto solamente tre messaggi da parte di clienti, uno da parte della sua amica Laufey con il titolo «Facciamo baldoria sabato prossimo» e infine uno dalla banca. Accidenti, sicuramente il conto corrente era in rosso o il tetto della carta di credito superato. Thora decise codardamente di non aprire la posta.
Il telefono squillò.
«Studio legale Centro Storico. Thora.»
«Guten Tag, Frau Gudmundsdottir.»
«Guten Tag.» Thora cercò carta e penna. Tedesco puro. Una donna.
L’avvocatessa strizzò gli occhi sperando che il tedesco che aveva imparato a suo tempo quasi alla perfezione, durante il master di giurisprudenza all’Università di Berlino, le tornasse in mente abbastanza per continuare la conversazione. Pronunciò le parole il più chiaramente possibile. «Come posso esserle utile?»
«Sono la signora Amelia Guntlieb. Ho ricevuto il suo nome dal professor Anderheiss.»
«Sì, era uno dei miei insegnanti a Berlino.» Thora sperava di aver formulato la frase correttamente, ma si rendeva conto che la pronuncia era diventata un po’ grezza. In Islanda non c’erano molte occasioni per parlare il tedesco.
«Per l’appunto.» Dopo un imbarazzante silenzio la donna proseguì: «Mio figlio è stato assassinato e io e mio marito gradiremmo il suo aiuto».
Thora si mise a pensare in fretta. Guntlieb? Non si chiamava appunto Guntlieb lo studente tedesco rinvenuto cadavere all’università?
«Pronto?» La donna temeva forse che fosse caduta la linea.
Thora si affrettò a rispondere: «Sì, mi scusi. Suo figlio. È successo qui in Islanda?»
«Sì.»
«Credo di aver capito di che omicidio si tratta, ma riconosco di saperne poco, e solamente tramite i quotidiani. È sicura di essersi rivolta alla persona giusta?»
«Lo spero proprio. Noi quaggiù non siamo per niente contenti dell’indagine della polizia islandese.»
«Come?» disse Thora stupita. L’omicida era stato catturato a meno di tre giorni dall’orribile assassinio. «Non ha saputo che è stato eseguito un arresto?»
«Siamo perfettamente a conoscenza del fatto che qualcuno è già stato arrestato. Invece non siamo per niente convinti che si tratti del vero colpevole.»
«Perché mai?» chiese Thora incredula.
«Abbiamo le nostre ragioni. Non posso dirle altro.» La donna si schiarì garbatamente la gola. «Desideriamo che qualcun altro si prenda cura del caso, qualcuno neutrale e che parli tedesco.» Silenzio. «Lei deve capire quanto tutto ciò sia difficile per noi.» Di nuovo silenzio. «Harald era nostro figlio.»
Thora cercò di esprimere solidarietà abbassando la voce e parlando più lentamente. «Certo, la capisco benissimo. Anch’io ho un figlio. Mi è ovviamente impossibile mettermi nei vostri panni, di genitori colpiti dalla tragedia, comunque vi porgo le mie più sentite condoglianze. Ma a dire il vero non sono sicura di potervi aiutare in qualche modo.»
«Grazie per le belle parole nei nostri riguardi.» La voce era di ghiaccio. «Il professore Anderheiss afferma che lei è dotata del talento che stiamo appunto cercando. Ci ha riferito della sua fermezza, della sua decisione e della sua grande forza morale.» Silenzio. Thora non poté fare a meno di pensare alla parola «testardaggine», che il professore non aveva osato utilizzare. La donna proseguì. «E soprattutto della sua comprensione. Il professore è un caro amico di famiglia e gode della nostra fiducia. Sarebbe disposta ad accettare l’incarico? La ricompenseremmo lautamente», e la signora pronunciò una cifra.
Si trattava di una somma sproporzionata, più del doppio della normale parcella di un avvocato. Per di più la signora aveva proposto un bonus finale se l’indagine avesse portato alla cattura del vero colpevole, al posto dell’individuo al momento detenuto. Il bonus era in effetti più alto dell’intero stipendio annuale di Thora. «Per una somma simile, che cosa vi aspettate da me? Io non sono affatto un investigatore privato.»
«Siamo in cerca di qualcuno che se la senta di riaprire il caso, di vagliare di nuovo tutte le piste già battute e dare un suo giudizio ponderato sulle conclusioni della polizia». La donna fece una nuova pausa prima di riprendere. «La polizia si rifiuta di parlare con noi. Il che ci irrita molto.»
Il figlio è morto e loro sono irritati dai rapporti con la polizia? «Ci voglio pensare su. Mi può lasciare un numero di telefono dove rintracciarla?»
La signora dettò il numero. «La prego di prendere una decisione entro stasera stessa, se possibile. In caso contrario ci rivolgeremo ad altri.»
«Non si preoccupi. Le farò sapere al più presto.»
«Signora Gudmundsdottir, c’è dell’altro.»
«Sì?»
«Poniamo una condizione.»
«Che sarebbe?»
La donna si schiarì la gola. «Vogliamo essere sempre i primi a sapere tutto quello che troverà. Sia le cose più importanti che quelle meno.»
«Prima di passare ai particolari, aspettiamo di vedere se potrò esservi di aiuto.»
Dopo i saluti di rito Thora riattaccò. Che bello cominciare la giornata facendosi trattare in questo modo, senza parlare della salute del suo conto in banca! Il telefono squillò di nuovo e Thora sollevò la cornetta.
«Chiamo dall’officina. Senta, il problema è più grave di quanto pensassimo.»
«Ha speranze di vita?» ribatté Thora innervosita. La sua auto si era permessa l’insolenza di non mettersi in moto il giorno prima, quando Thora doveva sbrigare delle faccende private all’ora di pranzo. Dopo vari tentativi infruttuosi, alla fine si era dovuta arrendere e l’aveva fatta trainare fino all’officina. Il meccanico l’aveva guardata con compassione e le aveva prestato una vecchia carretta sgangherata da usare durante la riparazione. Purtroppo l’auto di riserva era ricoperta di adesivi con il nome dell’officina, «Bibbi», e sul pavimento del sedile posteriore e del lato passeggeri giacevano ammassi di rifiuti di ogni tipo, principalmente scatole aperte di pezzi di ricambio e lattine di Coca-Cola vuote. Thora dovette accontentarsi, dato che non poteva restare a piedi.
«Pochissime.» Voce gelida. «Le verrà a costare parecchio.» Al che seguì un lungo elenco di termini tecnici che a Thora risultò incomprensibile. La cifra che invece concludeva l’elenco non necessitava di ulteriori delucidazioni.
«Grazie mille. La ripari subito.»
Thora riappese la cornetta e guardò il telefono per qualche minuto. Stava per arrivare il Natale, con le conseguenti spese: addobbi e spese, regali e spèse, feste e spese, inviti in famiglia e spese e — come se non bastasse — ulteriori spese. Non è che allo studio legale ci fosse poi così tanto da fare. Se invece avesse accettato questo incarico dalla Germania avrebbe potuto lavorarci assiduamente. Quanto al lato economico, l’offerta quasi spropositata avrebbe risolto ogni problema finanziario e le avrebbe permesso addirittura di andare in vacanza all’estero con i figli: ci dovevano pur essere mete alla portata di una bambina di sei anni, un ragazzo di sedici e di una donna single di trentasei. Con l’onorario tedesco avrebbe addirittura potuto invitare con sé un uomo di ventisei anni per far tornare l’equazione dei generi e delle età. Sollevò la cornetta.
Non fu la signora Guntlieb che rispose, ma una delle sue domestiche. Thora chiese della padrona di casa e poco dopo sentì un rumore di passi farsi sempre più vicino, probabilmente su un pavimento di ceramica. Una voce glaciale attraversò la linea telefonica.
«Salve, signora Guntlieb. Sono Thora Gudmundsdottir dall’Islanda.»
«Sì». Dopo un attimo di silenzio risultò evidente che per il momento la signora non intendeva dire altro.
«Ho deciso di darvi la mia assistenza.»
«Bene.»
«Quando volete che cominci?»
«Subito. Ho riservato per pranzo un tavolo di ristorante in modo che lei possa incontrare il signor Matthew Reich e discutere con lui l’intera faccenda. Si tratta di un impiegato di mio marito, che si trova in questo momento appunto in Islanda e ha esperienza di investigazioni, cosa che a lei manca. Lui la metterà al corrente di tutte le implicazioni del caso.»
Il tono di rimprovero con cui aveva pronunciato quel «manca» era lo stesso che avrebbe sicuramente usato se Thora si fosse presentata ubriaca alla festa di compleanno di un bambino. Lei tuttavia non si perse d’animo: «Sì, capisco. Vorrei però ribadire di non essere affatto sicura di potervi aiutare».
«Questo si vedrà. Matthew le presenterà il contratto già stilato e soltanto da firmare. Si prenda il tempo necessario per leggerlo bene.»
A questo punto Thora avrebbe voluto mandare all’inferno la gentile signora. Come non sopportava la tracotanza e la maleducazione! Ma ripensando a se stessa, ai figli e al ventiseienne insieme in vacanza al mare, Thora ingoiò l’orgoglio e balbettò un consenso.
«Allora, si faccia trovare all’Hotel Borg alle dodici in punto. Matthew le dirà tutto ciò che non è apparso sui giornali, dato che alcuni particolari del caso non erano affatto pubblicabili.»
A quelle parole un brivido percorse la schiena di Thora. Parole dette con voce dura e priva di sentimenti, eppure al contempo come rotta dal dolore. La voce di chi ha subito una grave perdita. Thora rimase in silenzio.
«Ci siamo spiegati, allora? Conosce l’albergo?»
Thora per poco non scoppiò in una risata. «Sì, credo proprio di conoscerlo. E penso che ci sarò.» Benché cercasse di tenersi nel vago per lenire il suo orgoglio ferito, Thora sapeva che si sarebbe presentata all’albergo alle dodici in punto.
Thora guardò l’orologio e mise via il dossier su cui stava lavorando. Ancora una volta un cliente che non si rassegnava al fatto che il suo caso fosse perduto in partenza. Era soddisfatta di se stessa per essere riuscita a portare a termine una serie di fascicoli di minore importanza, così avrebbe avuto il tempo necessario per incontrare Matthew Reich. Chiamò Bella sulla linea interna: «Sto andando a un appuntamento in città. Non so quanto rimarrò impegnata, comunque non contare sulla mia presenza prima delle quattordici».
Dalla cornetta uscì un grugnito che Thora interpretò come una risposta affermativa. Dio mio, era così difficile dire solamente «sì»?
Prese la borsetta e infilò l’agenda nella ventiquattrore. Tutto ciò che sapeva del caso lo aveva appreso da giornali e telegiornali, che peraltro non aveva seguito con particolare attenzione. Le pareva di ricordare che, a grandi linee, uno studente straniero era stato ucciso, si era abusato del cadavere in maniera orripilante e uno spacciatore di stupefacenti, che continuava a proclamarsi innocente, era stato arrestato. Certo, non molto su cui basare delle indagini.
Mentre si infilava il cappotto, Thora si guardò nel grande specchio dell’ufficio. Sapeva che una bella impressione al primo appuntamento contava più di ogni altra cosa, soprattutto con clienti di alto livello. «L’abito fa il monaco», dice chi si può permettere il meglio. E questo vale soprattutto per le scarpe. Per fortuna le sue erano accettabilmente eleganti e il completo pantalone molto professionale. Thora si passò le dita tra i capelli biondi e lunghi. Poi frugò nella borsetta e, trovato finalmente il rossetto, se lo mise rapidamente. Di solito preferiva restare quasi senza trucco e, la mattina, le bastavano un po’ di mascara e della crema emolliente. Il rossetto lo teneva per situazioni di emergenza come quella attuale. Il colore sulle labbra le dava un aspetto più mondano e un po’ di sicurezza. Che fortuna assomigliare a sua madre piuttosto che a suo padre, al quale una volta era stato addirittura chiesto di posare come sosia di Winston Churchill. In realtà non si poteva dire che lei avesse una bellezza vistosa, ma gli zigomi alti e gli occhi blu a mandorla le donavano un aspetto fotogenico. Inoltre aveva avuto la fortuna di ereditare da parte materna anche la costituzione fisica longilinea.
Mentre usciva dall’ufficio il suo socio le augurò in bocca al lupo. Thora gli aveva già detto della telefonata della Guntlieb e del prossimo incontro con il suo rappresentante. Bragi ne era rimasto entusiasta poiché era sicuro che, se un cliente straniero si era messo in contatto con il loro studio, significava essere sulla giusta strada. Tra l’altro aveva addirittura proposto di aggiungere la dicitura International o Group allo scarno nome dello studio legale; Thora sperava che stesse scherzando ma non ne era troppo sicura.
Fuori si era alzato il vento. Novembre era stato un mese estremamente freddo, premonitore di un lungo e aspro inverno che avrebbe compensato un’estate incredibilmente calda. Thora aveva l’impressione che il clima stesse cambiando, chissà se per normali e naturali oscillazioni di temperatura o per l’effetto serra. Per il bene dei suoi figli sperava si trattasse del normale corso della natura ma nell’intimo sapeva che le cose non stavano così. Si alzò il bavero del cappotto per non presentarsi all’appuntamento con le orecchie rosse dal freddo, ma l’Hotel Borg si trovava poco distante e non valeva la pena di spostare la sua auto di riserva. Inoltre, che cosa avrebbe pensato quel signore tedesco vedendola posteggiare quell’obbrobrio nel parcheggio davanti all’albergo? Forse i proverbi dovevano aggiornarsi e parlare anche dell’auto del monaco!
Non trascorsero più di sei minuti da quando uscì dall’ufficio a quando imboccò la porta girevole dell’hotel.
Thora osservò il bellissimo ristorante e si rese conto che, tranne le grandi vetrate che davano sulla piazza del Parlamento, vi era rimasto ben poco che le ricordasse gli anni delle sue baldorie giovanili, quando praticamente ogni sabato sera andava al Borg con gli amici, solitamente già tutti quanti ubriachi. A quei tempi la sua massima preoccupazione era la forma che il suo didietro prendeva nei pantaloni indossati per la serata. L’effetto serra non avrebbe certo catturato la sua attenzione, allora.
Il tedesco sembrava sulla quarantina, sedeva ritto sulla sedia imbottita e le sue larghe spalle coprivano lo schienale decorato. Nei suoi capelli comparivano qua e là delle striature di grigio che gli conferivano una certa dignità. Sembrava piuttosto rigido e formale, vestito com’era in giacca e cravatta sobri. Thora sorrise con la speranza di apparire cortese e interessata, e non spaesata com’era in realtà. L’uomo si alzò, si tolse il tovagliolo dal grembo e lo posò sul tavolo.
«Frau Gudmundsdottir.» Pronuncia dura e fredda.
Si salutarono con una stretta di mano. «Herr Reich», rispose Thora con l’accento tedesco più marcato possibile. «Mi chiami pure Thora», aggiunse. «È anche più semplice da pronunciare.»
«Prego, si accomodi», disse l’uomo mentre si sedeva. «E lei mi chiami pure Matthew.»
Thora si spogliò e fece attenzione a sedersi con la schiena diritta, aumentando la stranezza di quella coppia di esseri impalati. Gli altri clienti del ristorante stavano probabilmente pensando che fossero due malati di scoliosi, con gli appositi busti ortopedici.
«Le posso offrire qualcosa da bere?» chiese cortesemente Matthew in tedesco. Il cameriere aveva evidentemente capito e si girò verso Thora aspettando la sua risposta.
«Soltanto una minerale, grazie.» Si rammentò di come i tedeschi andassero pazzi per l’acqua minerale, che in effetti stava prendendo piede anche in Islanda dove, fino a dieci anni prima, nessuno avrebbe pagato per bere acqua al ristorante, quando poteva averne di purissima direttamente dai rubinetti di casa propria! Era comunque un po’ diverso ordinarla gassata.
«Suppongo che abbia già discusso la questione con i miei datori di lavoro o, per meglio dire, con la signora Guntlieb», chiese Matthew Reich quando il cameriere si fu allontanato.
«Sì. Lei stessa mi ha assicurato che avrei ricevuto ulteriori informazioni da parte sua.»
L’uomo ebbe un attimo di indecisione e sorseggiò il liquido contenuto nel suo bicchiere. Le bolle di gas indicavano che anche lui aveva ordinato dell’acqua effervescente. «Ho raccolto tutto quanto riguarda il caso in questo dossier, per lei. Lo può prendere e dargli un’occhiata più tardi. Per il momento ci sono dei particolari che vorrei discutere con lei di persona, se non le dispiace.»
«Assolutamente no, anzi, ne sarei proprio felice», rispose Thora senza pensarci su. Prima che Matthew avesse occasione di replicare, lei si affrettò ad aggiungere: «Tra l’altro mi piacerebbe ricevere qualche informazione sulle persone che si sono rivolte a me e per le quali sto per intraprendere questa indagine.»
«Se lo possono permettere», disse Matthew, con un sorriso appena accennato. «Herr Guntlieb è l’azionista di maggioranza della Anlagenbestand-Bank della Baviera. Non una multinazionale, ma una banca che segue medie e grandi aziende e individui benestanti. Non si preoccupi, la famiglia Guntlieb può permettersi qualsiasi cifra.»
«Capisco», disse Thora rendendosi conto che, se al telefono di casa Guntlieb aveva risposto una domestica, una ragione doveva pur esserci.
«Invece la famiglia Guntlieb non è stata altrettanto fortunata con la prole. Pur avendo avuto quattro figli, due maschi e due femmine, oggi non rimane in vita che una sola figlia. Il primogenito mori in un incidente stradale un decennio fa e la figlia maggiore nacque seriamente handicappata. Una serie di complicazioni di salute l’hanno pian piano portata alla morte e ora il fratello minore Harald è stato assassinato e la figlia minore, Elisa, è rimasta sola. Si può ben immaginare il dolore che ha investito questa famiglia.»
Thora annuì e chiese con un po’ di esitazione: «Che cosa stava facendo Harald quassù in Islanda? In Germania non mancano certo le università con eccellenti cattedre di Storia medievale!»
A giudicare dall’espressione che comparve sul volto di Matthew, fino ad allora impassibile, si trattava di una domanda delicata.
«A dire il vero non ne sono affatto certo, ma so che si interessava al Seicento e mi è stato riferito che stava facendo ricerche comparative tra l’Islanda e il resto d’Europa. Era venuto qui per fare un master tramite un programma di interscambio tra l’Università di Monaco e quella d’Islanda.»
«Che genere di ricerche? Qualcosa sul sistema di governo?» chiese Thora.
«No, piuttosto nel campo della religione.» Matthew bevve un sorso d’acqua. «Forse faremmo meglio a ordinare qualcosa da mangiare prima di continuare la nostra conversazione.» Chiamò il cameriere, che comparve con due menu.
Thora ebbe la sensazione che qualcosa di più serio e delicato sì nascondesse dietro quella fame improvvisa. «Religione, dice?»
Matthew posò il menu sul tavolo. «Certe cose non si discutono a tavola, anche se prima o poi saremo costretti a parlarne. Comunque, non sono sicuro che i suoi interessi accademici c’entrino poi tanto con l’omicidio.»
Thora aggrottò le sopracciglia.
«So che nel Seicento ci furono enormi epidemie», buttò lì. Era l’unica cosa che le era venuta in mente.
«No, le epidemie non c’entrano.» Matthew la guardò negli occhi. «La caccia alle streghe, piuttosto. Torture ed esecuzioni capitali, niente di particolarmente ameno. Purtroppo, Harald nutriva tali interessi.»
«Capisco», disse Thora, nonostante non avesse capito affatto. «Forse è meglio mangiare prima e poi discuterne.»
«Non ce n’è bisogno, dal momento che tutti i dati relativi al caso si trovano nel dossier preparato per lei.» Matthew afferrò di nuovo il menu. «Più tardi riceverà anche alcune casse, contenenti gli effetti personali di Harald, che la polizia ha già restituito. Si tratta di materiale relativo alla sua tesi di master, che le fornirà informazioni più dettagliate; sto inoltre aspettando la restituzione del suo computer e di altri oggetti personali che potrebbero aiutarci nella ricerca.»
Entrambi lessero il menu in silenzio.
«Pesce», disse Matthew senza sollevare lo sguardo. «Se ne mangia parecchio qui da voi.»
«È ovvio», fu l’unica cosa che a Thora venne in mente di rispondergli.
«Il pesce non rientra tra i miei piatti preferiti», commentò Matthew.
«Dice sul serio?» Thora chiuse il suo menu. «A me invece piace da morire. Penso di ordinare una sogliola al forno.»
Matthew optò, alla fine, per una sfogliata. Non appena il cameriere si fu allontanato, Thora domandò per quale motivo la famiglia di Harald pensasse che la polizia avesse arrestato la persona sbagliata.
«Per diverse ragioni: in primo luogo Harald non avrebbe mai sprecato il suo tempo a litigare con un infimo spacciatore di droga.» La guardò fissa negli occhi. «Non è un mistero che Harald facesse uso saltuario di sostanze stupefacenti e che bevesse. Era giovane. Comunque, non era né un drogato né un alcolizzato, come potrebbe pensare.»
«Si tratta ovviamente soltanto di una questione di definizioni», lo interruppe Thora. «A mio parere, il ripetuto consumo di sostanze allucinogene non è altro che tossicodipendenza.»
«Sulla tossicodipendenza ne so molto più di quanto lei pensi.» Matthew fece una pausa, poi si affrettò a correggersi: «Non intendo dire personalmente, ma a causa del mio lavoro. Harald non era affatto un tossicodipendente, nonostante fosse sulla via di diventarlo, ma, ripeto, non è stato questo il motivo per cui è stato ucciso».
Thora si rese conto di non avere la più pallida idea del motivo per cui avessero inviato in Islanda l’individuo seduto di fronte a lei. Certamente non per invitarla a pranzo e criticare il pesce islandese. «Lei quali funzioni svolge, esattamente, per la famiglia Guntlieb? La signora mi ha detto che lavora per suo marito.»
«Mi occupo di tutti i sistemi di controllo della banca. Il che include, tra l’altro, la verifica dei dati personali di tutti i futuri impiegati, la gestione dei meccanismi di sicurezza e il trasporto di valuta.»
«Niente a che fare con la droga, mi pare.»
«No. Mi riferivo al mio lavoro precedente. Per dodici anni sono stato ispettore della polizia investigativa di Monaco.» La guardò di nuovo negli occhi. «Di omicidi ne so abbastanza per assicurarle senza alcun dubbio che l’indagine della polizia islandese su questo caso presenta numerose lacune. Non ho nemmeno avuto bisogno di incontrare i membri della squadra investigativa per rendermi conto che l’ispettore non ha la minima idea di cosa stia facendo.»
«Come si chiama l’ispettore?»
Thora sospirò quando capì, nonostante la pessima pronuncia dell’islandese, la risposta di Matthew: Arni Bjarnason. «Conosco quel tipo da altri casi: un asino con la coda. Che sfortuna capitare proprio con lui!»
«Esistono inoltre altri motivi per cui la famiglia ritiene che lo spacciatore non c’entri niente.»
Thora sollevò lo sguardo: «Per esempio?»
«Poco prima della sua morte, Harald aveva prelevato un’ingente somma di denaro dal suo conto bancario. E ancora non hanno scoperto che fine abbiano fatto quei soldi. Si tratta di una cifra assai maggiore di quanto avrebbe potuto spendere per della droga, neanche se avesse voluto bucarsi per molti anni!»
«Forse aveva investito il denaro nello spaccio di stupefacenti, non crede?»
Matthew sbuffò ironicamente: «Da escludere. Harald non aveva bisogno di denaro. Lui stesso era ricchissimo, avendo ereditato una somma spropositata da suo nonno».
«Capisco.» Thora non voleva continuare quella sorta di primo grado, però le interessava sapere se ci fosse altro dietro tutta la faccenda. Magari passione per i gesti spericolati o semplicemente stupidità.
«La polizia non è riuscita a dimostrare che lo spacciatore abbia preso il denaro svanito. La sola connessione venuta in luce tra Harald e il mondo dello spaccio riguarda l’acquisto saltuario di dosi per uso personale.»
Finalmente l’ordinazione arrivò sul tavolo e i due mangiarono senza rivolgersi la parola. Thora si sentiva a disagio, purtroppo, però, non le era mai venuto naturale parlare tanto per parlare, per cui decise di rimanere zitta.
Alla fine del pranzo ordinarono il caffè e quasi immediatamente ne comparvero due tazze bollenti, la zuccheriera e una brocca d’argento con il latte.
Thora sorseggiò il caffè, infine ruppe il silenzio: «Ha con lei il contratto a cui dovevo dare un’occhiata?»
Matthew si allungò verso la valigetta sulla sedia accanto alla sua e tirò fuori una cartella sottile che consegnò all’avvocatessa: «Tenga. Lo porti pure via: domani lo potremo leggere insieme per apporre le eventuali modifiche da parte sua, previa approvazione della famiglia Guntlieb. Comunque, si tratta di un accordo equo e onesto, che dubito possa sollevare qualche obiezione.» Matthew infilò di nuovo la mano nella valigetta e vi estrasse un’altra cartella, molto più spessa.
«Prenda con sé anche il dossier di cui le ho parlato e gli dia un’occhiata prima di prendere una decisione definitiva. Dalla lettura emergeranno dettagli tristi e disgustosi, di cui vorremmo sia al corrente in anticipo.»
«Ma lei crede davvero che io non me la senta?» chiese Thora, un po’ offesa dal suo tono paternalistico.
«In verità non so proprio cosa dirle, ed è per questo che la prego di dare una rapida scorsa al fascicolo. Contiene anche le foto della scena del delitto, che non sono certo per stomachi deboli, oltre a pagine di descrizioni alquanto ripugnanti. Tramite una persona di cui non ho alcuna intenzione di rivelare l’identità sono riuscito a procurarmi ulteriori dettagli riguardanti l’indagine della polizia». Matthew posò la mano sulla cartella. «Qui si trovano anche informazioni sulla vita privata di Harald, particolari del tutto confidenziali e assai delicati che solo pochi conoscono. È sottinteso che, nel caso decida di rinunciare all’incarico, tali informazioni dovranno rimanere segrete. La famiglia Guntlieb non tollererà fughe di notizie di alcun genere.» L’uomo tolse la mano dal dossier e guardò Thora negli occhi: «Non ho intenzione di appesantire ancor di più il loro fardello».
«Capisco», rispose Thora. «Le posso garantire che non sono abituata a spettegolare del mio lavoro.» Lo fissò di rimando e aggiunse decisa: «Mai».
«Perfetto.»
«Ma se avete già raccolto tutti questi dati, per quale motivo vi siete rivolti a me? Non mi sembra che abbiate avuto difficoltà a ottenere ciò che volevate anche senza il mio aiuto.»
Matthew tirò un respiro profondo: «Le dirò subito il perché. Io sono uno straniero qui. Occorrerà parlare con persone che, sicuramente, a me non diranno mai la verità. Finora non ho fatto altro che grattare la superficie, e la stragrande maggioranza delle informazioni sulla vita privata di Harald le ho ottenute in Germania. Non sono il tipo a cui gli altri amano rivelare dettagli personali delicati e scabrosi».
«Il che non mi sorprende…» si lasciò sfuggire Thora.
Matthew sorrise per la prima volta. Lei si meravigliò di quel sorriso sereno, in un certo senso puro e semplice, nonostante il biancore eccessivo e la perfezione dei denti. Non poté far altro che ricambiarlo aggiungendo con voce imbarazzata: «Di quali scabrosi dettagli dovrò discutere con i vari testimoni?»
Il sorriso scomparve dalle labbra di Matthew con la stessa rapidità con la quale era comparso: «Strangolamento erotico, masochismo, stregoneria e altri generi di comportamento sessuale deviante».
Thora rimase di sasso.
«Non sono certa di aver compreso bene di che cosa si tratti o di come si svolgano quelle attività.» Ma se quello era sesso, lei preferiva indubbiamente il non-sesso che ultimamente aveva praticato.
Il sorriso che ricomparve sulle labbra di Matthew aveva perduto la gentilezza di prima: «Oh, se ne renderà presto conto. Non si preoccupi».
Entrambi terminarono di bere il loro caffè in completo silenzio, poi Thora prese le due cartelle e si preparò per ritornare in ufficio. I due si misero d’accordo per incontrarsi di nuovo l’indomani e si salutarono.
Mentre la donna stava per allontanarsi dal tavolo, Matthew le posò una mano sul braccio. «Una cosa ancora per finire, frau Gudmundsdottir.»
Thora si voltò.
«Mi sono dimenticato di dirle perché siamo così sicuri che l’individuo nelle mani della polizia non sia il vero colpevole.»
«Perché?»
«Perché non aveva con sé gli occhi di Harald.»
Thora in genere non temeva né furti né scippi, ma rientrando dal suo appuntamento con Matthew badò bene a tenersi stretta la borsa con i documenti. Non poteva rischiare di doverlo chiamare per comunicargli che le era stato rubato il dossier e tirò un sospiro di sollievo nell’oltrepassare la soglia dello studio legale.
All’ingresso venne investita da una nuvola di fumo: «Bella, lo sai benissimo che qui è vietato fumare!»
Bella trasalì dietro l’anta della finestra aperta e gettò via qualcosa in fretta e furia.
«Non stavo affatto fumando», protestò, sbuffando una leggera nuvoletta dal lato sinistro della bocca.
Thora sospirò: «Stai attenta, allora, perché ti si sta incendiando la bocca!» e aggiunse: «Chiudi la finestra e vai a fumare nell’angolino della sala caffè. Starai senz’altro meglio che affacciata lì».
«Non stavo affatto fumando, ma scacciavo i piccioni dal davanzale», insisté Bella con aria offesa. Poi si sedette alla scrivania senza rivolgere lo sguardo alla sua datrice di lavoro.
Thora decise di lasciar perdere. L’esperienza le aveva insegnato che non serviva a niente mettersi a discutere con quella ragazza e preferì ritirarsi nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.
La cartella che Matthew le aveva consegnato era piena zeppa dì documenti e spessi dossier, e il colore nero della copertina si addiceva al suo contenuto. Non c’era nessuna etichetta, il che, in un certo senso, era logico dato che sarebbe stato difficile trovare un nome che non fosse di cattivo gusto.
«Harald Guntlieb in vita e in morte», disse Thora tra le labbra aprendo la cartella e osservando l’indice meticolosamente strutturato. I dossier erano stati divisi, tramite fogli numerati di diverso colore, in sette categorie che sembravano disposte in ordine cronologico: Germania, Leva, Università di Monaco, Università d’Islanda, Conti correnti, Indagine. Il settimo e ultimo capitolo aveva per titolo Autopsia. Thora decise di sfogliare il contenuto della cartella nello stesso ordine in cui si trovava. Dando un’occhiata all’orologio vide che erano già le due e sicuramente non avrebbe fatto in tempo a leggere tutto per le cinque, quando avrebbe dovuto prendere sua figlia Soley da scuola, quindi decise di dare soltanto una rapida scorsa ai documenti. Puntò dunque la sveglia del suo telefonino alle cinque meno un quarto: di portarsi a casa il fascicolo non ne aveva affatto voglia, benché altre volte le fosse capitato di dover concludere casi oltre l’orario di ufficio nei periodi più intensi di lavoro. Ma il contenuto di questa cartella rendeva impensabile lasciarla alla portata di due minorenni. Thora sfogliò il primo foglio colorato e cominciò a leggere.
Nella parte superiore della prima pagina c’era la fotocopia di un certificato di nascita, dal quale si poteva leggere che la signora Amelia Guntlieb aveva partorito un figlio maschio, sano, a Monaco, il 18 giugno 1978. Il signor Johannes Guntlieb, bancario, era registrato come padre del bambino. Thora non aveva mai sentito il nome della clinica ostetrica dove era nato Harald: non era un ospedale pubblico, per cui Thora dedusse che si trattava di qualche costosissima clinica privata per l’alta borghesia bavarese. Sotto la dicitura «credo religioso» era stato dattilografato «cattolico». Thora ricordava vagamente che più di un terzo dei tedeschi era cattolico e che la percentuale era assai più alta nel Sud della Germania. Durante i suoi anni di studi in quel Paese, Thora si era quasi meravigliata della grande quantità di cattolici, dato che aveva sempre collegato i tedeschi con Lutero e la fede protestante. Beata ignoranza!
Le pagine successive, di plastica, erano state suddivise in quattro sezioni, ognuna con fotografie della famiglia Guntlieb in occasioni diverse. Ogni immagine era accompagnata da una etichetta con i nomi delle persone che vi comparivano. A prima vista, Harald era presente in tutte. Oltre alle istantanee di famiglia erano state incluse delle foto di classe di diversi periodi scolastici, nelle quali Harald compariva ben pettinato e vestito di tutto punto, come si usa in tali occasioni. Thora non riusciva a capire perché mai quelle foto fossero state incluse in quell’atipico album di famiglia. L’unica spiegazione plausibile era che avessero la funzione di ricordarle che persino la vittima, un tempo, era stata un bambino, un figlio, un fratello. Il che ebbe l’effetto desiderato.
Nelle prime fotografie, che erano anche le più vecchie, si ammirava un bel pupo grassoccio con il fratello, che sembrava avere due o tre anni più di lui, o con la madre. Thora fu colpita dalla raggiante bellezza di Amelia Guntlieb e, nonostante la scarsa qualità delle immagini, era evidente che si trattava di una di quelle donne che rimangono sempre bellissime senza alcuno sforzo. Una foto dei due, in particolare, aveva attratto la sua attenzione: la madre insegnava al figlio a camminare. In giardino, la signora Guntlieb teneva per le mani il bimbo che tentava di muovere i primi, impacciati passi: una gamba col piede per aria e l’altra piegata sul ginocchio. Frau Guntlieb sorrideva al fotografo e la felicità le risplendeva in volto. La voce glaciale che Thora aveva udito al telefono non si addiceva affatto a quel viso radioso. Il bimbo aveva quell’età in cui il volto non è ancora finemente marcato a causa delle guance paffute e del nasino a patata, ma si notava comunque tra i due una forte somiglianza.
Nelle istantanee successive Harald aveva due o tre anni e la somiglianza con la madre era ormai diventata marcatissima. Amelia, che compariva in tutte le foto, era prima incinta, poi sorridente con un neonato in braccio, avvolto in un soffice e delicato porte-enfant. In una di queste, Harald era in piedi accanto alla sedia sulla quale sedeva la signora e allungava il collo come per guardare la piccola, sua sorella, mentre la madre gli posava una mano sulla spalla. Nella didascalia di sotto si poteva leggere che la bambina aveva ricevuto, al battesimo, il nome di sua madre, e come secondo nome Maria. Quindi si trattava della figlia deceduta per una malattia congenita. A giudicare dalla foto, la famiglia ancora non si era resa conto che la bimba era gravemente malata. La madre, per lo meno, sembrava beata e priva di preoccupazioni, mentre nelle immagini che seguivano era evidente il cambiamento. La signora Guntlieb, che fino ad allora era apparsa sorridente e serena in ogni immagine, sembrava ora triste e assente, oppure accennava un sorriso di convenienza, ma i suoi occhi tradivano inquietudine. Tra lei e Harald, inoltre, non c’era più il contatto che aveva caratterizzato le foto più vecchie e anche il piccolo appariva abbacchiato e sperduto. La bambina era svanita nel nulla.
A quel punto era come se alcuni capitoli della storia famigliare fossero stati cancellati dall’album, infatti le immagini che ora Thora guardava la proiettavano avanti nel tempo di almeno cinque anni. Il capitolo nuovo cominciava con una foto in cui la famiglia al completo era in posa, ed era la prima in cui compariva anche il signor Guntlieb, uomo dall’aspetto dignitoso e chiaramente più anziano di sua moglie. Tutte le persone ritratte indossavano i loro abiti più belli ed eleganti e in più si era aggiunta una bambina che stava in grembo a sua madre. Si trattava senza dubbio della figlia minore della coppia, l’unica oggi ancora in vita. La piccola malata sedeva, ora, su una sedia a rotelle. Non ci voleva un particolare occhio clinico per rendersi conto della gravità della sua situazione, legata com’era da lacci, con la testa riversa all’indietro e la bocca spalancata. La mandibola, invece di scendere verso il basso, era inclinata su un lato, denotando l’impossibilità da parte della ragazzina di controllare i suoi movimenti. Lo stesso valeva anche per gli arti superiori: un braccio era contorto fino al gomito e la mano piegata in modo abnorme verso il braccio stesso, con le dita a mo’ di artiglio. L’altro braccio giaceva inerte sul suo grembo. Dietro la sedia a rotelle si era sistemato Harald, che ora doveva avere sugli otto anni. L’espressione del suo volto non assomigliava a niente di quanto Thora avesse potuto intravedere nel viso di un bambino di quell’età: era come se lui avesse cessato di vivere. Benché nessuno dei membri della famiglia, compreso il fratello maggiore, fosse l’espressione della felicità, il piccolo Harald faceva pena, nella sua cupa tristezza. Doveva per forza essere successo qualcosa di grave, qualcosa che forse andava oltre una semplice costernazione per il destino crudele capitato alla sorellina. Che si trattasse di una profonda depressione che, seppur in rari casi, colpiva anche i bambini? Depressione causata dalla mancanza di attenzioni o dalla concorrenza tra i fratellini per l’amore dei genitori, anch’essi depressi? Se era questo il caso, era anche palese, dalle foto che seguivano, che i coniugi non avevano saputo né affrontare né risolvere la crisi famigliare. In nessuna delle fotografie offrivano al piccolo Harald la benché minima parvenza di affetto o contatto fisico, e il bambino era sempre un po’ in disparte, distaccato dagli altri tranne che in quelle poche foto dove suo fratello maggiore si trovava dritto, in piedi, al suo fianco. Era come se sua madre l’avesse completamente dimenticato o lo ignorasse volutamente. Thora si riservò di non trarre conclusioni affrettate, basate esclusivamente su vecchie foto che mostravano soltanto attimi infinitesimali della vita di una famiglia a lei sostanzialmente sconosciuta, momenti che magari rendevano solo un’immagine sfocata e irreale di comportamenti e pensieri.
Bussarono alla porta e Bragi fece capolino nell’ufficio: «Hai un paio di minuti?»
Thora annuì e lo fece accomodare. Il socio aveva poco meno di sessant’anni, ed era una di quelle persone che spiccano non soltanto per l’altezza, ma anche per la corporatura. Aveva tutto più grande della media, comprese mani, orecchie e naso. Bragi si fece cadere sulla sedia imbottita davanti alla scrivania e girò verso di sé il dossier che Thora stava consultando. «Com’è andata?»
«L’incontro? Benissimo, credo…» rispose Thora e si mise a guardare l’uomo che sfogliava, quasi senza interesse, l’anomalo album di famiglia.
«Che ragazzo triste, che viso sciupato…» disse Bragi indicando con il dito una delle immagini di Harald. «È lui la vittima, per caso?»
«Proprio così», rispose Thora. «Certo che sono delle strane fotografie.»
«Non saprei cosa dire. Dovresti vedere com’ero io da piccolo. Da ragazzo ero orribile, anzi, quasi senza speranza, e le foto di quel periodo lo testimoniano.»
Thora non si scompose di fronte a tali confessioni, ormai era abituata a ogni tipo di rivelazioni sconcertanti da parte del suo socio. Era sicuramente un’esagerazione dire che da ragazzo era stato orrendo, così come lo era la storia secondo cui era stato costretto, per pagarsi gli studi, a lavorare contemporaneamente come guardiano notturno alla pesa pubblica del porto e come pescatore il fine settimana. Ciò nonostante si era affezionata al suo modo di fare. Bragi con lei si era sempre comportato da gentiluomo, e, quando le aveva proposto, tre anni prima, di mettere su quello studio legale insieme, Thora aveva accettato con entusiasmo. A quei tempi era impiegata presso uno studio di noiosi avvocati di discreta fama e non vedeva l’ora di andarsene: non sopportava più di passare la pausa caffè ad ascoltare storie di pesca al salmone o di cravatte alla moda.
L’uomo spinse di nuovo la cartella verso Thora. «Hai deciso di accettare l’incarico?»
«Penso proprio di sì. Fa bene ogni tanto affrontare qualcosa di nuovo, di sconosciuto.»
«Non ci contare tanto, credimi. Non ci fu niente di emozionante quando, l’anno passato, dovetti affrontare l’esperienza nuova e sconosciuta di operarmi al colon!»
Thora non aveva alcuna voglia di addentrarsi in questo genere di conversazione e si affrettò a dire: «No, sai bene che intendevo un’altra cosa».
Bragi si alzò. «Certo, certo. Volevo soltanto metterti in guardia sulle possibili conseguenze.» Si avviò verso la porta e sulla soglia aggiunse, voltandosi: «E se chiedessi a Thor di aiutarti?»
Thor era un avvocato fresco di laurea che lavorava da loro da poco più di sei mesi e che, pur essendo un tipo alquanto schivo e riservato, aveva già dimostrato una tale diligenza che avrebbe potuto far comodo a Thora, in caso di bisogno. «A dire il vero, mi ero riproposta di passargli i casi a cui sto lavorando in questi giorni, proprio per alleggerirmi e concentrarmi solo su questo. Ho ancora una montagna di impegni da sbrigare.»
«Naturalmente, non ti preoccupare, fai come desideri», disse uscendo.
Thora tirò a sé la cartella e riprese la lettura da dove era stata interrotta. Esaminò il resto delle foto che mostravano la crescita di Harald, ora diventato un attraente ragazzo dalla pelle e dai capelli chiari come quelli di sua madre. Suo padre, invece, era più scuro e il suo volto non era di quelli che si ricordano. Nell’ultima pagina c’erano solamente due fotografie, entrambe chiaramente scattate presso uno studio professionale, l’una in occasione di una laurea, presumibilmente quella ottenuta da Harald presso l’Università di Monaco, l’altra relativa all’inizio o alla fine del servizio di leva, dove Harald compariva con l’uniforme dell’esercito tedesco. Thora non conosceva abbastanza bene le uniformi per poter dire a quale reggimento appartenesse, ma contava di ricevere le dovute informazioni dal dossier, sotto la dicitura «Leva».
Nelle pagine successive si trovavano le fotocopie del curriculum scolastico di Harald, dall’inizio degli studi fino alla laurea: a giudicare dai voti, il ragazzo era stato uno studente esemplare. Aveva sempre riportato voti eccellenti che, per esperienza personale, Thora sapeva difficili da ottenere nel sistema scolastico tedesco. L’ultima delle fotocopie veniva dall’Università di Monaco, dove Harald aveva ottenuto la laurea in Storia a pieni voti. Dalle date dei vari anni scolastici si notava che il ragazzo si era preso una pausa dagli studi prima di iscriversi all’università. Forse c’entrava qualcosa il servizio militare, anche se le sembrava piuttosto strano che con quei voti avesse preferito sprecare il tempo in caserma. Certo, la leva era ancora obbligatoria, in Germania, ma non era difficile ottenere il congedo provvisorio o addirittura l’esonero definitivo dal servizio militare, soprattutto se si avevano genitori ricchi e potenti come i suoi.
Thora sfogliò ora la seconda parte del dossier, classificato «Leva». Era un capitolo piuttosto scarno di notizie. La prima pagina era la fotocopia dell’immatricolazione di Harald Guntlieb nella Bundeswehr — l’esercito della Germania Unita — nel 1999. Da quanto Thora capiva di quel tedesco burocratico, Harald aveva scelto la fanteria, cosa strana, perché lei avrebbe giurato che fosse piuttosto un tipo da marina o aviazione. Seguiva un documento con l’ordine ricevuto, dal battaglione di appartenenza, di partire per il Kosovo, mentre la terza e ultima pagina di quella sezione era la comunicazione dell’espulsione di Harald dall’esercito: era datata sette mesi dopo e non conteneva alcuna ulteriore spiegazione, tranne un accenno a «medizinische Gründe», cioè motivi di salute. A margine della fotocopia qualcuno aveva aggiunto un chiarissimo punto interrogativo. Thora ne dedusse che doveva trattarsi della scrittura di Matthew il quale, a quanto ne sapeva, aveva raccolto quel dossier tutto da solo. Lei fece un appunto sulla sua agenda per ricordarsi di chiedere all’uomo dettagli più precisi sull’argomento, poi passò al capitolo successivo.
Anche questa sezione cominciava con la fotocopia di un’immatricolazione, questa volta presso l’Università di Monaco, e Thora poté notare che la data d’iscrizione risaliva a un solo mese dopo l’uscita dall’esercito. La salute di Harald, a quanto pare, era talmente migliorata da permettergli di iscriversi ai corsi, se era poi vero che di malattia si era trattato. Poi seguivano alcune pagine di cui Thora non riusciva a comprendere il significato: una era il manifesto di fondazione di un’associazione storiografica dal nome latino di Malleus maleficarum, l’altra conteneva la lettera di raccomandazione di un certo professor Chamiel, che stendeva un elogio spassionato del suo studente, mentre le ultime erano programmi di studio della storia del XV, XVI e XVII secolo. Una documentazione ben strana.
In fondo alla sezione degli studi si trovava il ritaglio di un articolo proveniente da un giornale tedesco, dove si parlava della morte di alcuni giovani in seguito ad atti di estrema perversione sessuale, ovvero autostrangolamento con un cappio durante la masturbazione.
Doveva trattarsi di quel tipo di sesso a cui aveva accennato Matthew. A detta del giornalista, tali pratiche erano alquanto diffuse tra chi non riusciva a raggiungere l’orgasmo per colpa di un consumo eccessivo di stupefacenti, alcolici o sostanze allucinogene. Difficile era invece trovare il nesso tra quell’articolo e la morte di Harald, tranne il fatto che uno degli studenti trovati morti frequentava la stessa università alla quale era iscritto lui. Dello studente in questione, comunque, non venivano riferiti né il nome né l’età, e l’articolo era senza data. Certo, un collegamento doveva pur esserci, se il pezzo era stato incluso in quella sezione del fascicolo. Thora sfogliò a ritroso l’album per trovare la foto della laurea di Harald. Osservando con attenzione l’immagine, notò un segno rosso, come di una sferzata, sulla parte del collo che emergeva dal colletto del ragazzo. Thora sfilò la fotografia dalla busta di plastica e la guardò più da vicino, ma non riuscì a capire se quel segno fosse un livido o qualcosa del genere. Thora prese allora un altro appunto per ricordarsi di chiedere a Matthew qualcosa in proposito.
L’ultimo dettaglio che emerse dal riassunto degli anni accademici di Harald a Monaco, in verità piuttosto bizzarro, era la copertina della sua tesi di laurea. A giudicare dal titolo della dissertazione, l’argomento doveva essere la caccia alle streghe in Germania, con particolare attenzione alla cattura ed eliminazione dei bambini accusati di magia. Thora rabbrividì. Ovviamente aveva sentito parlare delle persecuzioni da parte dell’Inquisizione e ne aveva letto le descrizioni raccapriccianti nei libri di storia del liceo, ma non aveva mai sentito parlare anche di bambini in tale contesto. Anche perché, se una tesi del genere si fosse trovata in uno di quei noiosissimi testi scolastici di storia antica e medievale, da lei particolarmente odiati, non l’avrebbe certo dimenticata. Comunque, dato che nel fascicolo non c’era altro che il frontespizio della tesi, Thora sperava che le conclusioni della ricerca dimostrassero che nessun bimbo fosse stato condannato al rogo. In cuor suo, sapeva però che sicuramente ce n’erano stati.
Da lì passò a leggere il capitolo sull’Università d’Islanda.
Per prima cosa scorse una lettera dell’università con la quale veniva comunicato a Matthew che la sua domanda di iscrizione al corso per il master in Storia medievale era stata accettata e che lo studente era stato invitato a presentarsi in segreteria all’inizio dell’anno accademico, nell’autunno del 2004. Seguiva la copia dei voti degli esami sostenuti. Thora si rese conto, dalla data di emissione, che la copia del documento era stata stampata dopo la morte dello studente, probabilmente su richiesta di Matthew. Nonostante Harald non avesse sostenuto molti esami del corso e quell’anno non avesse frequentato abbastanza, i risultati erano stati eccellenti. Thora sospettava che il giovane avesse ottenuto il permesso di dare i suoi esami in inglese dal momento che, per quanto ne sapeva, non parlava ancora l’islandese. Dai documenti risultava che ad Harald mancavano soltanto dieci crediti per concludere il master.
Nella pagina successiva c’era una lista con cinque nomi. Erano tutti islandesi, con a margine, scritta in stampatello, l’indicazione della materia di studio e di quella che sembrava una data di nascita. Probabilmente era il gruppo di amici frequentati da Harald, dato che erano tutti praticamente coetanei. I nomi erano: Marta Mist Eyjolfsdottir, Teorie del femminismo, n. 1981; Brjann Karlsson, Storia, n. 1981; Halldor Kristinsson, Medicina, n. 1982; Andri Thorsson, Chimica, n. 1979; Briet Einarsdottir, Storia, n. 1983.
Thora sfogliò ancora nella speranza di trovare ulteriori informazioni su quei ragazzi, ma le pagine successive comprendevano solo le cartine e le mappe dell’area universitaria e di tutti gli edifici principali dell’intero campus. Attorno all’edificio che ospitava l’Istituto Arni Magnusson e gli uffici del dipartimento di Storia erano stati fatti dei cerchi, così come attorno alla sede centrale e di nuovo le venne in mente che doveva essere stato Matthew a segnare i fogli. Le pagine seguenti erano stampate direttamente dal sito internet dell’università, in lingua inglese, con la descrizione relativa al dipartimento di Storia medievale, accompagnata dalla solita pagina di informazioni per gli studenti stranieri dell’università. Niente che potesse servire per la sua indagine.
L’ultimo documento della sezione era la stampata di un messaggio di posta elettronica inviato dall’indirizzo «hguntlieb@hi.is», chiaramente quello di Harald presso l’università. Era una lettera di Harald a suo padre, datata poco dopo l’inizio degli studi nell’autunno 2004. Leggendola, Thora rimase sorpresa dal tono formale e distaccato. In breve, Harald faceva sapere al padre di trovarsi a suo agio in Islanda, di aver preso in affitto un appartamento, di averlo già arredato e cose del genere. La lettera si concludeva con la comunicazione che gli era stato assegnato un docente per seguire la sua tesi di master, il professor Thorbjörn Olafsson. A quanto si leggeva, la tesi avrebbe dovuto prendere in considerazione le differenze tra le condanne a morte per stregoneria in Islanda e in Germania, alla luce del fatto che quasi tutti i condannati al rogo in Islanda erano stati uomini, mentre in Germania, per la stragrande maggioranza, donne. La lettera terminava con un saluto e Thora ebbe un tuffo al cuore nel leggere il P.S. che Harald faceva seguire in calce: «Se ti degni di metterti in contatto con me, ora hai il mio indirizzo e-mail». Non sprizzava certo affetto famigliare! Probabilmente la cacciata del figlio dall’esercito aveva a che fare con questa freddezza di rapporti. Inoltre, a giudicare dalle foto di famiglia, il padre di Harald non sembrava proprio il tipo più comprensivo del mondo, e indubbiamente non si era rassegnato alle sregolatezze del ragazzo.
La risposta del padre, riportata nella pagina seguente, era di questo tenore: «Salve, Harald, ti consiglio di astenerti da tale argomento di tesi. È una brutta idea che non migliorerà il tuo carattere. Non spendere tutti i tuoi soldi. Saluti». In fondo alla lettera c’erano nome, indirizzo e professione del padre, il tutto molto formale. Ma guarda un po’ che tipo, pensò Thora. Non una parola di congratulazioni con il figlio per il fatto di essere arrivato alla tesi o di gioia per aver avuto sue notizie, non un accenno al fatto che gli fosse particolarmente mancato; non aveva nemmeno firmato con «papà» o «tuo padre». Era palese che si trattava di un rapporto freddissimo tra i due, anzi, surgelato. Per di più era strano che nessuno mandasse saluti per o dalla madre o dalla sorella. Però Thora non sapeva se erano intercorsi altri messaggi tra padre e figlio: di sicuro non ce n’erano altri nel dossier.
Alla fine Thora trovò la stampata di una lista di associazioni e club studenteschi e di titoli di periodici pubblicati dagli studenti nei vari corsi di studio. Diede un’occhiata all’elenco e non notò niente di interessante finché arrivò a piè di pagina e lesse: «Malleus maleficarum, associazione di dilettanti di storiografia e antropologia». Thora sollevò lo sguardo dalla pagina: non c’era lo stesso nome nel manifesto di fondazione dell’associazione all’Università di Monaco? Si mise a cercare la pagina in questione: e sì, era proprio così. Inoltre si accorse che sotto il nome della società nella lista islandese era stata apposta a matita la dicitura: «errichtet 2004», cioè «fondata nel 2004», ossia dopo l’iscrizione di Harald presso l’Università d’Islanda. Era stato forse lui stesso il fondatore? Non era improbabile, a meno che quel nome latino non fosse qualcosa di noto agli studenti di Storia o Antropologia. Chissà poi cosa voleva dire: peccato che Thora non avesse mai studiato il latino. Comunque, era ormai giunto il momento di passare alla sezione dedicata ai conti in banca.
Il fascìcolo sui conti correnti era una spessa pila di estratti conto provenienti da banche estere. Harald Guntlieb ne era l’intestatario e le cifre in questione erano ingenti. Alcune uscite particolarmente elevate erano evidenziate in rosa e lo stesso era stato fatto in giallo per le entrate. Thora si accorse subito che queste ultime erano sempre della stessa entità: all’inizio di ogni mese Harald riceveva più di quanto lei guadagnasse in sei mesi quando c’era molto lavoro. Non potevano essere altro che i versamenti costanti provenienti dal fondo che il nonno del ragazzo aveva intestato a suo nome, o almeno così le aveva riferito Matthew. Molto probabilmente il testamento aveva predisposto che Harald ricevesse un ammontare fisso ogni mese, piuttosto che tutto il fondo in un colpo solo. Tali disposizioni venivano spesso formulate nei casi in cui l’erede era ancora giovane e cessavano di valere al raggiungimento della maggiore età, o almeno di una maturità accertata, cosa che probabilmente Harald Guntlieb non aveva fatto, visto che a ventisette anni ancora non era entrato in possesso del capitale intestato a suo nome. Comunque, nel suo conto corrente si era accumulato un bel gruzzolo, a dimostrazione che le spese di mantenimento di Harald erano molto al di sotto delle somme in entrata ogni mese.
Per quanto riguardava invece le uscite segnate, la musica cambiava. Si trattava non soltanto di somme assai differenti tra loro, ma anche irregolari nella data di emissione. Già erano state apposte delle note a margine della maggior parte di esse e, non essendo numerose, Thora si mise a leggerle una per una. Alcuni commenti erano ben comprensibili: per esempio, accanto a una forte somma, spesa all’inizio dell’agosto 2004 c’era scritto BMW, dal che Thora dedusse che Harald si era comprato un’auto non appena sbarcato in Islanda. Altri invece erano assolutamente impossibili da capire: «Urteil G.G.» accanto a un’ingente somma spesa nel periodo in cui Harald studiava a Monaco. Urteil significava «sentenza», e la prima cosa che le venne in mente fu che si trattasse di una qualche cifra versata a qualcuno per coprire le cause della sua espulsione dall’esercito. La data però non si accordava per niente alla situazione e «G.G.» era completamente incomprensibile. Sotto un altro importo si poteva leggere la parola Schädel, che significa «teschio», sotto un altro ancora la scritta Gestell, di cui Thora non ricordava il senso. Ulteriori uscite senza alcuna spiegazione convinsero la donna a non perdere altro tempo nella lettura.
Due particolari, però, richiamarono la sua attenzione. Un’uscita di 42.000 euro, risalente ad alcuni anni prima, con ancora una volta l’espressione latina «Malleus maleficarum». Più sotto un’uscita, più recente, di circa 310.000 euro accompagnata da un punto interrogativo. Che si trattasse della somma che Matthew le aveva confidato essere scomparsa dal conto? Non c’era da meravigliarsi se Matthew dubitava che quella somma fosse servita ad Harald per finanziare l’acquisto di stupefacenti. Il ragazzo non avrebbe potuto consumare una tale quantità di droga nemmeno se si fosse trovato in compagnia di Keith Richard. Comunque, a giudicare da quell’estratto conto Harald non era certo a corto di mezzi economici, pur avendo ritirato tali somme.
Thora sfogliò le pagine successive, con i movimenti della carta di credito di Harald nei mesi immediatamente precedenti la sua morte. A prima vista le uscite si riferivano per lo più a ristoranti, bar e qualche negozio di abbigliamento. I ristoranti erano accomunati dal fatto di essere i più alla moda, i più «in», come avrebbe detto la sua amica Laufey. Incredibilmente ridotte erano invece le voci di spesa nei negozi di alimentari. Una somma alquanto elevata era stata spesa presso l’Hotel Ranga a metà settembre, un’altra recava il nome della Scuola di Volo e una terza, assai minore e datata fine settembre, era segnata Parco-Zoo. Perché mai, fra tutti i luoghi che avrebbe potuto scegliere per una passeggiata, avrebbe scelto proprio questo, lui che non aveva bambini? Seguivano poi numerose piccole somme spese in negozi di animali della capitale. Forse Harald era amante di cani e gatti, oppure si era messo insieme a qualche divorziata con figli? Un altro particolare ancora di cui chiedere spiegazioni a Matthew. Il capitolo relativo alla situazione patrimoniale di Harald si concludeva lì. Thora guardò l’orologio e fu contenta di notare che aveva ancora un po’ di tempo per continuare le sue ricerche.
Accese il computer e si mise a cercare la dicitura «Malleus maleficarum» su internet. Ne ricavò più di cinquantacinquemila siti, ma uno attirò la sua attenzione perché sul riassunto dei contenuti si leggeva che il nome latino significava «Il maglio delle streghe», titolo di un libro del 1486. Thora cliccò sul link che la immise nel sito in lingua inglese. L’unica figura disegnata nella pagina di introduzione era l’antica miniatura di una donna avvolta in un saio e legata, o almeno così sembrava, a una scala. Due uomini erano indaffarati a sollevare la scala per scaraventare la donna su una pira, le cui fiamme si levavano al cielo. Era evidente che la donna era stata condannata al rogo. La malcapitata volgeva lo sguardo verso l’alto e si rivolgeva a Dio, ma Thora non era in grado di distinguere se gli indirizzasse preghiere di perdono o maledizioni sataniche. Era chiara invece la sua profonda disperazione. Thora mandò la pagina in stampa e uscì dal suo studio per andare a prenderla prima che Bella se ne impossessasse: di quella ragazza non ci si poteva certo fidare.
Le pagine che uscirono dalla stampante erano cinque e non una sola, come Thora aveva creduto. Il sito conteneva evidentemente molto materiale, e lei cominciò a leggere mentre tornava al suo studiolo.
Nella breve introduzione si spiegava che il Malleus maleficarum era senza dubbio uno dei libri più infami della storia dell’umanità. Pubblicato per la prima volta nel 1486, doveva fungere da manuale per l’Inquisizione, ovvero indottrinare i suoi membri su come riconoscere e perseguitare le streghe. Il libro, a detta dell’autore del sito, poneva l’accento sul fatto che la magia nera e altri costumi di cultura popolare erano ormai da considerarsi blasfemi e perciò soggetti alla pena di morte sul rogo. Il testo era diviso in tre sezioni. Nella prima si elencavano le prove dell’esistenza reale e indubbia della magia e delle streghe, del carattere diabolico di tali fenomeni e delle manifestazioni contro natura. Inoltre si affermava che non credere all’esistenza della magia nera fosse altrettanto pericolosa da considerarsi una diavoleria, il che costituiva una novità di natura teologica. La seconda parte era occupata da un elenco di storie fantastiche di cui le streghe erano protagoniste e nelle quali venivano descritti soprattutto atti sessuali con esseri satanici, almeno a giudicare dal riassunto dell’autore del sito. La terza sezione intendeva porre le basi legali per i processi di inquisizione nei confronti delle streghe. Si teneva a ribadire che, per ottenere le necessarie confessioni, l’uso dei mezzi di tortura era più che naturale e che chiunque avrebbe potuto testimoniare contro gli accusati di pratiche magiche, compresi individui con una reputazione tanto dubbia da essere ritenuta inammissibile, in casi di diversa natura, per incapacità o parzialità.
Gli autori dell’opera erano due frati domenicani: Jakob Sprenger, ex rettore dell’Università di Colonia, e Heinrich Kramer, professore di teologia presso l’Università di Salisburgo e Inquisitor in carica per il Tirolo. Quest’ultimo era considerato l’ideatore del volume, avendo praticato le sue funzioni di inquisitore di Stato contro le streghe dall’anno 1476. L’opera era stata scritta, secondo la documentazione dell’epoca, su istigazione dell’allora papa Innocenzo VIII, non certo una persona mite e misericordiosa. Fu appunto lui a dare impulso alla terribile caccia alle streghe che imperversò in Europa subito dopo la pubblicazione dell’enciclica Summis desiderantes affectibus, il 5 dicembre 1484, che dava ai tribunali ecclesiastici carta bianca nelle loro persecuzioni.
Alla luce di tali informazioni non c’era da stupirsi che il papa in persona, come si poteva leggere sul sito, avesse tentato di sconfiggere la vecchiaia e la morte imminente succhiando latte dalle mammelle delle balie e facendosi trasfondere il sangue. A dispetto di tali esperimenti, non riuscì però a rinverdire i suoi anni e l’unica conseguenza di queste pratiche, certamente poco ortodosse, fu la morte di tre bambini di dieci anni per emorragia.
Thora lesse del successo immediato e universale che il libro ottenne, soprattutto per l’avvento della stampa e per il fatto che i suoi autori erano degli eruditi famosi. Sia cattolici che protestanti adoperavano il testo come supporto nella lotta contro le arti magiche, e alcune sue parti vennero inserite, come leggi vigenti, nei codici e nei digesti del Sacro Romano Impero, che comprendeva le attuali Germania, Austria, Boemia, Svizzera, Francia orientale, Paesi Bassi e parte dell’Italia. Thora trasalì quando apprese che ancora oggi l’opera veniva regolarmente pubblicata.
La donna posò il testo sulla scrivania. Tutte cose indubbiamente interessanti, ma non si riusciva a capire come un volume di seicento anni prima potesse far luce sull’omicidio di Harald Guntlieb. Guardò l’orologio e si rese conto che le era rimasta solamente un’ora di tempo. Pinzò insieme le pagine, le mise da parte e riprese la cartella con il dossier su Harald: la sesta sezione comprendeva il riassunto dell’indagine di polizia.
A prima vista, quel compendio non poteva certo essere esaustivo dell’intera investigazione, data la sua esiguità. Probabilmente Matthew non era entrato in possesso che di una minima parte di esso, comunque le sembrava alquanto strano che fosse riuscito a ottenere qualcosa senza doverne chiedere il permesso scritto e timbrato. Da una rapida lettura dei verbali di interrogatorio, datati un paio di settimane prima, Thora si rese conto del perché fosse stata assunta per quell’incarico: tutti i testi erano in islandese. Sulle pagine c’erano numerosi appunti e scarabocchi, ed era evidente che Matthew aveva cercato di decifrare il contenuto degli interrogatori. Tra l’altro, nella maggior parte delle pagine compariva, in alto a destra, una breve spiegazione su chi fosse stato interrogato e su che tipo di relazione lo legasse ad Harald. Il grosso dei rapporti si riferiva agli interrogatori di Hugi Thorisson, che ancora si trovava in custodia cautelare in attesa di processo. A Thora parve strano che, fin dall’inizio, Hugi fosse stato interrogato come persona sospettata e non in veste di testimone informato sui fatti. Era chiaro che era emerso qualcosa che aveva immediatamente fatto ricadere i sospetti proprio su di lui.
A quel punto Thora capì come Matthew si fosse procurato quei rapporti investigativi: l’avvocato d’ufficio di un sospettato ha in effetti il diritto di accedere ai documenti in mano agli investigatori, e il legale di Hugi Thorisson li doveva aver consegnati a Matthew. Thora diede una rapida occhiata ai fogli, con la speranza di trovare il nome del difensore. Nei primi interrogatori Hugi non aveva avuto alcuna assistenza legale, come logicamente accade all’inizio di un’investigazione: i sospettati temono spesso che richiederne la presenza possa essere interpretato come un’implicita ammissione di colpevolezza. Ma poi, quando le cose cominciano a prendere una brutta piega e sorgono le prime contraddizioni o reticenze, si rendono conto della gravita della situazione. A quel punto Thora lesse finalmente il nome di Finnur Bogason, che per lei non era nuovo, essendo appunto uno di quei legali che si accollano le nomine d’ufficio quando nessuno li cerca di sua spontanea volontà. Un uomo che non avrebbe certo rifiutato dei soldi per passare a qualcuno la pratica. Felice di vedere confermate le sue intuizioni iniziali, Thora si mise a leggere gli interrogatori.
Le trascrizioni non erano classificate in ordine temporale ma a seconda di chi era stato interrogato. Fra i testimoni sentiti solamente una volta c’erano il custode dell’università, le donne delle pulizie, il proprietario dell’appartamento di Harald, il tassista che aveva trasportato lui e Hugi la sera del delitto e alcuni studenti e insegnanti del dipartimento. Il direttore del dipartimento di Storia, che aveva rinvenuto il cadavere, era stato invece interrogato due volte perché la prima si trovava in un tale stato confusionale da non poter profferire alcunché di attendibile. Thora ebbe compassione di quel pover’uomo; che esperienza terribile, che orrore doveva aver sperimentato quando gli era piombato addosso quel corpo senza vita, come si leggeva tra le righe del secondo interrogatorio.
A questi testimoni seguivano i sospettati. Tra di loro c’era naturalmente Hugi Thorisson, che però continuava a ripetere di essere completamente estraneo all’omicidio. Thora si affrettò a leggere la sua testimonianza. Hugi diceva di aver incontrato Harald, la sera in questione, in un party nelle vicinanze di Skerjafjörd, di essersi allontanato con lui, che l’aveva poi salutato; ognuno aveva quindi proseguito per la propria strada, lui in centro e Harald di nuovo al party. Nel primo interrogatorio Hugi non aveva voluto rivelare dove fossero andati insieme, ma solo che avevano fatto un giro in un qualche oscuro cimitero. Nel successivo invece, una volta resosi conto di essere sospettato dell’omicidio, aveva confessato che si erano recati nella sua casa di via Hringbraut, a prendere della droga che Harald voleva acquistare. A quel punto lo spacciatore aveva giurato che, dopo l’acquisto, Harald se n’era andato, mentre lui era rimasto a casa perche si sentiva stanco. Non aveva comunque potuto fornire agli investigatori nessun orario preciso della serata, intontito com’era dall’effetto dell’alcol e degli stupefacenti. Secondo lui Harald era tornato al party, non c’erano dubbi. Dall’insistenza degli investigatori nel chiedere a Hugi dove si fosse trovato la notte tra sabato 29 e domenica 30 ottobre intorno all’una, Thora dedusse che l’autopsia doveva aver stabilito l’ora probabile della morte. Gli investigatori avevano tempestato Hugi di domande sul motivo per cui aveva rimosso gli occhi di Harald dalle orbite e dove li avesse nascosti, ma lui negava disperatamente di averlo fatto e diceva che non aveva nessun occhio con sé se non i suoi personali. Thora non poté fare a meno di compatire quel povero diavolo, se stava dicendo la verità. E aveva il sospetto che così fosse. Benché avesse letto quel fascicolo in fretta, aveva infatti la sensazione che un ragazzo debole e insicuro, come lo spacciatore sembrava essere, non avrebbe mai potuto professare con tanta fermezza la propria innocenza e sopportare, al contempo, l’isolamento in carcere e i severi interrogatori.
Gli amici e i conoscenti di Harald ospiti del famoso party, che avevano deposto come testimoni, erano dieci in totale. Tra loro c’erano quattro dei cinque nomi della lista che compariva prima nel relativo fascicolo.
L’unico nome che mancava era quello dello studente di Medicina Halldor Kristinsson.
Tutti gli ospiti del party raccontavano la stessa storia. La festa era cominciata verso le nove e si era conclusa verso le due di notte, quando erano tornati tutti insieme in città. Harald era sparito verso mezzanotte in compagnia di Hugi, anche se nessuno sapeva spiegarne il perché. I due avevano detto di dover fare un salto da qualche parte ed erano andati via sul taxi prenotato da Hugi. Due ore dopo, non avendo più voglia di aspettarli, gli amici se n’erano andati a loro volta in centro. Alla domanda se non avessero cercato di chiamarli, avevano risposto pressoché all’unanimità: il telefonino di Harald si era scaricato durante la festa e Hugi non aveva risposto alle ripetute chiamate, sia sul cellulare, sia a casa. Stesso risultato con il telefono di Harald, quando qualcuno aveva tentato di raggiungerlo là. Altre domande riguardavano l’orario di ritorno a casa dalle baldorie notturne in centro, anche se, vista l’ora dell’omicidio, venivano rivolte più per correttezza di indagine che per altro. Le risposte indicavano che gli interrogati erano tornati a casa ognuno a un’ora differente, alcuni addirittura non prima delle cinque del mattino. Gli ultimi a rientrare erano stati gli amici della lista, dato che il quinto di essi, lo studente di Medicina, li aveva raggiunti in città in un secondo momento. Thora sfogliò le pagine successive nella speranza che anche lui fosse stato sottoposto a interrogatorio dato che, apparentemente, era l’unico del gruppetto a non essere presente al party all’ora dell’omicidio. Dove si trovava, allora? pensò Thora.
La risposta a quel quesito si trovava alla fine del fascicolo. In effetti, Halldor era stato interrogato ed era venuto alla luce che aveva dovuto lavorare all’Ospedale Universitario di Fossvogur fino a mezzanotte, come gli studenti di Medicina erano soliti fare durante gli studi. Per quello non aveva partecipato alla festa. I suoi turni di lavoro non erano molto frequenti, solo qualche volta al mese, a detta di Halldor, mentre ogni tanto si offriva di sostituire dei colleghi assenti per malattia o altri motivi. In quell’occasione si era portato con sé dei vestiti di ricambio e, dopo una bella doccia all’ospedale, si era recato in città in autobus. Lo studente affermava che la sua macchina fosse in riparazione presso un’officina, della quale diede il nome per eventuali accertamenti. Halldor diceva che, in un primo momento, aveva avuto l’intenzione di cambiare autobus e prendere la coincidenza per Skerjafjörd, dove si teneva la festa, ma che, avendo perso l’ultima coincidenza, alla fine era andato in centro ad aspettare la combriccola al solito bar, piuttosto che prendere il taxi o raggiungerli a piedi.
Aggiungeva inoltre che, chiamati gli amici al telefono, questi gli avevano detto che stavano per arrivare in città. Pensava fosse già l’una o forse un po’ prima, quando entrò nel bar Kaffibrennslan e ordinò una birra per passare l’attesa. Verso le due, finalmente, i suoi amici comparvero in taxi.
Seguiva una serie di testimonianze dei vari membri del corpo docente del dipartimento di Storia circa i rapporti tra Harald e i suoi insegnanti. L’uniformità delle risposte era praticamente assoluta: non lo conoscevano se non tramite le lezioni e non sapevano cosa dire su di lui. Un’altra domanda riguardava la riunione che si era svolta, la sera del delitto, presso l’Istituto Arni Magnusson per firmare il contratto di collaborazione con un’università norvegese per una ricca borsa di studio del progetto Erasmus. Thora lesse tra le righe che detta «riunione» era stata in realtà un cocktail-party durato fino a tarda serata. Gli ultimi partecipanti non se n’erano andati se non intorno alla mezzanotte. I loro nomi erano assolutamente nuovi per Thora, tranne quello del povero Gunnar, il direttore del dipartimento, e quello di Thorbjörn Olafsson, il professore che doveva assistere Harald nella tesi di master.
Le ultime e conclusive pagine dei rapporti della polizìa contenevano la testimonianza giurata di un cameriere della Kaffibrennslan e del conducente dell’autobus sul quale Halldor era salito per dirigersi in città. Il cameriere, che rispondeva al nome di Björn Jonsson, diceva di aver servito Halldor la prima volta intorno all’una di quella fatidica notte, poi diverse volte sempre in quell’ora e infine, intorno alle due, dopo l’arrivo dei suoi amici. Diceva inoltre di ricordarsi bene di Halldor per la quantità di alcol che mandava giù e la rapidità con cui lo faceva.
Da parte sua, il conducente dell’autobus ricordava molto bene il fatto che Halldor, quella sera, era stato suo passeggero nell’ultima corsa, che nella vettura c’erano poche altre persone e che si erano messi a discutere, lui e il ragazzo, sulla situazione del sistema sanitario e su quanto poco e male si facesse per gli anziani a tale riguardo. Thora ebbe l’impressione che questo Halldor possedesse un alibi pressoché perfetto, così come anche gli altri suoi amici, a eccezione appunto di Hugi, il detenuto.
Dopo i rapporti seguivano diverse pagine con le copie delle fotografie scattate sulla scena del delitto. Erano in bianco e nero e abbastanza indistinte ma, da quel poco che si poteva vedere, l’atrocità dell’assassinio era innegabile. Thora capì ancor meglio il raccaprìccio che aveva dovuto assalire la persona che aveva rinvenuto il corpo e dubitò che da un tale choc ci si sarebbe mai potuti riprendere.
La suoneria del suo cellulare le ricordò che si erano già fatte le quattro e tre quarti. Si affrettò allora a sfogliare velocemente il capitolo finale, che riguardava l’autopsia post mortem. Che strano, pensò alzandosi in piedi, dietro il settimo foglio segnalibro non c’era niente. Il fascicolo dell’autopsia era vuoto.
Thora arrivò in tempo alla scuola elementare, e nel parcheggio si imbatté nella madre di una delle compagne di sua figlia. Vedendo l’auto con le scritte dell’officina, la donna sorrise, sicura che ora Thora fosse fidanzata con un meccanico di nome Bibbi. Lei avrebbe voluto inseguirla per spiegarle la situazione, ma poi lasciò perdere e si avviò spedita verso l’entrata delle elementari. Sua figlia Soley frequentava l’istituto scolastico di Myrarhus, a circa dieci minuti di auto dal suo ufficio di Skolavördustigur. Al momento del divorzio da Hannes, più di due anni prima, Thora aveva particolarmente insistito per potersi tenere la loro casa a Seltjarnarnes, benché le fosse costato parecchi soldi e grandi problemi pagare al suo ex marito la metà che gli spettava. Per sua fortuna, la casa era stata valutata appena prima della storica impennata dei prezzi dell’intero mercato immobiliare. Se avessero divorziato oggi, Thora non avrebbe avuto la benché minima possibilità di acquistare l’altra metà della loro abitazione. L’intera faccenda faceva impazzire di rabbia Hannes, che non si dava pace per aver pressoché svenduto la sua parte e nel contempo arricchito la sua ex moglie. Pur non considerando la sua casa un investimento oculato ma soltanto una dimora indispensabile, Thora non poteva non essere contenta del guadagno conseguito… e di aver fatto imbestialire Hannes. Non si era trattato di un divorzio sereno, anche se ora cercavano di intrattenere rapporti di formale cortesia per il bene dei loro due figli. Per paragonare la loro situazione attuale a quella tra Paesi, lei era l’India e lui il Pakistan — sotto sotto la situazione ribolliva, ma raramente saltava il coperchio.
Thora entrò nell’edificio e si guardò intorno: la maggior parte degli scolari se n’era chiaramente già andata a casa. La cosa non la sorprese, però la riempì di quel rimorso che assale di solito le madri quando pensano di trascurare i loro figli. Madre, donna… Il collegamento le venne in mente prima di rendersi conto che la parola «donna» di certo non le si addiceva in quel momento. Negli ultimi due anni, dopo il divorzio, non aveva quasi toccato un uomo. Thora venne improvvisamente assalita dal desiderio di fare all’amore. Scrollò di nuovo le spalle. Che posto poco appropriato per farsi venire certe idee di sesso! Che le aveva preso?
«Soley!» chiamò una maestra che aveva avvistato Thora. «Tua madre è arrivata.»
La bambina, che sedeva con le spalle girate, sollevò lo sguardo dal suo lavoretto di perline e voltò il capo verso Thora. Poi sorrise stanca e si tolse un ciuffo biondo dagli occhi. «Ciao, mamma. Guarda, sto mettendo le perline per farci un cuoricino.» Thora sentì una stretta al cuore e si ripromise di andarla a prendere in orario il giorno seguente.
Dopo una breve sosta in un negozio di alimentari, le due arrivarono finalmente a casa. Gylfi, l’altro figlio, era chiaramente lì anche lui. Lo si poteva capire molto bene dalle scarpe da ginnastica lasciate in bella vista al centro dell’ingresso, e dal giaccone di piumino che, sicuramente appeso con estrema noncuranza all’attaccapanni accanto alla porta, era scivolato sul pavimento.
«Gylfi!» gridò Thora piegandosi per rimettere al loro posto quei reperti. «Quante volte devo dirti di sistemare le tue cose quando arrivi a casa!»
«Non sento!» si sentì rispondere dall’interno dell’appartamento.
Thora ebbe uno scatto di rabbia. Certo che non poteva sentire niente: il frastuono di un qualche gioco elettronico avrebbe stordito un elefante. «Abbassa, allora!» gli gridò per tutta risposta. «Ti rovinerai l’udito con questo baccano!»
«Vieni qui, non sento niente!» fu l’unico risultato che ottenne.
«Dio mio!» mormorò Thora scuotendo il capo per la disperazione. Sua figlia nel frattempo aveva messo a posto ogni suo vestito, marcando ancor più la grande differenza con Gylfi. Lei era sempre stata ordinatissima, mentre il sogno del fratello sarebbe stato quello di vivere sopra un ammasso di vestiti sporchi su cui potersi gettare stanco e felice la sera per dormire il sonno del giusto! Una cosa, comunque, i due avevano in comune, e riguardava la frequenza a scuola e i compiti a casa. La diligenza negli studi era per così dire ovvia e innata per Soley, ma a Thora veniva da sorridere quando Gylfi, con i suoi capelli lunghi e scarmigliati e i giubbotti con i teschi, diventava isterico per aver dimenticato a scuola un quaderno o qualcosa di simile.
Thora entrò nella camera di suo figlio. Gylfi sedeva incollato allo schermo del suo computer, strapazzando il mouse. «Santi numi, abbassa un po’ il volume», urlò Thora pur essendo vicinissima a suo figlio. «Non sento neppure i miei pensieri con questo fracasso.»
Senza distogliere lo sguardo dallo schermo, né smettendo di torturare il povero mouse, suo figlio allungò la mano sinistra verso l’amplificatore e abbassò il volume. «Va bene così?» chiese distrattamente.
«Sì, meglio», rispose Thora. «Spegni un attimo questo gioco e vieni a cenare. Ho comprato della pasta e non mi ci vorrà niente a prepararla.»
«Lasciami terminare questo livello», fu la risposta del ragazzo. «Un paio di minuti ancora.»
«Due minuti, allora», acconsentì sua madre andandosene. «Ricordati che funziona così: un minuto. Poi due minuti. Non: un minuto, tre, quattro, cinque, sei e poi due.»
«Okay, okay», rispose il ragazzo spazientito, riprendendo immediatamente il suo gioco.
Quando la cena arrivò in tavola, un quarto d’ora dopo, Gylfi fece la sua apparizione e crollò sgraziatamente al suo solito posto. Soley era già seduta e sbadigliava davanti al suo piatto. Thora non aveva voglia di iniziare la cena sgridando il figlio per non aver rispettato l’ordine di finire il «livello» in due minuti, ma doveva ricordargli l’importanza per la famiglia di trovarsi riuniti a tavola la sera. Stava aprendo la bocca, quando suonò il cellulare. Si alzò per rispondere. «Cominciate a mangiare e non mettetevi a litigare. Quando siete tranquilli siete tutti e due molto più carini.» Thora prese il telefono poggiato sopra la credenza, diede un’occhiata al display e vide che il numero non era comparso. Allora uscì dalla cucina e rispose: «Thora».
«Guten Abend, Frau Gudmundsdottir», sentì dire dall’altra parte della linea. Era la voce secca di Matthew, che proseguì chiedendo se avesse disturbato.
«No, no, non si preoccupi», mentì. Quell’uomo aveva un fare così cortese che non se la sentiva di parlargli della cena interrotta.
«Ha avuto il tempo di dare un’occhiata al dossier che le ho fatto avere?»
«Sì, ma non abbastanza per entrare nei particolari della vicenda», gli rispose. «Comunque mi sono subito accorta che i dati ricevuti dalla polizia investigativa non sono esaurienti. Propongo che venga inoltrata richiesta formale per ottenerli al più presto. È particolarmente seccante doverne leggere soltanto una frazione.»
«Senz’altro.» Seguì un imbarazzante silenzio. Nel momento in cui Thora stava per aggiungere qualcosa, Matthew riprese la parola.
«Ciò vuol dire che ha deciso, o mi sbaglio?»
«Sulla faccenda, intende dire?» domandò Thora.
«Sì. Ha deciso di prendersi a cuore questo incarico?»
Thora ebbe un attimo di esitazione prima di rispondere affermativamente. Le era sembrato di percepire un sospiro di sollievo da parte di Matthew nel sentire che accettava. «Sehr gut», disse l’uomo insolitamente lieto.
«A dire il vero ancora non ho potuto esaminare il contratto. Me lo sono appunto portato a casa per leggerlo stasera, ma se è vero, come dice, che è equo e onesto, non vedo come potrei rifiutarmi di sottoscriverlo domani.»
«Benissimo.»
«Aspetti. C’è una cosa che mi incuriosisce. Perché il fascicolo dell’autopsia non si trova nel dossier?» Thora sapeva perfettamente che si trattava di una questione che avrebbe potuto rimandare fino al giorno dopo, ma le premeva conoscerne subito i termini precisi.
«Abbiamo dovuto inoltrare una richiesta ufficiale per ricevere i documenti relativi all’autopsia, ma ci hanno consegnato solo un breve riassunto con i principali dettagli. Anche a me era sembrato troppo poco, e per questo ho già inoltrato un’altra richiesta per vedere il referto completo», rispose Matthew. «Il fatto di non essere un parente della vittima, ma soltanto un rappresentante della sua famiglia, ha creato non poche complicazioni nell’intera faccenda, ma ora penso proprio che le cose si siano risolte. È per questo che le telefono a quest’ora invece che attendere fino a domattina per sentirla, come da accordi.»
«Come dice?» chiese Thora, non avendo compreso affatto il nesso.
«Voglio dire che ho ottenuto un appuntamento con il medico legale per domani mattina alle nove. È il patologo che ha eseguito l’autopsia sul corpo di Harald. Intende consegnarmi il referto e discutere con me di alcuni punti oscuri. Vorrei che lei mi accompagnasse.»
«Davvero?» chiese Thora stupita. «Non saprei… sì, va bene, verrò.»
«Perfetto, allora passo a prenderla in ufficio alle otto e mezzo.»
Thora si morse la punta della lingua per non farsi scappare che di solito non andava al lavoro così presto. «Otto e mezzo, allora. Arrivederla.»
«Frau Gudmundsdottir…» disse Matthew.
«Mi chiami pure Thora, e diamoci del tu, che è molto più semplice», lo interruppe la donna, che si sentiva una novantenne quando le davano della signora, con quel cognome lunghissimo e solenne.
«Va bene, Thora allora», riprese Matthew. «Un’ultima cosa per finire.»
«Cosa?» chiese lei con curiosità.
«Non mangiare niente di pesante a colazione. Non sarà un bello spettacolo.»