8 dicembre 2005

13

Thora era seduta al computer quando Matthew arrivò a prenderla alle nove. Aveva appena finito di rispondere alle e-mail che erano arrivate il giorno precedente e le aveva sbrigate passandole quasi tutte a Thor. Bragi l’aveva accolta con un ampio sorriso quella mattina, convinto oramai che il caso del ragazzo tedesco avrebbe aperto loro la strada dell’estero, procacciando allo studio legale numerosissimi altri incarichi. Thora non se la sentiva di scoraggiarlo, dato che era assai felice di potersi concentrare sul mistero del delitto senza doversi occupare al contempo di altri casi minori. Tra l’altro aveva inviato a Mal, l’amico sconosciuto di Harald, una e-mail nella quale lo informava succintamente che Harald era morto e che lei e Matthew Reich stavano investigando sulle cause del decesso per conto della famiglia Guntlieb. Infine lo pregava gentilmente di mettersi in contatto con loro, se fosse stato in possesso di informazioni che avrebbero agevolato la soluzione del caso.

Quando Bella telefonò per comunicarle l’arrivo di Matthew, Thora le disse di far accomodare l’ospite e di farlo attendere cinque minuti. Le premeva di non lasciare niente in sospeso sulla sua scrivania per non dover tornare in ufficio nel tardo pomeriggio. Si affrettò a chiudere le ultime cartelle e spense il computer, soddisfatta dei risultati di quella mattina. Forse avrebbe potuto presentarsi in ufficio sempre così presto, anche se ciò le avrebbe comportato più sacrifici a casa. Certo che quelle prime ore del mattino erano utilissime per portare a termine i lavori lasciati indietro, senza l’assillo del telefono in orario di apertura.

Prese con sé il miniregistratore che conservava nel cassetto della scrivania per adoperarlo durante l’intervista con Hugi. Mentre controllava che le pile fossero cariche, si mise a pensare a suo figlio, che a colazione aveva un aspetto abbattuto. Qualunque fosse il suo problema, non era certo svanito nel corso della notte. Il ragazzo sedeva distratto, non aveva appetito e non le era riuscito di cavargli fuori nulla tranne qualche mezza parola. Soley invece aveva parlato senza interruzione, come era d’altronde abituata a fare la mattina, impedendole di intavolare un discorso serio con Gylfi. Aveva così deciso di rimandare l’occasione alla sera, con calma, dopo che la figlia se ne fosse andata a letto. Ma ora non aveva tempo di ripensare ai suoi problemi famigliari. Infilò il registratore nella borsa e uscì dal suo ufficio.

Ebbe un sussulto di sorpresa quando entrò nella sala d’attesa. Matthew era seduto sul tavolo di Bella e discorreva con la segretaria, radiosa come il sole. I due neppure si accorsero che Thora era già entrata e lei dovette schiarirsi la gola per attirare la loro attenzione.

Matthew si voltò. «Ahi, speravo proprio che ci mettessi ancora un po’ più di tempo a finire.» Poi sorrise a Thora e le fece l’occhiolino.

Lei non riusciva a distogliere lo sguardo dal volto di Bella, che ridendo era così mutato. Dopotutto, quando era contenta, poteva anche considerarsi una ragazza carina. «Allora, ci mettiamo al lavoro?» disse Thora prendendo il suo cappotto. «Che bello vederti così allegra, Bella», aggiunse sorridendo alla sua segretaria.

Ma il sorriso della ragazza scomparve come neve al sole. Il fascino che Matthew aveva esercitato su di lei evidentemente non aveva prodotto effetti duraturi. «Quando torni?» chiese in tono burbero.

Thora cercò di non mostrare la sua delusione di non far parte della squadra dei simpatici. «Non penso proprio che tornerò di nuovo questo pomeriggio, ma ti chiamo se le cose dovessero cambiare.»

«Sì, sì, certo», rispose Bella, dando a intendere, con il tono della voce, che Thora non era affatto abituata a far sapere i suoi movimenti. Il che era assurdo.

«Hai sentito cos’ho detto.» Thora non poté sorvolare sulla questione, pur sapendo che avrebbe fatto meglio a farlo. «Vieni, Matthew.»

«Sissignora!» le rispose lanciando un sorriso d’intesa a Bella. Con grande dispiacere di Thora, il sorriso venne ricambiato.

Quando si furono seduti nell’auto, l’avvocatessa si allacciò la cintura e voltò lo sguardo verso Matthew. «Sai guidare sulle strade ghiacciate?»

«Si vedrà», rispose Matthew enigmatico mentre usciva dal suo posteggio. Visto il volto preoccupato della sua collega, aggiunse: «Non preoccuparti, sono un guidatore eccellente».

«Non devi assolutamente frenare se la macchina prende a slittare», continuò Thora, per niente convinta delle abilità al volante di Matthew.

«Vuoi guidare tu?»

«No, grazie tante. Io non so proprio usarli i freni sulle strade sdrucciolevoli. La prima cosa che faccio istintivamente quando l’auto comincia a slittare è inchiodare, nonostante conosca la teoria. In materia di guida sono un autentico disastro.»

Presero la via della campagna e arrivati sull’altipiano che separa la capitale dal resto del Paese Thora non poté trattenere la curiosità. «Di cosa stavate parlando?»

«Chi?» chiese stupito Matthew.

«Tu e Bella, la mia segretaria. Che di solito è un botolo ringhioso.»

«Ah, lei. Stavamo parlando di cavalli. Vorrei provare a fare una cavalcata durante il mio soggiorno qui da voi, dato che ho sentito parlare così bene del cavallo islandese. Mi stava solamente dando dei consigli.»

«Ma che ne sa lei di cavalli?» chiese Thora meravigliata.

«È molto pratica di equitazione, non lo sapevi?»

«No, non lo sapevo», rispose Thora, compatendo i poveri cavalli costretti a sopportare il peso di Bella. «Che cosa cavalca? Ippopotami?»

Matthew la guardò con la coda dell’occhio. «Sei gelosa?» chiese poi beffardo.

«Sei ubriaco?» fu la pronta risposta di lei.

Passarono silenziosi attraverso la distesa di lava, che per Thora era uno dei paesaggi più affascinanti dell’intera isola, soprattutto d’estate, quando il muschio era di un verde fresco e lucente; le linee dolci delle distese di muschi creavano un contrasto totale con le taglienti sporgenze della lava. Ora invece la zona, ricoperta da un bianco mantello di neve, era troppo omogenea. Il candore diminuiva anche la maestosità della visione, infondendo invece a Thora una sensazione di serenità. Alla fine ruppe il silenzio: «Bello, vero?»

Matthew si voltò verso il finestrino per ammirare quello scenario naturale. Il traffico era pressoché inesistente. «Bellissimo», disse sorridendole come per far pace.

«Noi due non ingraniamo proprio come colleghi, non ti pare?» ammise riferendosi alle loro continue punzecchiature. «Dovremmo forse provare una nuova tattica.»

Matthew le sorrise di nuovo. «Dici? Io sono contentissimo dei nostri rapporti. Tu sei una compagna di lavoro e di viaggio assai più divertente di quanto sia abituato nel mio lavoro. Le poche donne con le quali intrattengo rapporti nel mio campo sono talmente tese che cadono a pezzi se si toglie loro una vite!»

Ora fu il turno di Thora a ridere. «Anche tu sei più simpatico di Bella, questo te lo concedo.» Dopo un attimo di silenzio, proseguì: «Dimmi una cosa. Nel dossier c’era il ritaglio di un giornale tedesco riguardante la morte di alcuni studenti alle prese con il sesso da soffocamento. Perché l’hai messo nel fascicolo?»

«Beh…» Matthew si concesse un attimo di riflessione. «All’inferno. Sì, una delle persone citate nel giornale era un caro amico di Harald. Si erano conosciuti all’università ed erano entrambi senza dubbio delle anime in pena, uniti nel vizio e nelle bestialità che avevano intrapreso assieme. Non so chi dei due iniziò l’altro a queste perversioni sessuali, comunque Harald giurava che era stato l’amico a incominciare. Harald era stato presente alla morte del giovane e fu sottoposto a una trafila di interrogatori e rogne del genere. Anzi, mi vergogno quasi di dirlo, ma ho il sospetto che per far tacere la stampa abbia dovuto versare delle bustarelle. Ricordi di aver visto delle uscite consistenti dal suo conto corrente nel periodo in questione, cifre che io stesso avevo segnato in rosso?» Thora annuì. «Il motivo per cui ho inserito anche l’articolo di giornale nel nostro caso si ricollega al fatto che Harald è morto strangolato. Forse non è stata una semplice coincidenza. Chissà, può darsi che sia morto nello stesso modo del suo amico, anche se ne dubito molto.»

I due parcheggiarono l’auto nel posteggio sotto la recinzione del penitenziario di Litla-Hraun e si avviarono a piedi verso il cancello riservato agli ospiti. Uno dei secondini di guardia li fece sistemare nella saletta d’aspetto al secondo piano. «Abbiamo ritenuto meglio per voi che l’incontro si svolga qui dentro. Qui avrete più spazio che dentro la stanza degli interrogatori», spiegò la guardia. «Hugi è un tipo tranquillo e non dovrebbe causarvi grossi problemi. Arriverà tra un momento.»

«Grazie mille, qui va benissimo», disse Thora entrando nella saletta, poi si sedette su una poltrona di pelle marrone e Matthew decise di accomodarsi proprio al suo fianco, con evidente sorpresa della donna.

Matthew subito chiarì: «Se Hugi si mette di fronte a noi, è meglio che noi sediamo qui. Lo voglio vedere dritto in faccia». Poi, marcando per due volte le sopracciglia, continuò: «Inoltre mi riempie di gioia sedere così stretto al tuo fianco!»

Thora non fece in tempo a rispondere a tono che la porta si riaprì e Hugi Thorisson apparve in compagnia del secondino, che gli teneva una mano sulla spalla. Il giovane, lo sguardo abbassato, il morale a terra, aveva le manette e faceva un’impressione talmente misera che Thora gliele avrebbe volute togliere. La guardia carceraria gli disse qualcosa e per la prima volta il ragazzo sollevò il capo, spostò con un gesto di entrambe le mani il ciuffo di capelli lunghi davanti agli occhi e mostrò un volto che a Thora parve subito aggraziato, di un’avvenenza assai diversa da come si era immaginata. Le sembrò anche dimostrare molto meno dei venticinque anni che aveva, diciassette al massimo. Aveva le sopracciglia brune, gli occhi grandi e gli zigomi pronunciati, dovuti probabilmente alla sua estrema gracilità. Se era stato lui a uccidere Harald, certo che avrebbe dovuto ricorrere a tutte le sue forze, pensò Thora. E per giunta non sembrava proprio il tipo da poter trascinare un corpo di ottantacinque chili per quei corridoi.

«Mi prometti di comportarti bene, amico?» gli chiese il secondino gentilmente. Hugi annuì, permettendo all’altro di togliergli le manette. La guardia dovette mettergli di nuovo la mano sulla spalla per guidarlo verso la sedia di fronte a Thora e Matthew. Il ragazzo si sedette, o meglio si afflosciò, al suo posto, lo sguardo sempre incollato al pavimento.

«Se avete bisogno di noi, siamo nella stanza qui accanto. Ma non dovrebbe crearvi fastidi.» Il secondino si rivolse direttamente a Thora.

«Benissimo», rispose lei. «Lo tratteniamo quel tanto che basta, non un minuto di più.» E, guardando il suo orologio, aggiunse: «Finiremo sicuramente per mezzogiorno».

La guardia li lasciò soli e dopo che ebbe chiuso la porta non si sentì più niente all’infuori del respiro pesante dei tre e del rumore sommesso che Hugi faceva grattandosi, a intervalli regolari, le ginocchia dei pantaloni militari che indossava.

«Hugi», esordì Thora con la voce più dolce che poteva. Poi gli si rivolse in islandese per familiarizzare con lui. Avrebbe chiarito più tardi se conosceva l’inglese. «Dubito che tu non sappia chi siamo noi. Comunque, io mi chiamo Thora Gudmundsdottir, e sono un avvocato, mentre questi è Matthew Reich dalla Germania. Ci troviamo qui per l’omicidio di Harald Gunflieb, su cui stiamo investigando indipendentemente dalla polizia.»

Nessuna reazione. Thora proseguì: «Volevamo incontrarti perché non siamo affatto convinti della tua colpevolezza, anzi pensiamo che tu non c’entri per niente in questa faccenda». L’avvocato tirò un respiro profondo per sottolineare l’importanza delle parole successive. «Stiamo cercando di scoprire il vero assassino di Harald, poiché non crediamo che sia tu il vero colpevole, capisci? Se veramente non hai ucciso il tuo amico, hai tutto l’interesse ad aiutarci.» Hugi sollevò lo sguardo e finalmente lo rivolse alla donna, ma non aprì bocca. Thora fu costretta a proseguire. «Comprenderai sicuramente che se riusciamo a dimostrare che è stato qualcun altro a uccidere Harald, allora tu sei scagionato dall’intero caso.»

«Non l’ho ammazzato io», sussurrò a quel punto Hugi. «Nessuno mi vuole credere, ma non l’ho ammazzato io.»

«Hugi, il signor Reich qui al mio fianco è tedesco. È un esperto di investigazioni, ma purtroppo non conosce l’islandese. Te la sentiresti di parlare con noi in inglese, in modo che capisca anche lui? In caso contrario, non ci saranno problemi. Quello che vogliamo innanzitutto è che tu comprenda le nostre domande e che risponda senza difficoltà di sorta dovute alla lingua.»

«L’inglese lo parlo eccome», fu la sua risposta, pronunciata ancora in tono sommesso.

«Perfetto», disse Thora. «Se però non capissi qualcosa di quello che diciamo o ti trovassi in difficoltà a formulare la risposta in inglese diccelo, così ripassiamo semplicemente all’islandese.»

Thora si voltò verso Matthew per riferirgli che la conversazione poteva proseguire in inglese. Matthew non se lo fece dire due volte, si chinò in avanti e cominciò perentorio: «Hugi, per prima cosa raddrizza la schiena e guardaci dritto in volto. Piantala con quell’aria da gatta morta e prendi un contegno civile, almeno per quel poco che stiamo qui con te».

Thora ebbe un sussulto. Che razza di discorso machista era quello? Non si sarebbe stupita se il ragazzo fosse scoppiato a piangere o se ne fosse andato in cella, lasciandoli lì come due stupidi, anche perché nessuno lo costringeva a parlare con loro. Ma mentre stava per intervenire Matthew riprese a parlare. «Ti trovi in un brutto guaio, non c’è bisogno che te lo rammenti. Davanti a te hai la tua unica speranza di uscirne, per cui ti conviene mettercela tutta per aiutarci e rispondere con sincerità alle nostre domande. Nelle tue condizioni attuali è normale sprofondare nell’autocommiserazione, ma al momento ti conviene comportarti da uomo e non da bambino. Fa’ come ti ho detto, raddrizza la schiena, guardami in faccia e rispondi scrupolosamente a ciò che ti chiediamo. Ti sentirai meglio anche solo a riprendere un aspetto umano. Dài, provaci.»

Thora seguì con stupore Hugi compiere esattamente i gesti ordinatigli da Matthew. Si tirò su da quella posa moscia che aveva assunto in precedenza e fece il possibile per ricomporsi. Il suo aspetto da ragazzino rimase, ma la metamorfosi fu quasi completa. Quando riprese la parola, la sua voce era diventata più ampia e matura. «Faccio fatica a mantenere l’attenzione. Mi hanno dato dei calmanti che mi hanno rintronato.» Thora lo guardò bene negli occhi, velati e con le palpebre cascanti. «Comunque cercherò di rispondervi.»

«Come vi incontraste, tu e Harald?» chiese Thora.

«Lo conobbi in una discoteca del centro. Ci parlai per un po’ e mi sembrò subito un tipo simpaticissimo. Di lì a poco lo presentai anche a Halldor.»

«Chi sarebbe questo Halldor?» riprese Thora.

«Halldor Kristinsson. Uno studente di Medicina», rispose Hugi con un tono di fierezza. «Siamo amici da una vita. Da piccoli eravamo vicini di casa, a Grafarvogur. Lui sì che è uno intelligente, per niente il tipo del professore. Voglio dire, uno sempre disposto a divertirsi con noi.»

Thora prese nota. Hugi stava parlando del ragazzo che non era potuto andare alla festa la sera in cui Harald venne ucciso, quello che invece aveva aspettato i suoi amici al bar. «Eravate molto amici, tu e Harald?»

«Sì, certo. Ma non così intimi come Harald e Halldor. Harald veniva qualche volta da me per comprare…» Hugi si fermò di colpo a metà frase e assunse un aspetto turbato.

«Non gliene importa niente a nessuno del tuo ridicolo spaccio di droga, per come stanno le cose al momento. Vai pure avanti», intervenne Matthew brusco.

Il pomo di Adamo di Hugi andava su e giù mentre lui decideva come proseguire. «D’accordo. Ogni tanto mi diceva che ero il suo migliore amico; penso però che lo dicesse solo per scherzare, quando doveva comprare della roba da me. Comunque era uno tosto, completamente diverso da tutti quelli che ho conosciuto.»

«In che senso?» domandò Thora.

«Per prima cosa aveva le tasche piene di soldi e stava sempre a offrirci da bere o altro. Poi il suo appartamento era una cosa mai vista, e la sua auto…» Prima di proseguire, ci pensò un po’ su. «Ma non era solamente questo, anzi. Era molto, molto più fico di tutti quelli che ho incontrato. Non aveva paura di niente, inventava sempre qualche nuova pazzia e riusciva non so come a trascinarci tutti con sé. E poi quella roba che si era fatto impiantare su tutto il corpo… nessuno osava imitarlo. Nemmeno Halldor, che ne aveva una voglia matta, ma aveva paura di rovinarsi la carriera. Figuratevi che si pentiva persino di un piccolo tatuaggio sul braccio. Mentre invece ad Harald non importava nulla del futuro, niente di niente.»

«Anche perché, come abbiamo visto, di futuro non gliene rimaneva poi così tanto», intervenne Matthew. «Che cosa facevate insieme, di cosa parlavate?»

«Non mi ricordo niente di preciso. Le solite cose.»

«Ti ha messo qualche volta al corrente delle sue ricerche sulle persecuzioni alle streghe?» chiese Thora speranzosa.

«Streghe?» Hugi sbuffò. «All’inizio non parlavano d’altro. Anzi, quando cominciai a frequentare il suo gruppo, mi invitò a far parte del loro circolo di magia.»

Matthew lo interruppe. «Circolo di magia? Di che stai parlando?»

«Malleus qualcosa. Doveva essere una società di dilettanti di pratiche magiche, me l’aveva presentata come una roba filosofica…» Hugi cercò di evitare lo sguardo di Thora, arrossì un poco e si rivolse a Matthew. «Invece era tutta un’altra cosa. Non pensate che fossimo come Harry Potter, anzi. La nostra setta era imperniata su quattro elementi: sesso, stregoneria, droga e ancora sesso.» Sorrise. «Per questo mi piaceva partecipare. A me della storia, della filosofia o della magia nera non interessava proprio un fico secco, né delle rune o delle formule magiche che recitavano. Io volevo solamente divertirmi. Le ragazze erano carine.» Hugi perse per un attimo la concentrazione, probabilmente per richiamare alla memoria dolci momenti trascorsi con quelle affascinanti creature. «In ogni caso, alcune delle storie che raccontavano erano forti. Mi ricordo quella di una donna incinta che era stata condannata al rogo, e che partorì avvolta dalle fiamme. Dei monaci salvarono il neonato dalla pira, ma poi decisero di ributtarcelo perché poteva essere contaminato dall’indole stregonesca della madre. Harald giurava che era la verità.»

Thora fece una smorfia e riportò Hugi al presente. «Chi faceva parte di questa setta segreta? Chi erano le ragazze caline?»

«Harald era la nostra guida spirituale; poi veniva Halldor, una specie di braccio destro del capo; io; Briet, studentessa universitaria di Storia, penso l’unica che ne faceva parte per interesse reale; Brian, anche lui studente di Storia; Andri, che studiava Chimica; e Marta Mist, che era tutta presa da queste nuove teorie femministe. Lei sì che è una spina nel fianco, insopportabile, sempre a parlare di donne qui, donne là, e di come siano da sempre oppresse, discriminate e bla bla bla. Con i suoi discorsi non faceva altro che deprimerci e rovinarci tutto il divertimento. Harald la prendeva spesso in giro, la chiamava Nebel, il che la faceva innervosire parecchio. Significa ‘nebbia’ in tedesco. Come Mist in islandese, capito il gioco di parole?» Thora annuì, mentre Matthew rimase fermo come una statua di sale. «Questo era il nucleo del gruppo, anche se ogni tanto entravano dei nuovi adepti, che però non duravano molto come noi. Comunque non seguivo bene quello che facevano, come ho detto non mi interessava per niente la magia, ma solo il contorno.»

«Tu dici che Halldor era il suo braccio destro. In che senso?» chiese Thora.

«Loro due stavano sempre insieme a lavorare su qualcosa. Credo che Halldor lo aiutasse con delle traduzioni o qualcosa di simile. Era sottinteso che nel momento in cui Harald fosse tornato in patria, il suo braccio destro avrebbe preso il suo posto, il che lo rendeva molto fiero. Halldor era come stregato da Harald.»

«Halldor è omosessuale?» chiese Matthew.

«No, sicuramente no. Ma stravedeva per lui, non so se mi spiego. Halldor proviene da una famiglia povera, come me d’altronde. Harald lo riempiva di denaro, di regali costosi e di elogi e Halldor in cambio lo adorava. Si vedeva bene che ad Harald la cosa era assai gradita. Ma con Halldor non era sempre così buono e caro. C’erano delle volte in cui lo umiliava volutamente davanti a noi. In ogni modo, poi pensava a farsi perdonare in modo che Halldor non se la prendesse troppo. Era un rapporto alquanto strano.»

«Come ti faceva sentire il fatto che il tuo migliore amico si fosse morbosamente legato al nuovo arrivato? Non ti sei mai ingelosito?» chiese Thora.

Hugi sorrise. «No, per niente. Eravamo sempre buoni amici. Harald sarebbe rimasto qui in Islanda solamente per un breve periodo e sapevo che, partito lui, le cose sarebbero tornate come prima. Anzi, ammetto che mi faceva piacere vedere Halldor nella parte dell’ammiratore. Fino ad allora lui era stata la persona che io ammiravo di più, cosicché ritrovarlo ora nei miei stessi panni, per così dire, era una gradita novità. Non che Halldor mi trattasse come Harald trattava lui, né dal punto di vista della generosità, né da quello della cattiveria.» Il volto di Hugi si scurì all’improvviso. «Non l’ho ammazzato per riconquistarmi il mio amico. Non era una faccenda del genere.»

«No, ci credo», lo rassicurò Matthew. «Ma dimmi piuttosto una cosa. Se non l’hai ucciso tu, chi l’avrebbe fatto? Non puoi non avere dei sospetti. Certo non è stato né un suicidio né un incidente.»

Lo sguardo di Hugi cercò di nuovo il pavimento. «Non ne ho idea. Se sapessi qualcosa l’avrei già detto. Non mi piace stare rinchiuso qui dentro.»

«Pensi che lo abbia ucciso il tuo amico del cuore?» domandò Thora. «Lo stai proteggendo?»

Hugi fece di no con il capo. «Halldor non sarebbe capace di ammazzare una mosca. Non se ne parla neppure. Poi ve l’ho detto che idolatrava Harald.»

«Sì, ma ci hai anche detto che spesso Harald si comportava malignamente nei suoi confronti, umiliandolo persino di fronte a tutti gli altri. Chissà, forse gli è saltata la mosca al naso e non si è più potuto controllare. Cose del genere capitano», insisté Thora.

Hugi risollevò lo sguardo, più caparbio di quanto lo fosse stato fino ad allora. «No. Halldor non è uno di quelli. Sta studiando per diventare medico. Lui vuole aiutare la gente a vivere, non a morire.»

«Hugi mio, mi dispiace darti questa delusione, ma ti posso garantire che anche i medici hanno fatto morire la gente nel corso dei secoli. Tutte le professioni hanno la loro mela bacata», intervenne Matthew con sarcasmo. «Ma se non è stato Halldor, chi allora?»

«Forse Marta Mist», balbettò Hugi senza convinzione. Era evidente che la ragazza non era tra le sue predilette. «Forse Harald l’aveva chiamata Nebel una volta di troppo.»

«Marta Mist, sì», disse Matthew. «Sarebbe un’ipotesi ineccepibile, se la ragazza non avesse un alibi di ferro. Come tutti gli altri della setta magica. Eccetto Halldor, il cui alibi è il più debole. Non è da escludere che sia potuto uscire dal bar e rientrarvi dopo aver ucciso Harald, senza che nessuno se ne accorgesse.»

«E ritrovare lo stesso posto di prima? Alla Kaffibrennslan il sabato sera? Non penso proprio!» rispose Hugi con altrettanto sarcasmo.

«Però a te non viene in mente nessun altro al momento…» continuò Thora.

Hugi riempì d’aria le guance e sbuffò lentamente. «Forse qualcuno dell’università. Non lo so. O qualcuno dalla Germania», disse evitando di guardare in viso Matthew, casomai avesse offeso il suo amor patrio. «So che Harald stava festeggiando qualcosa quella sera. Me l’aveva detto lui stesso e per questo voleva acquistare della roba da me.»

«In che senso?» riprese Matthew stizzito. «Cerca di essere un po’ meno generico. Ripeti esattamente le sue parole.»

Hugi si incaponì a sua volta. «Esattamente? Non me lo ricordo affatto per filo e per segno, ma so che si riferiva a una qualche cosa che aveva finalmente ritrovato. Gridava in tedesco e saltava dalla gioia. Poi mi abbracciò, stringendomi talmente forte da farmi male. Intanto mi chiedeva di rifornirlo di pillole, perché era al settimo cielo e gli andava di darsi alle follie quella notte.»

«Fu allora che ve ne andaste dal party?» domandò Thora. «Dopo che ti strinse e ti chiese le pillole?»

«Sì, subito dopo. Io nel frattempo ero uscito di testa, prima avevo bevuto come una spugna e poi assunto dell’amfetamina per cercare di ritirarmi su. Troppa, per la verità. Così prendemmo un taxi per casa mia, ma ricordo che non trovammo nessuna pillola. Io ormai ero completamente partito e non avrei trovato neppure il latte nel frigo. Harald si arrabbiò tantissimo, si mise a urlare che aveva fatto un viaggio a vuoto della malora. Poi ricordo solo che crollai sul divano, con la stanza che mi girava tutta intorno.»

Thora lo interruppe. «Hai detto di non avergli fornito l’ecstasy?»

«No, appunto, non ho trovato niente», ribadì Hugi. «Ero bollito, come ho già detto.»

Thora rivolse uno sguardo a Matthew, ma non osò dire niente. Nella documentazione dell’autopsia era risultato che nel sangue di Harald c’era un’alta concentrazione di ecstasy, cosicché in qualche modo e da qualche parte se l’era dovuta procurare. «Può essere che ne avesse già presa qualcuna quel giorno, prima del party? Oppure che l’abbia trovata a casa tua dopo che tu perdesti conoscenza?»

«Al party era ancora pulito, ne sono sicuro. Non aveva nessun sintomo, credete a un esperto in materia. È anche escluso che ne abbia trovata un po’ a casa mia perché è stata invece la polizia a scovarla nascosta nel mio scantinato, durante la perquisizione. Ce l’avevo nascosta io stesso e avevo la chiave in tasca. Harald non può essere andato a cercarla là perché non poteva affatto sapere dove la tenevo. Forse è tornato a casa sua per rifornirsi. So che ne teneva un po’ di scorta, ma diceva che non era un granché. Perché mi fate tutte queste domande su un particolare così insignificante?»

«Come fai a essere così sicuro che non ti abbia infilato la mano nella tasca dei pantaloni per prendere la chiave? Forse non te lo ricordi, ma potresti anche averglielo detto tu della chiave o della cantina», disse Matthew e aggiunse: «Cerca di rinfrescarti la memoria. Tu giacevi sul divano e la stanza ti girava tutt’intorno. E poi?»

Hugi fece una smorfia, tentando di farsi venire in mente qualcosa. Improvvisamente spalancò gli occhi e li fissò meravigliato. «Che scemo! Certo che mi ricordo. Non ero stato io a dire qualcosa a lui, ma il contrario. Si era chinato sul mio orecchio e mi aveva sussurrato una frase. Mi ricordo che volevo rispondergli, dirgli di aspettarmi, ma non ci riuscii.»

«Che cosa? Cosa ti disse?» incalzò Matthew, infervorato dalla curiosità.

Hugi li guardò titubante. «Probabilmente è una fesseria ma mi pare di ricordare che le sue parole suonassero così: ‘Dormi bene, bambino mio. Festeggeremo un’altra volta. Sono venuto in Islanda alla ricerca dell’inferno e indovina un po’? L’ho trovato!’»

14

«Non fare il cretino.» Marta Mist socchiuse le labbra e lasciò uscire una lunga soffiata di fumo. Fece cadere la cenere dalla sigaretta mezza fumata, poi la spense; per il momento bastava. «Peggiorerai solamente la situazione, e non ti mettere in testa di fare un piacere a qualcuno.» I suoi occhi verdi e a mandorla erano colmi di sfida quando si fissarono sul giovane seduto, o meglio accucciato, sulla sedia dall’altra parte del tavolino. Lui contraccambiò l’occhiata con una altrettanto ostile, ma non disse niente. Marta Mist si raddrizzò e si fece scorrere le dita sottili nei capelli rossi e ondulati. «È inutile che fai quella faccia. È colpa tua se siamo tutti coinvolti in questo casino, per cui non sognarti nemmeno di diventare tutt’a un tratto un cittadino modello e pieno di scrupoli.» Per farsi forza guardò l’amica che le sedeva accanto. Lei si limitò ad annuire. Aveva i capelli biondi tagliati corti e un aspetto un po’ androgino, comunque era carina. Vista da dietro pareva più un bambino, ma di fronte rivelava un seno procace e grandi occhi molto femminili. Marta Mist invece era di statura alta e con un carattere aggressivo. «Che razza di discorsi da stupido fai, mi viene da vomitare. Abbandonare il duello!» La ragazza si riappoggiò allo schienale della sedia, con un’espressione di disprezzo.

«Perdio!» rispose Halldor con la stessa foga. «Smettila una volta per tutte di usare queste frasi pompose!» Il nervosismo gli sprizzava da tutti i pori e nel guardare in faccia Marta Mist gli faceva tremare il labbro superiore, scoprendo i denti bianchissimi. Poi distolse lo sguardo dalla ragazza e tirò una boccata di fumo. Quando lo ebbe soffiato via gli era un po’ passata la rabbia e poté aggiungere in tono più calmo: «Dovresti invece essere contenta che voglia andare dalla polizia. Non credi che sarebbe una pacchia, per te, nel carcere femminile? Pensaci su, solamente donne…» Halldor le lanciò un sorriso sarcastico.

Marta Mist lo ripagò con la stessa moneta. «In quel caso potremmo telefonarci e raccontarci delle belle storie. Tu avrai certamente un grande successo in galera, tesoruccio mio. Un ragazzo così carino, così sensuale.» E gli contraccambiò il sorrisetto ironico.

«Fatela finita adesso», intervenne finalmente Briet. I due la guardarono stupiti e lei, arrossendo intimidita, riprese a concentrarsi sul suo bicchiere. Poi mormorò tra le labbra: «Non mi va proprio di finire in carcere, e non voglio che nemmeno tu faccia questa fine». Sollevando lo sguardo, si rivolse ad Halldor. «Tutta questa faccenda mi terrorizza.»

Halldor le sorrise candidamente. Le voleva bene, anzi qualcosa di più, si rendeva conto di essersi preso una bella cotta per lei, anche se la cosa non andava oltre i rapporti sessuali, al momento. «Nessuno va a finire in galera.» Poi guardò Marta Mist. «Guarda qui cos’hai combinato. Stai spaventando Briet con tutte queste sciocchezze.»

Marta Mist assunse un’aria scandalizzata. «Io? Sveglia, ragazzo! Hai cominciato tu a parlare di prigione, cocco mio, non io.» Dando un’occhiata a Briet, si mise a sbuffare e a roteare gli occhi. «Ma a chi diavolo è venuto in mente di venire qui?»

I tre si trovavano nel bar dell’Hotel 101, al centro di Reykjavik, e sedevano nella saletta con il camino, dove era ancora permesso fumare. Questo era stato il posto preferito dal gruppo di amici di Harald, e lo avevano frequentato assiduamente sin da quando Harald si era messo a capo della strana combriccola. Ora che la guida era scomparsa, però, era come se quel luogo avesse perduto tutto il suo fascino particolare.

Halldor abbassò il capo, demoralizzato. «Perdio, Marta. Mi sembra di impazzire. Non possiamo parlare insieme da amici? Io credevo che mi potessi aiutare. Mi sento male a pensare che Hugi è rinchiuso là dentro. Come fai a non capirlo?» Poi si allungò per prendere il pacchetto di sigarette al centro del tavolino. «In più c’è quel maledetto serpente che mi sta facendo uscire di testa. Quando diavolo faranno questo funerale della malora?»

Briet guardava Marta con preoccupazione, ed era evidente che sperava si calmasse. Il suo desiderio venne esaudito. Marta Mist tirò un lungo sospiro e abbandonò la posa tronfia che aveva assunto dal momento in cui si erano incontrati lì, un quarto d’ora prima. «Ah, Dori mio.» Allungandosi a sua volta sopra il tavolo, lo prese per il mento costringendolo a guardarla dritta negli occhi. «Non siamo sempre amici?» Halldor annuì, triste in volto. «Allora stammi bene a sentire. Se ti immischi in questa faccenda, non aiuterai certo il povero Hugi.» Lo guardò intensamente e continuò: «Pensaci su un attimo. Niente di quello che ti angoscia ora può cambiare la sua posizione. L’unica cosa che ne ricaviamo è di farci implicare nel caso. Ma quello che abbiamo fatto risale a molto tempo fa. La polizia non ne è minimamente interessata. Loro stanno pensando solo all’ora esatta della morte. Nient’altro.» Marta arrivò persino a sorridergli. «Il funerale dovrebbe svolgersi presto, e per allora la faccenda sarà chiusa.» Halldor abbassò di nuovo gli occhi, costringendola a riafferrarlo per il mento e sollevargli la faccia per farsi guardare prima di riprendere la parola. «Non l’ho ammazzato io, Dori, e non ho alcuna intenzione di sacrificarmi all’altare di un qualche tuo rimorso di coscienza. L’idea di andare dalla polizia è la peggiore che tu abbia avuto. Non appena ti chiederanno della droga e della tossicodipendenza, saremo nella merda fino al collo. Lo capisci?»

Halldor annuì. «Ma forse…»

Non ebbe l’occasione di terminare la sua frase perché Marta Mist lo zittì immediatamente. «Niente forse. Ascoltami bene. Tu sei un ragazzo sveglio e intelligente, Dori. Pensi che a Medicina ti accoglieranno a braccia aperte, dopo che sarà venuta a galla la questione della droga, senza contare tutto il resto?» Marta scrollò la testa e girò lo sguardo su Briet, che fissava ammaliata la scena, pronta a dirsi d’accordo con l’ultimo oratore, come al solito. Marta si girò di nuovo verso Halldor e gli disse perentoria: «Non fare il bambino. Come ti ho detto, la polizia è interessata soltanto all’omicida di Harald. E a niente altro.» Per sottolineare il concetto, ripeté ancora una volta: «E a niente altro».

Halldor era come ipnotizzato. Guardava fisso dentro quegli occhi verdi che non accennavano ad abbassarsi. Non gli restò che annuire, dato che la mano di Marta gli stringeva ancora il mento, impedendogli di muoversi lateralmente. Era appunto questa la ragione per la quale aveva deciso di rivelarle la sua decisione di andare dalla polizia. Sapeva benissimo che la sua amica sarebbe riuscita a fargli cambiare idea. Smise subito di pensare a tutto il resto. «Va bene, hai vinto.»

«Benissimo», mormorò Briet sorridendo ad Halldor. Era chiaramente sollevata e strinse con gioia l’avambraccio di Marta, la quale invece non sembrò nemmeno accorgersene. La sua attenzione non si distoglieva da Halldor, e non gli aveva ancora lasciato il mento.

«Che ore sono?» chiese Marta.

Briet si affrettò a estrarre il suo cellulare rosa dalla borsetta appesa sullo schienale della sua sedia. «È quasi l’una e mezzo.»

«Cosa fai stasera?» domandò Marta ad Halldor. Al contrario della sua occhiata d’intesa, la voce non lasciava trapelare nulla.

«Niente», fu la secca risposta di Halldor.

«Vieni a casa mia. Nemmeno io ho fatto dei piani per la serata», gli propose Marta. «È da un pezzo che non stiamo insieme, e credo che un po’ di compagnia non ti farebbe male», disse trascinando le ultime parole.

Briet non trovava pace sulla sua sedia. «Perché non andiamo al cinema insieme?» intervenne guardando speranzosa Marta, la quale però non la degnò di uno sguardo. Briet si sentì invece schiacciare il piede dallo stivale di pelle dell’amica, che copriva del tutto la sua scarpina. Allora arrossì e comprese che la sua presenza per quella sera non era gradita.

«Vuoi andare al cinema?» chiese Marta ad Halldor. «Oppure ti va di fare un salto da me, per una seratina tranquilla?» Reclinò il capo maliziosa.

Halldor fece di sì con la testa.

Marta si mise a ridere. «Quale delle due? Questa non è una risposta.»

«Da te.» La voce di Halldor era rauca e pesante. Tutti e tre sapevano cosa sarebbe accaduto.

«Non vedo l’ora.» Marta tolse la presa dal mento dell’amico e batté le mani. Poi chiamò con un gesto il cameriere che stava passando dalle loro parti e chiese il conto. Halldor e Briet non dissero mente. Briet c’era rimasta male, mentre Halldor non aveva proprio più niente da dire. Tirò fuori un biglietto da mille corone, lo posò sul tavolo e si alzò.

«Sto facendo tardi alla mia lezione. Ci vediamo.» Le due amiche lo seguirono mentre si avviava verso l’uscita.

Dopo che se ne fu andato, Marta si voltò verso Briet e le disse: «Che bel culetto che ha il ragazzo. Dovrebbe piantarci in asso più spesso». Poi vide che la sua amica si era offesa e la guardava ferita. «Santi numi! Non ti ci mettere anche tu ora. Lui sta passando un brutto momento e la posta in gioco è molto alta.» Diede un colpetto all’avambraccio di Briet. «Si è preso proprio una bella cotta per te, lo sai? Quello che faremo stasera non cambia niente.»

Briet fece un sorriso tirato. «No, probabilmente no. Comunque mi è sembrato contento di poter stare con te.»

«Oh, non farla lunga. Questo non ha niente a che vedere con l’amore. Tu sei il tipo di ragazza che fa innamorare gli uomini. Io invece… come dire… sono brava a letto!» Marta si alzò e guardò la sua amica con sussiego. «E sai perché?» Nessuna risposta. «Io vivo per il piacere temporaneo. Potresti provarci anche tu. Smettila di cercare la salvezza dell’anima. Goditi piuttosto la vita.»

Briet si girò per prendere la sua borsetta. A quelle parole non poteva e non sapeva rispondere. Lei aveva preso parte a tutte le trovate del loro circolo, solamente a pensarci arrossiva. Non era quello un godersi la vita? Aveva in qualche modo dato a intendere che voleva salvarsi l’anima? Prima di uscire dal locale, si consolò del fatto che i ragazzi si innamoravano piuttosto di lei che di Marta. Ma perché lei ora, in quella situazione così complicata, aveva voluto umiliarla con quel confronto assurdo? Marta era una sorta di alter ego al femminile di Halldor. Quanto a lui, Briet non voleva affatto andare a finire in galera. No, grazie! Al diavolo Halldor, tanto lo avrebbe potuto riacciuffare più tardi.

La ragazza raddrizzò la schiena facendo sporgere ancor più il seno prosperoso. Quando si diressero verso l’uscita provò un senso di beatitudine nel vedere che i tre uomini in giacca e cravatta seduti vicino alla finestra si misero a mangiarsela con gli occhi. Solo lei e non Marta. Beh, spesso le piccole vittorie sono le più dolci.

15

«Niente», disse Thora guardando amareggiata prima lo schermo, poi Matthew. Dopo la visita a Hugi erano passati dallo studio legale per vedere se le fosse pervenuto qualche messaggio elettronico da parte del misterioso «Mal».

Matthew allargò le braccia. «Chissà? Forse non arriverà mai una risposta.»

L’avvocatessa trovava difficile arrendersi subito come lui. «Forse invece troveremo nuove informazioni su Mal nel computer di Harald.»

L’uomo corrugò la fronte. «Vuoi dirmi che tu conservi informazioni sui tuoi amici nel computer?»

«No, intendevo dire l’elenco dei corrispondenti più assidui, che di solito si tiene in memoria.»

«So benissimo di che elenco stai parlando. Pensi che Harald ne tenesse uno del genere? Beh, non si sa mai…»

Thora si voltò di nuovo verso lo schermo. «Che ne dici di chiamare subito la polizia per chiederle di restituirci il computer di Harald?» Guardando l’orologio dello schermo, proseguì: «Non sono che le due, l’ufficio investigativo dovrebbe essere ancora aperto». La lettera con la richiesta di consegna delle pratiche del caso non c’era sulla scrivania di Bella quella mattina, il che poteva significare che era stata imbucata il giorno prima. Forse era già arrivata al destinatario, ma la richiesta era probabilmente ancora da sbrigare. La cosa più opportuna sarebbe stata attendere un paio di giorni e poi telefonare per prendere due piccioni con una fava, cioè il computer e le pratiche del caso. Ma Thora, vinta dall’impazienza, optò per la decisione meno sensata. Anche perché le sembrava necessario farlo, per come stavano le cose. Avevano già trovato i numeri di cellulare degli amici di Harald e avevano contattato Marta Mist, Briet e Brjann, ma nessuno di loro aveva voluto parlarle (la reazione di Briet aveva avuto un che di isterico), rammentandole che avevano già reso la loro testimonianza alla polizia. Così ora Thora e Matthew erano a un punto morto. «Telefona», insisté lei.

Matthew accondiscese e venne a sapere che potevano andare a prendere il computer quando volevano. Li avrebbe ricevuti l’ispettore Markus Helgason.


Alla stazione di polizia Markus salutò Thora in islandese, poi si rivolse a Matthew in inglese, con un forte accento nordico: «Noi ci siamo già incontrati due volte, prima durante la perquisizione dell’appartamento di Harald e poi quando venne a incontrare l’ispettore Arni Bjarnason». L’uomo sorrise impacciato. «Siccome non è che voi due vi foste trovati così d’accordo, è stato deciso che ora vi riceva io. Spero che non abbiate niente in contrario.»

L’ispettore era giovane e indossava una camicia celeste chiaro e pantaloni neri. Era abbastanza basso, ma d’altronde ormai da tempo erano stati abbandonati i prerequisiti di altezza minima per poter entrare nelle forze dell’ordine. Markus aveva un viso normalissimo, né bello né brutto, i capelli chiari e occhi grigi che non attiravano l’attenzione. Ma il suo aspetto banale si trasformava quando lui sorrideva, mostrando una dentatura perfetta.

Matthew e Thora lo rassicurarono che a loro non importava nulla incontrare Bjarnason, e l’ispettore riprese la parola risollevato. «Vorrei che facessimo un discorsetto insieme, se possibile. Da quello che ci hanno detto, voi state investigando privatamente sulle circostanze dell’omicidio; dato che la nostra indagine non si è ancora conclusa, mi pare giusto che ci teniamo al corrente a vicenda degli sviluppi». Dopo un momento di titubanza, continuò impacciato: «Stanno ancora mettendo il computer in uno scatolone, assieme ad alcuni documenti che ci rimanevano da consegnare. Dovreste comunque attendere un po’. Potremmo accomodarci nel mio ufficio».

Thora guardò Matthew di sottecchi e con un rapido movimento delle spalle gli fece intendere di non avere niente in contrario. Sapeva bene che il computer e lo scatolone non erano altro che un pretesto bell’e buono. Un mutilato avrebbe potuto sbrigare l’inscatolamento in meno di tre minuti. Comunque sorrise per formalità e rispose che per lei andava benissimo. L’ispettore tirò un sospiro di sollievo e li fece accomodare nel suo stanzino.

Lì dentro non c’era niente di personale all’infuori di una tazza da latte con lo stemma del Manchester United. L’ispettore invitò i due ad accomodarsi e attese che lo facessero per sedersi a sua volta. Nessuno nel frattempo diceva niente e il silenzio stava diventando molto imbarazzante.

«Allora, che mi dite di bello?» disse infine Markus con falso brio. I due sorrisero soltanto, senza rispondere. Thora voleva che fosse lui a dare avvio alla conversazione, e le labbra serrate di Matthew facevano intendere la stessa idea. Il poliziotto arrivò subito al dunque. «Ci hanno comunicato della vostra visita al penitenziario di Litla-Hraun stamattina e dell’incontro con Hugi.»

«Sì, è vero», confermò Thora laconica.

«Appunto», riprese l’ispettore. «Che ne avete ricavato? Capirete che si tratta di una trovata stravagante, quella di qualificarsi da una parte come rappresentanti della famiglia della vittima, come fate con noi, e al contempo come assistenti del sospettato numero uno, come mi risulta abbiate fatto questa mattina presentandovi al carcere.»

Thora guardò Matthew, che le fece un gesto con la mano per indicare che poteva rispondere lei. «Diciamo che in una situazione così strampalata e poco ortodossa dobbiamo agire con metodi idonei e adeguati. Ciò nonostante è chiaro che stiamo lavorando soprattutto e principalmente per la famiglia di Harald e che gli interessi di Hugi si incrociano semplicemente con quelli dei nostri clienti.» Thora fece una breve pausa per permettere all’ispettore di sollevare delle obiezioni, ma lui non lo fece. «Non siamo affatto convinti della sua colpevolezza. E a dire il vero il nostro colloquio di stamattina non ha fatto che consolidare e corroborare la nostra teoria.»

L’ispettore fece un’aria stupita. «Devo ammettere di non comprendere la vostra certezza in questo caso. Tutto ciò che la nostra indagine ha portato alla luce fa pensare al contrario.»

«Ci sono, a nostro parere, troppi quesiti senza risposta. Non le sembra un motivo ragionevole per farsi sorgere dei dubbi?» ribatté Thora.

«Lei ha perfettamente ragione, ma, come ho detto, le nostre indagini non sono ancora concluse. Comunque mi meraviglierei se all’improvviso saltasse fuori qualcosa contro la nostra teoria che ad assassinare Harald sia stato Hugi Thorisson.» Alzata la mano sinistra, si mise a contarne le dita. «Primo, si trovava con il morto poco prima dell’omicidio. Secondo, il sangue di Harald è stato rinvenuto sui vestiti che Thorisson indossava la sera in questione. Terzo, abbiamo rinvenuto una maglietta, nascosta nel suo armadio, che era stata usata per pulire una grande quantità di sangue, anch’esso risultato della vittima. Quarto, faceva parte di quella combriccola di maghi da strapazzo e conosceva di conseguenza le rune magiche, come quella incisa sul corpo della vittima. Quinto e ultimo, solamente nello stato in cui si trovava quella sera, imbottito com’era di sostanze allucinogene, avrebbe potuto avere il coraggio di togliere gli occhi al cadavere. Credetemi, nessuno in pieno possesso delle proprie facoltà mentali lo farebbe mai. Inoltre era uno spacciatore e stava preparando l’importazione di droga in grande stile. La vittima aveva denaro a sufficienza per finanziare una tale compravendita e guarda caso è scomparsa una grossa somma dai suoi conti in banca proprio pochi giorni prima del delitto. Senza traccia. Questo non avviene quando si tratta di commercio tradizionale. Comunque stiamo facendo il possibile per sapere che fine abbia fatto quel denaro.» L’ispettore si guardò le mani. Con la destra stringeva ora tutte le dita della sinistra. «Posso giurarlo, spesso bastano persino meno indizi per incriminare una persona sospetta. L’unica cosa che ci manca è la confessione dell’indiziato, e ammetto che il più delle volte, in occasioni come queste, sarebbe già dovuta essere spuntata da un pezzo.»

Thora cercò di non far trapelare il suo sconcerto. Il particolare del sangue sui vestiti di Hugi l’aveva presa alla sprovvista. In nessuna delle cartelle del dossier investigativo e nemmeno nelle deposizioni dei testimoni e nelle altre documentazioni in suo possesso se ne faceva cenno. Si appigliò dunque all’ultima affermazione dell’ispettore per prendere tempo. «Non vi sembra un particolare preoccupante il fatto che ancora non abbia confessato il delitto?»

Il poliziotto la guardò con occhi sìnceri. «No, assolutamente. E sa perché?» Dal momento che Thora non pareva intenzionata a rispondere, proseguì: «Perché non se lo ricorda. Lui stesso si aggrappa alla tenue speranza di non aver commesso il delitto. Perché mai dovrebbe confessare un crimine che non si ricorda nemmeno di aver perpetrato, tenendo soprattutto conto delle condizioni in cui è stato rinvenuto il cadavere? Non siete d’accordo?»

«Come si spiega il trasferimento del corpo fino all’università?» intervenne Matthew. «E come ha fatto un piccolo spacciatore ad accedere così facilmente alla sede centrale? Era un fine settimana e sicuramente era tutto chiuso a chiave.»

«Ha rubato la chiave ad Harald. Molto semplice. Abbiamo trovato il suo portachiavi sul cadavere, e nel mazzo c’era quella che disattiva l’allarme. E sul pannello di controllo abbiamo potuto vedere che quella chiave era stata usata poco prima del delitto.»

Matthew si schiarì la gola. «Che intende dire con poco prima del delitto? I tempi constatati in questo caso non sono certo precisi.»

«No, è vero, ma non cambia niente», rispose l’ispettore più perentoriamente di prima.

Matthew proseguì, per niente intenzionato ad arrendersi di fronte a quell’ostacolo. «Supponiamo allora che Hugi abbia sottratto il mazzo di chiavi alla vittima e trasportato il cadavere dalla sua abitazione, che, lo ammetto, si trova là nelle vicinanze, fino alla sede universitaria. Come pensate che sia avvenuto il trasporto? Credete che si sia limitato a chiamare un taxi?»

L’ispettore sorrise. «Il corpo l’ha trasportato con la sua bicicletta, che abbiamo rinvenuto proprio fuori l’Istituto Arni Magnusson, con addirittura il manubrio sporco del sangue di Harald come poi hanno dimostrato gli esami di laboratorio. Per fortuna la bici era stata gettata sotto una pensilina, il che ha evitato che venisse ricoperta dalla neve.»

Matthew non obiettò e lasciò che Thora riprendesse la parola. «Come fate a sapere che la bicicletta appartiene a Hugi?» e aggiunse immediatamente: «E se anche lo fosse, come potete dimostrare che sia stata abbandonata lì proprio quella notte?»

L’ispettore ora sorrise ancor più apertamente. «La bicicletta era stata gettata davanti alla porta del deposito dei cassonetti dell’immondizia. I netturbini avevano svuotato i cassonetti il venerdì precedente e tutti quanti erano d’accordo di non aver visto nessuna bicicletta in quel frangente. Hugi ha poi riconosciuto la bici di persona e ha ammesso che era rimasta chiusa nel deposito delle biciclette del suo palazzo per tutta la giornata di sabato. Abbiamo anche la testimonianza di un’inquilina del condominio, che ci ha confermato che la bici si trovava al suo posto quando lei era scesa in cantina, verso l’ora di cena, per andare a prendere la sua carrozzina e uscire a passeggio con il bambino.»

«Come diavolo fa un testimone a ricordarsi dove si trovava una bicicletta e dove no? Io ho abitato in un condominio per anni e non penso che avrei mai potuto fornire una testimonianza del genere», obiettò Thora.

«La bicicletta di Hugi si notava molto e veniva usata in ogni stagione. Dato che il ragazzo non aveva la patente, non aveva altre alternative. Però non era certo la persona più riguardosa nei confronti degli altri inquilini, e così anche quel sabato aveva messo la sua bici proprio davanti alla carrozzina. La teste si ricorda appunto di aver dovuto spostarla per poter far uscire la sua carrozzina.»

Matthew si rischiarò di nuovo la gola. «Ma se Hugi ha rubato una chiave e se la chiave era quella del sistema di allarme, presumo comunque che all’allarme fosse abbinato un codice segreto da digitare, no? Come faceva Hugi a conoscerlo?»

«Questa è appunto una delle domande che ci siamo posti all’inizio della nostra indagine», rispose immediatamente l’ispettore. «Dalle deposizioni degli amici di Harald è venuto alla luce che Harald l’aveva detto a tutti loro!»

Thora lo guardò incredula. «E noi dovremmo crederci? Perché diamine lo avrebbe fatto?»

«Da quello che mi hanno riferito, Harald riteneva il codice a lui riservato una coincidenza beffarda. Pensate un po’, gli avevano assegnato lo 0666, un numero perfetto, vista la sua passione morbosa per il satanismo.»

«Per la verità si trattava di magia nera, non di satanismo», precisò Matthew, il quale però, cambiando subito argomento, volle prevenire una lunga discussione sulla natura delle arti magiche. «Una cosa invece ci potrebbe dire. Ci siamo imbattuti in una e-mail che Harald aveva inviato a un certo ‘Mal’. Avete poi saputo chi era?»

L’ispettore li guardò perplesso. «Devo confessare che non mi ricordo affatto di questo particolare. Abbiamo dovuto vagliare così tanti documenti. Se volete posso dare un’occhiata nel dossier e farvi sapere.»

Thora gli descrisse a grandi linee il contenuto della lettera, pur sapendo che non li avrebbe potuti aiutare molto al riguardo. Helgason avrebbe dovuto ricordarsi della corrispondenza in questione, se le indagini avevano portato a qualcosa. Invece lui minimizzò la questione: «Forse si riferiva semplicemente a qualche ragazza che aveva adocchiato, o qualcos’altro del genere. Ma per passare ad altro, avete per caso intenzione di continuare il vostro lavoro a lungo?»

«Tanto quanto lo riteniamo necessario», rispose Matthew con espressione impenetrabile. «Ancora non sono convinto che il detenuto sia il vero colpevole, nonostante tutte le nuove informazioni che ci ha riferito. Ma naturalmente potrei sbagliarmi.»

Markus sospirò. «Vi saremmo grati se ci teneste al corrente, per favore, dei vostri movimenti, dato che le indagini sono ancora aperte. Non vorremmo che si creassero dei conflitti di interesse tra le parti, e preferiremmo che si trattasse invece di una collaborazione.»

Thora prese la palla al balzo. «Per l’appunto, noi abbiamo ricevuto solamente una frazione dei documenti del caso, e ci manca ancora il resto. La lettera che vi ho spedito al proposito dovrebbe esservi arrivata. Ci sono delle complicazioni?»

L’altro scrollò le spalle. «Di per sé nessuna, però la decisione non sta nelle mie mani. Non siamo abituati a tali richieste da parte dei famigliari, ma non credo ci siano problemi di sorta. Ci vorrà ovviamente del tempo per raccogliere il tutto, ma faremo il possibile…» Non poté aggiungere altro perché bussarono alla porta. «Avanti!» La porta si aprì e comparve una poliziotta che reggeva tra le braccia uno scatolone dal quale spuntava la sagoma di un PC nero da scrivania.

«Ecco il computer che ci avete richiesto», esordì la giovane agente posando lo scatolone sulla scrivania ed estraendone un dossier protetto da una cartellina di plastica trasparente. «Lo schermo viene direttamente dal deposito, dato che non ci serviva. Anzi, è stata proprio una sciocchezza portarcelo», puntualizzò al collega con aria seccata. «Dovreste dirglielo a quelli delle perquisizioni che anche se i file si leggono sullo schermo, non vuol dire che siano conservati lì dentro. Voglio dire, sta tutto nella memoria del computer, che si può collegare con qualsiasi schermo.»

L’ispettore non sembrò affatto gradire la ramanzina proprio davanti a Thora e Matthew e le mandò un’occhiataccia. «Grazie per l’informazione.» Presa la cartellina di plastica, la passò ai suoi interlocutori. «Può firmare qui per confermare l’avvenuto ricevimento del dossier», disse a Matthew. «Qui troverete anche il resto dei documenti sequestrati.»

«Di che documenti sta parlando?» domandò Thora. «Perché non erano stati restituiti assieme agli altri?»

«Erano fascicoli che volevamo controllare meglio, comunque non ne è risultato niente di importante. Forse troverete voi qualcosa di utile, ma ne dubito.» Poi si alzò in piedi, dando a intendere che la conversazione era da considerarsi conclusa.

Thora e Matthew si alzarono anch’essi dalle loro sedie e Matthew prese sotto braccio lo scatolone, dopo aver firmato la ricevuta dei documenti.

Thora aprì il dossier non appena si fu seduta nell’auto. Mentre Matthew metteva in moto, lei diede una scorsa veloce al contenuto e subito esclamò allibita: «Che diavolo è questo?»

16

L’avvocatessa teneva fra le mani una cartella di pelle amaranto, chiusa da lacci. La pelle era ancora liscia e morbida al tatto, nonostante non fosse certo nuova di zecca. Pareva fabbricata una sessantina di anni prima, a giudicare dall’iscrizione riportata in basso: NHG 1947. Ma era piuttosto il suo contenuto a suscitare la sua meraviglia. Una volta sciolti i lacci, ne erano spuntate fuori delle lettere palesemente antiche. Dall’aspetto e dalla consistenza si doveva trattare di missive vecchie di secoli, molto più vecchie della cartella che le conteneva.

Distogliendo un attimo gli occhi dalla retromarcia, Matthew esclamò: «Questa era davvero tra le cose di Harald?»

«Sì», rispose Thora sfogliando con i polpastrelli la parte superiore dell’epistolario, tanto per farsi un’idea di quante lettere ci fossero. Le venne quasi un infarto allorché Matthew, gridando un qualcosa di incomprensibile e inchiodando l’auto, gliele strappò di mano violentemente.

«Ma sei diventata matta?» le urlò, richiudendo immediatamente la cartella e riannodandola come poteva, dato l’impaccio del volante e l’angustia del posto di guida.

Thora era sbalordita dall’improvviso cambiamento di umore del suo collega e l’unica cosa che poté fare fu di rimanere a guardarlo in silenzio. Quando Matthew ebbe finito di richiudere la cartella, la depose con delicatezza sul sedile posteriore, poi si tolse il cappotto e ve lo posò sopra per proteggere il contenuto dell’epistolario, già inumidito dall’aria fredda.

«Perché non spostiamo l’auto?» domandò Thora per interrompere l’imbarazzante silenzio tra di loro. L’auto sporgeva pericolosamente sulla strada con la parte posteriore.

Matthew afferrò il volante con entrambe le mani e sbuffò rumorosamente. «Perdonami lo scatto di nervi. Non immaginavo proprio di trovare questi documenti buttati in uno scatolone della polizia.» Poi uscì del tutto dal parcheggio e i due partirono per la loro strada.

«Vorresti farmi l’onore di spiegarmi di cosa si tratta?» chiese Thora.

«Si tratta di antiche lettere appartenenti alla collezione del nonno di Harald, anzi, ne sono una delle parti più pregiate. Sono documenti di inestimabile valore e mi risulta del tutto incomprensibile che Harald li abbia portati con sé fin quassù in Islanda. Temo inoltre che la compagnia assicuratrice non abbia la minima idea che non si trovino più in una cassetta di sicurezza della banca, come risulta sulla polizza dell’intero patrimonio.» Matthew sistemò lo specchietto retrovisore per poter tenere sott’occhio quel carico prezioso. «Un nobile di Innsbruck le scrisse nel 1485 per raccontare della crociata antistreghe di Heinrick Kramer in quella città, prima che la caccia alle streghe divenisse una pratica comune come lo fu nei secoli successivi.»

«Chi era questo Heinrich Kramer?» A Thora quel nome suonava vagamente familiare, ma non riusciva a contestualizzarlo.

«Uno dei due autori del Malleus maleficarum, quella sorta di manuale dei cacciatori di streghe, ricordi? Lui in persona era il giudice supremo del tribunale dell’Inquisizione della regione, che ora appartiene per lo più al territorio della Germania. Una personalità senza dubbio squilibrata, particolarmente astioso contro le donne in generale. Oltre a perseguitare le streghe, prese anche parte allo sterminio degli ebrei e degli eretici, anzi direi di tutti i gruppi che si prestavano in modo particolare alle vessazioni.»

«Sì, ora mi ricordo», e aggiunse sorpresa: «Si parla di lui in queste lettere?»

«Sì», rispose Matthew. «Il nostro personaggio venne a Innsbruck. Vide. Ma non concluse assolutamente niente. In verità partì molto bene — nel senso che diede avvio alle inquisizioni innescando una serie interminabile di violenze e torture, senza contare che le sospettate, cinquantasette donne, non ottennero alcuna difesa legale. Ma quando si arrivò ai processi, i suoi metodi poco ortodossi non vennero riconosciuti validi né dalle autorità ecclesiastiche, né da quelle secolari del Paese. Kramer aveva superato ogni limite, soprattutto quando descriveva gli atti sessuali delle presunte fattucchiere, al punto che il vescovo, scandalizzato dalle sue esagerazioni, lo fece espellere dalla città. Le donne imprigionate vennero liberate, ma in condizioni alquanto malconcie in seguito ai ripetuti supplizi. Le lettere descrivono appunto le sevizie da lui perpetrate di persona contro la moglie dell’autore. Come puoi ben immaginare, non si tratta di una lettura piacevole.»

«A chi erano indirizzate quelle missive?» domandò Thora.

«Al vescovo di Bressanone, Giorgio II Gosler. Il vescovo che alla fine riuscì a bandire Kramer dalla città. Anzi, io direi che fu proprio per merito di quelle lettere che si poté allontanare quel criminale dalla regione.»

«E come sono entrati in possesso del nonno di Harald, questi preziosi documenti?»

«Negli anni del primo dopoguerra, molte cose erano in vendita in Germania. La famiglia Guntlieb aveva protetto il suo patrimonio dal rogo della superinflazione che negli anni successivi al conflitto mondiale portò tutta una serie di casate alla rovina. I soldi erano stati depositati in una banca diversa dalle altre. Una banca che non riceveva i depositi di denaro dei comuni risparmiatori, come ancora fa oggi. In un certo senso fu per merito della lungimiranza di Harald se i più importanti clienti della banca non perdettero i loro averi in quel periodo. Lui era stato oculato nel prevedere il crollo dell’economia e aveva trasferito le somme depositate in altri investimenti, ovviamente senza farsi alcuna pubblicità. Quando il crac del Paese fu definitivo, lui possedeva ancora una tale ricchezza da poter comprare i più svariati beni preziosi, allora in vendita per pochi marchi.»

«Ma chi era in possesso di lettere di quel tipo? Documenti del genere non si trovano certo nei mercatini d’antiquariato, e non sono beni che la gente serbi nel cassetto per i tempi difficili.»

Matthew non si fece scomporre da quella osservazione. «Non ne ho la più pallida idea. Si tratta comunque di documenti di cui nessuno conosce l’esistenza e di cui non restano accenni di nessun tipo. Non sono schedati da nessuna parte e potrebbero addirittura essere falsi. Creati alla perfezione, in quel caso. Il nonno di Harald non volle mai rivelare i dettagli relativi alla loro compravendita. Le iniziali sulla cartella sono le sue — Niklas Harald Guntlieb — e non rimandano a nessun altro precedente proprietario. Anzi, sospetto che a un certo punto della loro esistenza fossero stati rubati da una chiesa imprecisata.» Matthew percorreva ora la via di Snorrabraut e mise la freccia per segnalare il cambio di corsia. I due intendevano recarsi in via Bergstadastraeti per rimettere il computer al suo posto nell’appartamento di Harald, come avevano convenuto in precedenza. Matthew doveva perciò svoltare a destra, ma nessuna delle auto in arrivo pareva disposta a fargli strada, quasi stessero congiurando per costringerlo a rimanere nella sua corsia e imboccare il viadotto che portava a Fossvogur. «Che avete nel cervello, imbecilli?» mormorò Matthew, inferocito con gli altri automobilisti.

«Cambia corsia senza pensarci», lo spronò Thora, abituata al comportamento dei suoi compatrioti. «Vogliono troppo bene alla loro auto per rischiare di rovinarla per una stupida testardaggine.»

Matthew seguì il consiglio e se la cavò con una serie di clacsonate dell’auto a cui aveva appena tagliato la strada. «Non mi abituerò mai a guidare da queste parti!» disse infine, sconcertato.

Thora gli sorrise sovrappensiero. «Ma tornando al contenuto di quelle lettere: che cosa accadde alla povera donna?»

«Venne sottoposta alle più atroci torture», le rispose laconicamente Matthew.

«Non sapevo che si potesse torturare diversamente», lo punzecchiò Thora, che sperava di ricevere descrizioni più dettagliate. «Voglio dire, a che tipo di sevizie venne sottoposta?»

«L’autore della lettera parla di arti superiori e inferiori maciullati da uno stivale di ferro. Entrambe le orecchie le vennero mozzate. E indubbiamente le fecero anche dell’altro che, al confronto, non valeva nemmeno la pena di nominare, mutilazioni varie e cose del genere.» Matthew distolse brevemente lo sguardo dalla strada per posarlo su Thora. «Mi ricordo ora che nell’epilogo di una delle ultime lettere c’era una frase che suonava più o meno così: ‘Se cercate il male, non lo rinvenirete in ciò che resta della mia amata, giovane e innocente sposa. Esso si trova in colui che la inquisisce’.»

«Mio dio, come te ne ricordi bene», disse Thora con un brivido di terrore che le percorreva la schiena.

«Non si può scordare facilmente il contenuto di quei documenti», rispose Matthew in tono secco e distaccato. «Comunque le torture non sono l’unica cosa lì descritta. Si elencano anche tutti i tentativi per farla liberare, a partire dai cavilli legali per finire alle pure e semplici minacce di morte. Il marito era disperato, e si capiva che amava sua moglie fino all’ossessione, dato che era considerata una delle più belle fanciulle della regione, a credere alle sue parole. Inoltre il loro matrimonio era stato consumato solo poco prima dell’arresto.»

«Ma non ottenne di incontrarla in carcere? Non riuscì mai a mettersi in contatto con lei? Le lettere coprono solo il periodo della prigionia, mi sembra di capire.»

«Sì e no», fu la risposta di Matthew. «No, non ottenne mai di vederla, ma sì, una delle guardie che la custodivano, mossa a compassione, iniziò a passarle i messaggi del marito, messaggi che a poco a poco cominciarono a divenire sempre più disperati, come traspare dalle lettere. Riguardo all’ultima questione, tutte le missive tranne una vennero scritte durante il periodo di detenzione della povera donna, quando il marito tentava di farla liberare. Eppure è l’ultima lettera, scritta dopo la sua scarcerazione, che più fa riflettere sulla frivolezza dei nostri piccoli e insignificanti problemi di ogni giorno.»

«In che senso?» chiese Thora, che in realtà non era sicura di voler sentire la risposta.

«Non devi dimenticare che a quei tempi la medicina non aveva niente a che vedere con la scienza che tutti conosciamo oggi. Non puoi immaginarti le pene che i malati e i feriti dovevano subire per mano di tanti ciarlatani travestiti da dottori. E poi c’era la sofferenza psicologica di quella giovane donna, che era stata adorata da tutti per la sua grazia e la sua avvenenza. Quando venne liberata, una gamba e tutte le dita erano ormai ridotti in briciole. Niente più orecchie. Il corpo ricoperto di cicatrici da pugnale, perché ogni centimetro di pelle veniva bucato per cercare la zona dalla quale non uscisse il sangue — il marchio del demonio — e altro che viene solamente sottinteso senza essere descritto nei minimi particolari. Come reagiresti tu a un simile trattamento?» Matthew sbirciò di nuovo la sua collega.

«Avevano già avuto dei figli?» domandò Thora toccandosi istintivamente un lobo. In effetti non si era mai posta il problema di quanto le orecchie fossero indispensabili per l’aspetto di una persona.

«No», rispose Matthew. «Come ti ho detto, erano appena sposati.»

«Allora non può che essersi suicidata», affermò Thora perentoria. «Un simile dolore, il ricordo e le conseguenze delle torture… si possono sopportare solamente per il bene dei propri figli, ma non per altro.»

«Esatto! I due abitavano in un podere di campagna dove scorreva un ruscello. Una sera la donna arrancò zoppicando fin sulla sponda del fiumiciattolo e vi si gettò dentro. L’acqua non era molto profonda, ma lei indossava i pesanti abiti di quel periodo e, con una gamba pressoché paralizzata e le mani distrutte, non ci mise molto ad affogare.»

«Che cosa fece allora il marito? C’è scritto sulla lettera?» chiese Thora cercando di scacciare il pensiero della fine ingloriosa di quella misera creatura.

«Sì, in quell’ultima lettera il marito allude al fatto che aveva sottratto all’inquisitore Kramer una cosa più preziosa della sua stessa vita, e che l’aveva spedita sulla lunga via dell’inferno», rispose Matthew. «Non si sa di preciso a che tipo di vendetta si riferisse, né di quale inferno stesse parlando. Le fonti contemporanee non dicono niente al proposito. Alla fine comunque augura al vescovo di riposare in pace, ricordandogli che da persona di Chiesa a suo tempo non era intervenuto come doveva per risolvere il caso, come gli competeva da servo del Dio suo padrone. Citando una frase del Vecchio Testamento, si congeda poi con parole non certo rassicuranti; come ben sai, nella Bibbia non si parla certo di perdono! Non so come spiegarlo, ma nelle parole di congedo si legge tra le righe una sorta di minaccia, e in effetti il vescovo morì di lì a pochi anni. La teoria più probabile è che il religioso stesso si fosse sbarazzato di quella scottante corrispondenza per non rischiare che venisse conservata tra i documenti ufficiali del clero.»

«Il che mi sembra una spiegazione poco convincente», ribatté Thora. «Se si fosse voluto veramente sbarazzare di quelle lettere, le avrebbe potute bruciare, non ti pare? Non mancava certo il fuoco a quei tempi, mi sembra di capire.»

Matthew si concentrò nella guida per trovare un parcheggio vicino all’abitazione di Harald, dato che quelli davanti alla casa erano tutti occupati. «Non lo so, forse aveva sognato san Pietro o Dio in persona, e temeva di attirare la loro attenzione bruciandole. Come ben sai, il fumo sale al cielo…»

«Allora secondo te le lettere sono vere?».

«No, non ne sono sicuro. Ci sono dei particolari che non si spiegano razionalmente.»

«Per esempio?»

«Per lo più citazioni e rimandi al terribile libro di Kramer. L’autore delle lettere afferma che le numerose miniature e la calligrafia ornamentale non potranno mai celare la provenienza demoniaca delle sue pagine.»

«Si riferiva al Malleus maleficarum? Magari Kramer lo aveva utilizzato durante la sua permanenza a Innsbruck.»

«È da escludere», rispose Matthew. «Secondo le fonti più sicure, quel famigerato volume non venne pubblicato se non l’anno dopo, nel 1486.»

«La pergamena e l’inchiostro sono stati analizzati?» rifletté Thora.

«Sì, e le perizie concordano a grandi linee con la datazione delle lettere. Ma non è un particolare determinante in questo caso. I falsari migliori ricorrono sempre a pergamena d’epoca, inchiostro o altri colori antichi per ingannare i ricercatori e gli altri appassionati in materia.»

«Inchiostro antico?» chiese Thora piena di dubbi.

«Sì, in un certo qual modo. Si può fabbricare dell’inchiostro utilizzando ingredienti d’epoca o addirittura liquefacendo l’inchiostro di manoscritti di infimo valore. È la stessa cosa.»

«Che razza di lavoro!» commentò Thora, ringraziando Iddio di non aver scelto la professione di falsaria.

«Puoi dirlo forte…» aggiunse Matthew quando scesero dall’auto parcheggiata.

«Ma perché le lettere erano nelle mani di Harald?» chiese Thora. «Credeva anche lui che fossero originali, oppure aveva il sospetto che fossero false?»

Matthew richiuse la portiera del conducente e aprì quella posteriore. Poi si piegò per prendere lo scatolone, dopo aver avvolto i preziosi documenti nella sua giacca e averli depositati con cura dentro la cassa. Se aveva freddo indossando solamente un maglione, non lo dava certo a intendere. «Harald era convinto che fossero autentiche, ed era ossessionato dall’enigma della perdita subita da Kramer. Si trattava di un oggetto o di una persona? Si era messo in testo di trovare la soluzione girando come un matto per tutti gli archivi tedeschi, anzi, si era spinto persino negli Archivi Vaticani. Eppure non era riuscito a scoprire niente di determinante per la soluzione del mistero. Le notizie sulla vita e le imprese di Kramer sono ancor oggi avvolte nella nebbia dei secoli, e di lui non si sanno che particolari di futile importanza.»

Thora vide delle tracce nella neve che andavano verso il portorte di entrata della palazzina dove abitava Harald. Matthew notò che erano recenti e che, avendo una sola direzione, erano state lasciate da qualcuno che era ancora là.

Ed ecco infatti che videro un uomo a pochi passi dal portone, intento a cercare di guardare all’interno delle finestre del piano superiore della casa. Allorché Thora e Matthew gli si fecero incontro l’individuo ebbe un sussulto, li guardò con la bocca spalancata e gli occhi meravigliati e poi si mise a balbettare qualcosa di incomprensibile, poi di più chiaro: «Conoscevate anche voi Harald Guntlieb?»

17

«Salve. Io sono Gunnar Gestvik, direttore del dipartimento di Storia dell’Università d’Islanda.»

Il professor Gestvik caracollava insicuro davanti ai due nuovi arrivati. Indossava un giaccone invernale di una marca che Thora ricordava di aver visto nell’armadio del suo vanitoso ex marito e sotto un elegante completo. Dal collo spuntava una cravatta vistosa e annodata alla perfezione, su una camicia celeste chiaro. Tutto il suo aspetto esteriore denotava una persona rispettabile con un ottimo posto di lavoro. Invece il suo stato d’animo tradiva un imbarazzante nervosismo. Era chiaro che Gunnar non aveva affatto previsto di imbattersi in qualcuno e che stava tentando di escogitare, più presto che poteva, la mossa successiva. Thora aveva già capito che quello era l’individuo che aveva scoperto il cadavere di Harald, o per meglio dire se l’era visto crollare addosso. Ma che cosa stesse facendo lì, a casa del suo ex studente, rimaneva un mistero. Che facesse parte di una terapia consigliatagli dall’analista per superare il trauma?

«Passavo da queste parti e mi è venuto in mente di vedere se trovavo qualcuno», spiegò Gunnar senza convinzione.

«Qui? A casa di Harald?» chiese Thora con aria meravigliata.

«Non mi aspettavo ovviamente di trovare lui in persona», si affrettò a rispondere il professore. «Intendevo qualcun altro, non so, un portinaio o qualcosa del genere.»

Matthew, escluso dallo scambio di battute in islandese, lasciò che se ne occupasse Thora. Aveva però capito il nome di quella persona e ora, dandogli le spalle, fece cenno con gli occhi a Thora di invitarlo ad entrare, poi estrasse il mazzo di chiavi e aprì il portone.

Gunnar seguì con palese eccitazione i gesti di Matthew e chiese stupito a Thora: «Avete le chiavi del suo appartamento?»

«Certo, il signor Reich lavora per la famiglia di Harald, di cui io stessa sono rappresentante. Siamo andati dalla polizia a riprendere una parte dei suoi averi, che volevamo rimettere al loro posto. Perché non entra? Ci farebbe un immenso piacere poterle parlare un po’.»

Gunnar non riuscì a nascondere la sua esultanza. Dopo aver dato un’occhiata all’orologio, simulando goffamente di calcolare lo scarso tempo che avrebbe potuto concedere loro, accettò l’invito ed entrò nell’appartamento alle calcagna di Thora. Nonostante il suo impeccabile abbigliamento, gli mancava certo l’animo del cavaliere, dato che non si offrì minimamente di aiutare la donna a portare al piano superiore il pesante video del computer.

La reazione di Gunnar alla vista dell’appartamento fu analoga a quella avuta da Thora la volta precedente. Anzi, non ebbe nemmeno l’accortezza di togliersi il giaccone, ma avanzò come ipnotizzato nell’ampio salone e si mise a guardare quanto era appeso alle pareti. Matthew e Thora invece posarono il loro pesante fardello e si tolsero con calma i cappotti. Matthew estrasse dallo scatolone la cartella di pelle con le lettere antiche, la svolse dalla giacca e si allontanò verso la camera da letto, il tutto a pochi metri dall’imbambolato professore. Thora rimase invece nel salone per controllare i movimenti di Gunnar, gli si avvicinò e si mise al suo fianco in silenzio, anche se probabilmente nemmeno una cannonata lo avrebbe distolto dalla sua incantata ammirazione per le antiche opere d’arte esposte tutt’intorno.

«Un’interessante collezione, non trova?» chiese infine, non osando ripetere le parole di Matthew per non fare la figura della sapientona.

«Come ha fatto ad accumulare una collezione di questo calibro?» chiese Gunnar. «L’ha rubata?»

Thora rimase di sasso. Come gli era venuta in mente una cosa del genere? «No. Ha ereditato tutto da suo nonno.» Poi gli chiese titubante: «Aveva qualcosa contro Harald?»

Gunnar trasalì. «No, mio dio, assolutamente no. Ci andavo molto d’accordo.» Poi si rese conto da solo che il tono della sua voce non suonava sincero, per cui tentò di correggersi prendendo un po’ le distanze. «Harald era un giovane di grande intelligenza, e molto dotato nelle materie storiche. Invece i suoi metodi di ricerca non si potevano certo considerare ortodossi, ma in ciò non costituiva un’eccezione al giorno d’oggi.»

Thora non era ancora convinta. «Per cui Harald era uno studente modello?»

Gunnar fece un sorriso forzato. «Sì, se vogliamo. Ovviamente il suo aspetto non era dei più tradizionali, e il suo comportamento era poco convenzionale, ma chi sono io per giudicare le tendenze dei giovani d’oggi? Mi ricordo che ai miei tempi eravamo tutti presi dai Beatles e dalla moda che li accompagnava. Ora che sono invecchiato comprendo bene che la gioventù assume le forme più bizzarre.»

Certo che era un po’ difficile paragonare Harald con i Beatles. «Una riflessione interessante», disse Thora sorridendo a Gunnar pro forma. «In ogni modo io non conoscevo di persona Harald.»

«Mi ha detto di essere un avvocato. Quale funzione sta svolgendo per conto della famiglia di Harald? Qualcosa che riguarda l’eredità? Quello che vedo qui appeso alle pareti deve avere un valore inestimabile.»

«No, non si tratta di niente del genere. Stiamo vagliando le indagini sull’omicidio condotte dalla squadra investigativa, dato che la famiglia non è affatto soddisfatta delle sue conclusioni.»

Gunnar la squadrò con gli occhi spalancati. Il pomo di Adamo gli andava su e giù. «Che intendete dire? Non hanno già scoperto l’assassino, quello che spacciava?»

Thora non si scompose. «Riteniamo che alcuni particolari del caso escludano la sua colpevolezza», spiegò, rendendosi subito conto che Gunnar non era affatto contento di quelle novità. Allora aggiunse: «Comunque è ancora tutto da vedere. Forse ci stiamo sbagliando. O forse no».

«La cosa forse non mi riguarda, ma che cosa avete scoperto che possa scagionare il detenuto? La polizia sembra convinta di avere in mano il vero colpevole. Sapete per caso qualcosa che loro non sanno?»

«No, non stiamo nascondendo agli agenti delle informazioni segrete, se è ciò che intende», rispose Thora recisa. «Solo che non siamo per nulla soddisfatti delle loro deduzioni su alcuni particolari di un certo peso.»

Gunnar sospirò. «Dovete perdonare la mia irriverenza, ma quando si parla di quello che è accaduto perdo il controllo. Desideravo tanto che si potesse ormai archiviare il caso, che è risultato gravoso per me personalmente, ma di cui anche l’intera facoltà ha subito le conseguenze negative.»

«La capisco benissimo. Ciò non significa però che si possa condannare la persona sbagliata per preservare la reputazione della sua facoltà, non le sembra?»

Gunnar si rese immediatamente conto del suo errore. «No, no, no. Certo che no. Si corre sempre il rischio di pensare troppo alla propria pelle. Ovviamente ci sono dei limiti, non mi fraintenda.»

«Ma tornando al dunque, per quale motivo si trova qui ora?» domandò Thora, chiedendosi al contempo che fine avesse fatto Matthew.

Gunnar spostò lo sguardo dal volto di Thora a uno dei quadri alle pareti. «Io… speravo di potermi mettere in contatto con qualcuno che si occupa degli affari di Harald. E mi pare di esserci riuscito al primo colpo.»

«A che scopo?»

«Poco prima di essere ucciso, Harald aveva… come si può dire… cioè, aveva appena ricevuto in prestito un documento custodito dall’università, che non è mai stato restituito. Ed è quello che sto cercando.»

«Che tipo di documento? Qui ce ne sono a iosa.»

«Si tratta di un’antica missiva inviata all’inizio del sedicesimo secolo al vescovo di Roskilde. Era in prestito dalla Danimarca e perciò è di vitale importanza che non vada smarrita.»

«La cosa suona alquanto grave», ammise Thora. «Avete già sporto denuncia di furto alla polizia?»

«No, ci siamo accorti solamente da poco della sparizione. Quando venni sottoposto agli interrogatori non ne sapevo ancora nulla, altrimenti lo avrei sicuramente detto. Venendo qui oggi speravo di risolvere il problema in maniera più semplice, senza dovermi rivolgere alla questura. Non me la sento proprio di stilare l’ennesimo verbale. Non ne posso più di tutta questa storia. Comunque questo documento non ha niente a che vedere con il delitto, glielo posso garantire.»

«No, probabilmente no. Intanto posso dirle che non l’ho visto tra le carte di Harald, anche se stiamo ancora analizzando il materiale in casa sua. Può anche darsi che venga fuori.»

Matthew entrò concitato tenendo in mano alcuni fascicoli, si sedette su un divano e con un enfatico gesto della mano invitò gli altri due a fare la stessa cosa. Thora si accomodò sulla poltrona, mentre Gunnar si mise a sedere sul divano di fronte a Matthew. Thora spiegò al suo collega il motivo della visita di Gunnar, e Matthew ribadì al professore le stesse cose che la donna gli aveva già detto: non avevano rinvenuto nessun documento del genere, ma ciò non significava che non lo potessero trovare in seguito. Poi depositò il fascio di fogli sul tavolo e si rivolse a Gunnar. «Lei era il correlatore della tesi di master di Harald, se non sbaglio, e lo assisteva nelle ricerche, vero?»

«Sì e no, per così dire», rispose Gunnar con circospezione.

«In che senso?» disse Matthew con poco garbo. «Non è una certezza chi fa da correlatore alla tesi?»

«Sì, sì, certo», si affrettò a rispondere Gunnar. «Il fatto è che Harald non era così avanti con la sua trattazione da dover ricorrere all’assistenza del rappresentante di facoltà. Intendevo dire solamente questo. Inoltre Thorbjörn Olafsson si era incaricato di seguirlo. Io invece fungevo da soprintendente e me ne occupavo da lontano, non so se mi spiego.»

«Capisco. Però doveva già avervi consegnato uno schema, o almeno un’idea del lavoro che aveva intrapreso.»

«Ovviamente. Ci aveva fatto avere una specie di estratto, un sunto dell’elaborato, anzi, se ben ricordo ce l’aveva dato all’inizio del suo primo trimestre nel nostro dipartimento. Dopo aver controllato l’argomento, demmo alla tesi il nostro benestare. Thorbjörn era poi incaricato di seguirla nei minimi particolari, essendo un soggetto di sua competenza.»

«Qual era la materia della dissertazione?» domandò Thora.

«Il confronto tra i roghi delle streghe in Islanda e in Europa, soprattutto nelle regioni che oggi appartengono alla Germania, dove la persecuzione assunse le sue forme più atroci. Harald aveva già svolto studi relativi alle condanne al rogo nella sua tesi di laurea presso l’Università di Monaco.»

Matthew annuì pensieroso. «Da quello che ho capito, le condanne al rogo delle streghe qui in Islanda risalgono al Seicento.»

«Sì, appunto, anche se esistono fonti relative a singoli individui condannati per stregoneria già nei secoli precedenti. Comunque le persecuzioni vere e proprie qui non ebbero inizio prima del 1600. La prima condanna al rogo accertata da documentazione scritta risale all’anno 1625.»

«Sì, è precisamente ciò che pensavo», concordò Matthew con espressione stupita, poi sparse sul tavolo i fogli che erano appartenuti ad Harald. «Ora, dalla lettura di queste pagine emerge pochissimo sui roghi islandesi, anzi, non riesco proprio a comprendere per quale motivo Harald dimostrasse tanto interesse per avvenimenti collocabili in epoche così differenti. Lei ci potrebbe forse spiegare eventuali nessi storici al proposito, nessi che altrimenti ci sfuggirebbero.»

«A quali vicende si riferisce?» chiese Gunnar, piegandosi sulla pila di fotocopie e di fogli stampati.

Mentre il professore esaminava gli articoli, Matthew si mise a elencargli gli argomenti: «L’eruzione del vulcano dell’Hekla nel 1510; la peste in Danimarca all’inizio del Cinquecento; la riforma luterana in Islanda nel 1550; le grotte degli eremiti irlandesi precedenti alla colonizzazione del Paese e altri soggetti di questo tipo. Io, da parte mia, non vedo alcun collegamento, ma naturalmente non faccio lo storico di professione.»

Gunnar passò in rassegna tutto il materiale prima di riprendere la parola. «Beh, non è detto che tutti gli argomenti debbano per forza avere un nesso diretto con la tesi. Harald può anche essersi procurato questi articoli per altri corsi di laurea che stava frequentando. Devo però confessare che la colonizzazione islandese è la mia specializzazione e che Harald non frequentava nessuno dei miei corsi, per cui non riesco a spiegare la presenza di un saggio sui monaci irlandesi. In ogni modo ritengo che questi articoli si riferiscano ad argomenti trattati nei corsi che Harald frequentava, non alla tesi di master.»

Matthew fissò Gunnar negli occhi. «No, non sono d’accordo. La maggior parte di questi scritti proviene da una cartella etichettata Malleus — nome che lei dovrebbe sicuramente conoscere.» Matthew indicò i fori sul margine sinistro delle pagine. «La mia deduzione era stata invece che Harald avesse raccolto questo materiale proprio per le sue ricerche sulle pratiche magiche o simili argomenti.»

«Certo, il libro lo conosco, ma non potrebbe anche darsi che il ragazzo abbia semplicemente infilato questi fogli in una cartella vecchia e che si sia poi dimenticato di cambiarne l’etichetta?» domandò Gunnar.

«Senza dubbio», rispose Matthew. «Ma non so perché, non riesco a convincermi che sia successo così.»

Gunnar rivolse di nuovo lo sguardo al mucchio di carte. «Devo confessare di non avere le idee chiare su questo caso. L’unica cosa che mi sembra di cogliere da una lettura superficiale è il nesso con la riforma protestante, che fu in un certo senso una delle cause prime delle persecuzioni contro le streghe in tutta l’Europa, Islanda compresa. La religione cambiò aspetto e la gente si ritrovò in una sorta di crisi spirituale generalizzata. Per quanto riguarda invece l’eruzione dell’Hekla e le pestilenze, può darsi che Harald stesse indagando sui rapporti tra le persecuzioni e il panorama politico ed economico dell’epoca. Le catastrofi naturali e le malattie avevano un’influenza profonda sul comportamento umano. Ma ammetto che altre eruzioni vulcaniche documentate in Islanda, come per esempio quella dell’Hekla del 1636, e altre epidemie assai più vicine nel tempo alle persecuzioni sarebbero state una scelta migliore per le ricerche di Harald di questi articoli», e diede un colpo con la mano alla pila di fogli sul tavolo.

«Se ho ben capito, allora, Harald non fece cenno né a lei, né a questo Thorbjörn di questa sua strana indagine le volte in cui vi incontravate per discutere la tesi?» chiese Thora.

«No, perlomeno non disse nulla a me personalmente, ma nemmeno Thorbjörn mi ha mai riferito di un incontro con lo studente in mia assenza», assicurò Gunnar e aggiunse subito dopo: «Come vi ho già detto, il tema della dissertazione di Harald si trovava ancora in fase di elaborazione, e in effetti Harald aveva accennato a Thorbjörn di essere diventato più interessato agli influssi che la riforma luterana ebbe sulla società islandese che non alle persecuzioni contro la magia nera. Comunque niente di tutto questo è stato messo per iscritto prima della sua uccisione.»

«È una cosa che capita spesso?» chiese Thora. «Voglio dire, cambiare idea nel bel mezzo di un lavoro già avviato?»

Gunnar annuì enfaticamente. «Sì, è un vizio purtroppo assai diffuso. Gli studenti partono a testa bassa per una strada interessante, per poi appassionarsi ad altro e imboccare una nuova via. Abbiamo anche una lista di soggetti da proporre agli studenti in caso di mancanza di idee.»

«Visto però il grande interessamento da parte di Harald per l’argomento della caccia alle streghe», riprese Matthew, indicando le pareti della stanza per sottolineare il suo punto di vista, «un tema che lo aveva affascinato sin da piccolo, mi sembra assai improbabile che all’improvviso fosse stato preso dalla riforma luterana, con tutto il rispetto.»

«Harald era cattolico, come forse già sapete», disse Gunnar ricevendo un cenno di assenso dagli altri due. «Ciò che lo attraeva era soprattutto il peggioramento delle condizioni di vita della gente comune subito dopo l’avvento del luteranesimo nel 1550, e la profonda miseria in cui caddero i più sfortunati. La Chiesa cattolica aveva parecchie proprietà qui in Islanda, ma in seguito alla riforma questi beni vennero trasferiti in blocco al sovrano danese, lasciando il popolo nell’estrema indigenza. Non scordatevi che la Chiesa, tra le altre cose, si prendeva cura dei poveri, praticando l’elemosina e procurando vitto e alloggio ai poveri. Tutto ciò svanì con un colpo di spugna all’arrivo dei protestanti. Questo era un capitolo della storia locale che aveva sicuramente attirato l’interesse di Harald, dal momento che molto raramente la Chiesa cattolica è stata vista sotto questa luce benevola dai vari ricercatori. Un’altra cosa che lo affascinava era il fatto che i preti e i vescovi cattolici islandesi avessero il permesso di formarsi una famiglia, e che quindi avessero moglie e figli, fatto assolutamente inammissibile nelle altre nazioni cattoliche dell’Europa del tempo, come lo è ancor oggi.»

Matthew non sembrò affatto persuaso. «Sì, probabilmente ha ragione. Che lei sappia, gli incontri tra Harald e Thorbjörn a cui accennava prima erano di natura prettamente accademica oppure i due avevano altri interessi in comune?»

«Come capirete, io non ne so niente», rispose Gunnar. «Ma a dire il vero non mi pare che avessero strani intrallazzi. Però non è che li seguissi passo per passo, dato che non è affatto il mio compito. Gli studenti del corso di master sono quasi del tutto indipendenti nelle loro ricerche. Vi consiglio invece di parlarne direttamente con Thorbjörn. Se volete potrei presenziare al vostro incontro.»

Matthew guardò Thora, che fece di sì con il capo. «Sì, grazie, accettiamo la sua proposta», disse Matthew. «Non appena sa che Thorbjörn ha un momento libero, ci può chiamare. Così come si può mettere in contatto con noi se le viene in mente qualcos’altro che potrebbe rivelarsi determinante», e consegnò a Gunnar il suo biglietto da visita.

Anche Thora tirò fuori il suo biglietto da visita dalla borsetta e lo passò al professore. «Controlleremo anche se la lettera che stava cercando si trova tra le carte sotto la nostra custodia.»

«Ve ne sarei molto grato. Si tratta di una situazione incresciosa per tutta la facoltà e sarebbe uno scandalo dover comunicare lo smarrimento di un documento del genere. Purtroppo non ho con me un biglietto da visita, ma potete chiedere di me al centralino dell’università.» Gunnar si alzò in piedi.

«Per quanto concerne invece gli amici di Harald», lo trattenne Matthew. «Ci potrebbe mettere in contatto con qualcuno di loro? Vorremmo discutere con quelli che lo conoscevano meglio, e vedere se possono fornirci degli elementi utili. Ci interessa sapere soprattutto che cosa combinavano insieme. Questa mattina abbiamo cercato di contattarne un paio, ma non hanno voluto parlarci.»

«Vi riferite ovviamente agli studenti che facevano parte di quella loro società», intuì subito Gunnar. «È fattibile. Il gruppo di solito si incontrava in una delle nostre sale, e in effetti spero che in seguito alla morte di Harald la compagnia si sfaldi, perché quello spazio andrebbe utilizzato per qualcosa di più degno. Ma io purtroppo non decido tutto da solo e perciò posso fare ben poco per cambiare le cose al momento. Potrei comunque mettervi in contatto con due dei nostri studenti legati a quella combriccola, attraverso i quali potreste raggiungere gli altri.»

«Ci farebbe un immenso piacere», accettò Thora sorridendogli. «Ma perché ritiene la società indegna della vostra facoltà?»

Gunnar rifletté brevemente prima di rispondere. «Il fatto è che circa sei mesi fa ci fu uno spiacevole incidente che, ne sono convinto, era legato a quella società, anche se non posso dimostrarlo. Per sfortuna.»

«Che cosa accadde?» chiese Matthew.

«Non dovrei nemmeno parlarne…» esitò il professore, quasi rimpiangesse di averlo fatto. «Il tutto fu messo subito a tacere, prima che se ne spargesse la voce, e non venne mai denunciato.»

«Che cosa?» chiesero Matthew e Thora all’unisono.

Gunnar indugiò ancora, poi sbottò: «Trovammo un dito».

«Un dito?» Di nuovo Matthew e Thora espressero simultaneamente la loro sorpresa.

«Sì, una delle donne delle pulizie trovò un dito fuori del loro stanzino. Anzi, ancora mi pare di sentire le sue grida di terrore, poveraccia. Il dito venne inviato al laboratorio di Patologia dell’università, dove accertarono che apparteneva a una persona anziana, probabilmente un uomo, e che fosse andato in gangrena.»

«E una cosa simile non venne denunciata alle autorità?» chiese Thora in preda allo sconcerto.

Gunnar arrossì. «Vorrei veramente rispondervi positivamente, ma non appena finimmo le analisi ci sembrò fuori luogo andare a comunicarlo alla polizia. Era già passato tanto tempo dal ritrovamento, e poi ci furono di mezzo le vacanze estive, e altre cose del genere…»

Thora non capì la questione delle vacanze estive in relazione a un fatto così grave. Ma allora erano stati fortunati se nessuno era in permesso di maternità quando era stato ritrovato il cadavere di Harald? O se il dipartimento di Storia non aveva preso la decisione di farsi in proprio le indagini, senza rivolgersi alle forze dell’ordine? «Ma pensa un po’…»

«E del dito che cosa ne avete fatto poi?» domandò allora Matthew.

«Uhm, cioè, in effetti lo abbiamo buttato via», borbottò Gunnar. Il rossore si estese dalle guance fino alle radici dei capelli. «Il dito comunque non c’entra con l’omicidio e perciò ci è sembrato inutile parlarne adesso con la polizia, e sottostare di nuovo alle sue fastidiose procedure. Inoltre, anche loro hanno ben altro a cui pensare.»

«Ma pensa un po’!» ripeté Thora. Dita mozzate, occhi strappati, lettere che raccontano di orecchie tagliate. Che altro sarebbe venuto alla luce?

18

Thora stiracchiò la schiena, poi si riappoggiò allo schienale della sedia. Aveva appena terminato di collegare l’ultimo cavo elettrico al computer e ora non le rimaneva altro che accenderlo. Lei e Matthew si erano sistemati nello studio di Harald dopo aver salutato l’ineffabile professore. «Devo confessarti che la teoria tua e della famiglia Guntlieb di un omicida misterioso mi sta convincendo sempre di meno.» Thora accese il computer e subito si udì il ronzio soffuso che di solito accompagna le operazioni di attivazione. «Il dettaglio del sangue sui vestiti di Hugi, tanto per fare un esempio. Come si giustifica alla luce della tua ipotesi?» Matthew non rispose, permettendole di proseguire il suo monologo. «E le carte che hai mostrato al professore? Io non vedo proprio la connessione tra l’omicidio e la tesi universitaria, soprattutto perché Harald non seguiva certo un percorso lineare nell’acquisizione delle sue fonti.»

«Sono sicuro della mia teoria», affermò Matthew senza guardare Thora direttamente in volto.

Qualcosa nel suo comportamento la colpì. Non era da lui evitare il suo sguardo, inoltre si era accorta di come fissasse con insistenza lo schermo del telefonino, quasi sperasse in qualche telefonata per potersi sottrarre a quell’imbarazzante conversazione. Thora incrociò le braccia e lo guardò torva. «Mi stai nascondendo qualcosa!»

«Beh, spero proprio di non averti rivelato tutti i miei segreti durante il nostro breve periodo di intimità», disse con forzata allegria.

«Sciocchezze. Lo sai benissimo che cosa intendo dire. C’è sotto qualcosa di più dei soldi scomparsi e degli occhi.» Thora aveva ancora delle grosse remore nel discutere a viso aperto quell’argomento. Anzi, non le era ancora riuscito di mettere insieme una frase che scorresse senza impaccio: le parole che le venivano in mente non potevano esprimere quel che intendeva dire. «In realtà non è emerso niente altro per proseguire le nostre indagini, se si eccettuano alcune e-mail abbastanza vaghe e il dito lasciato in università.»

Matthew si rimise in tasca il cellulare. «Anche se ti stessi nascondendo qualcosa, devi credermi quando ti dico che Hugi non può aver ucciso Harald, o che perlomeno non ha agito da solo.»

Thora rise sarcastica. «No, non ti credo!»

Matthew si alzò in piedi. «Peccato. Io purtroppo da parte mia non posso prendere decisioni importanti su certe informazioni delicate senza prima consultarmi… Voglio dire, se ci fosse qualcos’altro di cui discutere…»

«Ma mettiamo invece che ci sia dell’altro: non sarebbe ora che tu chiedessi di farmene partecipe?»

Matthew la guardò impensierito e uscì dallo studiolo. Aveva di nuovo preso in mano il cellulare e l’avvocatessa sperava che si fosse appartato appunto per telefonare a qualcuno. Thora si mise a origliare dall’altra parte del corridoio, ma riuscì a percepire solo alcune frasi sconnesse, quindi si rassegnò a tornare al computer. Una finestra al centro dello schermo le diceva di introdurre la password. Thora, che ovviamente non la conosceva, tentò diverse possibilità: Harald, Malleus, Windows, Hexen e altro del genere. Nessuna funzionò. Raddrizzando la schiena, si guardò attorno nella speranza di ricevere ispirazione dagli oggetti che la circondavano. Su uno scaffale sopra la scrivania c’era la fotografia incorniciata di una ragazza handicappata su una sedia a rotelle. Non ci voleva un genio particolare per capire che si trattava della sorella minore di Harald, morta alcuni anni prima. Com’è che si chiamava? Non era stata battezzata come sua madre? E la signora Guntlieb si chiamava… Anna? No, comunque un nome con la A. Non Agata, né Angela. Amelia! Si chiamava Amelia Guntlieb. Thora tentò con quel nome, ma ancora senza successo. Stava perdendosi di coraggio, quando le venne in mente di provare a digitare il nome in minuscolo — amelia.

Sì! Con suo grande orgoglio, ottenne l’accesso ai programmi. Si chiese quanto tempo ci avesse messo la polizia a indovinare la password, ma poi si disse che loro dovevano sicuramente avere qualche esperto di informatica, che sapeva entrare nei computer dalla porta di servizio, per così dire. Certo non se ne stavano seduti alla tastiera per ore e ore a provare tutte le possibili combinazioni.

La figura che comparve come fondo sullo schermo era alquanto strana, e le ci volle un po’ di tempo per rendersi conto di cosa rappresentasse. Non aveva mai visto prima di allora l’interno di una cavità orale su uno schermo di diciassette pollici. Tantomeno una bocca la cui lingua era stretta da due pinze di acciaio che la tenevano aperta in due. Benché Thora non si intendesse affatto di operazioni del genere, era chiaro che si trattava di uno scatto preso durante un intervento chirurgico per separare la lingua in due metà. E Thora avrebbe scommesso con chiunque a chi apparteneva quella lingua, e dovette respirare profondamente per alleviare un conato di vomito.

Nel computer c’erano circa quattrocento file con l’estensione .doc, e l’avvocatessa li catalogò per ordine cronologico. I nomi dei file erano eloquenti, e i più recenti contenevano la parola hexen. Dato che si era ormai fatto tardi, Thora si chinò sulla sua borsa, estrasse la chiave USB che si portava sempre dietro e ricopiò tutti i documenti che le sembravano di argomento magico per poterli poi visionare con calma quella sera a casa sua, nel caso in cui Matthew le avesse voluto rivelare le informazioni confidenziali che la famiglia Guntlieb pensava di tenerle nascoste. In caso contrario, avrebbe trascorso la serata a calcolare se si poteva permettere di mandarli al diavolo e rinunciare all’incarico.

Matthew ancora non tornava e Thora ne approfittò per esaminare quali altri file erano stati archiviati nel computer. Al cagnolino dello schermo chiese di rintracciare tutti i file che terminavano con l’estensione .pdf e ottenne in premio una sessantina di documenti di immagini, che risistemò come gli altri in ordine cronologico, mettendo ancora una volta nella memoria della sua chiave USB quelli più recenti. Non c’era dubbio che di lavoro da fare quella sera ne avrebbe avuto parecchio. Poi le venne in mente di ispezionare le fotografie, classificate .jpg, e le richiamò sullo schermo. Harald aveva certamente una macchina fotografica digitale, che aveva adoperato con frequenza. Comparvero infatti centinaia di file etichettati con dei numeri. Come fanno quasi tutti, Harald non si era preso la briga di dar loro dei nomi precisi, e aveva lasciato i codici originali. La donna decise quindi di procedere a campione per rendersi conto del contenuto generale senza dover sfogliare le immagini a una a una. Per prima cosa le classificò di nuovo in ordine cronologico, e si accorse subito che le foto più recenti erano state scattate nell’appartamento di Harald, ed erano stranamente banali. In alcune si vedevano solamente inquadrature della cucina e qualcosa che sembrava la preparazione di un pranzo, ma niente altro. Nelle foto non compariva nessuno, tranne alcune in cui si scorgevano delle mani. Thora copiò quelle con le mani nella sua chiave USB, nella remota ipotesi che appartenessero all’assassino. Le altre foto mostravano invece un delizioso piatto di pasta nelle varie fasi di preparazione, che tralasciò ovviamente di copiare.

Verso il fondo della pagina la musica cambiava nettamente. Sempre più rossa per l’imbarazzo, Thora vide una serie di ragazzi alle prese con svariate pratiche orgiastiche e sessuali, alcune delle quali particolarmente perverse. Avrebbe dovuto ingrandire le immagini per vedere meglio le facce dei protagonisti, ma temeva che Matthew entrasse e la cogliesse in flagrante in quell’operazione così imbarazzante. Un’altra cartella conteneva numerose immagini dell’operazione alla lingua, tra cui quella che Harald aveva scelto come fondo per lo schermo. Delle varie persone presenti all’intervento chirurgico si scorgevano, sfortunatamente, solamente il busto. Comunque Thora copiò alcune foto per poterle osservare meglio in seguito.

Altre fotografie ancora erano state scattate in una serie interminabile di party, feste e divertimenti di ogni tipo, ma ogni tanto sbucavano inaspettatamente delle panoramiche della natura islandese, nonché altre foto di viaggio. Una raffigurazione delle grigie pareti in penombra, su una delle quali a Thora parve di scorgere una croce scolpita nel tufo, che risultò più evidente dopo che l’ebbe ingrandita sullo schermo. Una miriade di foto ritraevano poi un paesino sconosciuto e l’interno di una specie di museo folcloristico che a prima vista doveva esporre antichi manoscritti e una pietra di basalto grigio racchiusa dentro una bacheca di vetro. In una delle foto si intravedeva un cartello che Thora ingrandì per poterlo decifrare. Quale fu il suo disappunto quando la scritta le apparve in lettere leggibili: VIETATO FOTOGRAFARE!

Quando infine cominciarono a comparire vecchie foto che sicuramente non avevano alcun nesso con il loro caso, Thora decise di interrompere la sua consultazione. Aprì invece il programma di posta elettronica con la speranza di trovare qualche informazione confidenziale. Nella casella della posta in arrivo c’erano sette lettere che attendevano ancora di essere aperte. Probabilmente erano molte di più quelle arrivate ad Harald dal giorno della sua uccisione, ma la polizia doveva già averle aperte e lette.

In quel momento Matthew rientrò nello studio e Thora distolse lo sguardo dallo schermo. L’uomo si sedette di nuovo sulla sua sedia e inviò un sorriso impacciato alla sua socia.

«Allora?» lo pungolò Thora in tono ansioso.

«Allora…» iniziò Matthew sporgendosi in avanti, posando i gomiti sulle ginocchia e congiungendo le mani come se volesse pregare. «Prima di dirti ciò che tu ritieni indispensabile sapere», annunciò ponendo l’accento sulla parola ritieni, «mi devi promettere una cosa.»

«Che cosa?» chiese Thora pur immaginandosi già la risposta.

«Ciò che sto per rivelarti è una questione molto delicata, che deve assolutamente rimanere segreta. Prima quindi devi assicurarmi la tua completa discrezione. Capisci?»

«Come faccio a sapere se posso mantenere il segreto quando non ho la minima idea di che segreto sia?»

Matthew scosse la testa. «Devi correre il rischio. In tutta sincerità, devo confessare che ti verrà voglia di riferirlo a qualcuno. Lo premetto perché non pensi che ti stia mettendo in trappola.»

«E a chi dovrei voler rivelare questo segreto? Mi sembra un particolare determinante.»

«Alla polizia», rispose Matthew senza indugi.

«Vuoi dire che tu e la famiglia di Harald avete nascosto delle informazioni che potrebbero far cambiare il corso delle indagini? Ho capito bene?»

«Più o meno.»

«Roba da non crederci», borbottò Thora. Da un lato, c’erano delle leggi che proibivano di occultare agli inquirenti prove o informazioni che riguardassero un’indagine ufficiale, quindi avrebbe dovuto comunicare agli investigatori la reticenza di Matthew. Dall’altro lato, invece, sapeva benissimo che lui e la famiglia Guntlieb avrebbero negato tutto e poi l’avrebbero scaricata. E non ci avrebbe guadagnato nessuno. Perciò, dando un’interpretazione più elastica al senso etico del dilemma, si poteva trarre la conclusione che la cosa giusta da fare fosse impegnarsi a non rivelare a nessuno il segreto e dare il meglio di sé per risolvere il caso, armata delle nuove e scottanti informazioni. Con soddisfazione di tutti.

Thora ponderò le due alternative in silenzio. La seconda, pur con tutti i suoi difetti, le parve la meno dannosa. Le norme etiche dovevano pur tenere conto delle circostanze attenuanti, se il fine giustifica i mezzi. Se invece non lo facevano, ebbene, era venuto il momento di cambiarle.

«D’accordo», accettò infine. «Ti prometto che non dirò niente a nessuno, nemmeno alla polizia, qualunque siano le informazioni che stai per fornirmi.» Matthew sorrise contento, ma lei puntualizzò: «In cambio devi promettermi che, se il segreto che mi stai per rivelare prova la completa innocenza di Hugi e se non riusciamo a provarla con altri mezzi, allora consegneremo alle autorità le nostre informazioni prima dell’inizio del processo». Matthew aprì le labbra, ma lei proseguì: «E le autorità non devono sapere che ne ero a conoscenza. E…»

Matthew la fermò: «Va bene, va bene, ora basta, grazie». Adesso era il suo turno di pensarci su. Dopo un po’ guardò Thora senza battere ciglio. «D’accordo. Tu non dici niente e io faccio pervenire alla polizia la lettera se non riusciamo a dimostrare in tempo l’estraneità di Hugi all’omicidio.»

La lettera? Un’altra lettera? Thora avrebbe potuto credere di essere finita in una farsa, se le foto dell’autopsia non le si fossero impresse a fuoco nella mente. «Di quale lettera stai parlando?»

«Di una lettera in islandese che la madre di Harald ha ricevuto poco dopo l’omicidio: essendo stata spedita dopo la cattura di Hugi, era escluso che l’avesse spedita lui. Oltretutto, dubito proprio che la polizia gli avrebbe fatto il piacere di imbucargliela se l’avesse letta, come si fa di solito per la corrispondenza dei detenuti.»

«Cioè?» chiese Thora insofferente.

«La particolarità non era tanto il contenuto, se si eccettua il fatto che accusava spietatamente la madre di Harald. Quello che più conta è che era stata scritta con del sangue — il sangue del ragazzo».

«Disgustoso!» si fece sfuggire Thora mentre cercava di immaginare la sensazione provata da una madre nel ricevere una lettera redatta con il sangue del figlio appena ucciso, ma non ci riuscì. Tutto le sembrava così assurdo. «C’era scritto il mittente? E come fate a sapere che si trattava del sangue di Harald?»

«La lettera pareva firmata dal ragazzo, ma un esperto di grafologia ha detto che, data la grossolanità dell’arnese utilizzato per scriverla, la scrittura era inadatta al confronto con l’originale. Comunque, la lettera venne inviata a un laboratorio per analizzare il sangue. E i risultati hanno sciolto ogni dubbio: era proprio il sangue di Harald, mescolato però con quello di un passeraceo.»

Thora spalancò gli occhi. Sangue di uccelli? Una cosa del genere le faceva ancora più ribrezzo del sangue umano. «Ma cosa diamine c’era scritto in questa lettera? L’hai con te?»

«Ovviamente non ho l’originale, se è ciò che vuoi sapere. La signora Guntlieb non l’ha voluto consegnare a nessuno e nemmeno farne una fotocopia. Anzi, penso che l’abbia distrutto, tanto l’aveva inorridita.»

Thora lo guardò delusa. «E allora? Devo sapere che cosa c’era scritto. L’hanno fatta tradurre da qualcuno?»

«Sì, certo. Pareva una poesia d’amore che cominciava in maniera dolce, ma che poi diventava sempre più raccapricciante.» Matthew sollevò gli occhi e sorrise. «In effetti, sei fortunata che abbia fatto in tempo a ricopiarla, poiché fui io stesso a tradurla, con l’aiuto di un dizionario islandese-tedesco. Non riceverò di sicuro un premio per la traduzione, ma perlomeno abbiamo capito cosa c’era scritto.» Mentre parlava, Matthew estrasse dalla tasca della giacca un foglio piegato in quattro e lo consegnò a Thora. «Ecco la trascrizione dell’originale. Forse alcune lettere dell’alfabeto islandese non sono state copiate correttamente, io non le conosco tutte, ma in generale dovrebbe essere fedele.»

Thora lesse la poesia sottovoce. Calcolando con che cosa era stata scritta, era alquanto lunga. Chissà quanto sangue serviva per tutte quelle lettere. Matthew le aveva trascritte in corsivo, probabilmente come nell’originale.


Guardo te,

e tu regalami

amore e passione

con tutto il cuore.

Non sedere,

non stare tranquillo,

se non mi ami.

Prego Odino

e tutti gli altri

che le rune donne

sanno leggere

perché tu nel mondo

mai trovi pace

né fiorisca

se non mi ami

con tutto il cuore.

Così fin nelle ossa

tu possa bruciare

e nella carne

ancora di più.

Ti colga la sfortuna

se non mi ami,

ti si gelino i piedi

e tu non riceva mai onore

né felicità.

Siedi tra le fiamme,

marcisci nel volto,

si strappino le tue vesta,

se non t’impietosisci

e non mi ami.


Thora rimase di sasso al termine della lettura. I versi erano davvero sgradevoli. «Non l’ho mai sentita prima, mi dispiace. Ma chi compone delle poesie del genere?»

«Ti giuro che non ne ho idea», rispose Matthew. «E nell’originale quei versi erano ancora più raccapriccianti, scritti com’erano su pelle di vitello — una pergamena. Ci vuole una mente malata per fare uno scherzo del genere alla madre di un ragazzo appena morto.»

«Perché parli sempre della madre? La lettera non era indirizzata a entrambi i genitori?»

«No, oltre ai versi c’era scritto qualcos’altro in tedesco. Non l’ho trascritto, ma ne ricordo più o meno il contenuto.»

«Che era?»

«Una frase succinta, qualcosa del genere: ‘Mamma, spero che la poesia e il regalo ti siano piaciuti. Tuo figlio Harri’. La parola ‘figlio’ era sottolineata due volte.»

Thora guardò prima il foglio, poi Matthew. «Che regalo? C’era qualcos’altro sulla lettera o nella busta?»

«No, a quanto affermano i genitori, e io ci credo. Anzi, quando ricevettero la lettera, entrambi ebbero quasi un collasso, e non erano certo nelle condizioni di mentirmi.»

«Ma perché la lettera è firmata Harri

«Era il nomignolo con cui suo fratello maggiore chiamava Harald quando erano piccoli. Pochissimi sanno di quel diminutivo, ed è per questo che la lettera ha provocato quell’impatto sulla madre.»

Thora guardò Matthew dritto in volto. «Era stata cattiva con lui, vero?» Le erano venute in mente le fotografie del piccolo Harald tenuto da parte.

Matthew non le rispose subito, e quando riprese a parlare, misurò le parole per esprimere le sue idee con correttezza, dato che si trattava di una faccenda personale che riguardava i suoi datori di lavoro, per i quali sembrava nutrire grande rispetto. «Non lo so, te lo giuro. Sembrava piuttosto che lei volesse evitarlo. Sono certo che se i rapporti tra di loro fossero stati normali, lei avrebbe fatto avere la lettera alla polizia islandese. Invece la cosa l’ha colpita in un punto delicato.» L’uomo tacque un momento e guardò pensieroso Thora prima di continuare. «La signora Guntlieb ha chiesto di poter parlare direttamente con te. Da madre a madre.»

«Con me?» Thora rimase a bocca aperta. «Che cosa vuole da me? Che io le perdoni il suo bizzarro comportamento nei riguardi di suo figlio?»

«Mi ha solo detto di volerti parlare, ma non subito. Prima voleva riprendersi un po’.»

Thora non sapeva che cosa rispondere. Naturalmente avrebbe sentito la donna, se lei l’aveva esplicitamente richiesto, ma certo non si sarebbe messa a consolare una persona che aveva trattato male il suo stesso figlio. «Ancora non capisco il significato di quella lettera», disse allora per cambiare argomento.

«Neppure io», rispose immediatamente Matthew. «Ma era una vera e propria pazzia far finta che Harald avesse inviato la lettera di persona. Chi ha commesso il delitto deve essere uno psicopatico o qualcosa del genere.»

Thora si rimise a studiare il foglio. «È probabile che l’autore volesse sottolineare il fatto che Harald era stato ucciso e che avrebbe perseguitato sua madre dopo la sua morte?»

«Per che ragione? Chi ci guadagnava a torturare così una povera donna?»

«Harald, ovviamente, ma lui era già morto», rispose Thora. «Forse sua sorella, se sua madre si era comportata male anche con lei.»

«No, niente affatto, te lo posso giurare. Era la pupilla dei suoi genitori.»

«Ma chi altro può essere stato il mittente, allora?» domandò Thora con aria perplessa.

«Perlomeno non Hugi. A meno che non avesse un complice fuori della prigione.»

«È un vero peccato non aver saputo del sangue sui vestiti quando gli abbiamo parlato questa mattina.» Thora guardò l’orologio. «Forse potrei ottenere il permesso di sentirlo al telefono.» Thora fece il numero delle informazioni e quello del penitenziario. Il soprintendente di turno le concesse il permesso di parlare con Hugi, a condizione che si trattasse di una telefonata breve. Thora attese impaziente in linea per qualche minuto, ascoltando la versione digitale di Per Elisa prima che la voce trafelata del ragazzo le arrivasse all’orecchio dall’altra parte della linea.

«Pronto?»

«Sì, salve Hugi. Sono Thora Gudmundsdottir, l’avvocato di stamattina. Non ti posso trattenere a lungo, ma il fatto è che ci siamo dimenticati di chiederti del sangue che hanno trovato sui tuoi abiti. Come lo spiegheresti?»

«Quel maledetto sangue!» sospirò il detenuto. «Anche la polizia l’ha voluto sapere. Non so se parlavano di quello ma gli ho riferito qualcosa.»

«Puoi essere più preciso?»

«Quella sera io e Harald andammo in bagno per sniffare un po’ di coca durante il party. Solo che Harald ebbe una violenta emorragia dal naso, e il suo sangue mi schizzò addosso dappertutto. Eravamo in un bagno strettissimo.»

«E non avevi testimoni?» chiese Thora. «Nessuno degli altri ospiti si ricorda che eri uscito dal bagno tutto insanguinato?»

«Beh, non è che fossi tutto insanguinato. Comunque eravamo talmente ubriachi e fuori di testa, che nessuno me lo fece notare. Anzi, penso che non se ne fosse accorto proprio nessuno.»

Che diamine, pensò Thora. «E cosa puoi dirmi sul fatto che la maglietta insanguinata si trovasse nel tuo armadio? Sai per caso come c’era arrivata fin là?»

«Non ne ho idea.» Dopo un attimo di silenzio, Hugi aggiunse: «Credo che ce l’abbia messa la polizia. Harald non l’ho ammazzato io e non ho asciugato nessun sangue con la mia maglietta. Non so nemmeno se fosse davvero la mia maglietta o quella di qualcun’altro. Non me l’hanno mai fatta vedere.»

«Stai facendo delle gravi accuse, Hugi, e io non credo proprio che la polizia islandese sia così scorretta. Ci deve essere una qualche spiegazione più plausibile, se quello che dici è la verità.» Infine, accomiatatasi dal ragazzo, Thora ripeté a Matthew il succo della telefonata.

«Ebbene, ora abbiamo almeno metà delle spiegazioni», commentò lui. «Non ci resta che interrogare gli altri ospiti della festa per vedere se qualcuno si ricorda del sangue dal naso.»

«Certo», disse Thora, poco convinta. «Ma anche se ci aiutassero, ci mancherebbe sempre da spiegare la presenza della maglietta dentro l’armadio.»

«Bing!» si udì dal computer. I due volsero lo sguardo simultaneamente verso lo schermo. Era arrivato un nuovo messaggio. Thora prese il mouse e cliccò sull’icona della busta.

La lettera si aprì. Era stata inviata da Mal.

19

Ciao, Harald morto,

Che diavolo succede? Sto ricevendo dei messaggi da qualcuno che dice di far parte della polizia islandese e da un avvocatuccolo da strapazzo. A detta di questi bastardi tu saresti morto. Come se fosse vero. Mandami per lo meno una riga, perché mi hanno fatto incazzare.

Saluti

Mal


Nonostante si fosse già guadagnata epiteti peggiori nella sua carriera di avvocato, Thora si innervosì.

«Presto, presto», disse Matthew. «Rispondigli mentre è ancora seduto davanti al computer.»

La donna si affrettò a premere il tasto «rispondi». «Che cosa gli devo scrivere?» chiese mentre batteva il classico: Caro Mal.

«Quello che ti pare, ma fai in fretta», rispose Matthew.

Thora decise di scrivere il seguente testo:


Purtroppo la notizia della morte di Harald non è un’invenzione. Lui è stato assassinato e non può più rispondere alle e-mail che gli mandi. Io sono l’avvocatuccolo da strapazzo che ti ha contattato alcuni giorni fa. Il computer di Harald si trova sotto la mia custodia perché sto lavorando per la famiglia Guntlieb, che fa di tutto per scoprire il colpevole. Al momento è stato arrestato un ragazzo che probabilmente è innocente, e noi abbiamo il sospetto che tu sia a conoscenza di particolari che potrebbero permetterci di far luce su questo terribile delitto. Sai che cos’era quella cosa che Harald ti disse di aver trovato e chi era quel «deficiente» di cui Harald parlava nell’ultima e-mail che ti aveva mandato? Ci farebbe piacere se ci lasciassi il tuo numero di telefono per contattarti.

Saluti

Thora


Matthew lesse ciò che Thora aveva scritto a tempo di record e le fece cenno, con gesti impazienti, di spedire l’e-mail immediatamente: «Invia, subito!»

Thora spedì la posta ed entrambi attesero un paio di minuti con il cuore in gola. Alla fine comparve il messaggio che annunciava l’arrivo di una nuova e-mail. I due si guardarono in faccia emozionati prima di aprire la posta. La delusione non fu minore della precedente.


Avvocato dei miei stivali, va’ all’inferno. E porta con te anche la famiglia Guntlieb. Siete una massa di idioti. Non vi aiuterò nemmeno se mi ammazzate.

Vi odio

Mal


Thora emise un debole sospiro. Ma chi l’avrebbe mai detto. «E se stesse soltanto bluffando?»

I loro sguardi si incontrarono e Matthew cercò di capire se Thora scherzasse, ma si rese conto che diceva sul serio. «Come no, presto ci rimanda un altro messaggio pieno di omini sorridenti che ballano sullo schermo per dirci che ama la famiglia Guntlieb con tutto il cuore.» Poi sospirò. «Beh, Harald non ha certo parlato bene della sua famiglia con gli amici. Penso che possiamo dimenticare questo individuo.»

Thora non si perse d’animo. «Perché rimaniamo qui a perdere tempo prezioso? Non sarebbe meglio fare un salto al Kaffibrennslan per parlare con il cameriere che ha avvalorato l’alibi a quel tale Halldor, se è di servizio? Sono d’accordo con te sul fatto che si tratta di una testimonianza piuttosto labile. E se non sta lavorando, ne approfittiamo per prenderci un caffè insieme.»

Matthew accolse con gioia la proposta e si alzò in piedi. Thora estrasse la chiave USB, che ripose nella borsetta, e spense il computer.


Nel bar c’erano solamente pochi avventori, cosicché i due poterono scegliersi i posti a piacere. Perciò si sedettero a un tavolino di fianco al bancone del piano inferiore. Mentre Thora si dava da fare per sistemare il suo piumino sulla spalliera della sedia, Matthew richiamò l’attenzione della cameriera di turno, una ragazza giovanissima. Lei lo vide e gli sorrise, facendogli intendere che sarebbe arrivata appena possibile. Matthew si volse allora verso Thora. «Perché non ti sei messa il cappotto che avevi quando ci siamo conosciuti?» le chiese con aria meravigliata vedendo l’ampio e pesante giaccone straripare da entrambi i lati della sedia, le maniche così ripiene di piume d’oca da rimanere quasi diritte.

«Avevo freddo», rispose Thora stupita. «Il cappotto lo riservo agli incontri formali. Per andare e tornare dal lavoro metto il giaccone. Perché, non ti piace?»

Matthew fece una smorfia eloquente. «Sì, come no, se lavorassi per una compagnia di misurazione dello spessore del ghiaccio in Antartide.»

Thora roteò gli occhi. «Spiritoso», borbottò e sorrise alla cameriera che era comparsa al loro fianco.

«Desiderate?» chiese la ragazza rispondendo al loro sorriso. Indossava un grembiule nero e corto legato sui fianchi snelli e teneva in mano un blocchetto, pronta a scrivere le ordinazioni.

«Per me un espresso doppio», rispose Thora e poi, girandosi verso Matthew, gli chiese: «Per te un tè in una tazza di porcellana, vero?»

«Ah, ah, molto divertente», la rimbeccò lui, e rivolgendosi alla cameriera ordinò a sua volta un espresso doppio.

«Va bene», disse la ragazza con un sorriso, senza appuntarsi niente per iscritto. «Nient’altro?»

«Sì e no», disse Thora. «Ci stavamo chiedendo se Björn Jonsson stesse lavorando. Volevamo parlargli un attimo».

«Björn?» chiese la ragazza sorpresa. «Sì, è appena arrivato.» Poi guardò l’orologio alla parete. «Sta appunto per cominciare il suo turno. Ve lo vado a chiamare?» Thora accettò con un sorriso e la ragazza andò a prendere sia Björn sia le tazzine di caffè.

Matthew guardò la socia e le sorrise sdolcinato. «Il tuo giaccone è molto elegante. Dico sul serio. Solo che ha un qualcosa di… mastodontico».

«Prima però non ci facevi caso quando flirtavi con Bella. Anche lei è… mastodontica, come dici tu, al punto da avere una forza di gravità tutta sua. Pensa che le graffette dell’ufficio le orbitano tutt’attorno. Comunque, anche tu dovresti comprarti un giaccone come il mio. È comodissimo.»

«Non potrei mai», rispose Matthew sorridendole ancora più melenso. «Occuperei tanto spazio in auto che tu dovresti sedere sul sedile posteriore, e mi sentirei solo.»

L’amena conversazione sui piumini dovette cedere il passo ai caffè che la cameriera stava portando, in compagnia di un giovane di bell’aspetto, quasi femminile con i suoi capelli neri ben acconciati e le guance senz’ombra di barba. «Ciao, siete voi che volevate parlare con me?» chiese con voce dolce.

«Sei Björn, presumo», disse Thora prendendo la sua tazzina di caffè. Alla risposta affermativa del giovane, lei gli spiegò chi fossero loro due, e pensando che non sarebbe servito a niente impacciarlo con l’inglese, proseguì a parlargli in islandese. Matthew non sollevò obiezioni e si mise a bere il suo caffè con aria rilassata. «Vorremmo chiederti alcuni particolari sulla sera del delitto e Halldor Kristinsson.»

Björn annuì, serio in volto. «Sì, non c’è problema. Ma siete sicuri che mi sia permesso parlarvi? Voglio dire, non si infrangono delle leggi?» Thora gli garantì che si trattava di un’iniziativa del tutto lecita e lo invitò a proseguire. «Allora, io ero di turno quella sera, ovviamente assieme ad altri.» Si guardò un attimo intorno nel locale mezzo vuoto. «Il fine settimana qui dentro è tutta un’altra cosa. È sempre strapieno.»

«Ciò nonostante ti sei ricordato esattamente di Halldor», constatò Thora cercando di non far sembrare le sue parole un’accusa troppo diretta contro il ragazzo.

«Halldor? Certamente, senza alcun dubbio», rispose Björn con foga. «Ormai ho cominciato a riconoscerlo, per così dire. Lui e quel suo amico, quello straniero che hanno ammazzato, venivano spesso insieme qui da noi, e non passavano certo inosservati. Il tedesco era proprio un tipo speciale. Mi chiamava sempre con il nomignolo di Baer, che appunto significa Björn, cioè orso, in tedesco. E poi ogni tanto Halldor veniva da solo e ci mettevamo a parlare al bancone.»

«E quella sera lo ha fatto?»

«No, era impossibile. C’era una gran folla e io ero costretto a correre da un tavolo all’altro per tutto il locale. In ogni modo lo salutai e ci scambiammo delle frasi di convenienza. Devo confessare che quella sera era di cattivo umore, per cui non mi trattenni che pochi istanti con lui.»

«Ma come fai a sapere con certezza l’ora del suo arrivo? Alla luce di quello che mi stai dicendo, eri troppo impegnato per notarlo. Oppure avevi delle altre ragioni per farlo?»

«Semplice», disse Björn, «appena entrato aprì il suo conto della serata, per non dover pagare ogni volta che ordinava qualcosa. La regola da noi è quella di scrivere l’ora della prima richiesta, e l’ora della chiusura del conto, quando il cliente salda l’intera somma.» Björn rivolse a Thora un sorriso di complicità. «E ti dirò che quella sera aveva fatto bene ad aprire il conto, visto quello che poi ha consumato. Avrebbe surriscaldato la carta di credito, se l’avesse usata ogni volta che ordinava da bere.»

«Capisco», disse Thora. «Ma sei proprio sicuro che sia rimasto tutto il tempo seduto qui dentro a bere fino all’arrivo dei suoi amici, verso le due? Non avrebbe potuto uscire e rientrare senza che tu te ne accorgessi?»

Björn ci pensò su prima di rispondere. «Beh, naturalmente non posso giurare che sia rimasto tutto il tempo nel bar. Mi pareva di esserne sicuro, e l’ho detto alla polizia, ma a ben guardare potrei anche aver tirato le somme basandomi sulle sue ordinazioni, che in effetti non sono passate tutte quante da me. Può anche darsi che qualcun altro abbia messo in conto qualcosa a suo nome, non lo so.» Il cameriere fece un gesto largo con le mani indicando il locale. «Comunque, questo non è un posto tanto grande e penso, sinceramente, che se fosse andato via me ne sarei accorto. O per lo meno lo credo probabile.»

Thora non sapeva più che cosa chiedere al ragazzo a proposito di quella sera. Non le sembrava comunque un teste molto attendibile, quindi l’alibi di Halldor non poteva più considerarsi inconfutabile. Allora ringraziò Björn e salutandolo gli porse il suo biglietto da visita, nel caso gli fosse venuto in mente qualcos’altro di importante, benché ne dubitasse. Poi si rivolse di nuovo a Matthew e al suo caffè, che ormai si era raffreddato, e spiegò al collega, tra un sorso e l’altro, ciò che le aveva detto il cameriere. Infine si accorse che era giunta l’ora di tornare a casa. I due pagarono il conto e uscirono.

Si stavano facendo le cinque e il traffico era ancora leggero. In giro non c’era quasi nessuno, visto il clima freddo e umido, e i pochi coraggiosi che osavano camminare per i marciapiedi del centro avanzavano in fretta, senza guardarsi intorno né dare un’occhiata alle vetrine.

Thora decise di non passare per niente in ufficio, e accettare che Matthew la accompagnasse a recuperare la sua auto nel parcheggio custodito. Ma prima doveva avvertire Bella delle sue intenzioni e controllare se fosse accaduto qualcosa d’importante in sua assenza.

«Pronto?» fu la solita risposta laconica della segretaria, che non sprecava mai energie per specificare il tipo di attività dello studio.

«Bella», esordì l’avvocatessa cercando di assumere un tono sereno, «sono Thora, per oggi non ritorno in ufficio. Vengo invece domani mattina intorno alle otto.»

«Oh!» fu la sua risposta sibillina.

«C’è qualche messaggio per me?»

«Come faccio a saperlo io?» rispose sgarbata la ragazza.

«Come? Beh, io sono talmente ottimista da pensare che tu, segretaria e centralinista, potessi essere incappata per sbaglio in qualche messaggio. Il che è ovviamente un’assurdità, e io sono ingenua a pensarlo.»

Dall’altra parte della linea ci fu un attimo di smarrimento, seguito da un’affermazione perentoria: «Sono le cinque, da questo momento non sono più tenuta a parlare con te. Il mio turno odierno è finito». E riattaccò.

Thora fissò incantata il suo cellulare e borbottò, più tra sé e sé che a Matthew: «E se Bella e Mal fossero la stessa persona?»

«Cosa?» erano arrivati al parcheggio custodito e Matthew accostò al marciapiedi.

«Ah, niente, niente», disse Thora slacciandosi la cintura di sicurezza. «Tu cos’è che fai tutte le sere solo soletto?»

«Un po’ di tutto», rispose l’uomo. «Vado fuori a mangiare, faccio il giro dei locali notturni del centro o una di quelle escursioni per turisti, vado a visitare i musei, cose del genere.»

Thora si intenerì per lui: doveva soffrire molto la solitudine. «Domani è venerdì e i miei figli passano il fine settimana con il padre. Se vuoi ti posso invitare a cena, che ne dici?»

Matthew sorrise. «L’idea mi piace, se però mi prometti di non cucinare il pesce. Ne ho già mangiato così tanto che mi cresceranno le pinne.»

«No, stavo pensando a qualcosa di più semplice, tipo ordinare una pizza», propose scendendo dall’auto. Sperava che, prima di salire sul suo catorcio, Matthew se ne fosse già andato. Se non gli era piaciuto il suo giaccone, gli sarebbe venuto un infarto a vedere l’improbabile mezzo di trasporto che era costretta a guidare in quei giorni. Purtroppo il suo desiderio non si avverò. Matthew aspettò di vederla seduta al volante, poi la chiamò ad alta voce.

«Stai scherzando, spero», gridò sporgendosi dal finestrino. «Che cos’è quella roba?»

Thora alzò il mento e rispose flemmatica: «È un’auto d’epoca. Vuoi fare cambio?»

Matthew scrollò il capo e chiuse il finestrino. Poi ripartì ridendo, o almeno così parve a Thora.

La sera prima lei si era accordata con un’altra madre perché portasse sua figlia e Soley a casa sua dopo la scuola, per cui ora passò a riprendere la bambina, ringraziò per il favore la donna, una signora ancora giovane e snella, e si sentì assicurare che era stato meglio badare a due ragazzine che si fanno compagnia anziché a una sola. Thora accettò con gioia la proposta di ripetere l’esperienza al più presto, e aggiunse che un giorno sperava di poter contraccambiare il piacere. Il giorno in cui il sole sorgerà a ovest.

L’entrata del suo appartamento era un ammasso confuso di vestiti, scarpe e adolescenti. Gli amici di Gylfi avevano fatto visita a suo figlio e ora se ne stavano andando. Tre ragazzi dinoccolati che Thora conosceva bene e una ragazza erano indaffarati a recuperare scarpe e giacconi sparsi alla rinfusa, nonché gli zainetti malconci con i libri di scuola.

«Ciao», li salutò Thora con fare amichevole, infilandosi in quel gruppetto caotico ed entrando nell’appartamento. Suo figlio stava in piedi sulla soglia del salottino e seguiva le operazioni in corso, altrettanto giù di morale quanto lo era stato quella mattina. «Stavate studiando?» chiese Thora, ben sapendo che si trattava di un concetto impensabile. A quell’età i ragazzi non si incontravano mai per studiare, e chi avesse proposto una cosa del genere sarebbe stato immediatamente bandito dal gruppo. Era comunque suo dovere di genitore fare osservazioni di tale assurdità.

«Ehm, no», rispose Patti, da molti anni amico del cuore di Gylfi. Era un ragazzo perbene, con la curiosa peculiarità di poter dire in qualsiasi momento quanti mesi, giorni e ore gli mancavano per prendere la patente di guida. Thora una volta aveva voluto controllare quei numeri e ne aveva verificato l’esattezza quasi perfetta.

Thora lanciò un sorriso alla ragazza, che invece abbassò timidamente lo sguardo. Non riusciva proprio a ricordarsi come si chiamava, anche se ultimamente l’aveva vista molto più spesso del solito dentro casa. Anche Gylfi negli ultimi tempi era maturato molto, ed era probabile che si fosse preso una cotta per quella ragazza. In effetti era molto carina, anche se in confronto agli altri sembrava una bambina.

Soley, che aveva seguito sua madre entrando, si era già tolta le scarpe e il piumino e aveva riposto tutto ordinatamente al suo posto. Guardando i ragazzi, si mise le mani sui fianchi e chiese loro con fare da matrona: «Avete fatto i salti sul letto? Non si può, il materasso così si rompe.»

Suo fratello arrossì violentemente e sbraitò: «Perché proprio io devo avere una famiglia così ritardata? Siete tutte e due insopportabili». E andò a chiudersi nella sua camera, sbattendo forte la porta. I suoi amici, congelati un attimo in quell’imbarazzante situazione, terminarono di vestirsi il più in fretta possibile.

«Ciao», disse Patti uscendo per ultimo. Prima che la porta si chiudesse ebbe un ripensamento e, tornato sui suoi passi, fece capolino. «Voi non siete ritardate come la mia famiglia», comunicò. «Gylfi questi giorni ha un diavolo per capello.»

Thora gli rivolse un sorriso e lo ringraziò di cuore. Perlomeno lui aveva tentato di mostrare un pizzico di cortesia, anche se la scelta delle parole non era stata felice. «Allora», propose poi a sua figlia, «prepariamo qualcosa da mangiare?» La piccola annuì compostamente e cominciò a trascinare in cucina una sporta della spesa.

Dopo avere cenato tutti e tre insieme (lasagne precotte e riscaldate che Thora aveva appositamente comprato al supermercato e un po’ di pane-naan che aveva preso per sbaglio, credendolo una baguette all’aglio), Soley si mise a giocare da sola, mentre Gylfi sparecchiava. Era evidente che si vergognava della sua sfuriata, ma non se la sentiva di chiedere scusa. Thora fece finta di niente, sperando che fosse lui a prendere l’iniziativa di parlarle dei suoi problemi. Ma evidentemente il ragazzo non era ancora pronto per confidarsi. Ringraziandolo per l’aiuto in cucina, gli diede un bacio esitante sulla guancia e ottenne in risposta un sorrisetto impacciato.

Thora decise allora di approfittare del momento di tranquillità che si era creato in casa per dare un’occhiata ai file che aveva scaricato dal computer di Harald. Andò a prendere il portatile e si accomodò sul divano del soggiorno. Le prime foto che guardò erano quelle della cucina e dell’operazione alla lingua, che erano datate il 17 settembre. Le aprì una dopo l’altra e ingrandì quelle che a prima vista le sembravano più promettenti. Il soggetto principale di tutte era l’intervento chirurgico, ma intorno alla mandibola di Harald ora Thora poteva intravedere altri particolari. Era chiaro che il tutto si era svolto in una casa privata, dato che l’ambiente che compariva ai margini delle foto non somigliava affatto a una sala operatoria o a qualche studio dentistico. Si scorgeva persino un tavolino ricoperto da bicchieri semivuoti o vuoti, lattine di birra e altri rifiuti, assieme a un portacenere strapieno di mozziconi. Inoltre non c’era alcun dubbio che quello non fosse l’appartamento di Harald, dato che era un interno molto più disordinato e di cattivo gusto dell’impeccabile dimora dello studente tedesco.

Su una delle foto si vedeva il torace di chi aveva eseguito o perlomeno assistito all’operazione. La persona in questione indossava una maglietta marrone chiaro con una scritta che Thora non riuscì a leggere, distorta com’era dalle pieghe della stoffa. Le riuscì comunque di leggere il numero 100 e un «… lico…» Le prime due foto erano state scattate prima dell’intervento, mentre la terza mostrava il risultato del bisturi: dalla bocca di Harald sgorgava sangue a fiotti, che era andato a chiazzare di rosso il braccio che compariva in primo piano. Se una ferita alla lingua era come un normale taglio alla testa, doveva aver sanguinato in maniera incontrollabile. Thora si mise a osservare il braccio più meticolosamente e ne ingrandì un’area sulla quale aveva intravisto un tatuaggio. Aveva ragione: sulla pelle si poteva leggere la parola crap. Niente disegni né decorazioni, solamente crap, merda. E questo era tutto quello che si poteva ricavare dalle foto della lingua.

Le immagini «gastronomiche» avevano attratto l’attenzione di Thora perché erano datate mercoledì, tre giorni prima dell’omicidio di Harald, cioè in quel periodo in cui, a detta di Hugi, la vittima aveva preferito rimanere da solo ed evitare gli amici. Thora controllò due foto in maniera particolare, quelle con le mani che stavano preparando l’insalata e tagliando il pane. Persino un orbo avrebbe potuto rendersi conto del fatto che si trattava di due persone diverse. Due mani erano ricoperte di cicatrici formate da tatuaggi che creavano, tra le altre cose, una stella a cinque punte e un omino con un ampio sorriso e delle corna. Dovevano essere quelle di Harald. Le altre due erano invece più piccole, femminili, con dita esili e unghie corte e ben curate. Zoomando, Thora distinse sull’anulare un anellino con un diamante o una pietra preziosa chiara. L’anello aveva un aspetto troppo tradizionale per poter attrarre l’attenzione, ma chissà, forse chiedendolo a Hugi si sarebbe ricordato a chi apparteneva.

Thora venne colta da un’improvvisa inquietudine. C’era qualcosa che la assillava sin da quando era entrata per la prima volta nell’appartamento di Harald: la rivista tedesca Bunte nel bagno. Era ovvio che Harald non era tipo da rotocalchi rosa, e d’altronde la lingua l’avrebbe resa una lettura improbabile per un islandese. Per questo doveva essere arrivato un qualche ospite dalla Germania, una donna. Sulla copertina Tom Cruise e Katie Holmes sorridevano per una futura nascita nella loro famiglia. Un indizio temporale che le sarebbe stato utile per datare l’ipotetica visita dalla Germania, durante la quale Harald si era tenuto alla larga dai suoi amici. Thora compose il numero di cellulare di Matthew, che rispose al terzo squillo.

«Dove sei, ti sto disturbando?» chiese sentendo dei rumori di sottofondo.

«No, no», rispose lui con la bocca palesemente piena. Dopo aver ingoiato il boccone, riprese: «Sono andato a cena fuori. Sto mangiando della carne. Che è successo? Vuoi venire a prenderti il dolce con me?»

«Eh? No, grazie», rispose Thora a malincuore. Le piaceva molto andare a cena fuori, indossare abiti eleganti e brindare in bicchieri che sarebbe poi toccato a qualcun altro lavare. «Domani è un giorno di scuola e devo provvedere a mandare i miei figli a letto a un’ora decente. No, ti ho telefonato solamente per chiederti se avevi il numero della donna delle pulizie di Harald. Ho il sospetto che in casa ci fosse qualcuno pochi giorni prima dell’omicidio, qualcuno che probabilmente vi pernottava. E tutte le indicazioni portano a concludere che si trattasse di una donna tedesca.»

«Sì, dovrei averlo nella memoria del mio cellulare. Vuoi che la chiami io? L’ho già sentita un paio di volte e parla un ottimo inglese. Forse è la cosa più semplice da fare. Lei non ti conosce per niente, ma di me si ricorda di certo perché sono stato io a pagarle l’ultimo conto in sospeso.»

Thora accettò l’aiuto di Matthew, che promise di richiamarla subito. Per sfruttare l’attesa mise il pigiama a sua figlia, e stava lavandole i denti quando lui la richiamò. Thora ancorò il cellulare tra la spalla e la guancia, così poté sia parlare sia continuare a occuparsi dell’igiene dentale della prole.

«Ascolta, la signora mi ha detto che il letto della stanza degli ospiti era stato usato. E che nel bagno c’erano degli oggetti, come un rasoio da donna monouso, che confermerebbero la tua teoria.»

«L’ha fatto sapere alla polizia?» chiese Thora.

«No, pensava che non importasse, dato che Harald non era stato ucciso a casa sua. Inoltre ha confermato un certo andirivieni di ospiti nell’appartamento, spesso più di uno per volta. Quell’ultimo in particolare non le aveva creato gli stessi problemi degli altri, che spesso organizzavano serate scatenate dentro casa.»

«Harald può avere avuto una fidanzata tedesca?»

«Che avrebbe fatto un viaggio simile per poi dormire nella camera degli ospiti? Non penso proprio. Anche perché non avevo mai sentito nominare una fidanzata tedesca.»

«Potrebbero anche aver litigato.» Thora ci pensò su. «Oppure non era affatto la sua fidanzata, ma piuttosto una semplice amica o addirittura un famigliare. Sua sorella, per esempio.»

Matthew tacque per un istante. «Penso che dovremmo dimenticare questo dettaglio, se fosse vero.»

«Sei impazzito?» gridò Thora. «Perché diamine dovremmo farlo?»

«Sua sorella ha sofferto molto in questo ultimo periodo, con il fratello morto ammazzato e lei stessa in crisi.»

«Che intendi dire?»

«Lei è una violoncellista molto dotata e vorrebbe continuare i suoi studi musicali. Suo padre invece preferirebbe che studiasse Economia e commercio all’università, per prendere poi la gestione della banca di famiglia. Ormai non c’è rimasto nessun altro, ma anche se Harald fosse ancora in vita non lo avrebbero mai preso in considerazione. La faccenda degli studi della sorella era già emersa molto prima del delitto.»

«Porta per caso dei gioielli?» chiese Thora. Le mani delle foto potevano ben appartenere a una violoncellista, specialmente le unghie corte e ben curate.

«No, non credo. Non è il tipo da farlo», rispose Matthew. «È una ragazza per nulla vanitosa.»

«Neppure un semplice anellino con diamante?»

Un breve silenzio, poi: «Sì, quello sì. Come fai a saperlo?»

Thora descrisse le fotografie e Matthew le promise di pensarci su e di consultarsi con la famiglia circa la sorella di Harald, poi si salutarono.

«Hai finito?» disse sua figlia con la bocca piena di schiuma da dentifricio, che si era dovuta rassegnare agli interminabili passaggi dello spazzolino in mano alla madre, occupata al telefono. Almeno non le sarebbe venuta la carie.

Thora la mise a letto e le lesse una storia per farla addormentare. Quindi le diede un bacio sulla fronte, spense la luce e chiuse delicatamente la porta della cameretta. Poi ritornò al computer.

Dopo due ore di lavoro spese a esaminare altri file senza più nulla di utile, Thora si arrese. Decise allora di mettersi a letto e leggere la copia del Malleus maleficarum che Matthew le aveva consigliato di prendere con sé per poterla consultare con comodo a casa. Chissà che lettura avvincente.

Quando aprì il libro, ne scivolò fuori un foglietto piegato in due.


«Zitti», sibilò Marta Mist. «La cosa non funziona se non ci concentriamo come si deve.»

«Sta’ zitta tu!» le rispose Andri per le rime. «Io parlo come mi pare e piace.»

A Briet sembrò che Marta Mist stesse digrignando i denti, ma non ne era sicura, visto che la stanza era immersa nella penombra, debolmente illuminata dal chiarore di alcune candeline posizionate qua e là sul pavimento. «Dài, smettetela di litigare e diamoci piuttosto da fare», disse conciliante. Poi si sistemò per terra, dove tutti sedevano a gambe incrociate formando un cerchio.

«Sì, per Dio», mormorò Halldor stropicciandosi gli occhi. «E io che pensavo di mettermi a letto presto stasera, invece mi ritrovo qui a fare stronzate senza fine con voi.»

«Stronzate?» sbottò Marta Mist. «Credevo che fossimo tutti d’accordo su quello che dobbiamo fare. Oppure ho capito male?»

Halldor sospirò. «No, non starmi a sentire. Sbrighiamoci, piuttosto, a finire.»

«Qui è tutta un’altra cosa che a casa di Harald», intervenne Brjann, che fino a quel momento non aveva osato prendere la parola. «E non è soltanto l’appartamento.» Si guardò intorno. «Qui manca Harald. Non sono sicuro che la cosa funzioni senza di lui.»

Andri non si impermalosì per quel commento sull’appartamento. «Non possiamo farci niente se manca Harald», commentò allungandosi verso il posacenere. «Com’è che si chiamava quella imbecille?»

«Thora Gudmundsdottir», rispose Briet. «Avvocato.»

«Va bene. Allora cominciamo. D’accordo?» Andri guardò in faccia tutti gli altri, che annuirono o sollevarono le spalle. «Chi vuole essere il primo?»

Briet guardò Marta Mist. «Inizia tu», propose cercando di far dissolvere la collera dal volto dell’amica. «Tu sei la migliore di tutti noi ed è molto importante che ci riesca bene.»

La ragazza rimase indifferente al complimento, ma si mise a guardare a uno a uno i presenti. «Voi sapete benissimo che questa tizia ci può mettere in guai grossi se continua a ficcare il naso nella faccenda. Fin qui siamo stati fortunati che la polizia abbia preso una pista totalmente sbagliata.»

«Questo lo sappiamo eccome», confermò Brjann a nome di tutto il gruppo. «Al cento per cento.»

«Bene», disse Marta Mist posandosi le mani sulle cosce. «Silenzio assoluto, per favore.» Tutti tacquero. Marta prese la pagina di pergamena che era stata deposta in mezzo al cerchio assieme a una scodella piena di un liquido rosso, la pose davanti a sé e si mise accanto al recipiente. Allora Briet le consegnò seria un bastoncino cinese di quelli usati per mangiare. Marta Mist lo impregnò con quel liquido denso e con gesti lenti scrisse sul foglio due rune simboliche. Poi chiuse gli occhi e cominciò a recitare in tono monotono e ammaliante: «Se vuoi che il nemico abbia timore di te…»

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