10 dicembre 2005

24

Come annunciato dalle previsioni del tempo, la sera precedente, era una splendida giornata. Si trovavano negli uffici della Scuola di Volo, dove il giorno prima Thora e Matthew avevano prenotato il noleggio di un biplano. Matthew era impegnato nella compilazione dei vari formulari per il pilota mentre Thora approfittava dell’occasione per sorseggiare la tazza di caffè offerta dalla scuola. Il prezzo del volo l’aveva sorpresa in positivo, dato che il tragitto per Holmavik — un paio d’ore fra andata e ritorno — costava meno che recarvisi in auto e pernottare nell’albergo del paese. Anzi, le avevano addirittura offerto un prezzo scontato se avessero accettato di farsi pilotare da uno studente di volo. Thora aveva deciso di viaggiare al prezzo intero.

«Va bene, allora siamo quasi pronti per partire», disse il pilota con il sorriso sulle labbra. La sua giovane età dimostrava che non era certo passato molto tempo da quando lui stesso veniva «noleggiato» a prezzo scontato.

Partirono dall’aeroporto interno di Reykjavik, che dall’alto appariva ben più grande che da terra. Matthew guardava con interesse il panorama sottostante, mentre Thora preferiva tenere lo sguardo fisso in avanti. Dopo meno di un’ora avvistarono l’aeroscalo di Holmavik. Thora si rese conto che era una pista d’atterraggio di quelle ghiaiose, tipiche dei paesini di campagna, con una baracca a fare da scalo. L’aeroporto era nelle immediate vicinanze del villaggio, dall’altra parte della statale. Il pilota sorvolò a bassa quota la pista per controllarne le condizioni, poi virò soddisfatto e compì un atterraggio morbido. I tre si tolsero le cinture di sicurezza e uscirono.

Matthew tirò subito fuori il suo cellulare. «Qual è il numero della stazione dei taxi», chiese al pilota.

«Stazione dei taxi?» rispose quello ridendo di cuore. «Qui non c’è nemmeno il taxi, figuriamoci la stazione. Guardate che dovete andare a piedi.»

Thora rise assieme al pilota come se lo sapesse benissimo pure lei, anche se in cuor suo aveva sperato che qualcuno li accompagnasse al Museo della Magia. «Vieni, non è lontano», disse a Matthew, trascinandolo via prima che esternasse la sua contrarietà. I due attraversarono la statale, completamente deserta, fino alla stazione di servizio e al negozietto lì di fronte. Entrarono dal benzinaio e chiesero informazioni sulla strada da fare. La ragazzina che lì servì si dimostrò molto gentile e uscì perfino fuori dal negozio per indicare loro il percorso, qualche centinaio di metri al massimo. Non avrebbe potuto essere più facile: dritti per la strada principale, poi al lungomare e lì, accanto all’imbocco del porticciolo, il museo. Un edificio nero, con il tetto verde di torba, che si poteva vedere già da lontano.

«Mi rivengono in mente le foto del computer di Harald quando vedo queste strade», disse Thora incamminandosi, lo sguardo che si posava qua e là per osservare il panorama.

«C’erano molte foto scattate qui? Foto importanti, intendo dire.»

«No, niente di interessante. Le tipiche foto turistiche, eccetto quelle scattate dentro il museo, dove tra l’altro è vietato fotografare», proseguì costeggiando la lastra di ghiaccio che occupava quel tratto di strada. «Attento!» disse a Matthew, che la scavalcò con una falcata. «Le tue scarpe non sono certo adatte a questo tipo di strade», commentò guardandogli le lucide scarpe nere, in stile con il resto del suo abbigliamento: pantaloni ben stirati, una camicia e un cappotto di lana che gli cadeva a pennello sopra il ginocchio. Lei invece indossava un paio di jeans, delle scarpe da passeggio e il giubbotto di piumino che Matthew detestava. Lui aveva evitato di criticarlo apertamente, accontentandosi di sollevare le sopracciglia quando era andato a prenderla e Thora si era infilata a fatica dentro l’auto, il busto triplicato di volume.

«Non mi sarei mai immaginato di dover fare della strada a piedi», rispose Matthew irritato. «L’uomo mi avrebbe dovuto avvisare ieri.» Con «l’uomo» intendeva dire la persona con la quale aveva parlato il giorno precedente, per assicurarsi di non trovare il museo chiuso.

«Ti fa bene una bella passeggiata, e ti insegna a non fare sempre lo snob», riprese Thora. «Qui in Islanda non serve a niente mettersi gli abiti buoni. Ora sbrigati, sennò ti trascino in paese e ti faccio comprare un maglione di lana!»

«Quello mai!» esclamò Matthew. «Dovresti prima passare sul mio corpo.»

«Quel giorno verrà prima che te ne accorga», disse Thora di rimando. «Ma non hai freddo così? Vuoi che ti presti il mio di maglione?»

«Ho già prenotato l’albergo di stasera, l’Hotel Ranga», lo informò Matthew per cambiare immediatamente discorso. «Lì intendo prendermi a noleggio una jeep invece dell’utilitaria che stiamo usando.»

«Vedi? Stai per diventare un islandese purosangue.»

Finalmente giunsero al museo, senza nemmeno cadere sul ghiaccio. Dall’esterno pareva un edificio vecchio stampo. Lo spiazzo antistante l’entrata era circondato da un basso muretto di pietre ricoperto di sabbia marina, con dei tronchi d’albero sparsi qua e là dalle maree. La porta del museo invece era rosso fiammante, per nulla in tono con il colore ocra della costruzione. Su una panchina di legno accanto all’entrata c’era un corvo ben pasciuto, che al loro arrivo guardò in alto, spalancò il becco ed emise un suono gracchiante. Poi sbatté le ali e svolazzò sul frontone del tetto, da dove li seguì con lo sguardo mentre entravano. «Molto appropriato», disse Matthew aprendo la porta rossa a Thora.

All’interno videro subito il bancone della cassa sulla destra e davanti a loro la bacheca con i prodotti e i souvenir in vendita per i visitatori, il tutto molto lindo e ben curato. Dietro il bancone sedeva un giovane che sollevò lo sguardo dal giornale. «Buongiorno. Benvenuti al Museo della Magia di Strandir.»

Thora e Matthew sì presentarono, e il ragazzo spiegò che li stava appunto aspettando. «Io sono qui solamente di riserva», aggiunse dando loro la mano e presentandosi a sua volta. «Thorgrimur…» La sua stretta era di quelle di un tempo, forte e rassicurante. «Il soprintendente del museo si è preso un anno sabbatico, spero che la cosa non vi crei un problema.»

«No, va benissimo», rispose Thora. «Da quello che ci risulta, eri qui tu lo scorso autunno, vero?»

«Sì, ho cominciato a lavorare qui a luglio.» Poi guardò Thora con curiosità e disse: «Posso chiederle perché mi sta facendo questa domanda?»

«Come il signor Reich le ha già detto al telefono ieri, stiamo facendo delle ricerche su una persona che aveva come hobby la magia. Ci risulta da altre fonti che si sia recato fin quassù lo scorso autunno, e ci è venuto in mente di venire a vedere questo posto, nella speranza di ottenere ulteriori informazioni sulle sue abitudini. Anche perché penso proprio che lei si ricordi di lui.»

Il custode si mise a ridere. «Non ne sarei così sicuro. Qui vengono molti visitatori.» Poi si rese conto che loro due erano al momento gli unici ospiti del museo, e si affrettò ad aggiungere con tono imbarazzato: «In questo periodo ovviamente non c’è quasi nessuno, ma nell’alta stagione è pieno di turisti.»

Matthew gli inviò un blando sorriso. «Sa, questa persona è una di quelle che non si dimenticano facilmente. Si tratta di uno studente di Storia originario della Germania, con un aspetto non certo ortodosso. Si chiamava Harald Guntlieb ed è stato ucciso poco tempo fa.»

Il volto di Thorgrimur si illuminò. «Ah sì, quello che era tutto… come dire… tutto decorato!»

«Sì, se si può parlare di decorazioni…» assentì Thora.

«Certo, me lo ricordo benissimo. Venne quassù con un altro tizio, il quale però non se la sentì di entrare perché aveva i postumi di una sbronza. L’omicidio è comparso spesso sui giornali, eh?»

«Sì, esattamente», disse Matthew. «Il suo compagno, quello reduce dalla sbornia, sa forse chi era esattamente?»

Il custode scosse il capo. «Non direi, comunque il vostro amico me lo presentò come un dottore quando ci congedammo, però credo che stesse solo scherzando. Infatti dovette svegliarlo con urla e botte prima di andarsene. Io li guardai dalla soglia del museo e pensai che non aveva per niente l’aria del medico, stravaccato com’era sulla panca di fuori e ancora mezzo ubriaco.»

Thora guardò Matthew e i due si scambiarono un’occhiata d’intesa. Era Halldor, non c’erano dubbi.

«Si ricorda cos’altro avvenne durante la loro visita?» chiese Thora.

«Sì, quel tizio mi colpì perché sapeva parecchie cose. A me piace molto ricevere la visita di gente con una profonda cultura storica, soprattutto nei confronti della storia della magia nera. Di solito chi viene quassù non sa un bel niente, e quasi nessuno conosce più ormai la differenza tra uno spettro e una larva, tanto per dire.» E dallo sguardo dei suoi interlocutori, Thorgrimur capì che i due facevano parte di quest’ultimo gruppo. «Che ne dite se cominciamo a visitare il museo, in modo che io possa spiegarvi a grandi linee gli oggetti presenti nella nostra mostra permanente? In seguito possiamo discutere del vostro amico.»

Thora e Matthew si guardarono reciprocamente, fecero spallucce e seguirono il ragazzo dentro il museo.

«Non so bene quanto siate al corrente di queste faccende, quindi comincerei da una spiegazione dello sfondo culturale della magia.» Thorgrimur si diresse verso una parete dalla quale pendeva la pelliccia di un piccolo animale. La pelle era voltata verso il muro, e sul retro era stata disegnata una runa magica molto più complicata di quella incisa sul corpo di Harald. Sotto la pelle era stato affisso al muro un cassettino di legno che assomigliava a una specie di antico portapenne. Ne spargevano dei ciuffi di capelli, tra i quali si intravedeva una moneta d’argento. Nel coperchio era tracciata una runa magica molto semplice e vi era posato un mostriciattolo che assomigliava a un piccolo porcospino.

«Durante l’epoca della stregoneria, il tenore di vita del popolino qui da noi era assai misero. Poche famiglie possedevano la stragrande maggioranza delle terre, mentre il resto della gente viveva in condizioni spaventose. Per uscire dallo stato di indigenza che regnava più o meno in tutti gli strati sociali, l’unica via concepibile era il ricorso alle arti magiche e alle forze sovrannaturali. A quei tempi la magia era considerata un dato di fatto incontrovertibile, anche perché la presenza del diavolo tra la gente comune e la sua opera di tentazione erano riconosciute come reali e tangibili.» Il custode si voltò verso la pelle appesa alla parete. «Ecco qui l’esempio di un incantesimo per l’arricchimento personale, chiamato ‘elmo circolare’. Il rito magico richiedeva la pelle di un gatto nero maschio, su cui bisognava disegnare questa runa a forma di elmo, con il mestruo di una vergine.»

Matthew corrugò la fronte e sporse la testa per vedere se per caso Thorgrimur stesse toccando con le dita il segno sulla pelle. Questi se ne accorse e gli disse con aria di sufficienza: «Qui abbiamo adoperato inchiostro rosso scuro». Poi continuò le sue spiegazioni: «Invece di un gatto, per una migliore riuscita della magia molti speravano di cacciare un animaletto misterioso, una specie di roditore che nella credenza popolare si diceva abitasse sulle spiagge dell’isola ed era perciò chiamato ‘topo del bagnasciuga’. Per catturarlo bisognava adoperare una rete da pesca fatta con i capelli di una vergine». Thora vide Matthew sfiorargli di nascosto i lunghi capelli ben pettinati. Fece attenzione a non mettersi a ridere e gli colpì leggermente la mano per farlo smettere. «Poi bisognava preparare un nido per il topolino, una specie di tana di legno e capelli, metterci una moneta rubata e aspettare che il roditore vi portasse il tesoro pescato in mare. Infine si doveva mettere sopra il nido un elmo circolare per impedire che il topo scappasse e provocasse una burrasca.»

Il cicerone si voltò verso di loro. «Non era certo un semplice abracadabra.»

«No», concordò Matthew indicando un’altra parete, con una teca che sembrava contenere i resti di una persona. «Che diamine è quello?»

«Ah, quello è uno degli oggetti più amati della mostra. Sono le ‘brache del morto’. Chi le indossava sperava di arricchirsi». Thorgrimur si diresse verso la bacheca. «Ovviamente questa è soltanto una riproduzione, come avrete già intuito.»

Thora e Matthew annuirono con enfasi. Dentro la cassa di vetro si vedeva la pelle della parte inferiore di un corpo maschile, svuotato del contenuto. L’oggetto sembrava a Thora una sorta di disgustosa calzamaglia rosacea, pelosa e con i genitali maschili. «Per ottenere le brache della morte si doveva stipulare un patto con una persona ancora viva. Subito dopo la sepoltura bisognava dissotterrare il cadavere, scuoiare la pelle dalla vita in giù in un unico pezzo, e si avevano in mano le brache già pronte. Chi aveva stipulato il patto ora poteva indossarle, e queste aderivano immediatamente al corpo, diventando un tutt’uno con esso. Se questa persona infilava poi all’altezza dei genitali una moneta che aveva precedentemente sottratto con l’inganno a una vedova povera nel giorno di Natale, Pasqua o Pentecoste, allora le sue mutande non sarebbero mai state senza denaro, poiché avrebbero continuato a riempirsi di ricchezze per tutta la vita.»

«Ma non potevano scegliere un altro posto per infilare i soldi?» chiese Thora facendo una smorfia, però Thorgrimur non si degnò nemmeno di risponderle.

«E questo qui cos’è?» domandò Matthew quando il ragazzo li ebbe portati davanti alla gigantografia di una dama che indossava una lunga e antiquata gonna di lana grezza. La figura sedeva con la sottana tirata su a mostrare la coscia nuda, su cui spiccava quella che pareva una verruca o un qualcos’altro del genere.

«Come certo sapete, qui in Islanda la maggior parte di coloro che vennero condannati al rogo per stregoneria erano uomini, una ventina in tutto, mentre, soltanto una donna venne giustiziata. A quanto pare, qui da noi le arti magiche erano praticate per lo più da maschi, contrariamente al resto d’Europa. Ma la stregoneria che vedete qui è particolarmente interessante per il semplice fatto che solamente le donne potevano praticarla. Si chiamava ‘folletto’, e il procedimento era questo: nella notte della Pentecoste la maga doveva trafugare da una tomba la costola di un morto, avvolgerla in un sacchetto di lana e mettersela tra i seni, sotto le vesti. Poi doveva fare tre volte il giro dell’altare di una chiesa e sputare il vin santo su quel sacchetto, cosicché l’osso prendeva vita. Per alimentare il folletto la donna doveva creare un capezzolo con la pelle di una coscia. Il folletto traeva da quel capezzolo il suo nutrimento, ma andava anche in giro di notte per le campagne a succhiare il latte delle pecore e delle mucche. Al mattino sputava il latte così raccolto dentro il corpo della donna».

«Che bambinello carino carino!» disse Thora guardando l’oggetto esposto sotto la foto. Si trattava della riproduzione di un folletto avvolto in un batuffolo di lana. Mostrava solamente una boccuccia aperta, sdentata, e due piccoli occhi bianchi senza pupille.

Dall’espressione si capiva che anche Matthew provava orrore per quella creatura. «E questa sarebbe l’unica donna giustiziata per stregoneria nella storia del Paese?»

«Beh, ci fu un caso del genere che venne indagato nel 1635, quando due donne, madre e figlia, vennero accusate di allevare un folletto tra i seni. Alla fine si scoprì invece che si trattava di una falsa accusa e le due la scamparono bella. Abitavano nel Sud-Ovest del Paese.»

I tre continuarono la perlustrazione delle sale e degli oggetti in vetrina. Ciò che colpì maggiormente l’attenzione di Thora furono un semplice palo di legno e un fascio di rami. Mentre stava appunto contemplando quelle cose, Thorgrimur le si avvicinò e le spiegò che tutti quelli che erano stati condannati per magia, in tutto ventuno, erano stati bruciati vivi sul rogo. A detta degli annali, tre di questi avrebbero anche tentato di scappare dopo che le fascine erano state accese, quando i lacci che li legavano al palo si erano sciolti al fuoco. Tutti e tre vennero ributtati tra le fiamme, e non ebbero scampo. La prima condanna a morte venne eseguita nel 1625, ma la persecuzione vera e propria contro gli stregoni iniziò nel 1654, con la condanna al rogo di tre uomini a Trekyllisvik, nei fiordi occidentali. Thora calcolò con stupore quanto poco tempo fosse in realtà passato da quei tempi bui.

Una volta passata in rassegna l’intera collezione del piano terra, Thorgrimur li fece passare a quello superiore. Sulle scale videro un cartello che avvisava i visitatori del fatto che lì dentro era vietato fotografare. Era lo stesso che Thora aveva visto in una delle foto nel computer di Harald. Thorgrimur fece notare loro la grande tavola genealogica appesa al muro, dove si trovavano i nomi e le parentele di coloro che erano stati implicati nella caccia agli stregoni del Seicento. I nomi mostravano chiaramente come la classe dirigente dell’epoca avesse praticato un nepotismo sfrenato, monopolizzando tutte le cariche direttive e giudiziarie del Paese. Esaminando con attenzione l’albero genealogico, Thora si rese conto della portata di quelle informazioni, mentre Matthew mostrava un interesse assai limitato per quella sfilza di nomi. Anzi, a un certo punto li lasciò e si avvicinò a una bacheca che conteneva diversi volumi di formule magiche e altri manoscritti. Quando Thora e Thorgrimur lo raggiunsero, lui aveva cominciato a leggere i titoli dall’alto.

«È incredibile che si siano conservati alcuni dei libri di magia», commentò Thorgrimur indicando uno dei codici.

«Intende dire a causa della loro antichità?» chiese Thora chinandosi per guardarli.

«Sì, anche per quello, ma soprattutto per il fatto che il possesso di un libro del genere era un reato punibile con la morte. Alcuni di questi libri sono in realtà ricopiati a mano da manoscritti più antichi, che probabilmente erano deteriorati.»

Thora si rimise diritta. «Esiste un elenco di tutte le rune magiche?»

«No, stranamente no. Nessuno si è ancora preso la briga di redigerne un catalogo, a quanto mi risulta.» Con un ampio gesto della mano, il custode precisò: «In questi pochi volumi e codici in mostra qui da noi sono contenuti parecchi simboli magici, eppure non costituiscono che una frazione ridotta di quanto già conosciamo. Un campionario niente affatto esauriente».

Peccato. Sarebbe stato troppo bello se Thorgrimur le avesse potuto consegnare una lista completa di rune per decifrare quella incisa su Harald. Spostandosi per ammirare altri oggetti, Thora arrivò a una bacheca collocata in mezzo alla sala e iniziò a girarvi attorno. All’improvviso Matthew ebbe un’illuminazione.

«Che lettera è questa qui?» chiese eccitato colpendo il vetro con l’indice.

«Quale, scusi?» domandò Thorgrimur avvicinandosi a sua volta al codice.

«Questa runa», ribadì Matthew indicandola.

Thora si chinò per vedere quello che Matthew stava indicando, e capì subito il motivo del suo entusiasmo. Era uno dei pochissimi simboli magici che conosceva di persona: esattamente quello inciso sul petto di Harald. «Che diamine», esclamò a bassa voce.

«Questa in fondo alla pagina?» chiese intanto Thorgrimur indicando un’altra lettera.

«No», sbuffò Matthew. «Questa in margine alla pagina. Qual è il suo scopo?»

«Beh, non saprei proprio… Purtroppo non vi posso aiutare. Il testo della pagina non si riferisce al simbolo disegnato. Questo è il classico esempio di una runa magica che il proprietario del codice ha vergato lui stesso sul margine. La cosa non era rara, anzi tali aggiunte si rinvengono in numerosi altri manoscritti che non trattano nemmeno di magia.»

«Come si chiama questo codice, allora?» chiese Thora mentre cercava di leggere il testo.

«Si tratta di un manoscritto del Seicento appartenente al Regio Istituto di Antichità Classiche di Stoccolma. È comunemente chiamato Libro di magia islandese perché non si conosce il nome dell’autore. Vi si trovano una cinquantina di formule magiche di vario genere, la maggior parte delle quali semplici e innocenti, come quelle mirate ad aumentare le probabilità di riuscita in qualche impresa o a difendere la gente da qualche nemico.» Thorgrimur si piegò per poter leggere lo stesso testo che Thora aveva cercato di decifrare. «Comunque ne riporta anche alcune molto più sinistre. Una formula è il cosiddetto incantesimo della morte, riservato a chi vuole liberarsi di un avversario. Pure uno dei due incantesimi erotici qui elencati è piuttosto macabro.» Il ragazzo si rialzò dalla bacheca. «Curioso! Anche il vostro amico aveva un interesse particolare per questa sezione della mostra, cioè per i libri e i manoscritti.»

«Le ha per caso chiesto informazioni proprio su questa specifica runa?» domandò Matthew.

«No, a quanto mi ricordi. Comunque io non sono un esperto di questo tipo di magie e per questo non lo potei aiutare come sperava. Però mi ricordo che lo misi in contatto con Pall, il soprintendente in carica qui, che di magia ne sa più di chiunque altro.»

«Dove possiamo trovarlo?» chiese Matthew, che stava entusiasmandosi alla nuova pista.

«Qui sta il problema. Ora si trova all’estero.»

«E con ciò? Non gli si può telefonare o mandargli una e-mail?» domandò Thora, non meno emozionata. «Per noi è importantissimo conoscere il significato di questa runa.»

«Beh, il suo numero dovrei averlo qui da qualche parte», rispose Thorgrimur assai più pacato di loro due. «Penso però che sia meglio se prima lo chiamo io per comunicargli il vostro interesse sulla questione.»

Thorgrimur tornò con Thora e Matthew al suo bancone e tirò fuori un’agendina che si mise a sfogliare. Poi sollevò la cornetta e compose un numero facendo in modo che loro non lo vedessero. Dopo un attimo di silenzio, cominciò a dettare un messaggio sulla segreteria telefonica dall’altra parte della linea. Infine li raggiunse. «Purtroppo non risponde. Comunque vi telefonerà di sicuro non appena ascolterà il messaggio. Probabilmente questa sera stessa, forse domani o al massimo dopodomani.» Thora e Matthew gli consegnarono i loro biglietti da visita, non riuscendo a nascondere la loro delusione per come era andata la telefonata. Thora lo pregò di informarli immediatamente non appena fosse riuscito a contattare Pall, e Thorgrimur rispose che non c’erano problemi di sorta, quindi ripose i biglietti dentro l’agendina.

«Tornando ad Harald, ha notato se qualcos’altro attrasse la sua attenzione, all’infuori dei manoscritti? Le accennò ad altri suoi interessi?» chiese Thora.

«Se ben ricordo, si concentrò soprattutto sui codici di magia», disse Thorgrimur pensandoci su. «Però mi fece un’offerta per comprare la coppa dei sacrifici esposta in una sala. Non ero sicuro se scherzasse o dicesse sul serio.»

«Di quale coppa sta parlando?» domandò Matthew.

«Venite con me.» I due lo seguirono in una piccola sala con una bacheca centrale in cui si vedeva una massa tondeggiante di pietra. «Si tratta di un contenitore arcaico adoperato per compiere sacrifici, rinvenuto qui nei paraggi e che la squadra scientifica della polizia ha confermato contenere tracce di sangue. Assai antiche, comunque.»

«E questa la chiamate coppa?» esclamò Thora vedendo le dimensioni del contenitore. «Ma non potevano farsi una tazza di legno?» Il macigno pesava sicuramente qualche chilo e aveva un incavo scolpito al suo interno.

«Mi pare di capire che il cimelio non fosse in vendita», disse Matthew.

«No, assolutamente no. Da una parte è l’unico oggetto qui dentro autenticamente antico, e poi io personalmente sono contrario a vendere i nostri cimeli.»

Thora guardò il reperto con attenzione. Poteva essere questo l’oggetto tanto agognato da Harald? Improbabile. «È sicuro che questa sia la pietra originale?»

«Che intende dire?» chiese Thorgrimur stupito.

«Tanto per fare un’ipotesi, non è che il soprintendente possa essersi accordato in segreto con Harald e avergli venduto la pietra, sostituendola poi con una copia?»

Thorgrimur sorrise. «Non è assolutamente possibile. Questa è la stessa pietra di sempre, non si è mossa di un millimetro. Ci scommetto la testa.» Poi si voltò e uscì dalla stanza, seguito a poca distanza dai due ospiti. «Come vi ho già detto, secondo me era solamente uno scherzo da buontemponi.»

«E non si ricorda proprio altro?» insisté Thora. «Qualcos’altro di particolare?»

«Beh, in effetti una cosa me la chiese…» rifletté Thorgrimur con un’espressione perplessa. «Accennò a un certo Martello delle streghe, e mi domandò se sapessi qualcosa di una copia antica conservata qui in Islanda. Io però quel titolo non l’avevo mai nemmeno sentito nominare e glielo dissi. Ma forse nemmeno voi sapete di cosa stia parlando, o sbaglio?»

«No, no, lo sappiamo bene», rispose Matthew per bocca di entrambi.

«Gli chiesi chi gli avesse dato quell’informazione, e lui mi rispose che in alcune vecchie lettere si parlava di un esemplare del libro che era arrivato fin quassù.»

25

In Islanda non sono molti gli edifici che possono vantare un ingresso maestoso come la sede centrale dell’Università d’Islanda. Briet si godeva il panorama seduta sui gradini dell’entrata a forma di ferro di cavallo. In particolare osservava le automobili, pensando a quanto le sarebbe piaciuto possederne una. Ma la cosa rimaneva un pio desiderio, data l’esiguità del presalario studentesco; anzi, avrebbe proprio voluto incontrare il taccagno che calcolava le basi minime del mantenimento sulle quali si erogava il prestito. Non vedeva l’ora di laurearsi e cominciare a lavorare. Non che i laureati in Storia potessero sperare in lauti guadagni, ma forse avrebbe potuto fare come sua sorella, che aveva sposato un avvocato e ora viveva come una principessa. Lui lavorava per una delle maggiori banche del Paese e prendeva uno stipendio favoloso, tanto che in quel periodo si stava facendo costruire una villa immensa a Vatnsendi. E pensare che la sorella di Briet, con la sua laurea in Scienze politiche, non lavorava che mezza giornata in un ministero, e l’altra mezza l’aveva a disposizione per fare shopping in centro. Briet si appoggiò alle spalle di Halldor, seduto accanto a lei sui gradini. Lui sì che era un bel ragazzo, addirittura un tesoro, senza contare che di solito i medici se la passavano proprio bene.

«A cosa stai pensando?» le chiese lui mentre tirava una palla di neve che si era fatto per passare il tempo.

«Ah, niente di preciso», rispose Briet sospirando. «Ma sono preoccupata per Hugi.»

Halldor seguì con lo sguardo la palla di neve che, dopo una parabola verso l’alto, ricadde sulla statua di Saemundur e la foca. «Era uno stregone», disse. «Lo sapevi?»

«Chi?» chiese Briet meravigliata. «Hugi?»

«No, Saemundur il savio.»

«Sì, certo, lo sapevo.» La ragazza tirò fuori dalla borsa un pacchetto di sigarette. «Ne vuoi una? È la tua marca preferita.» Gli porse il pacchetto bianco e sorrise.

Halldor le sorrise di rimando. «No grazie, oggi le ho.» Poi prese una delle sue ed entrambi le accesero. Briet dovette lasciare la spalla del suo amico per permettergli di fumare. «Che brutto pasticcio.»

«Non me lo dire.»

Briet non sapeva esattamente cosa aggiungere: non voleva combinare altri guai che potessero impelagare lei e naturalmente anche Halldor in una situazione senza uscita, ma al contempo desiderava mostrargli di essere più comprensiva e sana di mente di Marta Mist.

«A dire il vero, di questa faccenda ne ho le tasche piene», riprese Halldor guardando fisso davanti a sé. «Ogni tanto mi metto a osservare gli altri studenti. Sono così diversi da noi…»

«Lo so bene», concordò Briet. «Noi non siamo certo i tipici studenti universitari. Ma anch’io non ne posso più di tutte queste idiozie.» Il perché ancora non lo sapeva, però era la realtà.

Halldor proseguì come se non avesse nemmeno sentito il suo commento. «Quello che mi disturba di più è il fatto che gli altri non passano il tempo a divertirsi da pazzi come facciamo noi, eppure non mi sembrano infelici o scontenti. Anzi, forse sono addirittura più soddisfatti di noi.»

Briet colse al volo quell’opportunità insperata. Pose il braccio sulla spalla dell’amico e avvicinò il volto al suo. «Anch’io stavo pensando le stesse cose. Abbiamo sorpassato ogni limite, e se Andri e gli altri vogliono continuare, lo faranno senza di me. Io adesso voglio pensare solo ai miei studi e alla mia vita. Non mi diverto più con queste stupidate.» Aveva evitato con scaltrezza di nominare Marta Mist per paura di scoprire troppo il suo gioco.

«Curioso, è proprio quello che avevo deciso di fare anch’io.» Halldor la guardò e le sorrise. «Io e te non siamo poi così diversi, lo sai?»

Briet gli sfiorò la guancia con un bacio. «Insieme stiamo bene. Al diavolo tutti gli altri.»

«Non Hugi però», disse Halldor cancellando il sorriso che era emerso sulle labbra di entrambi.

«No, naturalmente non possiamo dimenticarci di lui», si affrettò a ribadire Briet. «Anch’io sto sempre a pensare a lui. Come pensi che si senta in questo momento?»

«Lui sta malissimo. E io non ce la faccio più. Devo fare qualcosa.»

«Cosa?» Briet non se la sentiva di suggerirgli qualcosa di preciso. Trarre una conclusione errata in quel momento avrebbe significato perdere la sua fiducia per sempre.

Halldor si alzò improvvisamente in piedi. «A quei due avvocati do ancora qualche giorno, poi vado dalla polizia. Non me ne importa niente di cosa mi faranno.»

Diamine. Briet tentò in fretta e furia di trovare le parole giuste per far cambiare idea al suo amico. In quell’attimo rimpianse persino che Marta Mist non fosse lì con loro. «Halldor, Harald non l’hai ammazzato tu, vero? Tu eri alla Kaffibrennslan, o sbaglio?»

Lui la fissò in silenzio. Briet si tirò su a sua volta e gli disse: «Non intendevo insinuare niente, scusami. Volevo solamente dire: perché mai andare dalla polizia?»

«Lo sai, non riesco proprio a capire perché tu e Marta vi opponiate così tanto a confessare tutto. Nessuno sfugge al suo destino, ricordatelo», e se ne andò senza salutare.

Briet non sapeva che fare. Dopo averci pensato per un attimo, estrasse il suo cellulare dalla borsa e fece una chiamata.


Laura Amaming entrò nell’atrio dell’Istituto Arni Magnusson, dove Gloria stava passando i tappeti con l’aspirapolvere. In tutta la mattinata non era ancora riuscita a prenderla in disparte per parlarle, perciò ora colse l’occasione al volo. «Gloria», la chiamò e continuò a parlarle nella loro madrelingua. «Ti dovrei fare una domanda.»

«Guarda che sto pulendo come mi hai insegnato tu», subito si difese l’altra.

Laura la zittì con un cenno della mano. «Non si tratta delle pulizie. Volevo sapere se ti eri per caso accorta di qualcosa di insolito nella stanza degli studenti, il fine settimana in cui venne compiuto l’omicidio. Sei stata tu a fare le pulizie là prima che venisse trovato il corpo.»

Gli occhi scuri di Gloria si allargarono. «L’ho già detto a voi e alla polizia. Non c’era niente.»

Laura la guardò con attenzione. Stava mentendo. «Gloria. Dimmi la verità. Lo sai che dire le bugie è peccato. Dio sa che cosa hai visto. Hai intenzione di mentire anche a Lui quando verrà il momento di incontrarlo?» Laura afferrò la ragazza per le spalle e la costrinse a guardarla dritto negli occhi. «Non ti preoccupare. Come facevi a sapere che era stato commesso un delitto? Quel fine settimana non era entrato nessuno nello stanzino delle fotocopie. Che cosa hai visto?»

Una lacrima scese lenta sulla guancia della ragazza. Laura non si fece intenerire: non era la prima versata in quel posto di lavoro. «Gloria. Fai un esame di coscienza e dimmi che cosa c’era là dentro. Io ho trovato delle tracce di sangue sulla maniglia di una finestra.»

Le lacrime divennero due, poi tre e infine Gloria scoppiò in singhiozzi. «Non lo sapevo. Non lo sapevo proprio», esclamò all’improvviso.

«Certo, Gloria. Non ti accuso di niente. Come potevi sapere tu cos’era successo?» Laura asciugò le lacrime dalle guance della ragazza. «Che cosa c’era lì dentro? Su, dimmelo.»

«Sangue», rispose atterrita. «Non una pozza, piuttosto come delle strisce che qualcuno aveva lasciato dopo aver cercato di ripulire alla meglio. Io me ne sono accorta soltanto quando, sciacquando lo straccio nel secchio, l’acqua divenne rossa. Ma non me ne preoccupai, lì per lì, non sapendo niente del… hai capito.»

Laura tirò un sospiro di sollievo. Tracce di sangue e niente altro. Allora la cosa non poteva avere alcuna conseguenza spiacevole per la povera Gloria. Lei stessa non aveva ancora detto niente a nessuno dello straccio che si era impregnato di sangue pulendo la maniglia della finestra. Ma ora veniva loro data l’opportunità di rivelare tutto a Tryggvi e alla polizia. E poi ci avrebbero pensato gli investigatori a stabilire la provenienza del sangue, anche se lei era convinta che l’omicidio fosse stato compiuto proprio nella sala degli studenti. «Gloria, tesoro, non ti preoccupare. Si tratta di una sciocchezza che non cambia niente. Solo che dovresti parlare di nuovo con i poliziotti, e questa volta dire la verità. Capiranno subito che non ti eri affatto resa conto della gravità delle informazioni.» Laura sorrise, ma fu sorpresa nel vedere che la ragazza continuava a piangere.

«C’è dell’altro», disse tra i singhiozzi.

«Altro?» le chiese meravigliata. «Che cos’altro ci può essere?»

«Quella mattina trovai anche un’altra cosa. Nel cassetto delle posate. Ora te lo mostro. Vieni.»

Laura seguì Gloria in uno degli sgabuzzini al primo piano, dove lei salì su una scaletta e si allungò a prendere qualcosa sullo scaffale più alto. Poi ridiscese con un oggetto avvolto in un fazzoletto e lo porse a Laura. Per fortuna aveva smesso di piangere. «L’ho conservato perché sapevo che era una cosa strana. E quando scoprirono il corpo mi resi conto di cosa fosse e mi spaventai a morte. Ci ho sicuramente lasciato le mie impronte digitali, e la polizia adesso mi accuserà dell’omicidio. Ma non l’ho ammazzato io.»

Laura aprì l’involucro con estrema cautela. Quando però vide l’oggetto contenuto le scappò un urlo e si fece il segno della croce. Al che Gloria perse il suo già precario autocontrollo e scoppiò di nuovo a piangere.


Gudrun — o Gurra come la chiamavano gli amici — fece appello a tutte le sue forze per resistere alla tentazione di mangiarsi le unghie. Era trascorso così tanto tempo da quando aveva smesso di farlo, che non si ricordava nemmeno più quando era stata l’ultima volta. Era stato prima o dopo aver sposato Alli? Gurra si guardò le mani fresche di manicure e rimpianse di non essersi messa lo smalto, altrimenti avrebbe almeno potuto rosicchiare quello per sfogare il suo nervosismo. Nel tentativo di distrarsi, decise di andare in cucina. Era sabato e da brava moglie avrebbe potuto preparare una bella cenetta. Alli lavorava tutti i giorni tranne la domenica, per cui il sabato sera era l’unico momento in cui poteva rilassarsi senza pensare al domani. Guardato l’orologio, si rese conto che era ancora troppo presto per cominciare a cucinare. La donna sospirò. La casa era pulita e lucida, cosicché non poteva nemmeno mettersi a spolverare o cose del genere. Ma qualcosa doveva pur fare per passare il tempo, se non voleva impazzire. Qualcosa che le facesse dimenticare per un attimo la sua angoscia. Quanto si era preoccupata quando la polizia aveva bussato alla sua porta con il mandato di perquisizione per l’appartamento al piano superiore. Che ricordo spiacevole. Ma poi non era successo niente, incredibile ma vero, e lei aveva ricominciato a fare la solita vita. Fino a qualche giorno prima.

Che diamine voleva quella gente? Perché si erano messi a ficcare il naso in casa sua? Si ritenevano più furbi della polizia? Che motivo c’era di rivangare l’intera faccenda?

Gurra emise un sospiro profondo. Che le era venuto in mente? Certo, il povero Alli era irritante e ormai completamente disinteressato al loro matrimonio, ma non era certo il caso di farselo sfuggire proprio adesso. Per tenerselo buono aveva investito parecchio nel proprio aspetto esteriore, visto che a quarantatrè anni proprio non se la sentiva di ritornare sul mercato delle donne in cerca di marito.

Che cretina era stata. Andare a letto con l’inquilino del piano di sopra! E pensare che quell’appartamento lo avevano affittato a ragazzi ben più attraenti di quel balordo del tedesco. Che tipo strampalato. Doveva essere impazzita per andarci a letto non soltanto una volta, ma almeno due o tre. Comunque, il sesso con quell’individuo era stato eccitante, questo non poteva negarlo. Il flirt aveva avuto un alone di avventura, il fascino del proibito. Inoltre Harald era decisamente più giovane di suo marito e perciò assai più dinamico ed esuberante a letto. Peccato che fosse così ricoperto di cicatrici, piercing e quant’altro.

Pensa, pensa. Respira piano e a lungo. Come avrebbero fatto a scoprirlo? Non lo sapeva nessuno della sua scappatella, o perlomeno lei non l’aveva detto ad anima viva. Il suo buon senso le aveva impedito persino di vantarsene con la sua migliore amica. Quanto ad Harald, non si era sicuramente messo a raccontare in giro le sue prodezze con lei, dato il flusso continuo di belle ragazze nel suo appartamento. Se avesse sentito il bisogno di sbandierare le sue conquiste amorose, avrebbe di certo preferito loro a lei. Gurra si concentrò su quel particolare. In effetti, il flusso continuo altro non erano che due ragazze, una alta e con i capelli rossi, l’altra bassa e bionda. Ma perché mai avrebbe dovuto parlare proprio di lei con loro? Una cosa era certa: la polizia non sapeva ancora niente della relazione. Quando aveva parlato con gli investigatori, quella faccenda non era mai stata tirata fuori. Né dalle loro parole, né dai loro gesti era trasparito il sospetto che tra di loro ci fosse altro del normale rapporto tra locatario e inquilino. E in realtà verso la fine era proprio quello che era successo: Harald le aveva detto di non volerne sapere più di quella storia perché era troppo impegnato con gli studi e così via. A ripensarci sentì un tuffo al cuore. Avrebbe preferito essere stata lei a lasciarlo, comunque il congedo era avvenuto in termini amichevoli e gentili, e il ragazzo l’aveva persino ringraziata per le belle ore passate insieme. Invece la sua reazione era stata indegna di lei. Come se ne vergognava ora! E come avrebbe perso la faccia se si fosse saputo quello che aveva fatto. Ma l’aveva irritata il fatto che Harald le avesse tenuto nascosto il vero motivo della rottura. Si era trovato una fidanzata. Gurra li aveva visti entrare e uscire dall’appartamento diverse volte, la settimana precedente il delitto. Era una nuova ragazza, una che non aveva mai messo piede prima di allora a casa di Harald, ne era sicura. Tra di loro parlavano tedesco, e lei ne aveva dedotto che si trattasse di una sua connazionale — ormai le islandesi non lo accontentavano più, evidentemente. E poi, lei aveva messo in pericolo il suo matrimonio, tutta la sua esistenza, e invece lui l’aveva scaricata per una misera fidanzatina da strapazzo. Che disgraziato!

Ma che ci poteva fare ormai? Ora era tutto finito, e non serviva a niente rivangare il passato. Anzi, sperava fosse sepolto per sempre. Gurra pensò di occuparsi della lavanderia, che da tempo non era stata sistemata come si deve. Lo stanzino si trovava sotto la scala d’ingresso ed era accessibile a entrambi gli appartamenti. Girò la chiave nella serratura ed entrò. Sì, c’era proprio bisogno di mettere a posto lì dentro. Si vedevano addirittura le impronte dei cani antidroga, che avevano cercato dappertutto eventuali sostanze stupefacenti. Per fortuna non avevano trovato niente di simile. Ci mancava solo che lei e suo marito finissero nell’elenco dei sospettati o in qualche altra lista, nel caso fosse stata scoperta della droga nel locale in comune. Comunque gli agenti avevano voluto che i coniugi fossero presenti durante la perquisizione. Gurra era rimasta tutto il tempo sulle spine: lei non aveva mai provato nessuna droga, chissà invece cosa prendeva Alli in quei suoi viaggi senza fine. In ogni modo andò tutto a finire bene, i cani non annusarono niente di interessante e i poliziotti se ne andarono senza aver trovato niente di niente. Uno dei cani aveva infilato il muso nell’asciugatrice e nella lavatrice e ce l’aveva tenuto a lungo, ma poi se n’era andato come se niente fosse.

La donna aprì l’armadietto e tirò fuori scopa e secchio. Chinandosi, notò una cassa e la fissò stupita. L’ultima volta che aveva fatto le pulizie lì dentro di casse come quella non ce n’erano, ne era assolutamente certa. Gurra la estrasse dall’armadietto con estrema attenzione. Doveva essere appartenuta ad Harald. Quando aveva pulito lì dentro l’ultima volta? Mio Dio, ora si ricordava: stava proprio sistemando lo stanzino quando il ragazzo l’aveva piantata. Lui era entrato per fare una lavatrice quando lei gli aveva fatto capire, senza mezzi termini, che le andava di fare all’amore. E lui le aveva comunicato con il sorriso sulle labbra che era ora di farla finita con quella storia. Perciò la cassa doveva essere stata messa nell’armadietto dopo quella scenata e prima del delitto. Ma perché? Harald non aveva mai utilizzato gli scaffali della lavanderia, anche se ce n’erano quattro vuoti destinati agli affittuari. Che avesse voluto nascondere qualcosa alla sua nuova fidanzata, infilandolo in quella scatola? Tenuto conto del suo modo di vivere e del suo appartamento così stranamente arredato e pieno di bizzarrie in bella mostra, quella le sembrava una spiegazione improbabile.

Improvvisamente le venne un sospetto che la terrorizzò. Che invece avesse avuto l’abitudine di scattare in segreto delle fotografie dei loro amplessi o dei suoi altri rapporti sessuali, e ora non avesse voluto che la fidanzata le scoprisse? Che vergogna! Inorridiva al pensiero di essere entrata a far parte di qualche oscena collezione di donne nude. E se ci fossero stati addirittura dei filmini compromettenti? In preda alla nausea rimase immobile a lungo a fissare la cassa ai suoi piedi. Doveva aprirla, non c’era altro da fare.

Si accovacciò e sollevò con mani tremanti il coperchio di cartone e si mise a guardare il contenuto. Nessuna fotografia, né videocassetta. Invece c’erano degli oggetti avvolti negli stracci e alcune cartellette portadocumenti di plastica. Gurra tirò un sospiro di sollievo, prese a caso una delle cartelline e scoprì che conteneva un’antichissima lettera, sicuramente molto preziosa. A prima vista non ne capiva né la calligrafia né il contenuto, per cui se la posò sulle ginocchia per darci un’occhiata più tardi. Poi continuò a controllare frettolosamente il resto dei documenti e comprese, con un senso di liberazione, che non avevano niente a che vedere con il sesso o con la vita privata di Harald. Uno in particolare attrasse la sua attenzione. Era scritto con inchiostro rosso in una maniera goffa e sgraziata, una specie di scarabocchio su quella che sembrava tela cerata scura. Il testo era bislacco e incomprensibile, e terminava con una runa disegnata e le firme di due persone. I nomi non erano leggibili, ma uno era sicuramente quello di Harald, ripensando alla firma sul contratto di locazione. Gurra rimise il tutto nella cassa. Che strano.

A quel punto la curiosità la spinse a rovistare tra gli oggetti avvolti nelle pezze di stoffa in fondo alla cassa. Prese uno dei fagotti e lo tirò su con prudenza. Era leggerissimo, come se dentro non ci fosse niente. Lo aprì con cautela e ne guardò sbigottita il contenuto. Poi si mise a urlare, agguantò la lettera antica che ancora teneva sulle ginocchia, si alzò di scatto e scappò di corsa dallo stanzino, richiudendone a chiave la porta come se ne potesse uscire qualcosa.


Gunnar sollevò la cornetta del telefono interno e digitò il numero di Maria. Non era improbabile che la direttrice dell’Istituto Ami Magnusson si trovasse ancora nel suo ufficio, nonostante fosse sabato. C’era in programma un’imminente esibizione di manoscritti, e a giudicare dal trambusto provocato dalle precedenti mostre della stessa portata, ora dovevano essere tutti impegnati nei loro compiti all’istituto. «Salve, Maria, sono Gunnar.» Fece attenzione che la voce suonasse sufficientemente autoritaria. La voce di una persona impegnata e con la coscienza pulita.

«Ah, tu!» Quella risposta secca dimostrava che le sue intenzioni non avevano centrato il bersaglio. «Stavo appunto per mettermi in contatto con te. Ci sono delle novità da parte tua?»

«Sì e no», rispose Gunnar senza entusiasmo. «Sono sulla buona strada per ritrovare il documento smarrito, credo.»

«Mi sento già meglio sapendo che credi di averlo trovato», ribatté la direttrice con ironia.

Gunnar decise di sorvolare. «Non abbiamo più motivo di sospettare del personale dell’istituto. Mi sono messo in contatto con i rappresentanti della famiglia di Harald che stanno rovistando a casa sua. Il documento si trova là, ne sono certo.»

«Vuoi dire che credi di esserne certo?»

«Stammi a sentire, ti ho chiamato solamente per tenerti al corrente degli sviluppi, e non c’è nessun bisogno di rispondermi con maleducazione», protestò Gunnar, trattenendo l’impulso di sbatterle il telefono in faccia.

«Hai ragione, scusami. Qui siamo tutti sotto pressione per la mostra. Io stessa sono molto agitata, non te la prendere», disse Maria con un tono di voce più rilassato. Poi aggiunse con la stessa intonazione di prima: «Comunque, Gunnar, io rimango della mia idea. Hai solamente pochi giorni a disposizione per trovare questa lettera, non posso continuare a tacere sulle stupidaggini dei tuoi studenti, ci siamo intesi?»

Gunnar si chiese quanti fossero quei «pochi giorni» che gli rimanevano. Non più di cinque, al massimo tre, forse. Comunque non osava chiederle precisazioni per paura che accorciasse la proroga. «Sì che me ne rendo conto. Ti farò sapere non appena avrò trovato qualcosa.»

I due si salutarono seccamente. Gunnar si mise le mani nei capelli e poi si accasciò sulla scrivania. Doveva assolutamente trovare quell’epistola. In caso contrario sarebbe stato costretto a dare le dimissioni, dato che il furto di un documento pregiato appartenente a un’istituzione estera avrebbe minato la sua credibilità come direttore d’istituto. Si sentì ribollire il sangue. Maledetto Harald. Prima che comparisse sulla scena, Gunnar si era addirittura cullato nell’idea di candidarsi a rettore per le prossime elezioni. Ora invece sognava solamente che la sua vita tornasse alla normalità. Era tutto quello che desiderava al momento. All’improvviso bussarono alla porta.

Gunnar si tirò su e disse: «Avanti.»

«Buongiorno, posso disturbarla un secondo?» Era Tryggvi, il custode, che entrò richiudendosi la porta alle spalle. Poi avanzò con passo lento verso la scrivania del professore e rifiutò il posto a sedere che gli veniva offerto. Invece allungò una mano con il palmo rivolto verso l’alto. «Una delle donne delle pulizie ha trovato questo nella stanza degli studenti.»

Gunnar si sporse per vedere l’oggetto, una minuscola stellina metallica. La guardò con attenzione e si rivolse stupito a Tryggvi «Che cos’è? Non mi sembra un oggetto prezioso, o sbaglio?»

Il custode si schiarì la gola. «Penso che appartenesse alle scarpe di quell’Harald. La donna l’ha trovata alcuni giorni fa, ma me l’ha detto solamente ora.»

Gunnar lo guardò senza comprendere. «E allora? Non la seguo proprio.»

«C’è dell’altro. Se ho capito bene, su una delle finestre ha anche scoperto delle macchie di sangue.» Tryggvi guardò Gunnar dritto negli occhi in attesa della sua reazione.

«Sangue? Ma non era stato strangolato?» chiese sbalordito. «Non potrebbe trattarsi di sangue più vecchio?»

«Non lo so. Volevo solamente consegnarle questa, poi deciderà lei cosa farne.» Prima di andarsene, aggiunse: «Comunque gli hanno fatto qualcos’altro oltre che strangolarlo!»

Gunnar ebbe una fitta al cuore ripensando alle condizioni del cadavere. «Sì, ha ragione.» Poi si mise a guardare la stellina cercando di capirne le implicazioni, quando sentì Tryggvi che gli diceva: «Sono sicuro che proviene dalle scarpe che indossava la notte in cui venne ucciso, ma non ho assolutamente idea se sia caduta in qualche occasione precedente.»

«Beh, in questo caso…» mormorò Gunnar mordendosi le labbra. Infine decise di congedare il custode: «La ringrazio per avermi consegnato quest’oggetto. Probabilmente non ha molta importanza, ma potrebbe servire nelle indagini».

L’uomo annuì con calma. «Ci sarebbe dell’altro, se mi permette», disse estraendo da una tasca una salvietta ripiegata in quattro. «La donna che ripulì la stanza degli studenti il fine settimana in cui Harald venne assassinato trovò sul pavimento tracce di sangue che qualcuno aveva tentato di far sparire. E poi scoprì questo.» Tryggvi depose l’asciugamano sulle mani di Gunnar. «Mi sembra opportuno denunciare il fatto alla polizia.» Poi ringraziò il professore e se ne andò.

Gunnar appoggiò la schiena alla spalliera, guardò fisso la stellina e si mise a riflettere sulla mossa più adatta. Era un indizio importante? Una telefonata alla polizia avrebbe riaperto il caso, e lui non se la sentiva di ricominciare tutto da capo. No, non era ancora il momento. Anzi, non sarebbe mai arrivato il momento di riaffrontare quella questione, ora che tutto stava tornando alla normalità. All’infuori della dannata lettera, naturalmente. Gunnar gemette e ripose la stellina sul tavolo. Beh, quella faccenda poteva aspettare fino a lunedì.

Poi aprì l’involucro e gli ci volle del tempo per rendersi conto di quello che ne era emerso. Quando infine comprese che cosa stava fissando, non poté trattenersi dal fare un verso da animale ferito. Prese immediatamente il telefono e chiamò la polizia. Quella cosa non poteva certo attendere fino a lunedì.

26

Il viaggio fino a Ranga andò liscio come l’olio. Il tempo si era mantenuto bello, e benché le campagne fossero ancora ricoperte da un manto di neve, il cielo era sereno e senza vento. Thora sedeva felice nella nuova macchina presa a noleggio, una jeep, e ammirava il paesaggio circostante. Certo, aveva detto e ripetuto a Matthew di fare attenzione alla ripida discesa di Kambarnir, raccontandogli un’infinità serie di incidenti stradali e costringendolo a guidare alla velocità di una lumaca, tanto che ormai chiunque li sorpassava. Con un sospiro tornò a sfogliare una delle due cartelle che avevano ricevuto dalla polizia e che contenevano, a detta degli inquirenti, tutto il materiale del caso. Alla descrizione della maglietta rinvenuta nell’armadio di Hugi, Thora si accorse di un particolare che le era sfuggito in precedenza. «Guarda qui!» gridò a Matthew.

Lui si spaventò e l’auto slittò per un attimo sull’asfalto. «Che c’è?»

«La maglietta», disse Thora premendo forte l’indice sulla pagina aperta. «Questa maglietta è la stessa che ho visto nelle foto dell’operazione alla lingua. C’era scritto davanti 100% SILICONE.»

«E con ciò?» chiese Matthew senza capire.

«Nelle fotografie si intravedeva una maglietta con il numero 100 e le lettere ILIC. Qui c’è scritto che la maglietta rinvenuta dentro l’armadio di Hugi aveva quella scritta, quindi il sangue proviene sicuramente da quell’operazione.» Thora richiuse la cartella, soddisfatta di se stessa.

«Ma non se ne sarebbe dovuto ricordare?» ribatté Matthew. «Non accade tutti i giorni di imbrattarsi di sangue.»

«Però Hugi disse che non gli avevano mostrato affatto la maglietta. Probabilmente non l’aveva collegata all’intervento.»

«È possìbile», concluse Matthew e i due proseguirono il viaggio in silenzio per qualche minuto. Oltrepassato il grande ponte sul fiume Ytri Ranga, nei pressi del paesino di Hella, Matthew annunciò all’improvviso: «Le due donne arrivano domani.»

«Le due donne? E chi sarebbero?»

«Amelia Guntlieb e sua figlia Elisa», precisò senza togliere lo sguardo dall’asfalto.

«Cosa? Vengono in Islanda?» chiese Thora sbalordita. «Perché mai?»

«Avevi ragione tu. Sua sorella stava da lui pochi giorni prima dell’omicidio. Ora vuole parlarci: pare sappia a che cosa stesse lavorando Harald negli ultimi tempi, anche se non nei minimi particolari.»

«E la madre? Viene per controllare cosa dice sua figlia?»

«No, per la verità desidera parlare con te. In privato, da madre a madre. Lo sapevi già che voleva dirti qualcosa, pensavi forse che lo avrebbe fatto per telefono?»

«Sì, lo ammetto. Da madre a madre? Dobbiamo forse confrontarci sui nostri sistemi educativi o cose del genere?» A Thora non andava per niente di incontrare quella donna.

Matthew scrollò le spalle. «Che ne so io? Non sono mica una madre.»

Thora sbuffò girandosi verso il finestrino. Prima di riprendere la parola, rimuginò su un’idea. «La sorella potrebbe essere implicata nella faccenda?»

«No, escluso.»

«Perché sarebbe escluso, se mi permetti?»

«Perché Elisa non è il tipo da fare cose del genere. Inoltre mi ha detto di essere ripartita il venerdì precedente il delitto. Aveva il volo prenotato da Keflavik a Francoforte.»

«E questo ti basta per escluderla? Solo perché te l’ha detto lei?» chiese Thora, stupita dall’ingenuità del collega.

Matthew le gettò un’occhiata in tralice. «Non direi proprio. Ho controllato e ti assicuro che ha preso quel volo.»

Thora non sapeva che cosa dire. Alla fine decise che forse era meglio vedere come sarebbe andato l’incontro con la sorella di Harald prima di fare altre ipotesi. A un certo punto, vide il cartello che indicava l’Hotel Ranga. «Qui», disse a Matthew indicandogli una traversa sulla destra. L’auto percorse lentamente la stradina fino alle sponde del fiume, e dietro una curva si trovò di fronte a una grande costruzione in legno.

«Vuoi sapere una cosa? Sono due anni che non dormo in un albergo», disse Thora mentre si incamminava con il suo trolley verso l’ingresso dell’hotel. «Cioè da quando ho divorziato.»

«Stai scherzando, non è vero?» esclamò Matthew estraendo il suo borsone dall’auto.

«No, te lo giuro», gli assicurò la donna con un pizzico di emozione nella voce. «Per salvare il nostro matrimonio, io e mio marito facemmo un estremo, disperato tentativo andandocene per un fine settimana a Parigi proprio due anni fa. Da quella volta non sono più andata all’estero, e nemmeno ho avuto l’occasione di dormire in albergo qui in Islanda. Strano a pensarci.»

«Il viaggio a Parigi allora non è riuscito a fare il miracolo», commentò Matthew aprendole la porta.

Thora sbuffò. «Puoi dirlo forte. Era l’ultima possibilità per salvare la nostra relazione, ma invece di sedere a un tavolo con un buon bicchiere di vino per trovare una qualsiasi base di riconciliazione, l’unica cosa che sembrava importare a quel cretino era farsi scattare fotografie davanti a ogni monumento che vedeva. È stata la condanna a morte del matrimonio.»

All’ingresso vennero accolti da un gigantesco orso polare ritto sulle zampe posteriori, con gli occhi sbarrati e pronto all’attacco. Matthew si mise subito in posa sotto le sue grinfie. «Fammi una foto. Ti prego.»

Thora gli fece la linguaccia e si presentò al bancone della reception. Al computer sedeva una donna di mezza età in livrea blu e camicetta bianca, che le sorrise e cercò immediatamente tra le prenotazioni le due camere singole che avevano fissato per quella notte. Dopo qualche istante consegnò loro le chiavi e spiegò la posizione delle camere. Thora si piegò per riprendere la valigia e stava per mettersi in cammino, quando a un tratto le venne in mente di controllare se quella signora così efficiente si ricordava di Harald. Forse le aveva chiesto informazioni su come andare da qualche parte nei dintorni. «Ah, senta: un nostro conoscente ha pernottato qui lo scorso autunno. Si chiama Harald Guntlieb, se lo ricorda per caso? Se non la disturba.»

La donna guardò Thora con l’espressione di chi è abituato a ricevere domande di ogni tipo, senza mai giudicare in merito. «No, non mi ricordo di quel nome», rispose con estrema cortesia.

«Potrebbe farci la gentilezza di controllare sul computer, per favore? Era un ragazzo tedesco pieno di piercing.» Thora abbozzò un sorriso per far finta che si trattasse di una cosa normalissima.

«Posso provare. Come si scrive il nome?» chiese la donna rivolgendo di nuovo lo sguardo allo schermo.

Thora le sillabò il cognome e attese che la donna richiamasse le informazioni sul soggiorno di Harald. Dalla sua posizione, vide comparire sullo schermo un elenco dopo l’altro di prenotazioni.

«Eccolo qui», disse finalmente la signora. «Harald Guntlieb, due camere per due notti. L’altro ospite era Harry Potter. Lo conoscete?» Il suo tono era assolutamente imperturbabile.

Thora annuì. «Si ricorda di loro due personalmente?» chiese speranzosa.

«No, purtroppo no. In quel periodo non ero nemmeno di turno. Sa, ero in ferie all’estero. Quando si opera in questo settore, è molto difficile andarsene in vacanza durante l’estate, che è l’alta stagione qui da noi», disse come per scusarsi con la cliente di essersi messa a oziare all’estero invece di fare il suo dovere nell’albergo. Poi rivolse di nuovo lo sguardo allo schermo. «Comunque il barista dell’hotel potrebbe ricordarsi di quei due tipi. Olafur, soprannominato Oli, era di servizio in quel periodo. E lo sarà anche stasera.»

Thora ringraziò la signora e i due si diressero verso le loro camere. Quando stavano per sparire dietro l’angolo del corridoio, la receptionist li richiamò. «Ho trovato l’annotazione che avevano preso in prestito delle torce elettriche qui dalla reception.»

«Delle torce?» Thora domandò stupita. «C’è forse scritto per quale motivo?»

«No. La prassi è che ogni prestito venga inserito nel computer per assicurarsi che venga restituito prima della partenza. Cosa che loro fecero regolarmente.»

«C’è scritto se le presero di notte?» chiese Thora, pensando che forse Harald aveva smarrito qualcosa là fuori e lo volesse cercare prima di andare a letto.

«No, le tennero in prestito durante il giorno», rispose la donna. «Ma solo per curiosità, non si tratta dello studente straniero ucciso all’università?»

Thora rispose di sì e la ringraziò di nuovo per il suo prezioso aiuto. Lei e Matthew raggiunsero quindi le loro camere, che risultarono trovarsi l’una accanto all’altra.

«Perché non ci prendiamo una mezz’oretta di riposo?» domandò Thora non appena vide la camera. Il letto matrimoniale era irresistibile, con le coperte senza grinze e le lenzuola ben stirate. Non era abituata a un lusso simile a casa sua. Il suo letto di solito la accoglieva la sera nello stesso stato in cui l’aveva lasciato in tutta fretta alla mattina.

«Sì, non c’è fretta», concordò Matthew, evidentemente della sua stessa opinione. «Bussa da me quando sei pronta. E ricordati che sei sempre la benvenuta nella mia camera.» Le fece l’occhiolino e richiuse l’uscio prima che Thora riuscisse a rispondergli per le rime.

Non appena ebbe sistemato la borsa e il giaccone Thora diede un’occhiata al bagno e al mini-bar, poi si distese supina sul letto, dove giacque a mo’ di crocifisso godendosi l’attimo fuggente. Che appunto per questo non durò a lungo. Dalla sua borsetta le arrivò la suoneria del cellulare. Thora si risollevò in piedi con un gemito e andò a prendere il telefonino. «Pronto?»

«Ciao, mamma», rispose la voce allegra di Soley.

«Ciao, tesoruccio», disse sorridendo per il solo fatto di sentire la sua voce. «Che stai facendo di bello?»

«Beh», riprese la bambina con meno entusiasmo di prima, «stiamo andando al maneggio.» Poi abbassò la voce in un sussurro cospiratorio: «Non mi va per niente di andare. Questi cavalli sono cattivi.»

«Ma no», la rassicurò Thora facendosi forza. «Non sono affatto cattivi, anzi, ti dirò che i cavalli di solito sono proprio buoni e bravi. Sono sicura che vi divertirete, non è vero? Anche il tempo è bello.»

«Nemmeno Gylfi ha voglia di andare», mormorò ancora Soley. «Lui dice che i cavalli sono obsoleti.»

La donna sorrise immaginando la scena. «Dimmi invece qualcosa di divertente, che cosa avete fatto oggi?» chiese per cambiare argomento, sapendo di non essere la persona più adatta per mettersi a difendere l’equitazione.

Sua figlia riacquistò vivacità immediatamente. «Abbiamo comprato il gelato e ci siamo messi a guardare i cartoni animati alla televisione. Senti, Gylfi ti vuole parlare.»

Prima ancora che Thora riuscisse a salutare sua figlia, il ragazzo era già al telefono. «Ciao», le disse con voce demoralizzata.

«Ciao, tesoro. Come va?»

«Da schifo.» Gylfi non tentò neppure di sussurrare, anzi le sembrò che avesse alzato intenzionalmente la voce.

«Per colpa dei cavalli?» sondò il terreno Thora.

«Sì e no. Va tutto quanto male.» Dopo una breve pausa, riprese: «Ti dovrei dire una cosa importante… Ma facciamo domani, quando ritorno a casa.»

«Senz’altro, tesoro», rispose Thora senza sapere se rallegrarsi perché finalmente suo figlio voleva aprirsi con lei, o temere per quello che le avrebbe detto. «Mi mancate tanto, ci rivediamo domani sera.» Si salutarono così, e Thora si sdraiò di nuovo sul lettone, ma non riusciva a rilassarsi. Alla fine si alzò e andò a farsi una bella doccia calda.

Mentre si asciugava con gli asciugamani candidi e spessi dell’albergo, pose l’occhio su un opuscolo turistico che magnificava le bellezze naturali della regione, e lo sfogliò per vedere se trovava qualche angolo che avrebbe potuto interessare anche Harald. Di meraviglie da visitare in effetti ce n’erano molte, e alcune attrassero la sua attenzione. Una pagina intera era dedicata alla sede vescovile di Skalholt, dove si erano svolte le vicende dei vescovi Jon Arason e Brynjolfur Sveinsson. Altri due luoghi le fecero suonare un campanello d’allarme: il vulcano dell’Hekla e alcune grotte che risalivano ai tempi degli eremiti irlandesi, le cosiddette Aegissiduhellar, alla periferia del paesino di Hella. Non ne aveva mai sentito parlare prima, e si chiese se il nome del paese, che significa appunto «antro», non derivasse proprio da una di queste antiche caverne. Fece un angolino segnalibro sulle pagine che trattavano quegli argomenti e si vestì in fretta, indossando abiti pesanti molto caldi, anche se non all’ultima moda. Se fossero stati costretti a scendere in quelle spelonche sotterranee, nessuno sarebbe stato a guardare le marche dell’abbigliamento. Al pensiero di Matthew che avanzava in punta di piedi tra le rocce e i massi nelle sue scarpette da ballerina fu presa da una tentazione: non dirgli niente delle grotte prima di essersi allontanati abbastanza dall’albergo. Si raccolse i capelli con una fascia elastica, si mise addosso il piumino e uscì dalla camera. Fece appena in tempo a bussare leggermente alla porta di Matthew, che lui aprì senza indugi. Thora osservò come era agghindato e gli sorrise maliziosa: «Che completo elegante. E che belle scarpe». Le scarpe in questione dovevano essergli costate una fortuna, a giudicare dal cuoio ben lucidato e dalla fattura impeccabile. Thora soffocò un pizzico di rimorso che le stava venendo, dicendosi che lui doveva avere decine di scarpe del genere.

«Questo non è un completo», rispose Matthew piccato. «È uno spezzato. C’è una gran differenza. Ma non pretendo che tu, con la tua eleganza innata, possa notarla.»

«Oh, mi scusi, signor Kate Moss», disse Thora, ormai libera dal suo rimorso di coscienza e pronta a gustarsi il suo sadico piacere.

Matthew richiuse la porta e fece tintinnare le chiavi dell’auto a noleggio. «Allora, dove si va di bello?»

Thora guardò l’orologio del suo cellulare, che teneva nella tasca del giaccone. «Penso sia meglio cominciare con Skalholt. Si sono già fatte le quattro. Poi vedremo.»

«Perfetto, signora guida», accettò Matthew osservando pensieroso l’abbigliamento della sua collega. «Come ben sai, qui all’albergo c’è un ottimo ristorante. Non abbiamo bisogno di andare a caccia della cena qui fuori, o sbaglio?»

«Ah, ah. Sei davvero esilarante. Ma per tua informazione preferisco stare al caldo che preoccuparmi di essere vestita alla moda. E prima o poi dovrai ammettere che ho ragione.»

Quando arrivarono alla cattedrale di Skalholt stava già calando la sera. I due si affrettarono a entrare nella chiesa, che era ancora aperta, alla ricerca di qualcuno con cui fare due chiacchiere. Ben presto trovarono un ragazzo che li ricevette con estrema cortesia e chiese loro in che cosa potesse aiutarli. Loro gli spiegarono che speravano di trovare qualcuno che poteva aver parlato con un loro amico tempo prima e gli descrissero l’aspetto di Harald.

«Aspettate», interruppe Thora a metà descrizione. «State per caso alludendo allo studente ucciso? Io l’ho incontrato!»

«Si ricorda per caso il motivo della sua visita da queste parti?» chiese allora l’avvocatessa.

«Fatemi pensare… Allora, vediamo… Se ben ricordo, voleva discutere la decapitazione di Jon Arason… Sì, e anche di Brynjolfur Sveinsson.» Vedendo le loro espressioni perplesse si affrettò ad aggiungere: «Non c’è niente di strano, qui arrivano appunto visitatori che già conoscono queste storie e sono interessati a saperne di più. Si tratta di un’attrazione locale, per così dire, un drammone cruento. Per esempio, la gente pare affascinata dal fatto che per decollare il vescovo Jon Arason ci siano voluti ben sette colpi d’ascia. Alla fine il collo era praticamente maciullato.»

«Voleva discutere della vita dei due vescovi in generale, oppure era interessato anche a qualcosa di particolare che si collegava alla loro carriera?»

La domanda gli era stata rivolta da Thora, eppure lui rivolse la sua risposta a Matthew. «Non so quanto bene conosciate la storia di Jon Arason».

Matthew si sentì preso di mira in quanto straniero e ripose secco: «Di lui ne so esattamente quanto di sua madre: cioè un bel niente».

Sul volto del giovane comparve una sfumatura di disprezzo. «Per farla breve, Jon Arason era l’ultimo vescovo cattolico dell’Islanda, che nel 1524 venne eletto nel vescovado di Holar, nella valle di Hjaltadalur. Per un certo periodo, anche il vescovado di Skalholt si era trovato sotto la sua giurisdizione. E proprio qui a Skalholt venne giustiziato nel 1550 per ordine del sovrano di Danimarca Cristiano III, che nel 1537 aveva ordinato solennemente l’abolizione del cattolicesimo nelle terre dell’impero danese a favore del luteranesimo, l’unica religione di Stato permessa. Jon Arason fece il possibile per resistere a quell’ingiunzione e intraprese una lotta all’ultimo sangue con i seguaci della nuova religione, ma senza successo, tanto che venne condannato al patibolo. L’esecuzione costituisce poi un capitolo a parte, dato che due settimane prima era stato dichiarato immune da pene fino alla seduta successiva del Parlamento, l’anno seguente, durante la quale si sarebbero dovute rimettere all’ordine del giorno la sua posizione e quella dei suoi due figli. Anche i suoi figli, sapete, furono giustiziati assieme a lui.»

Matthew aggrottò le sopracciglia. «I suoi figli? Ma non ha appena detto che era l’ultimo vescovo cattolico? Come poteva avere dei figli?»

Il giovane custode sorrise. «L’Islanda godeva in quel periodo di una sorta di dispensa. Non so per quale motivo fosse stata concessa, ma i chierici, i diaconi e i vescovi quassù potevano tenersi delle concubine, se volevano, e addirittura formare con loro una famiglia, anche se ovviamente non avevano il permesso di sposarle ufficialmente. Se facevano dei figli dovevano solo pagare una multa, e tutti vivevano felici e contenti.»

«Che fortunati», disse Matthew ancora sorpreso.

«Davvero fortunati», fu la risposta allegra del ragazzo. «Harald, il vostro amico, conosceva queste storie molto a fondo. Sicuramente le aveva studiate per conto suo. Quello che vi sto narrando ora non è che un riassunto semplificato e assolutamente incompleto dell’intera storia. Ma ciò ci riporta alla vostra domanda iniziale.» Guardando Thora, che già da un pezzo si era dimenticata quale fosse la domanda, continuò: «Questo vostro amico era interessato a un particolare: la tipografia che Jon Arason aveva fatto importare, primo tra gli islandesi, qui nell’isola nel 1534 e che aveva gestito personalmente nella sede di Holar, nonché le opere che aveva fatto stampare durante il suo episcopato».

«E allora?» lo incalzò Thora. «Che cosa le rispose?»

«La domanda era complessa…» frenò il giovane. «Non si sa quasi nulla dei volumi stampati all’inizio dell’attività della tipografia. Alcune fonti parlano di una sorta di messale per i preti, o una specie di diario con un almanacco delle messe, dei salmi e di altre cose del genere. In seguito vennero anche stampati i quattro Vangeli del Nuovo Testamento, ma degli altri volumi editi durante il periodo in cui Jon Arason fu in carica non si sa più niente. Il vostro amico mi faceva delle strane domande, per esempio se il vescovo non fosse stato interessato all’edizione di un volume che andava molto di moda in quel periodo. Io pensavo che stesse parlando delle Bibbia, ma lo studente mi rise in faccia. Non è che abbia capito bene il suo senso dell’umorismo.»

«No, non c’è da meravigliarsi», rispose Matthew guardando Thora. «Il Malleus?» Thora stava pensando allo stesso libro. Il Malleus maleficarum era stato stampato, a quei tempi, in un numero di copie inferiore solamente alle edizioni della Bibbia. Probabilmente Harald stava inseguendo la chimera del Malleus in islandese: un simile esemplare sarebbe stato di un valore immenso per una persona come lui, ossessionata dal collezionismo.

«E invece di Brynjolfur Sveinsson, che cosa voleva sapere?» chiese Thora.

«Qui le cose si fecero ancora più bizzarre», rispose il custode. «In un primo tempo era solamente interessato a vedere la sua tomba, ma ovviamente non era possibile, dato che non fu mai rinvenuta.»

Thora lo interruppe: «Mai rinvenuta? Ma non era stato sepolto proprio qui?»

«In un certo senso. Il fatto è che aveva espresso il desiderio di venire seppellito al di fuori della chiesa, accanto a sua moglie e ai suoi figli. Esiste una descrizione scritta della posizione della tomba, però lui aveva voluto essere interrato senza pietra tombale.»

«Ma non era una cosa impensabile a quei tempi?» chiese Thora.

«Sì, del tutto inconcepibile. Infatti la tomba venne segnata più tardi con una croce di legno, che rimase in loco per trent’anni. Poi marcì e non venne mai sostituita, anche se erano state date disposizioni in merito. Nessuno sa come mai non volle farsi seppellire sotto il pavimento della cattedrale, come si usava in quel periodo tra i religiosi. Si pensa che, officiando al funerale di un prete di Skalholt, si fosse accorto dell’affollamento che si era venuto a creare sotto la chiesa. Forse voleva che tale costume venisse abolito.»

«E tale usanza venne poi veramente abolita?» domandò Matthew.

«No, per niente. Per questo dicevo che sono solo congetture. Quando morì, era ormai un uomo ridotto allo stremo, come è ben comprensibile. Pensate, una persona così importante, ritrovarsi senza più famiglia né discendenti. Un destino che commuove tutti coloro che ascoltano questa storia.»

«Lei ha detto che Harald era interessato in un primo tempo a visitare la sua tomba. In seguito dimostrò interesse per altro?» chiese Thora.

«Sì, appunto. Quando gli spiegai il fatto della sepoltura, mi accorsi che era rimasto deluso. Allora gli feci visitare i sotterranei della chiesa e gli mostrai l’esposizione di reperti archeologici lì conservati. A quel punto il discorso passò ai codici e ai manoscritti di Brynjolfur Sveinsson, che il vescovo possedeva in gran quantità, sia islandesi che esteri. Lo sapevate?» Thora e Matthew scossero il capo. «Sapete che aveva donato al re Federico di Danimarca alcune delle più preziose pergamene dell’Islanda?» Thora fece nuovamente segno di no. «Ebbene, il vostro amico si infiammò di interesse quando cominciai a parlargli dei codici, e prese a domandarmi se sapevo che fine avessero fatto dopo la sua morte. Io non potei rispondergli con precisione, ma sapevo che i libri stranieri li aveva donati a Johann Klein, il figlio neonato del governatore in carica a Bessastadir, la sede centrale del regime danese in Islanda, mentre i libri in islandese li aveva divisi tra sua cugina Helga e sua cognata Sigridur. Anzi, ricordo che una parte della collezione straniera era stata trafugata, dato che quando questo Johann Klein venne qui da Bessastadir per prendere in consegna la biblioteca a lui destinata, di libri ne mancavano diversi. Si pensa che gli abitanti di Skalholt li abbiano nascosti per impedire che fossero inviati in Danimarca. Quei libri e quei manoscritti non sono mai stati rinvenuti. E non si sa nemmeno con certezza di quali volumi si trattasse.»

«Dove potevano averli nascosti?» chiese Thora guardandosi attorno. Il giovane sorrise. «Certamente non qui dentro. Questa costruzione risale al 1956. La vecchia cattedrale, che Sveinsson aveva fatto costruire intorno al 1650, crollò in un terremoto nel 1784.»

«Ma non avete provato a cercare?»

«Ancora non abbiamo trovato la tomba di Sveinsson e della sua famiglia, pur avendone sotto mano la descrizione topografica! A nessuno è ancora venuto in mente di scavare qui intorno per ritrovare dei libri che non sappiamo nemmeno se furono sepolti veramente da queste parti. Inoltre non si sa che fine abbiano fatto i volumi lasciati in eredità a Johann Klein, anche se gira voce del ritrovamento di una parte di essi per opera dell’antiquario Arni Magnusson, specializzato in antichi manoscritti. In effetti, si può riconoscere quali libri siano appartenuti a Brynjolfur Sveinsson dalle sue iniziali.»

«BS?» chiese Thora per dare il suo contributo.

«No. LL», rispose il giovane sorridendo.

«LL?» Thora esclamò sorpresa.

«Lupus Loricarus, che in latino ha lo stesso significato di Brynjolfur, ‘lupo corazzato’.» Il giovane guardò stupito Thora che schioccava le dita. Lupus Loricarus era la scritta che aveva letto nel foglio di appunti di Harald. Erano evidentemente sulla strada giusta, se quegli scarabocchi si collegavano in qualche modo al delitto.

La conversazione non si protrasse ancora a lungo. Matthew e Thora ringraziarono il ragazzo per la pazienza dimostrata e si accomiatarono. Prima di mettere in moto l’auto, Matthew si volse verso la socia e le chiese: «Lupus Loricarus, eh sì. Non possiamo attendere che tutti se ne siano andati a dormire per metterci a scavare qui intorno con una zappa?»

«Sì, come no», rispose Thora ridendo. «Cominciamo dal cimitero.»

«Allora, tu scavi con la zappa, dato che sei vestita in maniera adatta. Io ti faccio luce con i fanali.»

I due lasciarono Skalholt. «Ora so dove possiamo andare», disse a un tratto Thora con aria innocente. «Vicino a Hella ci sono delle grotte abitate con tutta probabilità dai monaci irlandesi nell’alto Medioevo. Forse là troveremo degli indizi che ci spieghino l’interesse di Harald per quegli eremiti. Ho il sospetto che lui abbia preso in prestito le torce per dare un’occhiata in quelle cavità sotterranee.»

Matthew scrollò le spalle. «Sì, forse vale la pena darci un’occhiata. Ma come facciamo per le torce?»

«Ci fermiamo un attimo da un benzinaio e ne compriamo un paio.»

Arrivati a Hella, era già calato un buio pesto. Cominciarono con una sosta alla stazione di servizio per fare acquisti. Poi chiesero al benzinaio notizie sulle grotte, e questi rispose di rivolgersi all’Hotel Mosfell. L’albergo si trovava poco distante da lì, cosicché i due decisero di andarci a piedi. Un anziano e gentilissimo signore li accolse alla reception e uscì con loro per indicare le grotte che si intravedevano dall’altra parte della statale, sulla riva opposta del fiume. Inoltre mostrò loro la via migliore da prendere per arrivarci a piedi dal parcheggio, dato che con l’auto non era possibile avvicinarsi ulteriormente. Ringraziatolo di cuore, tornarono a prendere l’auto, attraversarono il ponte e parcheggiarono nell’area riservata ai visitatori delle grotte. Con grande spasso di Thora, dovettero camminare per un tratto sopra un prato che doveva far parte della fattoria lì nei paraggi. Matthew non faceva altro che scivolare con le sue scarpe lisce, ma riuscì a mantenersi in equilibrio sventolando di continuo le braccia come un papero impazzito. Quando furono arrivati al margine dell’altura che portava alle grotte, Thora aveva ripreso tutto il suo buonumore.

«Laggiù», esclamò indicando davanti a sé e guardando il suo compagno con uno sguardo falsamente preoccupato. «Pensi di poter arrivare fin là, piedino d’oro?»

Matthew corrugò le sopracciglia e assunse un contegno dignitoso. Si calò giù per la china come un novantenne, mentre Thora percorse il tratto inclinato saltellando come un agnellino. Poi lo aspettò in basso, decisa a godersi quell’attimo di rivincita, e gli gridò con crudeltà: «Muoversi!» Matthew non diede ascolto all’esortazione e alla fine riuscì ad arrivare con calma alla meta.

«Che premura hai?» disse accendendo la torcia. «Sei così eccitata perché andiamo fuori a cena insieme stasera?»

Thora accese la sua torcia e indirizzò il fascio di luce verso gli occhi di Matthew. «Non direi proprio. Andiamo ora.» Voltandosi, entrarono assieme nella prima grotta. «Incredibile, chissà chi ha avuto l’idea di una cosa del genere», commentò Thora stupefatta mentre il fascio luminoso vagava per l’antro oscuro. Se aveva ben capito, quelle spelonche erano state scavate nella roccia di calcite con attrezzi primitivi.

«Che intenzioni avranno avuto?» chiese Matthew.

«Soprattutto costruirsi un tetto», si udì una voce sconosciuta all’entrata della grotta.

Thora lanciò un urlo selvaggio e lasciò cadere la torcia, che rotolò sul pavimento irto di pietre disegnando un arabesco di luce sulla parete opposta a loro prima di bloccarsi. «Che spavento mi ha fatto prendere», esclamò Thora andando a riprendere la torcia. «Non avevamo idea che ci fosse qualcuno da queste parti.»

«Scusatemi, non volevo affatto farvi venire un infarto», disse l’uomo, che doveva avere una certa età a giudicare dall’aspetto. «Comunque siamo pari. Sono anni che non mi spaventavo così tanto come quando ho udito le sue urla. Il fatto è che mi hanno chiamato dall’albergo per farmi sapere che c’erano dei turisti che volevano visitare le grotte. Ho pensato che forse eravate interessati a una visita guidata. Mi chiamo Grimur e sono il proprietario delle terre qui attorno. Le grotte fanno parte del mio podere.»

Non c’era da lamentarsi con una proprietà del genere. «Ci farebbe molto piacere ricevere delle spiegazioni su questo strano posto.»

L’uomo entrò nella grotta e cominciò la sua esposizione in islandese, che Thora traduceva simultaneamente per Matthew a grandi linee. La guida mostrò loro, tra l’altro, come era probabile che i monaci avessero incastonato i loro giacigli nelle pareti appena scavate. Inoltre poterono ammirare il camino creato praticando un foro nel tetto della grotta per far entrare l’aria e uscire il fumo. Poi la guida indicò loro l’altare con la croce in fondo all’antro, che gli eremiti avevano con ogni probabilità scolpito direttamente sulla parete alle sue spalle. «Incredibile», disse Thora con stupefatta ammirazione. «Sono dei reperti eccezionali.»

«Sì, lo sono veramente», rispose la guida con orgoglio. «Questo territorio non è mai stato facilmente abitabile, a detta degli studiosi. E nel corso dei secoli si è fatto di tutto per costruirsi un tetto sopra la testa.»

«Giusto.» Thora diede un’altra occhiata attorno a sé con l’aiuto della torcia. «Ma le grotte sono state esaminate a fondo? Voglio dire, è possibile che si rinvengano ancora degli oggetti pregiati?»

«Oggetti pregiati?» L’uomo sembrava in imbarazzo e rispose con una risata. «Mia cara, queste caverne sono state usate come stalle fino al 1950 circa. Non credo che ci sia più nulla di antico da scoprire. Se ci fosse, sarebbe stato nascosto veramente bene.»

«Ah, peccato», esclamò Thora, delusa. «Quindi tutto è stato indagato a fondo?»

«No, non direi proprio», rispose la guida. «Da quanto ne so, solamente una volta si è proceduto a scandagliare le mie grotte.»

«Quando venne fatto?» domandò Thora. «Di recente?»

L’uomo rise. «No, non direi proprio. Non mi ricordo con precisione, ma devono essere trascorsi parecchi anni. E naturalmente non trovarono quasi niente, tranne ossa di animali e una buca nel pavimento che da quanto ho capito doveva essere stata utilizzata come focolare.» L’uomo indicò loro la piccola fossa nel terreno accanto all’altare. «Quel poco di importante che c’era da trovare è già tutto emerso, ve lo posso garantire.»

Thora chiese all’uomo se si ricordasse di aver visto Harald alle grotte, ma questi non ricordava nessuna persona che corrispondesse alla descrizione, anche se ciò non significava che il ragazzo non ci fosse stato per conto suo. Le grotte non erano recintate o chiuse al pubblico, cosicché non era difficile per la gente visitarle senza che loro, alla fattoria, se ne accorgessero.


«Cambiati i vestiti, Crocodile Dundee», disse Matthew a Thora quando i due furono tornati all’albergo. «Io mi tolgo solo il cappotto e vado ad aspettarti al bancone del bar per recuperare il tempo perduto su quel pendio scosceso.»

Thora lo guardò in tralice prima di affrettarsi a entrare in camera sua per cambiarsi. Questa volta si mise un paio di pantaloni eleganti e una camicetta bianca, poi si lavò la faccia e si mise un’ombra di rossetto. Non c’era niente di male nel volersi agghindare un po’ per una bella serata in compagnia di un uomo. Non voleva affatto dire che era pronta a tutto. Thora si fermò un momento sulla parola tutto. Non era stata molto convincente con se stessa, e la cosa la preoccupava un tantino. Ma smise di pensarci e si precipitò al bar dell’albergo.

Matthew era già impegnato in una vivace conversazione con il barista, quel tale Oli, sperava Thora. Il socio le lanciò un sorriso evidentemente contento per il suo cambiamento d’aspetto.

«Bellissima», le disse con tono deciso. «Questo è Oli, che mi stava appunto raccontando di Harald e di Harry Potter. Dei due si ricorda benissimo, dato che bevevano senza ritegno ed erano del tutto differenti dagli altri ospiti dell’albergo.»

«Sembravano indemoniati», continuò Oli chiedendo al contempo a Thora che cosa desiderasse da bere.

«Un bicchiere di vino bianco, grazie», rispose lei chiedendo il significato della sua affermazione.

«Beh, bevevano un bicchiere di tequila dopo l’altro e facevano finta di suonare la chitarra elettrica, cosa che da noi non si vede molto spesso. Per non parlare poi dell’aspetto di quell’Harald. Gli altri ospiti erano sconvolti e guardavano i due compagni a bocca aperta. Poi quei due fumavano come turchi, gli accendevo un sigaro dopo l’altro.»

Thora si guardò intorno per ammirare quel bar elegante con le travi a vista. Poteva essere d’accordo con la descrizione del barista. La prima cosa che le veniva in mente in quell’ambiente non era certo un’esibizione di chitarra elettrica senza chitarra. Al massimo una sviolinata senza violino. Poi si rivolse di nuovo a Oli. «Sai per caso come si chiamava per davvero Harry Potter?»

Lui sorrise. «Si chiamava Halldor. Entrambi erano diventati troppo ubriachi per ricordarsi che si doveva chiamare Harry, al termine della serata. Comunque all’inizio non si erano comportati proprio da pazzi scatenati.»

Di più non poterono cavar fuori dal barista. Allora presero posto al loro tavolo, circondato da un divanetto in pelle, brindarono e si misero a ripercorrere insieme le vicende della giornata appena trascorsa. Il cameriere arrivò con i menu e Matthew ordinò anche altro vino. Thora, con sua profonda meraviglia, aveva già terminato il suo vino e apprezzò l’iniziativa. Dopo cena Thora accompagnò le chiacchiere al Cointreau, e al terzo bicchiere mancava poco che anche lei facesse un assolo di chitarra elettrica davanti a Matthew e a Oli il barista. Invece posò la testa sul petto del suo compagno.

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