9 dicembre 2005

20

LA lettura del Malleus maleficarum aveva catturato Thora fino a notte fonda, cosicché la mattina dopo si sentiva la testa pesante. Aveva passato molto tempo a tentare di decifrare il foglio caduto dal libro, che conteneva un’accozzaglia di parole e date scritte a mano e in maniera poco sistematica. La donna era arrivata alla conclusione che si trattasse di appunti e promemoria buttati giù da Harald stesso, il proprietario del libro a quanto si leggeva sul frontespizio. Alcune annotazioni erano in tedesco, e la calligrafia affrettata rendeva ardua la decifrazione di alcune parole, e perciò anche di diverse frasi. Comunque, qualcosa era riuscita a capirlo.

1485 MALLEUS: la data era sottolineata e ricalcata parecchie volte. Appena sotto c’era la scritta J.A. 1550?? cancellata da una crocetta. Poi si leggevano due L incrociate seguite dal nome LUPUS LORICATUS. Sotto veniva qualcosa in tedesco che Thora decifrò come: DOVE? DOVE? LA CROCE ANTICA?? Metà del foglio era una sorta di diagramma, in cui punti segnati da date e toponimi erano collegati l’un l’altro da freccette. Uno era contrassegnato dalla scritta INNSBRUCK — 1485, un altro da KIEL — 1486 e sopra la città di Roskilde era collegata a due datazioni: 1486 — MORTO e 1505 — PERDONO. Sopra questi c’erano il toponimo HOLAR — 1535 e un punto cancellato assieme al collegamento con il precedente, ma vi si poteva leggere la scritta SKALHOLT, seguita da due ulteriori date, 1505 e 1675. Da questa seconda datazione partivano numerose freccette che terminavano tutte con dei punti interrogativi. Un po’ spostata c’era di nuovo la scritta LA CROCE ANTICA?? Con una penna diversa era stata aggiunta la dicitura GASTBUCH, con vicino un disegnino che poteva essere una piccola croce o una «t». Libro degli ospiti? Libro degli ospiti della croce? Sotto c’era la scritta: CAMINO — FOCOLARE!! 3° SIMBOLO!! se il suo tedesco non la tradiva.

Alla fine Thora si era data per vinta e si era rivolta alla lettura del trattato.

Il Malleus maleficarum era risultato una lettura tutt’altro che piacevole, dato il suo contenuto raccapricciante, eppure al contempo intrigante. Su alcune sezioni poco invoglianti, come la prima e la seconda, Thora non si era soffermata molto. Il libro era strutturato in forma di domande o assiomi riguardanti la magia, formulati al principio di ciascun capitolo o paragrafo, e seguiti da risposte o argomentazioni di una tale assurdità religiosa, da non seguire alcuna logicità scientifica.

Le storie e le descrizioni dei riti e delle trovate di maghi e stregoni erano grottesche. A quanto si leggeva, si aveva a che fare con persone dotate di poteri sovrumani e capaci, tra l’altro, di scatenare venti e bufere, volare, mutare esseri umani in bovini e altri animali, causare impotenza negli uomini o addirittura creare l’illusione della perdita temporanea del membro maschile. Buona parte di un capitolo, per esempio, era dedicata alla prolungata disquisizione sul dubbio se tale mancanza temporanea fosse un incantesimo o una perdita vera e propria. E comunque, anche dopo un’attenta lettura, a Thora non riuscì di capire quale fosse la conclusione degli autori. Per procacciarsi i poteri illimitati di cui sopra, gli adepti alla stregoneria si sarebbero sottoposti a indicibili sacrifici, di cui facevano parte il cannibalismo (cucinare e divorare bambini) e gli atti perversi con il diavolo in persona.

Pur non essendo esperta di psicologia, Thora si convinse presto che gli autori soffrissero di qualche malattia mentale, forse esacerbata dal voto di castità giurato comunemente dai frati domenicani. Si sarebbe così spiegato anche l’astio sfrenato che gli stessi autori mostravano verso tutte le creature di sesso femminile. Il ribrezzo e la nausea impregnavano ogni disquisizione sull’animo femminile, lasciando Thora allibita e indignata. Le argomentazioni per dimostrare quanto tutte le donne fossero per natura malriuscite e diaboliche erano di una tale assurdità da spingere i due autori a sostenere che l’imperfezione del sesso debole fosse da addebitare alla costola utilizzata da Dio per creare la femmina: essendo piegata verso l’interno, aveva prodotto un essere deforme, mentre se Dio avesse utilizzato uno stinco, le donne sarebbero state perfette. Tutto ciò veniva adoperato per convincere il lettore della corruttibilità estrema dell’animo femminile alle tentazioni del diavolo, ergo la maggior parte delle donne erano streghe. Anche i poveri ricevevano però la loro dose di umiliazione perché si teorizzava che l’indigenza li rendesse di per sé più propensi alle menzogne e alle calunnie, e quindi molto meno attendibili dei benestanti. Thora si chiese che cosa potesse significare, a quei tempi, essere una donna povera.

Comunque quello che attrasse di più la sua attenzione fu il terzo capitolo del volume, quello conclusivo, dove venivano trattati i particolari legali e formali dei processi contro le streghe. Da avvocato, non poteva che trovare quelle descrizioni perverse e degradanti nei confronti dell’accusato, che si doveva convincere a confessare dietro la promessa menzognera di salvargli la vita. Il libro spiegava anche tre metodi differenti per far rimangiare all’inquisitore quella falsa promessa senza che ciò costituisse reato.

Poi si descriveva la prassi da seguire durante l’arresto degli indiziati, secondo la quale si doveva evitare con la massima cura che i piedi delle streghe venissero a contatto con la terra nel tragitto verso il carcere. In caso contrario, il diavolo avrebbe trasmesso loro dal suolo poteri e forze tali da poter continuare a negare le accuse nei loro confronti fino allo stremo. All’arrivo in prigione, si doveva poi eseguire una perquisizione meticolosa in ogni parte del corpo, poiché era risaputo che le streghe portavano addosso amuleti, fatti con gli arti dei neonati, che aumentavano le loro forze. Si consigliava inoltre di rasare loro i capelli per evitare che vi nascondesse dentro i loro feticci, mentre c’erano delle controversie sulla necessità di includere nell’ordine anche la rasatura del pube. In seguito venivano elencati i metodi da applicare per rendere ardua la loro difesa. Le testimonianze, per esempio, venivano verbalizzate su due pagine differenti. Sull’una c’era la deposizione vera e propria, sull’altra invece i nomi dei testimoni. All’avvocato difensore arrivavano quindi anonime in modo che la presunta strega non sapesse chi la accusava. Sempre che si decidesse di comunicarle l’accusa. Le povere donne potevano dunque ritrovarsi in carcere senza nemmeno sapere perché o per denuncia di chi, visto che chiunque poteva rendere testimonianza, a differenza degli altri casi, in cui valeva solamente quella di persone di provata integrità.

Poi si spiegavano i procedimenti da seguire nell’esecuzione delle torture, il tempo che doveva passare tra una tortura e l’altra e in che modo si doveva evitare di far piangere l’accusato davanti al giudice, poiché ciò avrebbe potuto provarne l’innocenza. Probabilmente quelle povere creature orrendamente torturate non avevano più lacrime da versare in tribunale, nemmeno se ne andava della loro vita. Dopo un simile trattamento, non si saranno nemmeno rese conto di dove si trovassero, pensò Thora. Invece le lacrime che sgorgavano nella solitudine delle celle, sulle panche delle torture e in altro luogo non avevano valore giuridico. Contrariamente alle confessioni forzate, estorte in ogni luogo con la violenza o i sotterfugi. Chiunque dotato di un briciolo di buon senso avrebbe capito che spesso gli accusati avrebbero confessato qualunque cosa pur di mettere fine alle proprie sofferenze.

Mettendosi a sedere sul letto, Thora rifletté che dai tempi di quel libro nefando l’umanità aveva fortunatamente fatto dei passi da gigante. Finalmente racimolò le forze per alzarsi e si avviò a farsi una bella doccia. Sulla via verso il bagno bussò alla porta del figlio per svegliarlo. La colazione fu, come al solito, un quadretto confuso di vita famigliare, con Soley seduta al tavolo e gli altri affannati nei preparativi per la giornata.

Prima di salire sulla sua auto, Thora ricordò ai figli che quella sera sarebbero dovuti andare dal padre. Nessuno dei due ne era mai entusiasta anche se poi, quando ritornavano a casa dopo il fine settimana, sembravano contenti di aver passato il tempo in compagnia dell’altro genitore. Soprattutto se avevano evitato le gite a cavallo.

Dopo aver sistemato i ragazzi, Thora si precipitò in ufficio. Con sé aveva il foglio manoscritto di Harald da mostrare a Matthew. Mancando ancora mezz’ora all’apertura dello studio legale, alle nove, l’avvocatessa aveva il tempo necessario per prepararsi un buon caffè e dare un’occhiata alla posta, in modo da aggiornarsi su quello che stava succedendo lì attorno mentre lei era immersa in quello strano caso che le portava via tutto il tempo.


Briet era arrivata all’università per seguire una lezione che cominciava alle otto e un quarto, quando era stata fermata da Gunnar Gestvik sulla porta dell’aula. Si scambiarono solo poche parole, ma poi la studentessa, anziché presentarsi in classe, preferì uscire dall’edificio e mettersi a fumare sulla scalinata fuori dell’ingresso principale. Aveva bisogno di calmarsi prima di telefonare agli amici per dir loro quello che era successo. Briet tirò una lunga boccata di fumo dalla sottile sigaretta al mentolo, leggerissima in confronto alle Marlboro di Marta Mist. La ragazza si augurava che l’amica ne avesse molte a portata di mano. Ne avrebbe avuto bisogno dopo la sua telefonata.

«Pronto», disse in fretta e furia quando l’altra le rispose. «Sono Briet.»

«Per la miseria, quanto chiami presto.» La voce di Marta Mist era rauca e Briet capì di averla svegliata.

«Devi venire di corsa qui all’università. Il direttore del dipartimento è uscito di testa e dice di voler adoperare tutta la sua influenza per farci espellere con infamia e disonore dall’università, se non facciamo come dice lui.»

«Che stronzate sono queste?» La sua voce ora indicava che si era del tutto svegliata.

«Dobbiamo subito chiamare gli altri a riunione. Io non mi faccio espellere dai corsi. Papà diventerebbe matto e poi perderei il presalario.»

«Calmati un attimo», la interruppe Marta Mist. «Come fa Gunnar a cacciarci da scuola? Non so i tuoi, ma i miei voti sono tutti di prim’ordine.»

«Dice di voler presentare al consiglio scolastico le prove di un nostro presunto consumo di stupefacenti. Per primi farebbe espellere me e Brjann, poi anche Andri, Halldor e te in persona. Dobbiamo fare come dice lui. Io per lo meno non me la sento di rischiare.» Briet era un fascio di nervi. Perché Marta Mist era così testarda? Non poteva mai fare quello che le si diceva?

«E che vorrebbe che facessimo?» L’agitazione dell’amica aveva finalmente contagiato anche Marta.

«Vuole che ci presentiamo da un avvocato che sta indagando sulla morte di Harald per conto della famiglia Guntlieb. Lei e un’altra persona vogliono incontrarci e Gunnar ci intima di cooperare. Anzi, ha aggiunto di non essere così stupido da pensare che noi confesseremo la verità in ogni particolare, ma a lui non importa affatto. Gli basta che parliamo a quei due e nient’altro.» Briet tirò un’altra boccata di fumo che soffiò subito fuori. Nello stesso momento sentì che vicino a Marta c’era un’altra persona, che le chiedeva cosa stesse succedendo.

«Va bene. Calmati», rispose Marta. «Gli altri li hai già chiamati?»

«No, mi devi aiutare tu. Voglio farla finita subito con questa faccenda. Incontriamoci tutti insieme alle dieci e diamoci un taglio. Questo pomeriggio voglio tornare a lezione.»

«Va bene, con Halldor ci parlo io. Tu chiami Andri e Brjann. Ci vediamo alla libreria universitaria.» Marta Mist riattaccò senza tirarla troppo per le lunghe.

Briet guardò adirata il suo telefonino. Era ovvio che la persona insieme a lei era proprio Halldor. Il che voleva dire che non avrebbe dovuto affatto telefonargli e quindi la patata bollente era, come al solito, tutta nelle sue mani. Almeno si fosse proposta lei stessa di chiamare Andri e Brjann, ma così non andava! Briet spense bruscamente la sigaretta sugli scalini e si alzò in piedi, poi si diresse verso la libreria tentando nervosamente di trovare il numero di Brjann nella memoria del cellulare.

Gunnar seguì con lo sguardo, dalla finestra del suo ufficio all’Istituto Arni Magnusson, la ragazza allontanarsi. Perfetto, pensò, sono riuscito a toccarli sul vivo. Quando, poco prima, si era avvicinato a lei per parlarle, aveva dovuto ricorrere a tutte le sue forze per non perdere coraggio. In realtà non aveva niente per incastrare quegli studenti, tranne la sua convinzione personale che stessero sempre a drogarsi e fossero immischiati in chissà quali intrallazzi. Quando aveva promesso all’avvocatessa di organizzare un incontro con quel gruppetto di sbandati, si era in realtà buttato alla cieca. Quelli erano studenti che, fino ad allora, non si erano mai fatti comandare da lui e che non avrebbero certo cominciato ora a obbedirgli. L’unica risorsa che gli rimaneva era quella di ricorrere alle minacce, essendo la sola lingua che comprendessero. Ora la sua teoria si era rivelata esatta.

Quel gruppo gli aveva sempre fatto saltare i nervi. Harald era il peggiore di tutti, anche se gli altri non erano affatto meglio di lui. L’unica differenza tra il tedesco e il resto della banda era che loro ancora non si erano fatti mutilare in maniera così sfacciata. La cosa sconcertante era che, quando a suo tempo si era riproposto di sbarazzarsi della loro società da strapazzo con velleità storiografiche e aveva controllato il curriculum dei vari membri, con sua estrema meraviglia aveva riscontrato che alcuni di loro erano in effetti degli studenti modello.

Gunnar abbassò la tendina e prese la cornetta del telefono. Sul tavolo davanti a lui si trovava il biglietto da visita dell’avvocatessa. Era obbligato a tenersi buoni sia lei sia il tedesco, se voleva ritrovare il documento che Harald aveva rubato. Rubato. Non sopportava più di dover far credere a tutti che ammirava quell’individuo ripugnante, quel ladruncolo da quattro soldi, una vergogna per il dipartimento e per se stesso.

Gunnar rimise al suo posto la cornetta. Doveva cercare di calmarsi un po’, non poteva certo chiamare la donna in quello stato d’animo. Respirare profondamente e pensare a qualcos’altro. Alla borsa di studio del progetto Erasmus, per esempio… Ecco, bene, ora poteva comporre il numero segnato sul biglietto da visita.

«Pronto? Thora, buongiorno, sono Gunnar», disse con quanta cortesia riuscì a tirare fuori. «Riguardo agli amici di Harald… voi li volevate incontrare, vero?»

21

Thora non aveva visto un gruppetto così ciondolante dal giorno del sedicesimo compleanno di suo figlio. Eppure i giovani che sedevano davanti a lei e a Matthew avevano almeno dieci anni di più. Parevano caduti sul divano dal letto, a eccezione della ragazza alta e con i capelli rossi, e non facevano altro che scrutarsi le punte dei piedi. Dopo aver ricevuto la telefonata di Gunnar, Thora si era subito messa in contatto con Briet per organizzare un incontro con il gruppo al completo. La ragazza non aveva affatto gradito quell’intromissione, ma aveva accettato con riluttanza di riunire gli amici per un colloquio informale alle undici, in un ambiente dove fosse permesso fumare. Dato che da quel punto di vista c’era ben poco da scegliere, Thora suggerì di incontrarsi a casa di Harald. La proposta venne accolta con altrettanta ostilità, ma a giudicare dalla precedente conversazione avuta con Briet, l’avvocatessa si era resa conto che la loro reazione sarebbe stata simile anche se li avesse invitati per la riunione a Parigi. Matthew invece era rimasto contento della scelta perché riteneva di poterli spiazzare, in modo che rivelassero la verità.

Mentre aspettavano l’arrivo degli studenti, Thora aveva approfittato di quell’opportunità per mostrare a Matthew il foglio manoscritto che era caduto dal Malleus. Si misero a rileggerlo insieme per un po’, ma non riuscirono ad arrivare a nessuna conclusione accettabile, se non quella che il riferimento INNSBRUCK — 1485 doveva collegarsi all’arrivo di Kramer in quella cittadina e forse anche alle lettere antiche da cui Harald era stato affascinato. J.A. venne interpretato da Thora come le iniziali del vescovo Jon Arason, e il 1550 si riferiva all’anno della sua decapitazione, anche se non riuscivano a capire perché mai quella linea fosse stata cancellata con un tratto di matita. Probabilmente si trattava di un volo di fantasia di Harald sul trasporto dell’oggetto prezioso da lui rinvenuto. Il presunto libro degli ospiti della croce era del tutto nuovo a Matthew, né era emerso niente del genere durante la perquisizione dell’appartamento. Il suono del campanello li aveva infine distolti da ulteriori considerazioni sul significato di quegli scarabocchi.

I giovani si erano sistemati nel soggiorno di Harald e ora sedevano l’uno stretto all’altro sui due divani, mentre Thora e Matthew si erano accomodati sulle due poltrone di fronte. Thora aveva recuperato un paio di posacenere e ora l’aria della stanza era satura di fumo.

«Insomma, che diavolo volete da noi?» chiese la ragazza dai capelli rossi, Marta Mist. I suoi amici la guardarono, sollevati dal fatto che uno di loro avesse preso l’iniziativa e avesse distolto l’attenzione da loro stessi, e ripresero a fumare.

«Volevamo solamente discutere un po’ con voi di Harald», rispose Thora. «Come ben sapete, già diverse volte abbiamo cercato di organizzare un incontro tra di noi, senza alcun successo.»

Marta non si fece intimorire. «Guarda che siamo molto occupati con l’università e con altre faccende che non vi riguardano, per cui non abbiamo il tempo di chiacchierare con chiunque. Inoltre non siamo tenuti a parlare con voi. Abbiamo già fornito la nostra testimonianza alle autorità.»

«Certo, questo è vero», convenne Thora cercando di non mostrare apertamente quanto quella ragazza le desse sui nervi, come peraltro l’intero gruppetto. «Vi siamo assai grati per aver accettato di incontrarci e promettiamo di non trattenervi a lungo. Come sapete, siamo qui per indagare sull’omicidio di Harald per conto della sua famiglia in Germania e, da quanto ci risulta, voi eravate gli amici che frequentava più spesso.»

«Non direi proprio, anche se ammetto che stavamo spesso insieme. Ma di quello che lui faceva, quando non ci si incontrava, non abbiamo la benché minima idea», proseguì a rispondere Marta Mist, ricevendo un cenno di approvazione da Briet. Gli altri, invece, non davano il minimo cenno di vita.

«Tu parli come se foste una sola persona», intervenne Matthew. «Abbiamo sentito Hugi Thorisson, che voi tutti ovviamente conoscete, e secondo lui eri tu, Halldor, che stavi sempre con Harald, anzi, lo aiutavi con le sue traduzioni e altro.» Aveva indirizzato le sue parole al ragazzo, che sedeva appiccicato a Marta Mist. «Oppure ho capito male?»

Halldor guardò in alto. «Beh, no, cioè, sì, passavamo molto tempo insieme. Harald aveva grosse difficoltà con i documenti islandesi e altri particolari per i quali lo aiutavo. Sì, eravamo ottimi amici.» Poi scrollò le spalle come per sottolineare che tale amicizia era una cosa normalissima per lui.

«E anche Hugi è un tuo carissimo amico, non è vero?» aggiunse Thora.

«Sì, eccome. Siamo amici d’infanzia», rispose Halldor guardando verso il basso, i capelli lunghi davanti al viso per evitare ulteriori contatti visivi.

«Allora dovrebbe importarti chiarire tutta questa faccenda. Uno dei tuoi amici è stato ucciso, un altro è in prigione sospettato dell’omicidio. Si dovrebbe supporre che tu faresti di tutto per offrirci il tuo apporto, non ti pare?» Matthew rivolse al ragazzo un sorriso freddo. Poi guardò gli altri giovani. «E voi? Non siete d’accordo anche voi?»

Tutti risposero affermativamente con un cenno del capo o mugugnando un «sì» a testa bassa.

«Benissimo», continuò Matthew dandosi un colpo alla coscia. «Allora non ci resta che cominciare. Anche se in effetti non saprei proprio da dove partire.» Guardando Thora, le disse: «Forse vuoi iniziare tu?»

Thora sorrise e si rivolse agli studenti. «Che ne dite di raccontarci dove vi siete conosciuti, voi e Harald, e di come funzionava questa società di magia nera? Ci sembrano entrambe delle circostanze alquanto curiose.»

I ragazzi del gruppo rivolsero i loro sguardi a Marta Mist, nella speranza che rispondesse ancora una volta lei. Lei invece passò la palla ad Halldor con una gomitata che a Thora parve inspiegabilmente brutale. Il ragazzo fece una smorfia ma rispose: «Come ci siamo conosciuti? Io ho incontrato Harald per la prima volta l’anno scorso, assieme a Hugi. Loro due si erano già conosciuti in un bar del centro. Mi era da subito sembrato un tipo interessante e diverso dagli altri, opinione condivisa anche da Hugi e, da cosa nasce cosa, abbiamo cominciato a vederci tutti e tre insieme. Andavamo a mangiare fuori, in birreria, ai concerti e altre cose del genere. Harald ci chiese una volta se eravamo interessati a entrare in una società che aveva in mente di formare, e noi rispondemmo semplicemente di sì. È così che è iniziato tutto.»

Marta Mist a quel punto intervenne. «Io sono entrata a far parte dell’associazione attraverso Briet, che aveva conosciuto Harald all’università e voleva portarmi con sé per curiosare insieme su quell’attività.» Briet confermò quello che aveva appena detto la sua amica con ampi cenni di assenso.

«E voi?» Thora si rivolse ora ad Andri e Brjann, che sedevano l’uno accanto all’altro con la sigaretta accesa.

«Noi?» chiese Andri smarrito, soffocandosi con il fumo che aveva dimenticato di sbuffare.

«Sì, voi due», insisté Thora indicandoli entrambi in modo che non ci fossero dubbi. Brjann rispose per primo. «Io sono uno studente di Storia e ho conosciuto l’associazione allo stesso modo di Briet. Avevo già parlato qualche volta con Harald e lui mi aveva invitato a farne parte. Andri l’ho portato tanto per scherzare.» L’Andri in questione rise in modo sguaiato.

«Ma che cosa facevate in questa società, tanto per sapere? Da quello che abbiamo capito interrogando Hugi, si trattava per lo più di orge mascherate da pratiche magiche», disse Matthew.

I tre ragazzi sogghignarono, mentre Marta Mist storse la bocca e disse scandalizzata: «Orge? No, non lo erano affatto. Eravamo interessati alla cultura della magia, e alle pratiche magiche del passato. Studiati a fondo, si tratta di argomenti per niente ridicoli, anzi, veramente interessanti. Il fatto che queste riunioni terminassero spesso con innocui divertimenti da persone adulte non c’entra niente, e Hugi sta solamente dicendo scemenze, come d’altronde ha sempre fatto. Lui della nostra associazione non ci aveva mai capito un bel niente.» Marta Mist si appoggiò di nuovo allo schienale del divano e mise le braccia conserte. La smorfia di malumore era ancora al suo posto, così come lo sguardo adirato. «Anche voi, ovviamente, non capite un bel niente del vero contenuto degli atti di stregoneria, come d’altronde tutti gli altri. Sicuramente crederete che passassimo il tempo a sgozzare galline e infilzare spilloni nelle bambole!»

«Perché allora non ci metti al corrente una volta per tutte di cosa sia la magia?» la provocò Matthew.

Marta Mist emise un sospiro profondo. «Non ho proprio nessuna voglia di tenere una lezioncina qui dentro. Vi basti capire che la magia altro non è che il tentativo di esercitare un’influenza sulla vita delle persone ricorrendo a mezzi non ortodossi, perlomeno agli occhi dell’uomo moderno. Nelle epoche passate erano delle pratiche assai diffuse, che consistevano nel compiere atti che cambiassero il corso degli eventi in proprio favore. Talvolta a discapito di qualcun altro, talaltra no. Secondo il mio modesto parere, nel momento in cui una persona si addossa lo sforzo e l’affanno necessari per praticare un incantesimo, compie un passo avanti verso un fine ben preciso, e la sua concentrazione si acuisce a tal punto da renderlo vincente.»

«Mi potresti fornire qualche esempio?» domandò Thora.

«Conquistare l’amore di qualcuno o fare carriera; guarire da una malattia; provocare danni ai nemici. In realtà non ci sono limiti alle possibilità della magia. La maggior parte delle antiche formule si collegano, ovviamente, ai bisogni materiali, dato che allora la vita non era così varia e complicata come oggi.»

Thora non poteva condividere quest’ultima affermazione, dopo aver letto il Malleus maleficarum. Secondo la sua opinione professionale, doveva essere più complicato doversi difendere in un sistema giudiziario che favoriva le eccezioni e cambiava le regole del gioco ogniqualvolta serviva agli interessi del pubblico ministero. «E che cosa viene utilizzato per compiere l’atto magico?» le chiese, e aggiunse per innervosire Marta: «All’infuori di galline e bambole cucite a mano».

«Molto divertente», disse Marta Mist senza però farsi scappare sorrisi di sorta. «In Islanda si trattava principalmente di rune magiche, che non erano semplicemente incise o disegnate, ma erano seguite da altre cerimonie speciali. E lo stesso succedeva anche in alcune zone d’Europa.»

«Che tipo di cerimonie speciali?» domandò Matthew.

«Tipo recitare una nenia, raccogliere ossa di animali o di uomini, oppure i capelli di una vergine. Roba del genere», rispose Marta con tono di voce glaciale.

«Sì, e anche parti del corpo di cadaveri», intervenne Briet. Il gruppo piombò nel silenzio più assoluto e la ragazza arrossì e tacque immediatamente.

«Davvero?» rispose Matthew fingendosi meravigliato. «Che cosa, per esempio? Mani? Capelli?» e dopo aver fatto una pausa d’effetto aggiunse: «O forse anche gli occhi?»

Nessuno disse niente finché Marta Mist ruppe il silenzio. «Io personalmente non ho mai letto di sortilegi che richiedessero l’uso di occhi umani, semmai di animali.»

«E voi altri? Lo conoscete voi un incantesimo del genere?» chiese Matthew.

Nessuno di loro rispose, ma tutti scrollarono il capo all’unisono.

«E le dita?» si affrettò a chiedere Thora. «Avete letto da qualche parte, o forse attuato voi stessi, una magia dove si richiedeva l’impiego di un dito?»

«No!» esclamò Halldor con voce decisa, togliendosi i capelli dagli occhi per poter guardare in volto Thora e Matthew e dimostrarsi più convincente. «È meglio chiarire che noi non abbiamo mai eseguito nessun sortilegio che richiedesse pezzi di corpi umani. Le vostre insinuazioni sono assurde. Noi non abbiamo ammazzato Harald, potete escluderlo da subito. La polizia ha già controllato tutti i nostri alibi, e li ha confermati.» Halldor si allungò in avanti per prendere un’altra sigaretta da un pacchetto che si trovava sul tavolino davanti a lui, l’accese e tirò una lunga boccata di fumo, che poi soffiò fuori con estrema lentezza.

«Allora è stato Hugi a ucciderlo?» domandò Thora. «È questo che vuoi dire?»

«No, io non ho detto proprio un bel niente. Tu non segui con molta attenzione quello che ti stiamo spiegando», rispose Halldor con un pizzico di tensione nella voce. Avrebbe voluto continuare a rispondere, ma venne interrotto da Marta Mist, che lo sgomitò di nuovo.

Lei era molto più tranquilla dell’amico. «La tua logica fa acqua: il fatto che Harald non l’abbiamo ucciso noi, non deve significare per forza che l’abbia ammazzato Hugi. Non siamo stati noi, punto e basta.» Ora era arrivato il suo turno di prendersi una sigaretta: la strappò via dalle dita di Halldor, ne fumò una boccata e la rimise al suo posto. Sul volto di Briet si accese una vampata di gelosia. Era chiaramente esasperata dalla loro intimità.

«Hugi non l’ha ucciso. Non è il tipo», borbottò Halldor scuro in volto, sciolse con forza il suo braccio dalla stretta dell’amica e si chinò verso il tavolo per scrollare via la cenere.

«E tu? Sei il tipo da compiere una cosa del genere, tu? Se ben ricordo, il tuo alibi non era proprio di ferro, contrariamente a quelli dei tuoi amici.» Matthew lo fissò negli occhi in attesa della sua risposta.

La reazione di Halldor fu immediata. Abbassò di tono la voce e si sporse verso Matthew con un’espressione furibonda: «Harald era mio amico. Un ottimo amico. Per me aveva fatto molto, e io per lui. Non l’avrei mai potuto uccidere. Mai. Siete entrambi su una pista così balorda che nemmeno la polizia… Tu non sai proprio un bel niente, e non fai altro che parlare a vanvera». Per accentuare la forza delle sue parole, Halldor puntava su Matthew il dito con la sigaretta accesa.

«Ma cos’è che avresti fatto per lui? Cioè, oltre a tradurgli qualche documento?» intervenne Thora.

Halldor distolse lo sguardo da Matthew e fissò negli occhi la donna con altrettanta durezza. Poi aprì le labbra come per dire qualcosa, ma ci ripensò. Dopo aver tirato un’altra boccata di fumo, spense la sigaretta e si rimise al suo posto sul divano.

Brjann si accollò la parte di mediatore. «Insomma, non capisco proprio tutta questa eccitazione. È ovvio che qualcuno abbia ammazzato Harald, ma se non è stato Hugi, chi allora? Vi risparmiereste fatica e tempo prezioso se vi fidaste di quanto vi stiamo dicendo. Harald non l’ha ucciso nessuno di noi, e poi perché avremmo dovuto farlo? Era divertente, simpatico, pieno di risorse, generosissimo, un vero amico. Senza di lui, per fare un esempio, la nostra società ha perso la sua colonna portante. Senza contare il fatto che materialmente non l’avremmo proprio potuto ammazzare, non essendo in quei paraggi all’ora del delitto, cosa che parecchie persone hanno già potuto confermare.»

Andri, che studiava per un master in Chimica, annuì enfaticamente. Aveva uno sguardo fluttuante che fece pensare a Thora all’effetto di qualche sostanza stupefacente. «È verissimo. Harald era una persona speciale. Nessuno di noi l’avrebbe voluto togliere dalla circolazione. Ammetto che talvolta ci faceva paura e ci sorprendeva con le sue trovate, ma di lì ad ammazzarlo… Nei momenti del bisogno era per tutti un vero amico.»

«Ma che bello», esclamò Matthew in tono ironico. «C’è un’altra cosa che vorrei sapere. Tutti voi eravate al party, a eccezione di Halldor; vi ricordate se a un certo punto Hugi e Harald se ne andarono insieme al bagno e se tornarono con i vestiti insanguinati?»

Tutti i presenti scossero il capo. Andri puntualizzò: «In quel momento non c’era nessuno che poteva mettersi a pensare ai vestiti. Può anche darsi che sia successo, ma come facciamo a ricordarcene, nelle condizioni in cui eravamo?» Gli altri annuirono.

Il gruppo sedeva senza parlare, continuando ad accendersi una sigaretta dietro l’altra, finché Matthew ruppe il silenzio. «Allora, chi ha ammazzato Harald voi non lo sapete?»

Tutti insieme risposero con un deciso: «No!»

«E non avete mai usato dei pezzi di corpo, per esempio delle dita, nelle vostre stregonerie?».

Il «No!» che seguì non fu altrettanto deciso.

«E questa runa magica, non la conoscete?» domandò Matthew buttando sul tavolo lo schizzo del simbolo inciso sul petto di Harald.

Tutti insieme: «No!»

«La vostra risposta potrebbe risultare più convincente se guardaste il foglio», riprese Matthew con voce sarcastica.

«La polizia ci ha già mostrato quel disegno. Sappiamo benissimo di cosa si tratta», rispose Marta Mist, posando senza remore la sua mano sulla coscia di Halldor.

«Okay, capisco. Ma potete almeno dirci dove sono andati a finire tutti i soldi che Harald si era fatto trasferire qui in Islanda poco prima della sua morte?» li incalzò Matthew.

«Come facciamo a saperlo? Noi eravamo i suoi amici, mica i suoi commercialisti!» obiettò Marta.

«Voglio dire, aveva comprato qualcosa, o parlava di comprare qualche cosa di molto caro?» intervenne Thora rivolgendosi a Briet, che le sembrava la più malleabile.

«Stava sempre a comprare qualcosa», borbottò lei guardando con la coda dell’occhio Marta Mist e Halldor. Non appena vide la mano dell’amica sulla coscia di lui, si rigirò verso Thora e aggiunse con una smorfia maliziosa: «Se non per sé, comprava spesso qualcosa per Halldor. Loro due sì che erano amici intimi!»

Halldor si irrigidì subito. «Non è che stesse sempre lì a comprarmi delle cose. Solamente è che ogni tanto, per ringraziarmi dell’aiuto che gli prestavo, mi regalava qualcosa.»

Thora non voleva fermarsi lì. «Cosa, per esempio?»

Halldor arrossì violentemente. «Delle cose.» Poi si fece di nuovo scivolare i capelli davanti agli occhi.

Matthew si diede ancora una pacca sulla coscia, più deciso di prima. «Allora, brava gente. Ho un’idea. Marta, Briet, Brjann e Andri, voi dite di non sapere niente e non ci sembra di potervi cavare altro di bocca. Che ne dite di tornare a casa a studiare, o a lezione, o a tutto ciò che siete abituati a fare, mentre io, Thora e Halldor rimaniamo qui in pace a discutere insieme?» Ora si voltò verso Halldor. «Non ti sembra la cosa migliore da fare? Così eviteremo questa atmosfera pesante.»

«Che razza di stronzata è questa?» ululò Marta Mist. «Halldor ne sa tanto quanto noi.» Voltandosi verso di lui, gli intimò: «Tu non sei tenuto a rimanere. Noi ce ne andiamo tutti insieme».

Halldor dapprima non osò parlare, poi invece si tolse la mano dell’amica dalla coscia e si strinse nelle spalle. «Va bene.»

«Va bene cosa? Vieni con noi o no?» chiese Marta Mist inquieta.

«No! Voglio farla finita una volta per tutte. Io resto qui.»

Il volto della ragazza venne invaso da una vampata d’ira, che cercò malamente di nascondere. Si piegò verso il volto di Halldor e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio prima di andarsene. Lui annuì soprappensiero. Thora vide Marta Mist baciarlo dolcemente sulla testa, e Briet far finta di nulla. Andri e Brjann erano impegnati a spegnere le loro sigarette e ad alzarsi dal divano. Erano tutti felici di potersene finalmente andare.

22

Matthew accompagnò alla porta il gruppo, mentre Thora e Halldor rimasero seduti in quel salotto ultramoderno decorato con gli orrori del passato. Thora compativa quel ragazzo, che avrebbe chiaramente preferito trovarsi da qualsiasi altra parte in quel momento. Le ricordava suo figlio, crucciato com’era anche lui da una crisi interiore che le rimaneva oscura.

«Come ben sai, noi siamo in cerca solo della verità. Non ci interessa un bel niente di tutte le idiozie che avete praticato insieme negli ultimi tempi», gli disse per interrompere l’atmosfera impacciata e pesante che si era creata nella stanza. «A grandi linee siamo un po’ tutti d’accordo sul fatto che Hugi sia innocente, o perlomeno accusato di un reato maggiore di quello che potrebbe eventualmente aver commesso, no?»

Halldor evitò il suo sguardo. «Non credo nemmeno io alla sua colpevolezza», disse a bassa voce. «È tutto quanto un malinteso.»

«Se lo vuoi aiutare, la cosa di gran lunga migliore da fare è non nasconderci niente. Ricorda che il tuo amico non può sperare nell’assistenza di nessun altro all’infuori di noi.»

«Ah!» borbottò Halldor in tono vago.

Matthew ritornò e si lasciò cadere sulla poltrona. «Che strano gruppo di amici che ti sei fatto. E quelle due ragazze non avevano certo l’aria di volersi abbracciare, là fuori.»

«Negli ultimi giorni sono sempre stati di cattivo umore.»

«Per l’appunto. Allora, perché non veniamo subito al dunque?»

«Per me è indifferente. Voi chiedete e io cercherò di rispondervi come posso.» Poi prese l’ennesima sigaretta dal tavolo e l’accese. Thora notò che gli tremavano le mani.

«Benissimo, bravo», disse Matthew con tono paterno. «A noi interessano parecchie cose sulle quali ci serve il tuo aiuto. Per primo le ingenti spese di cui Harald si era fatto carico, poi le sue ricerche storiografiche, per le quali godeva della tua assistenza saltuaria. Che cosa ci puoi dire dei soldi spariti?»

«Soldi spariti? Guardate che io non seguivo affatto la sua situazione economica, anche se non ci voleva un genio per capire che Harald aveva denaro da buttare.» Halldor indicò gli oggetti della stanza e riprese a parlare in maniera distratta. «Pochi studenti qui abitano in appartamenti del genere. Nemmeno la sua auto scherzava, e poi lui andava spesso a mangiare fuori. Sfortunatamente, si trattava di uno stile di vita ben lontano da quello che ci potevamo permettere noi.»

«Andava a mangiare fuori da solo?» domandò Thora. «Dato che voi eravate dei poveri studenti…»

La domanda aveva evidentemente colpito nel segno. «Cioè, di solito… Beh, certe volte ci andavo anch’io, ma era lui che offriva.»

«Andava più spesso in tua compagnia che da solo, allora?» Un altro cenno affermativo. «E che cos’altro ti pagava?»

Halldor fu preso da un improvviso interesse per il portacenere, che cominciò a guardare fisso come per leggervi una risposta adatta. «Sì, anche qualcos’altro.»

«Questa non è una risposta», intervenne Thora con tono gentile. «Puoi dircelo senza problemi, non siamo venuti qui per giudicare né te, né Harald.»

Dopo un attimo di silenzio, lui rispose: «Mi pagava tutto quello che volevo, ecco com’era! L’affitto, i libri di testo, i vestiti, i taxi. La droga. Tutto quanto, insomma».

«E come mai lo faceva?» chiese Matthew.

Halldor fece spallucce. «Harald diceva di avere un sacco di soldi e di poterci fare quello che voleva; non era disposto a perdersi qualcosa che aveva voglia di fare solo perché i suoi amici erano al verde. All’inizio la cosa mi faceva star male, ma data la mia precaria situazione finanziaria, alla fine ci presi gusto. Anche perché non c’erano mai problemi di sorta. Io comunque cercavo di ripagare i suoi favori aiutandolo con le traduzioni e cose del genere.»

«Quali altre cose del genere?» insisté Matthew.

«Niente.» Il rossore sulle guance si intensificò. «Niente di sessuale, se è quello che pensate. Né io né Harald siamo… eravamo dell’altra sponda. Le donne ci bastavano e avanzavano.»

Thora e Matthew si guardarono. Le spese che Halldor stava elencando non erano che quisquilie confrontate alla somma scomparsa. «Sai qualcosa dell’investimento che Harald aveva fatto poco prima della sua morte?» chiese Matthew.

Halldor alzò lo sguardo e dall’espressione del suo viso si capiva che stava dicendo la verità. «No, non ne ho idea. Non mi aveva detto nulla. Comunque, la settimana prima dell’omicidio non l’avevo incontrato quasi per niente. Lui era occupato, mentre io dovevo studiare per recuperare il tempo perso all’università.»

«Quindi non hai idea dei suoi traffici e di chi avesse incontrato in quei giorni?» intervenne Thora.

«No, ci parlai un paio di volte al telefono e mi rispose di non essere nello spirito di fare qualcosa con me. Ma non so perché.»

«Quindi non lo vedevi da giorni, quando venne ucciso?»

«No, ve lo sto dicendo, ci avevo solamente parlato per telefono.»

«Ma non ti era sembrata una cosa strana che facesse l’eremita per tutti quei giorni? Oppure era abituato?» chiese di nuovo Matthew.

Halldor ci pensò su. «Non avevo dato importanza alla cosa allora, ma ora che me lo chiedete sì, certo, era un fatto insolito. Perlomeno non era mai successo prima, se mi ricordo bene. Gli chiesi che cosa stesse facendo, ma mi rispose solamente di aver bisogno di restare solo per qualche giorno. Però non è che fosse giù di corda, anzi, il contrario.»

«E tu non eri arrabbiato con lui?» chiese Thora. Era ben strano che lui non si fosse offeso a essere messo da parte così, senza spiegazione alcuna, considerata la frequenza dei loro incontri.

«No, niente del genere. Tra l’università e i turni in più all’ospedale, avevo ben altre gatte da pelare.»

«Tu lavori all’Ospedale Universitario di Fossvogur, non è vero?»

Halldor annuì.

«Ma come fai a lavorare là, studiare Medicina all’università e andare così spesso fuori a divertirti?»

«Non è un lavoro a tempo pieno, anzi, prendo solo dei turni sostitutivi, come vacanze estive, situazioni di emergenza, malattie e altre assenze. Per quanto riguarda gli studi, io sono una persona molto organizzata e mi è sempre riuscito facile studiare, per così dire.»

«Quali sono le tue mansioni all’ospedale?» chiese Matthew.

«Un po’ di tutto. Ufficialmente sono un assistente di sala operatoria, ma in realtà lavoro da tuttofare: disinfetto i ferri dopo gli interventi, metto a posto la sala… Niente di eccezionale.»

Matthew lo fissò negli occhi pensieroso. «Metti a posto anche qualcos’altro? Chiedo per pura e semplice curiosità. Gli ospedali li conosco poco.»

«Questo e quello», rispose Halldor mantenendosi sul vago. «Rifiuti e cose del genere.»

«Ah, capisco. Come si chiama il tuo superiore, o comunque la persona da contattare per conoscere nei dettagli le tue mansioni e cosa facevi la sera del delitto?»

Halldor si strappò qualche pellicina dalla mano sinistra, non sapendo se e cosa rispondere. «Gunnur Helgadottir», borbottò alla fine con fare seccato. «Che sarebbe la capoinfermiera della sala operatoria.»

«Una domanda», intervenne Thora mentre si appuntava il nome. «Chi ha praticato il taglio della lingua di Harald? Sei stato tu, non è vero?»

Halldor la guardò intimorito. «Perché? Che ve ne importa?»

«Ci interessa e basta. Harald conservava le foto dell’operazione nel suo computer, e si capiva benissimo che l’intervento era stato compiuto in una casa privata, probabilmente da qualcuno che lo conosceva. Non c’entra niente con la nostra faccenda, ma l’episodio ci ha incuriosito.»

Halldor li guardò titubante, e secondo Thora si stava chiedendo se una tale operazione non avrebbe richiesto un permesso speciale, o se fosse addirittura illegale. Dopo essersi morso il labbro inferiore per qualche attimo, alla fine riprese la parola: «No. Non l’ho fatto io l’intervento.»

«Potresti mostrarci gli avambracci?» chiese Thora con un sorriso, ricordandosi qualcosa che aveva detto Hugi circa il pentimento di Halldor per il tatuaggio che si era fatto fare su un braccio.

«Perché?» chiese il ragazzo appoggiandosi allo schienale del divano per aumentare di nuovo la distanza tra di loro.

«Così», rispose Matthew sporgendosi sull’orlo della poltrona. Nemmeno lui aveva la minima idea delle intenzioni di Thora. «Fai il bravo e tira su le maniche per la signora.»

Halldor diventò nerissimo in volto, ma Matthew sostenne con durezza il suo sguardo finché lui improvvisamente perse coraggio e si tirò su le maniche. «Ecco», disse con odio mostrando le braccia. Thora si piegò in avanti, controllò e sorrise. «Crap?» disse poi leggendo il tatuaggio del braccio destro, appena al di sopra del polso.

«Sì, e con ciò?» ribatté Halldor rimettendo giù le maniche.

«No, solo che è una bella coincidenza. Anche la persona che ha eseguito l’operazione alla lingua aveva un tatuaggio tale e quale il tuo.» Indicando con un sorriso il polso, Thora aggiunse: «Me lo puoi spiegare?»

«Non saprei», rispose Halldor impacciato, si passò le dita tra i capelli e socchiuse gli occhi. «Va bene, va bene, l’ho fatta io l’operazione. Eravamo a casa di Hugi. Harald aveva insistito per mesi, e alla fine ho acconsentito. I ferri li ho presi in prestito dall’ospedale, e gli anestetici li ho rubati in sala operatoria. Nessuno si è accorto di niente. Hugi mi ha dato una mano. È stato uno schifo, ci siamo coperti di sangue. Però il risultato sì che era da sballo.»

«Non so se all’ospedale sarebbero contenti se venissero a sapere che hai rubato delle medicine, dico bene?»

«No, certo che no. Per questo motivo non vorrei che il fatto trapelasse. Anche perché non so se la gente capirebbe, e io non voglio essere bollato come uno psicopatico.»

Matthew scrollò la testa e decise all’improvviso di cambiare argomento. «Tu sei sicuramente un esperto di certe cose… Ti sei accorto se per caso Harald praticasse lo strangolamento erotico, sai, per ottenere un orgasmo più accentuato?»

Halldor diventò rosso come un gambero. «Non mi metto certo a discutere queste cose con voi», tagliò corto.

«Perché no?» domandò Matthew. «Chissà, forse è proprio quello che ha portato Harald alla morte.»

Le ginocchia di Halldor andavano su e giù mentre batteva il ritmo con i piedi sul parquet a specchio. «No, non è morto così», disse a bassa voce.

«Come fai a saperlo?»

La cadenza che Halldor batteva con i piedi si fece ancora più vivace, mentre lui rimaneva in silenzio. Né Thora né Matthew dicevano alcunché, limitandosi ad aspettare. Alla fine lui tirò un profondo respiro e riprese a parlare: «Non so che diavolo c’entri, comunque conoscevo le sue perversioni sessuali, okay?»

«Come le conoscevi?» chiese Matthew freddamente.

I piedi di Halldor si bloccarono. «Perché me l’aveva detto lui stesso. Anzi, mi aveva proposto di farlo anch’io.»

«E tu l’hai fatto?» chiese Thora.

«No», fu la risposta decisa del ragazzo, alla quale Thora credette. «Di cose sballate ne faccio molte, ma quella è una delle più idiote che abbia visto.»

«Visto?» ripeté Matthew.

Halldor arrossì. «Cioè, non visto letteralmente. È stato un lapsus. Mi ci sono ‘imbattuto’, ecco la parola giusta.» Poi abbassò lo sguardo verso il pavimento. «È successo lo scorso autunno. Io mi ero addormentato su quel divano dopo un party scatenato, e mi svegliai a notte fonda sentendo dei versi strani.» Rialzò lo sguardo verso Matthew. «Non so perché mi svegliai proprio in quel momento, dato che la maggior parte delle volte rimanevo fuori combattimento fino al giorno dopo, fatto sta che aprendo gli occhi mi accorsi che Harald stava dando via l’anima! Stava letteralmente soffocando e aveva le convulsioni.» Thora si accorse che il giovane rabbrividì nel rivangare questa storia. «Gli tolsi come meglio potevo la cintura che gli stringeva il collo, ma non fu una cosa semplice, perché aveva legato l’estremità al termosifone. Poi gli feci la respirazione bocca a bocca, e lo salvai in extremis.»

«Sei sicuro che invece non stesse tentando di suicidarsi?» gli chiese Thora.

Halldor la guardò e scosse la testa. «No, non era un tentativo di suicidio. Credetemi. E non mi va di descrivervi il suo stato nei minimi particolari.» Ora era arrivato per Thora il turno di arrossire, al che Halldor sembrò riprendersi e proseguì più sicuro di prima. «Parlandone in seguito con Harald, mi spiegò senza remore quello che aveva cercato di fare. Anzi, spronò anche me a provare quel tipo di sesso, che secondo lui provocava una delle sensazioni più intense che avesse mai sperimentato. Eppure era quasi arrivato al punto di morire soffocato, e lo sapeva bene. Si era veramente spaventato, sapete?»

«Cosicché tu non credi che ci abbia riprovato?» domandò Matthew.

«No, sicuramente no. Beh, in effetti non posso esserne certo, comunque si prese un bello spavento.»

«Ti ricordi quando è stato?»

«La sera prima dell’11 settembre», fu la sua pronta risposta.

Matthew annuì, la testa piena di pensieri. Poi guardò Thora e le disse in tedesco: «Dieci giorni dopo avrebbe cambiato il suo testamento». Thora annuì, certa ormai che Halldor fosse l’erede islandese di cui si faceva cenno nell’atto. Avendogli appena salvato la vita, Harald gli sarà stato riconoscente, rifletté.

«Vi siete dimenticati che il tedesco lo capisco», Halldor disse con un sorriso maligno.

Matthew gli domandò di rimando altrettanto malignamente: «Hugi ci ha detto che Harald molto spesso ti trattava male, e addirittura davanti a tutti. Che ti umiliava, insomma. Non ti scocciava la cosa?»

Halldor sbuffò. «Bah! Harald non era, come vi ho già detto, una persona come le altre. Poteva dominarci tutti senza smettere di essere divertente. Di solito con me era un angelo, soprattutto quando eravamo noi due soli, mentre qualche volta, in compagnia, si comportava come un bastardo. Io non me la prendevo per niente, anche perché Harald dopo mi chiedeva sempre scusa.»

Thora era del parere che si trattasse di una menzogna, poiché si vedeva chiaramente che il ragazzo quegli scherzi non li sopportava affatto. Ma non sarebbe servito a niente continuare a fargli domande sulla questione. «Riguardo invece alle ricerche di Harald, che cosa puoi dirci di importante? Potresti descriverci che genere di assistenza gli fornivi?»

Halldor rispose immediatamente, risollevato dal cambiamento di rotta. «Lo aiutavo con le traduzioni, e qualche volta con le ricerche, ma era lui ad andare un po’ dappertutto, anche in luoghi con cui non vedevo alcun nesso. Certo, non sono uno storico e non mi intendo di storiografia, ma lui saltava da un argomento all’altro. Per esempio, mi chiedeva di tradurgli un documento e all’improvviso mi faceva passare a tutt’un altro testo, e così discorrendo.»

«Potresti farci qualche esempio di materiale a cui era interessato?» domandò Matthew.

«Sì, a grandi linee. All’inizio tradussi alcuni capitoli della tesi di dottorato di Olina Thorvardardottir sull’epoca dei roghi contro gli stregoni, poi Harald seppe che nell’antica sede culturale di Skalholt alcuni libri sulla magia circolavano in segreto fra i seminaristi. Se ben ricordo, aveva sottomano anche un’epistola scritta in danese, che non potei tradurgli alla perfezione perché in quella lingua non sono molto ferrato. Comunque feci del mio meglio. Si parlava di un messaggero e di un qualcosa che non capii bene, ma doveva essere della massima importanza, visto che da quel momento Harald cambiò completamente il corso delle sue ricerche. Dalle persecuzioni contro chi praticava la magia nera passò al secolo precedente, o giù di lì. Ricordo di avergli tradotto un testo proveniente dalla Descrizione d’Islanda di Oddur Einarsson, vescovo di Skalholt, risalente al 1590. L’argomento era il vulcano dell’Hekla e la storia di un uomo che impazzì per averlo scalato e aver guardato dentro il cratere. Harald aveva un interesse particolare per l’eruzione dell’Hekla del 1510, per il vescovo Jon Arason e la sua decapitazione nel 1550, e per il vescovo Brynjolfur Sveinsson. E poi di colpo volle sapere tutto sugli eremiti irlandesi, tornando indietro di parecchi secoli dal punto in cui era partito. Quando venne ucciso praticamente era tornato alle origini, cioè all’epoca della colonizzazione del Paese.»

Dall’elencazione delle date era evidente che il ragazzo aveva una memoria di ferro. Non era perciò strano che procedesse negli studi universitari nonostante le pazzie notturne, pensò Thora e gli chiese: «I monaci irlandesi?»

«Sì, quelli che i vichinghi chiamavano volgarmente i ‘papi’.»

«Va bene», disse Thora senza sapere come continuare l’interrogatorio. All’improvviso si ricordò del povero Gunnar. «Quell’antica epistola danese, sai per caso da dove veniva o dove sia andata a finire?»

«Non ho assolutamente idea dove l’avesse trovata, anche se di lettere antiche ne aveva altre che stava sempre a confrontare con quella. Le teneva in una cartella di pelle, ma quella danese no. Si deve trovare da qualche parte qui dentro.»

«Conosci per caso un certo Mal?» chiese Matthew di punto in bianco.

«No, non l’ho mai sentito nominare. Perché?»

«No, niente», glissò Matthew.

Halldor stava per aggiungere qualcos’altro, quando il cellulare gli squillò nella tasca. Lo estrasse, guardò il display, fece una smorfia di dispetto e lo rimise a posto.

«Mammina?» chiese Matthew sghignazzando.

«Appunto», rispose Halldor in tono amareggiato.

Il bip di un sms risuonò nella tasca. Halldor non diede cenno di voler riprendere il telefonino per leggerlo, cosicché Thora porse la domanda successiva. «Sai qualcosa di una specie di libro degli ospiti che Harald avrebbe potuto possedere o di cui ti avrebbe parlato? Il libro degli ospiti della croce?»

Halldor la guardò con sguardo vacuo. «La croce era una setta religiosa?»

«Non ne hai mai sentito parlare?»

«Mai.»

Matthew strinse i pugni. «Dicci ora del corvo che Harald stava cercando.»

Il pomo d’adamo di Halldor ebbe un sussulto evidente. «Il corvo?» ripeté con voce stridula.

«Sì, l’uccello», intervenne Thora. «Sappiamo che stava cercando di comprarsi un corvo. Sai per quale motivo?»

«No. Forse gli piaceva l’idea: sono uccelli stupendi.»

Thora era convinta che stesse mentendo, ma non sapeva come smascherarlo. Matthew cambiò ancora argomento perché voleva arrivare alla conclusione. «Sai qualcosa circa un viaggio di Harald a Holmavik, per visitare il Museo della Magia di Strandir?»

«No», rispose Halldor, mentendo chiaramente di nuovo.

«E di un pernottamento all’Hotel Ranga a sud?» chiese Thora.

«No.» Altra bugia.

Matthew si rivolse alla sua socia. «Strandir, Ranga. Perché non ci facciamo un bel viaggetto?» L’espressione di Halldor rivelava una palese disapprovazione per i loro progetti di viaggio.

23

Halldor respirò di sollievo quando uscì in fretta dall’appartamento. Oltrepassato il cancello e arrivato sul marciapiede, si girò per controllare se Matthew o Thora lo seguissero con lo sguardo dalla finestra, ma nessuno dei due era in vista. Invece gli sembrò di scorgere la tendina di una finestra al piano di sotto muoversi leggermente, e maledì la curiosità della vicina. Non era cambiata per niente quella maledetta cagna rinsecchita che non lasciava mai in pace Harald, e si lamentava al minimo colpo di tosse e a ogni sospiro. Dopo uno dei primi party che avevano organizzato l’estate passata, Halldor era stato mandato ad aprire la porta la mattina dopo per accogliere la ventata di proteste della donna, e Dio sa quanto quella cianciava. Lui era talmente in preda ai fumi dell’alcol che ogni parola gli faceva l’effetto di una martellata sulla fronte, e alla fine aveva dovuto spingere di lato la signora per mettere fuori la testa e vomitare. Il che aveva orripilato la poveretta, come è logico, eppure quella sera stessa Harald aveva potuto chissà come placarla. Lui invece da quella volta era stato costretto a infilarsi in casa di Harald sempre in tutta segretezza, con gran divertimento del resto della compagnia.

Il cellulare suonò. Halldor lo estrasse dalla tasca e vide che si trattava ancora di Marta Mist. Ora rispose: «Che c’è?»

«Hai finito?» disse lei impaziente e innervosita. «Ti stiamo aspettando, vieni.»

«Dove?» Halldor in realtà non aveva alcuna voglia di incontrarli proprio ora. Avrebbe preferito di gran lunga andarsene a casa e stendersi nel suo letto, ma sapeva che quella rompiscatole non gli avrebbe dato pace. Marta Mist l’avrebbe chiamato in continuazione e alla fine si sarebbe presentata a casa sua, se non le avesse risposto. Meglio tagliare corto subito.

«Al 101, fa’ in fretta.» Lei riattaccò e Halldor si incamminò. Faceva freddo e lui era ormai allo stremo delle forze. Prima di quanto si aspettasse era arrivato all’entrata dell’albergo, dove si scrollò di dosso la neve che gli era caduta addosso lungo la strada. Poi aprì la porta ed entrò. Ovviamente sedevano tutti nel reparto fumatori, alcune tazze di caffè sul tavolino davanti a loro assieme a un boccale di birra. Halldor ebbe una voglia improvvisa di birra anche lui, si avvicinò al gruppo e si sedette in una poltrona, benché sia Marta Mist sia Briet si fossero spostate per fargli spazio in mezzo a loro. Ma ora non poteva nemmeno pensare alla loro vicinanza.

Le due ragazze non fecero trasparire la loro delusione per la scelta dell’amico, e si rispostarono lentamente l’una accanto all’altra per riempire lo spazio vuoto senza dare nell’occhio. Marta Mist era esperta nel mantenere la calma e il contegno. Erano rare le occasioni in cui mostrava i propri sentimenti, tranne una rabbia smisurata e il disprezzo. Ma di farsi ferire nell’orgoglio non se ne parlava affatto. «Perché diavolo non mi hai risposto al telefono?» domandò irritata. «Stiamo aspettandoti qui con il cuore in gola per ricevere tue notizie, e tu niente.»

«Che vi prende? Stavo parlando con quegli avvocati. Che cosa vi avrei dovuto dire al telefono?» Nessuno rispose, tanto che Halldor ripeté la domanda: «Eh? Che cosa vi avrei dovuto dire?»

«Che diamine, almeno potevi rispondere al maledetto messaggino che ti ho mandato, no? Che fatica ti faceva?» insisté Marta.

«Oh, sì, come no!» replicò Halldor sarcastico. «Avrei proprio fatto un’ottima figura. Chi pensi che sia, un ragazzino di dieci anni?»

Brjann intervenne nel battibecco. «Che ti è successo? Non ti senti bene?» disse sorseggiando la sua birra.

Quella visione fu la goccia che fece traboccare il vaso. Halldor fece un cenno al cameriere e si ordinò una birra grande. Poi si voltò di nuovo verso il gruppo. «È andata bene, non vi preoccupate. Hanno sì dei sospetti, ma niente di preoccupante.» Con le dita della mano destra cominciò a dare colpi ritmati sul bordo del tavolino, mentre con la sinistra cercava il pacchetto di sigarette nelle tasche della giacca, senza però trovarle. «Ho dimenticato le sigarette da qualche parte. Me ne potete prestare?»

Briet gli porse il suo pacchetto, e Halldor sospirò dentro di sé. Non sopportava quelle sigarette al mentolo, da donna, bianchissime e sottilissime. Ciò nonostante afferrò il pacchetto e ne tirò fuori una. Peccato che Marta si fosse arrabbiata con lui, altrimenti le avrebbe scroccato le Marlboro. Dopo una tirata, scrollò il capo. «Come fai a fumare questo schifo?»

«Alcuni dicono anche ‘grazie’, sai?» ribatté Briet piccata.

«Scusa. È che sono un po’ stressato.» Finalmente arrivò la birra e, dopo essersi bevuto un bel sorso, Halldor tirò un’altra lunga boccata, soffiò fuori il fumo dalle guance gonfie e fece un sospiro di sollievo. «Aaah, ora sì che va meglio.»

«Ma a loro non hai detto niente, no?» riprese Marta Mist, che si era già calmata dalla sfuriata di prima.

Halldor scosse il capo bevendo un’altra sorsata. «No, niente di importante. Ovviamente ho raccontato loro un sacco di cose, anche perché non facevano che bombardarmi di domande e dovevo pur rispondere.»

Marta lo guardò pensierosa e poi annuì visibilmente riconciliata. «Sicuro sicuro?»

Halldor le fece l’occhiolino per sottolineare l’avvenuta riconciliazione. «Sicurissimo, non ti preoccupare.»

Marta Mist sorrise. «Che eroe!»

«Che altro?» rispose lui in maniera mezzo ironica, mezzo seria, sventolando davanti al suo volto la fine sigaretta che stava fumando. «Non ti sembro un vero paladino?»

Andri sogghignò e lanciò sul tavolino, in direzione di Halldor, un pacchetto delle sue sigarette. «Cosa credi che faranno adesso? Hanno intenzione di incontrarci di nuovo oppure no?»

«No, ne dubito proprio», rispose Halldor.

«Benissimo», esclamò Brjann. «Speriamo che facciano delle ricerche sconclusionate e che alla fine si arrendano.»

Briet era l’unica che non era tornata di buonumore. «Ma che ne sarà del povero Hugi? Lo avete del tutto dimenticato?» disse guardandoli scandalizzata.

Il sorriso scomparve dalle labbra di Halldor. «No, certo che no.» Il sorso di birra che bevve ora non aveva lo stesso buon sapore di prima.

Marta Mist diede un colpo deciso con il gomito sull’avambraccio di Briet che emise un gemito di dolore. «Che ti prende, pensi che si arrenderanno? Qualcosa alla fine riusciranno a trovarla. L’importante è che noi non ci impegoliamo ancora di più in questa faccenda. Perché devi essere sempre così negativa?»

«Qui in Islanda nessuno viene condannato per un omicidio che non ha commesso. Verrà assolto, credetemi», affermò Andri con sicurezza.

«Ma dove sei vissuto fino a ora?» chiese Briet, che non si era rassegnata a ubbidire nonostante il dolore al braccio. Non era da lei opporsi con tenacia a Marta Mist, ma ora non poteva fare a meno di mostrare il suo dissenso con Halldor. «Stanno sempre a condannare degli innocenti, qui da noi. Non ti ricordi, per esempio, del caso Geirfinnur?»

«Smettetela di litigare», disse Marta Mist senza togliere lo sguardo da Halldor. «Andrà a finire tutto per il meglio, non vi preoccupate. Ora andiamocene a prenderci qualcosa da mangiare. Sto morendo di fame.»

Si rimisero tutti in piedi e cominciarono a raccogliere le loro cose. Quando il gruppo si avviò alla cassa per pagare, Marta Mist prese in disparte Halldor. «Tu comunque ti sei liberato di tutto quanto, non è vero?»

Lui evitò il suo sguardo, ma la ragazza lo prese per il mento e lo costrinse a guardarla negli occhi. «Te ne sei sbarazzato, sì o no?»

Halldor annuì. «Ho buttato via tutto. Non ti preoccupare.»

«Io al momento non oso neppure tenermi dentro casa uno spinello. Spero che la cosa valga anche per te. Se quei due si mettono a incasinare le cose, alla polizia potrebbe venire in mente di mettersi a perquisire i nostri appartamenti o chissà cosa. Sei sicuro di aver fatto scomparire proprio tutto?»

Halldor si rimise diritto, la guardò negli occhi e le disse con voce ferma e decisa: «Te lo giuro. È tutto sparito».

Marta Mist sorrise e gli lasciò andare il mento. «Vieni, andiamo a pagare.»

Halldor la guardò allontanarsi. Curioso, gli aveva creduto. Di solito capiva subito se qualcuno le mentiva in faccia. Probabilmente stava diventando un provetto bugiardo. Notevole!


Thora cercò di non farsi intimidire dalle folte sopracciglia dell’uomo che le sedeva davanti. Lei e Matthew si trovavano nell’ufficio di Thorbjörn Olafsson, che avrebbe dovuto fare da relatore della tesi di master di Harald. «Grazie infinite per averci voluto ricevere», disse con un ampio sorriso.

«Di niente, di niente», rispose Thorbjörn. «Ma se volete ringraziare qualcuno, fatelo con Gunnar, è stato lui a organizzare questo incontro. Certo che vi state dando parecchio da fare, per essere venuti da me con così poco preavviso.» Thorbjörn in effetti aveva telefonato loro pochi minuti dopo che Halldor aveva lasciato l’appartamento di Harald, e i due avevano deciso all’istante di incontrarlo senza perdere tempo. Thorbjörn posò sulla scrivania la matita che si era passato tra le dita. «Che cos’è che vi interessava sapere da me?»

Thora decise di parlare per prima. «Suppongo che Gunnar le abbia spiegato i nostri rapporti con Harald.» Thorbjörn annuì e lei continuò: «Ci piacerebbe conoscere il suo parere su Harald, sui suoi studi e soprattutto sui suoi svariati campi di ricerca.»

L’assistente rispose con una risata. «Non posso proprio dire che lo conoscessi. Non è da me frequentare molto i miei studenti al di fuori dell’ambito scolastico. Non mi interessa per niente. L’unica cosa che mi riguarda è la loro carriera di studenti, mentre come individui non me ne importa un bel niente.»

«Però dovrebbe essersi fatto una qualche idea del ragazzo, no?» insisté Thora.

«Certo che me la sono fatta. Come carattere mi era sempre sembrato un tipo strano, e non solo per l’aspetto esteriore. Ma a me non faceva né caldo né freddo, diversamente da Gunnar che proprio non lo sopportava. Anzi, vi dirò che provavo un certo piacere nell’avere con me un tipo totalmente diverso dal resto degli studenti. Anche perché nelle sue ricerche si impegnava a fondo ed era molto concentrato: le uniche cose che chiedo ai miei ragazzi.»

Thora sollevò le sopracciglia. «Concentrato? A quanto ci ha rivelato Gunnar, il lavoro del ragazzo era alquanto disorganizzato.»

Thorbjörn sbuffò. «Gunnar è uno della vecchia scuola. Harald no. Gunnar vuole che gli studenti si attengano al tema prescelto e non escano dai binari prestabiliti. Harald era invece il tipo che piace a me. Partiva per una pista e si fermava a consultare tutte le vie traverse, anche quelle meno importanti. Certo, in questo tipo di ricerche non si sa mai dove si arriverà, e la cosa richiede molto più tempo. Di contro ne escono fuori molto spesso delle belle sorprese.»

«Quindi vuole dire che Harald non aveva affatto cambiato l’argomento della sua tesi, come ritiene Gunnar?» chiese Matthew.

«Assolutamente no. Gunnar sta sempre sulle spine per qualunque cosa, convinto che il mondo stia andando in malora. Chissà, forse era preoccupato che Harald facesse il nido qui all’università e non terminasse mai la ricerca. Cose del genere succedono spesso qui da noi.»

«Potrebbe fornirci delle informazioni più dettagliate sull’argomento del saggio che Harald stava scrivendo?» chiese Thora. «Noi stiamo indagando su possibili collegamenti tra l’omicidio e il suo interesse per la magia.»

Toccava a Thorbjörn ora sollevare le sopracciglia. «Dite sul serio?» Thora e Matthew annuirono. «Ma pensa un po’. Sarebbe proprio bella. La storiografia non è certo un ambiente tanto eccitante da far commettere dei delitti! Comunque, Harald voleva mettere a confronto le persecuzioni contro le streghe in Islanda e quelle europee. Come sicuramente già saprete, qui da noi furono quasi esclusivamente uomini quelli che vennero condannati al rogo, al contrario di quanto accadeva in Europa. Questa doveva essere, più o meno, la conclusione della sua ricerca. Dal momento che della caccia alle streghe in Europa già sapeva moltissimo, si era dedicato allo studio delle fonti qui in Islanda e alla storia del periodo. A mio parere era già arrivato ad avere un’ampia visione d’insieme dell’argomento prima di venire assassinato.»

«Ma che cosa ci può dire sulle vie traverse di cui parlava prima?» domandò Matthew.

Thorbjörn ci pensò su. «Dapprima era interessato al vescovo Jon Arason e alla stamperia che aveva fatto venire in Islanda. All’inizio non capivo il nesso tra la tipografia e la caccia alle streghe, ma gli permisi di proseguire. Poi da quelle ricerche passò a Brynjolfur Sveinsson, vescovo di Skalholt. La cosa mi rallegrò.»

«Perché, si collegava con le persecuzioni, per caso?» chiese Thora.

«Ovviamente», rispose Thorbjörn. «Era lui il vescovo in quel periodo, e aveva una fama di persona mite e tollerante. È cosa risaputa che avesse evitato la condanna al rogo di alcuni seminaristi di Skalholt, nelle cui dimore era stato rinvenuto un opuscolo contenente formule magiche. Approfondendo invece le ricerche, si venne a scoprire l’altro verso della medaglia. Per esempio, non aveva fatto nulla per porre un freno all’operato di suo cugino, don Pall di Selardalur, che era uno dei promotori più ferventi della caccia alle streghe locale. Nella giurisdizione di quel parroco vennero addirittura mandate al rogo sette persone sospettate di aver provocato delle malattie nella fattoria di sua proprietà.»

«Harald era particolarmente interessato all’opuscolo a cui accennava?» domandò Matthew.

Thorbjörn scrollò il capo lentamente. «No, non mi pare affatto. Si tratta di un volume comunemente nominato Skalholtskraeda, che significa ‘il libretto di Skalholt’, ed è probabile che il vescovo Sveinsson l’avesse distrutto già a suo tempo, anche se si era ricopiato per sé le ottanta rune magiche descritte, se ben ricordo. Harald invece aveva un interesse morboso per la biblioteca privata del religioso, che comprendeva libri e codici di vario genere e interesse. Anche la sua storia personale aveva attratto la sua attenzione, com’è ovvio.»

«Come mai?» domandò Matthew allargando le braccia. «Io di storia islandese non ne so proprio niente.»

Thorbjörn gli rivolse uno sguardo di commiserazione. «Per farla breve, il vescovo ebbe sette figli, di cui solamente due sopravvissero all’infanzia, Ragnheidur e Halldor che però morì giovane», cominciò a spiegare. «Ragnheidur concepì un figlio illegittimo nove mesi dopo che suo padre le aveva fatto giurare, alla presenza di numerosi preti, che era ancora vergine immacolata. Il giuramento era stato necessario per controbattere le voci che la ragazza avesse una relazione sessuale con un giovane assistente di suo padre, un certo Dadi. Il figlio che nacque da quell’unione venne lasciato in affido ai parenti del padre, e Ragnheidur morì alcuni anni dopo, mentre Brynjolfur Sveinsson si trovava all’estero per motivi di studio. Il vescovo tornò così a prendersi l’unico discendente che gli era rimasto, Thordur figlio di sua figlia, che aveva ormai sei anni. Il bambino divenne immediatamente il pupillo dei nonni, ma la moglie di Sveinsson morì tre anni dopo l’arrivo del piccolo a Skalholt. E per coronare il ciclo di sventure, il povero Thordur morì di tubercolosi all’età di dodici anni. Al che il vescovo, una delle figure più importanti dell’intera storia nazionale, rimase solo, senza famiglia e senza discendenti. Harald mi sembrò affascinato da questa triste vicenda, e dalle interpretazioni a cui la si poteva sottoporre. Se il vescovo, per esempio, si fosse rivelato più tollerante verso sua figlia nel momento del bisogno, probabilmente le cose sarebbero andate meglio per lui e per tutta la sua famiglia. Ragnheidur infatti aveva reagito all’affronto con l’affronto, cioè aveva dovuto giurare pubblicamente alla Chiesa di essere vergine, ma la sera stessa si era incontrata con Dadi per vendicarsi dell’umiliazione inflittale dal suo stesso padre.»

«Non mi sorprende l’interesse di Harald per questa storia», disse Thora. Di certo il ragazzo aveva compatito la povera Ragnheidur. «Stava per caso ancora studiando la vita di Brynjolfur Sveinsson quando venne ucciso, oppure era già passato a qualche altro argomento?»

«Se mi ricordo bene, il suo interessamento per il vescovo era diminuito, dopo che ne aveva indagato la vita per filo e per segno. In ogni modo, mi è stato detto che la settimana precedente il delitto si era preso un periodo di vacanza, cosicché non saprei dire che cosa stesse facendo negli ultimi tempi.»

«Lei sa se Harald, oltre agli studi, fosse venuto in Islanda per altri motivi personali? Se stesse cercando, tanto per dire, qualche reperto antico, che potesse avere un valore storico?» domandò Matthew.

Thorbjörn rise. «Intende dire una specie di tesoro? No, non avevamo mai discusso una cosa del genere. Harald sembrava avere i piedi per terra. Era uno studente di ottimo livello e con me la collaborazione era ottima. Non fatevi ingannare dalle lagnanze di Gunnar.»

Thora decise di cambiare argomento e passare alla riunione del corpo insegnante che si era svolta nell’edificio la sera fatidica.

«Ai vostri ordini», disse Thorbjörn. Il lampo di ironia era ora scomparso dai suoi occhi. «Eravamo qui quasi tutti, noi insegnanti del dipartimento. State per caso facendo delle insinuazioni o cosa?»

«No, assolutamente no», rispose Thora senza indugi. «Chiedevo solamente, nella debole speranza che vi foste accorti di qualcosa che possa aiutare le nostre indagini. Qualcosa a cui non avevate fatto caso allora, e quindi non era stato riferito agli inquirenti. Spesso certe cose si ricordano molto più tardi.»

«Dubito che possiamo farlo. Eravamo andati via da un pezzo quando il colpevole entrò, se ho ben capito la ricostruzione della polizia. Brindavamo alla domanda di collaborazione, tramite il programma Erasmus, con un’università norvegese. E dato che non siamo certo conosciuti per dare feste emozionanti, potete immaginare che per mezzanotte ce ne eravamo già tornati tutti a casa.»

«Ne è proprio sicuro?» chiese Matthew.

«Sicurissimo al cento per cento. Sono stato io l’ultimo a uscire e a mettere l’allarme. Se qualcuno fosse rimasto lì dentro, l’allarme sarebbe scattato immediatamente in tutto l’edificio. Lo so bene perché è capitato proprio a me, e non è stata una bella esperienza, ve lo posso garantire.» Poi guardò fisso Matthew, che non appariva convinto, e aggiunse: «Il rapporto stampato del sistema d’allarme lo conferma».

«Non ne dubito», ribatté Matthew senza battere ciglio.

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