Era una caverna che sovrastava le scure e umide rocce di una gola del fiume di Goyaz. All’interno, profondi pensieri pulsavano in un cervello intento ad ascoltare una radio, dalla quale la voce di un umano riferiva le notizie del giorno: disordini a Bahia, bandeirantes linciati, pronto intervento di paracadutisti per restaurare l’ordine…
La radio, una piccola transistor portatile, emetteva fastidiosi suoni raschianti che riecheggiavano nella caverna, disturbando le funzioni sensoriali del cervello, ma le notizie degli umani dovevano essere ascoltate… almeno fino a quando le batterie lo avessero permesso. Forse più tardi, si sarebbero potute usare le cellule biochimiche, ma le conoscenze del cervello in materia di meccanica erano molto limitate. Di teoria ne aveva assimilata parecchia dai manuali abbandonati nella zona Rossa, ma la pratica era un’altra cosa.
Per qualche tempo aveva avuto a disposizione un televisore portatile, ma la sua autonomia era stata ridotta e ora non funzionava più.
Le notizie terminarono e la radio cominciò a trasmettere della musica. Il cervello lanciò dei segnali allo strumento che si interruppe; quindi, in quel silenzio così a lungo sospirato, cominciò a pensare, a pulsare.
Era una massa di circa quattro metri di diametro e di mezzo metro di altezza e riconoscendosi in una «Suprema Integrazione» svolgeva il suo ruolo con vigilanza passiva, eppure era non poco contrariato di fronte alle necessità che lo tenevano ancorato in quella caverna rifugio.
Una maschera sensoriale mobile che poteva spostarsi e flettersi a piacere — per assumere ora la forma di un disco, ora di un tubo membranoso e addirittura per simulare il volto gigantesco di un umano — giaceva, simile a un berretto, sulla superficie del cervello. I suoi organi sensoriali erano diretti verso la luce grigia dell’alba che filtrava dall’imboccatura della caverna.
Il ritmico pulsare di una vescica laterale pompava nel cervello un liquido scuro e viscoso. Insetti senza ali strisciavano sulla superficie membranosa, ispezionando, riparando e alimentando dove era necessario.
Sciami di insetti volanti si ammucchiavano negli anfratti della caverna, alcuni dei quali producevano acidi per ottenere il loro fabbisogno di ossigeno, altri digerivano, altri ancora rifornivano energia ai muscoli atti a pompare.
La caverna era permeata di un odore amarognolo di acido.
Gli insetti volavano dentro e fuori nella luce dell’alba. Alcuni si fermavano per compiere piroette, oscillare e ronzare per stimolare gli impulsi del cervello; altri emettevano modulati striduli nel riportare notizie; altri ancora si raggruppavano o si allineavano; altri formavano motivi complessi con variazioni di colore o agitavano le antenne nei modi più complicati.
Giunse la squadra da Bahia: «Piogge abbondanti… terreno bagnato; crollati i covi della nostra postazione d’ascolto. Un osservatore è stato scoperto e attaccato, ma un caposquadra lo ha tratto in salvo aprendogli un varco attraverso il fiume. In quel punto una delle strutture dei ponti è crollata. Non abbiamo lasciato tracce del nostro operato, tuttavia gli umani ci hanno avvistati. Quelli che non sono riusciti a mettersi in salvo sono stati soppressi. Tra gli umani ci sono state molte perdite».
Numerosi morti tra gli umani, rifletté il cervello. Allora le notizie trasmesse dalla radio erano esatte.
Era un disastro.
Ora il cervello richiedeva una maggior quantità di ossigeno; gli insetti specializzati si riversarono su di esso; il ritmo di pompaggio aumentò di velocità.
Gli umani si crederanno attaccati, pensò il cervello. Allora metteranno in atto i loro meccanismi di difesa. Riuscire a penetrare in quei meccanismi col pacato ragionamento sarà difficilissimo, se non impossibile.
Chi può ragionare con una mente irrazionale?
Gli umani erano estremamente difficili da capire, coi loro valori religiosi e i loro modelli di accumulazione.
Gli «affari» erano ciò che i libri definivano i loro modelli di accumulazione, ma al cervello sfuggiva il vero significato della parola. Il denaro non era commestibile, non sembrava contenere energie, inoltre era fatto di un materiale per nulla resistente. Le taipe,le case degli umani più poveri, fatte di graticcio e di fango, avevano maggior consistenza.
Eppure gli umani erano avidi di denaro. Quella roba doveva essere importante, proprio come la loro concezione della divinità, qualcosa simile a una suprema integrazione, la cui essenza e localizzazione erano impossibili a definirsi. Era tutto troppo complicato.
Il cervello sentiva che in qualche luogo doveva esistere la fonte originaria del pensiero che riuscisse a spiegare queste cose, ma gliene sfuggiva il modello.
Allora pensò come fosse strana questa struttura vitale, questo trasferimento di energia intera per creare visioni immaginarie, che in realtà erano schemi e progetti, e che a volte si smarrivano per strada. Come era curiosa, misteriosa e anche bella la scoperta dell’essere umano, le cui fattezze erano state copiate e adattate a uso di altre creature. Com’era ammirevole e sublime questa manipolazione dell’universo che esisteva solo entro i confini dell’immaginazione, senza riscontro reale.
Per un attimo il cervello si sottopose a una prova, cercando di simulare le emozioni umane. La paura e l’unità dello sciame… solo quello poteva capire. Ma i mutamenti, il tipo di paura chiamata odio, i riflessi stimolati dalla vescica laterale… questi erano più difficili da capire.
Il cervello non aveva mai preso in considerazione l’idea di essere stato una volta parte di un essere umano e quindi soggetto a tali emozioni. Questo pensiero irritante lo aveva sempre evitato. Ora il cervello era solo un sosia di quello umano, più grande e più complesso. Nessun sistema circolatorio umano poteva sostenere le necessità di nutrimento che lui richiedeva. Nemmeno il più semplice sistema sensoriale umano poteva soddisfare la sua sete di informazione.
Era semplicemente il Cervello,una parte funzionale del sistema del super-alveare, ora più importante persino delle api regine.
«Quale classe sociale umana è stata sterminata?» chiese.
La risposta gli giunse in tono stridulo: «Lavoratori, femmine, umani immaturi e qualche regina sterile».
Femmine e umani immaturi, pensò il cervello. Nello schermo della sua consapevolezza prese forma un’antica maledizione indiana. Di fronte a simili eccidi, la reazione umana sarebbe stata violenta. Si imponeva un’azione immediata.
«Quali notizie dai nostri messaggeri penetrati nelle barriere?» domandò il cervello.
La risposta fu: «Sconosciuta la posizione segreta dei messaggeri».
«Deve essere individuata. I messaggeri devono restare nascosti fino a nuovo ordine. Informateli immediatamente.»
Operai specializzati si allontanarono per eseguire l’ordine.
«Dobbiamo catturare degli esemplari umani più vari», ordinò il cervello. «Dobbiamo trovare un capo vulnerabile tra loro. Inviate osservatori, messaggeri e unità d’azione. Fate pervenire notizie il più presto possibile.»
Quindi il cervello rimase in ascolto, controllando che i suoi ordini venissero eseguiti e i messaggi trasmessi anche a lunghe distanze. Fu pervaso da un vago senso di frustrazione; sentiva delle necessità che non riusciva a spiegarsi. Sollevò la maschera sensoriale e la depose su alcuni paletti di sostegno, formò gli occhi e li concentrò sull’imboccatura della caverna.
Pieno giorno.
Ora doveva solo attendere.
L’attesa era la parte più difficile dell’esistenza.
Il cervello cominciò a esaminare questo pensiero, considerando possibili alternative al processo di attesa, immaginando proiezioni di crescita fisica.
Tali pensieri produssero una specie di caos intellettivo che mise in allarme l’intero sciame. Gli insetti presero a ronzare furiosamente intorno al cervello, proteggendolo, alimentandolo, formando falangi di guerrieri.
Questa iniziativa preoccupò il cervello.
Il cervello sapeva che cosa aveva spinto lo sciame all’azione: proteggere il fulcro dell’alveare era un istinto di sopravvivenza radicato in tutte le specie. Il cervello si rendeva conto che le primitive unità dello sciame non potevano cambiare quel concetto. Eppure dovevano abituarsi al cambiamento. Dovevano acquisire elasticità di ingegno e capacità di assuefarsi a nuove idee, affrontando ogni situazione come una «cosa» unica.
Devo continuare a insegnare e a imparare, pensò il cervello.
Ora desiderava ricevere notizie dagli osservatori inviati a est. Aveva urgente bisogno di informazioni da quella zona, per completare i frammenti di notizie raccolte dagli appostamenti d’ascolto. Da lì poteva giungere una prova indispensabile per impedire alla razza umana di tuffarsi a capofitto nella distruzione totale.
Lo sciame a poco a poco ridusse la sua attività mentre il cervello allontanava quegli angosciosi pensieri.
Nel frattempo aspetteremo, disse fra sé il cervello.
E si pose il problema di una lieve modifica genetica in una vespa priva di ali per migliorare il sistema di produzione d’ossigeno.
Il senhor Gabriel Martinho, prefetto della Barriera del Mato Grosso, passeggiava su e giù per lo studio mormorando fra sé, mentre da un’angusta finestra filtravano gli ultimi raggi di sole. Di quando in quando si fermava per fissare suo figlio Joao che sedeva su un divano di pelle di tapiro posto sotto uno dei tanti scaffali che ricoprivano le pareti della stanza.
Martinho senior era un uomo mingherlino dalla carnagione scura, con i capelli grigi e gli occhi castani infossati che si aprivano sopra un naso aquilino, una bocca sottile e un mento appuntito. Indossava un abito nero démodé che si confaceva alla sua posizione. La camicia di un bianco candido spiccava sotto il nero dell’abito. Ai polsi portava dei gemelli d’oro che brillavano ogni volta che agitava le braccia.
«Sono diventato oggetto di scherno», disse in tono angosciato.
Joao assimilò l’affermazione in silenzio. Dopo aver assistito per un’intera settimana agli scoppi d’ira di suo padre, Joao aveva imparato ad apprezzare l’utilità del silenzio. Guardò la sua bianca uniforme da bandeirante, i pantaloni infilati negli stivali di cuoio, tutto perfettamente in ordine, mentre i suoi uomini si davano da fare nella Serra Dos Parecis, per portare a termine un’ispezione preliminare.
Nella stanza cominciava a farsi buio, una rapida oscurità tropicale affrettata da densi nuvoloni ammassati lungo l’orizzonte. La luce del tramonto proiettava ombre color blu scuro; lampi provocati dall’afa squarciavano il pezzetto di cielo visibile attraverso l’alta finestra, e a tratti inondavano lo studio di una luminosità abbagliante. Seguiva in lontananza il brontolio del tuono. Le luci si accesero in ogni stanza abitata; un’illuminazione giallastra riempì lo studio.
Il prefetto si fermò di fronte a suo figlio. «Perché, proprio da mio figlio, stimato capo degli Irmandades, devo sentire queste stupidaggini da Carsonites?»
Joao fissava il pavimento in mezzo ai suoi stivali. La lotta nella Plaza di Bahia, la fuga dalla folla inferocita, tutto questo sembrava lontano un’eternità, come se appartenesse al passato di qualcun altro. Oggi nello studio di suo padre aveva assistito a un susseguirsi di importanti personaggi politici… saluti garbati al figlio Joao e sommesse consultazioni con suo padre.
Il, vecchio stava lottando per suo figlio, Joao lo sapeva, ma Martinho padre poteva solo lottare nel modo che gli era più congeniale: coi soliti metodi clientelari, assicurandosi appoggi con manovre sottobanco, scambiando favori e raccomandazioni, radunando forze politiche quando si rendeva necessario. Non una volta aveva preso in considerazione i dubbi e i sospetti di Joao. Gli Irmandades, Alvarez e i suoi Hermosillos, chiunque avesse avuto a che fare con la Piratininga, da questo momento era malvisto dalle autorità. Occorreva porre riparo agli errori commessi.
«Arrestare la ricerca del nuovo equilibrio ecologico?» mormorò il vecchio. «Ritardare la Marcha para Oeste? Sei impazzito? Perché credi che occupi questa posizione? Io! Un discendente dei fidalgoes i cui antenati governarono una delle prime capitanias! Noi non siamo bugres,i cui avi furono protetti da Rui Barboso, eppure i caboclos mi chiamano ‘Padre dei Poveri’. Non ho acquisito questo appellativo con la stupidità.»
«Padre, se solo…»
«Sta’ zitto! Ho anch’io qualcosa che bolle in pentola. Tutto finirà nel migliore dei modi.»
Joao sospirò. Provava vergogna per la sua posizione in quel momento. Il prefetto era sul punto di dimettersi prima di quella circostanza; il suo cuore era malato. E adesso turbarlo in quel modo… Ma lui insisteva nell’essere così cieco!
«Indagare, dici tu», proseguì il vecchio. «Indagare su che cosa? In questo momento vogliamo evitare indagini e allontanare qualsiasi sospetto. Il governo, grazie all’intervento dei miei amici, è propenso a credere che tutto sia normale. Sono disposti a incolpare i Carsonites della tragedia di Bahia.»
«Non hanno prove», disse Joao. «Lo hai ammesso tu stesso.»
«In questi tempi le prove non sono determinanti», ribatté suo padre. «Ciò che conta è allontanare i sospetti da noi stessi. Dobbiamo guadagnare tempo. D’altra parte è proprio il genere di cose che i Carsonites potrebbero aver fatto.»
«Ma potrebbe non essere così», obiettò Joao.
Il vecchio fece finta di non aver udito. «Proprio la settimana scorsa», disse, gesticolando. «Il giorno prima che tu arrivassi qui come un fulmine a ciel sereno, proprio quel giorno parlai con i contadini di Lacuia su richiesta del mio amico il ministro dell’Agricoltura. Lo sai che la gentaglia mi rise in faccia? Dissi che questo mese avremmo esteso le zone Verdi di diecimila ettari. Scoppiarono a ridere. Dissero: ‘Persino tuo figlio non ci crede!’ Adesso capisco che cosa volevano dire. È una pazzia fermare la marcia a occidente.»
«Hai visto i rapporti da Bahia?» disse Joao. «Gli investigatori dell’OIE…»
«L’OIE! Quell’astuto cinese dalla faccia insignificante. È più bahiano lui di un vero bahiano. E quella femmina dottore che va a ficcare il naso dappertutto. La sua mae de santo,la sua sidaga… quello che si dice su di lei, te lo raccomando. Solo ieri, è stato detto…»
«Non voglio sapere.»
Il vecchio tacque e lo fissò. «Ahhh?»
«Ahhh!» gli fece eco Joao. «Che cosa vuoi insinuare?»
«Semplicemente Ahhh!»
«È molto bella», fece Joao.
«Me lo hanno detto. Molti uomini hanno goduto di quella bellezza… così si dice.»
«Non lo credo!»
«Joao», disse il prefetto, «ascolta un vecchio che attraverso l’esperienza ha acquisito la saggezza. È una donna pericolosa. Appartiene anima e corpo all’OIE, una organizzazione che spesso interferisce nei nostri affari. Tu, tu sei un empreiteiro,un noto imprenditore, la cui abilità e successo professionale hanno suscitato non poche invidie in alcuni ambienti. Quella donna dovrebbe essere un dottore degli insetti, ma da come si comporta si direbbe che abbia molteplici attività. Alcune di queste, ahh…»
«Adesso basta, padre!»
«Come vuoi tu.»
«Dovrebbe raggiungermi qui tra breve e non voglio che il tuo attuale atteggiamento nei suoi confronti…»
«Potrebbe ritardare la sua venuta», disse il prefetto.
Joao lo fissò. «Perché?»
«Martedì scorso, il giorno successivo alla tua avventura di Bahia, è stata inviata nell’altopiano Goyaz. Penso la sera stessa o il mattino seguente, non ha importanza.»
«Eh?»
«Naturalmente sarai al corrente delle ragioni che l’hanno spinta laggiù… quelle voci circa una base segreta bandeirante. Sta ficcando il naso laggiù… se è ancora viva.»
Joao alzò il capo di scatto. «Come?»
«Al quartier generale dell’OIE di Bahia, si dice che sia… scomparsa. Forse un incidente. Sembra che lo stesso Travis-Huntington Chen-Lhu sia in procinto di andare alla ricerca di questo dottore in gonnella. Che cosa ne dici?»
«Sembrava molto affezionato a lei quando li ho avvicinati a Bahia, ma questa storia su…»
«Affezionato? Oh, sì, certamente.»
«Hai una mente diabolica, padre.» Martinho trasse un profondo sospiro. Il pensiero di quella deliziosa creatura, sola in qualche luogo sperduto dell’entroterra, abitata soltanto da creature della giungla, morta o ferita provocò in lui una nauseante sensazione di vuoto.
«Forse vuoi marciare a occidente alla ricerca della ragazza?»
Joao ignorò lo scherno e rispose: «Padre, questa crociata deve essere immediatamente interrotta, fino a che non abbiamo scoperto che cosa non funziona.»
«Se hai ragionato in questo modo anche a Bahia, allora non posso biasimarli per averti voltato le spalle», replicò il prefetto. «Forse, quella folla…»
«Sai che cosa è successo nella Plaza!»
«Sciocchezze, nient’altro che sciocchezze. Ora tutto questo deve finire. Non devi fare nulla che disturbi l’equilibrio, te lo ordino!»
«La gente non sospetta più i bandeirantes», obiettò Joao con amarezza.
«Alcuni sospettano ancora di voi. Perché non dovrebbero, se ciò che ho udito dalle tue stesse labbra è un esempio del vostro modo di pensare?»
Joao studiò la punta dei suoi lustri stivali neri. Trovava che la loro nitida superficie fosse in qualche modo simbolica della vita di suo padre. «Mi dispiace di averti procurato un dispiacere, padre», disse. «A volte mi pento di essere un bandeirante, ma», alzò le spalle, «se non lo fossi, come potrei sapere le cose che ti ho raccontato? La verità è…»
«Joao!» esclamò suo padre con voce vibrante. «Mi stai forse facendo capire che hai insudiciato il nostro nome? Hai pronunciato un falso giuramento nel momento in cui hai costituito la squadra degli Irmandades?»
«Non è andata esattamente così, padre.»
«Ah, sì? Allora come?»
Joao sfilò il distintivo dalla tasca interna della giacca e lo rigirò fra le dita. «Ci credevo… allora. Eravamo riusciti a creare api abnormi per riempire certe lacune ecologiche. Era… una Grande Crociata. Ci credevo. Come d’altronde ci credevano i cinesi. Pensavo: Solo ciò che è utile deve sopravvivere! Facevo sul serio. Ma questo succedeva alcuni anni fa, padre. In seguito sono giunto alla conclusione che non siamo in grado di distinguere ciò che è utile.»
«È stato un errore da parte mia farti studiare nel Nord America», disse suo padre. «Mi pento di averlo fatto. Sì… sono io l’unico colpevole. Là hai assimilato queste eresie da Carsonites. Non mi sento di biasimare i nordamericani se si rifiutano di unirsi a noi nella ricerca di un nuovo equilibrio ecologico. Loro non hanno milioni di bocche da sfamare come noi. Ma mio figlio!»
Joao cercò di difendersi: «Là nella giungla Rossa si vedono delle cose difficili da spiegare. Le piante non sono ammalate e la frutta è…»
«Una condizione puramente temporanea», disse suo padre. «Daremo forma a delle api che possano soddisfare qualunque necessità si presenti. Gli insetti distruttori ci rubano il pane di bocca. È molto semplice, devono morire ed essere rimpiazzati da altre creature utili all’uomo.»
«Gli uccelli stanno morendo, padre!»
«Dobbiamo salvarli! Esistono svariate specie di uccelli nelle nostre riserve. Procureremo loro nuovi alimenti.»
«Alcune piante si sono già estinte per mancanza di impollinazione naturale.»
«Le piante utili sono ancora vive!»
«E che cosa accadrà», chiese Joao, «se gli insetti riusciranno ad aprirsi un varco nelle nostre barriere prima di aver ripopolato l’ambiente con predatori naturali? Che cosa accadrà allora?»
Martinho padre agitò il dito sotto il naso di suo figlio. «Queste assurdità devono finire! Non voglio sentire altro! Hai capito?»
«Per favore calmati, padre.»
«Calmarmi? Come posso calmarmi di fronte… a questo? Ti nascondi come un criminale comune! Disordini a Bahia e Santarem e…»
«Basta, padre!»
«Lasciami finire. Lo sai che cosa hanno detto i contadini della Lacuia? Hanno asserito di aver visto i bandeirantes infestare di nuovo le zone Verdi per prolungare il loro lavoro, ecco che cosa hanno detto.»
«È assurdo!»
«Certo che è assurdo. Ma è una normale conseguenza di certi discorsi disfattisti, proprio come quelli fatti oggi da mio figlio. E le contrarietà che si presentano non fanno che convalidare tali calunnie.»
«Contrarietà?»
«Sì, contrarietà!» Il prefetto Martinho si volse, raggiunse la scrivania quindi ritornò sui suoi passi e si fermò di fronte a suo figlio. «Naturalmente ti riferisci alla Piratininga.»
«Tra le altre cose.»
«I tuoi Irmandades si trovavano laggiù.»
«Non ci è sfuggita nemmeno una pulce, te lo assicuro!»
«Eppure, una settimana fa, la Piratininga era una zona Verde. Oggi…» Puntò l’indice sulla scrivania. «Hai letto il rapporto. È infestata! Infestata!»
«Non posso controllare ogni bandeirante del Mato Grosso», dichiarò Joao. «Se loro…»
«L’OIE ci ha concesso sei mesi per fare piazza pulita», disse Martinho padre. Sollevò le mani con le palme rivolte verso l’alto. «Sei mesi!» ripeté col volto arrossato dall’ira.
«Se tu andassi dai tuoi amici al governo e li convincessi che…»
«Convincerli? Proporre loro di commettere un suicidio politico? Ai miei amici? Lo sai che l’OIE sta minacciando di disporre un embargo tutt’intorno al Brasile, come hanno fatto col Nord America?» Abbassò le mani. «Puoi immaginare le pressioni esercitate su di noi? Puoi immaginare quello che mi toccherà sentire sui bandeirantes, e in special modo su mio figlio?»
Joao strinse il distintivo nel palmo della mano fino a farsi male. Il dialogo con suo padre era diventato insopportabile, non avrebbe resistito un giorno di più in quella casa. Desiderava essere con i suoi uomini a organizzare la lotta nella Serra Dos Parecis. Da troppo tempo suo padre si occupava di politica per poter cambiare mentalità, e Joao lo capì con un senso di nausea. Alzò gli occhi sul vecchio. Se almeno non fosse stato così eccitabile; si preoccupava del suo cuore malato. «Ti stai agitando senza motivo», disse.
«Agitarmi?» Il prefetto si curvò sul figlio con le narici dilatate. «Abbiamo già superato due limiti: la Piratininga e il Tefe. C’è della terra là. Ti rendi conto? E non ci sono uomini per coltivarla e renderla produttiva.»
«La Piratininga non era esattamente una barriera, padre. L’abbiamo già ripulita…»
«Già! E abbiamo guadagnato terreno quando ho annunciato che mio figlio e il terribile Benito Alvarez hanno ripulito la Piratininga. Come ti spieghi che la zona è ancora infestata e che si deve ripulire da capo?»
«Non me lo spiego.» Joao si rimise in tasca il distintivo. Non era possibile ragionare con suo padre, questo lo aveva capito fin da principio. Un senso di frustrazione gli fece tremare le mandibole. Eppure il vecchio doveva convincersi! Qualcuno doveva convincersi! Qualcuno della statura politica di suo padre doveva intervenire presso i dirigenti del Bureau, costringerli ad ascoltare.
Il prefetto ritornò alla scrivania e sedette. Prese un antico crocefisso, un prezioso oggetto che il grande Aleihadinho aveva intarsiato nell’avorio. Lo prese in mano evidentemente per riacquistare la serenità, ma i suoi occhi si spalancarono e luccicarono. Lentamente posò il crocefisso sulla scrivania, senza distogliere lo sguardo dall’oggetto. «Joao», bisbigliò.
Il suo cuore, pensò Joao. Balzò in piedi e si precipitò al suo fianco. «Padre, che cosa c’è?»
Il vecchio fece un cenno con la mano tremante.
Tra la corona di spine, sul volto eburneo agonizzante, lungo i muscoli tesi del corpo di Cristo, strisciava un insetto. Era del colore dell’avorio e assomigliava nella forma a uno scarafaggio, ma aveva una frangia di zampe sottili che spuntava dalle ali e dal torace; le antenne, straordinariamente lunghe, erano orlate di peluria.
Il vecchio Martinho prese un rotolo di carta per schiacciare l’insetto, ma Joao lo trattenne con una mano. «Aspetta. È un tipo di insetto piuttosto insolito. Non ne ho mai visti come questo. Dammi una torcia, dobbiamo scoprire dove va ad annidarsi.»
Il prefetto bofonchiò, trasse dal cassetto della scrivania una piccola torcia tascabile e la porse a suo figlio.
Joao illuminò l’insetto e lo scrutò. «Com’è strano», disse. «Guarda come si armonizza col colore dell’avorio.»
L’insetto si fermò e puntò le antenne verso i due uomini.
«Ultimamente sono accaduti fatti strani», proseguì Joao. «Sembra che un insetto come questo sia stato avvistato il mese scorso nei pressi di uno dei villaggi della barriera. Si trovava all’interno della zona Verde… in un sentiero che costeggia un fiume. Ti ricordi il rapporto? Lo hanno scoperto due contadini mentre seguivano un uomo malato.» Guardò suo padre. «Come tu sai, fanno molta attenzione alle malattie, nelle nuove zone Verdi. Sono scoppiate delle epidemie… e c’è dell’altro.»
«Non vedo il nesso», ribatté suo padre. «Senza insetti portatori di germi, le malattie dovrebbero essere meno diffuse.»
«Forse», convenne Joao, ma dal tono della sua voce era chiaro che non ci credeva. Volse nuovamente lo sguardo sullo strano insetto che strisciava sul crocefisso. «Non credo che i nostri esperti di ecologia abbiano una preparazione adeguata. E non mi fido dei consulenti cinesi. Nel loro linguaggio tecnico ci descrivono i vantaggi derivanti dall’eliminazione degli insetti nocivi, ma non ci permettono di ispezionare le zone Verdi. Scuse, sempre scuse. Ho idea che siano in difficoltà e non desiderino farcelo sapere.»
«Sciocchezze», brontolò Martinho senior. Dal suo tono Joao capì che non ci teneva a difendere la sua posizione. «Sono uomini d’onore, salvo poche eccezioni che non nomino. Il loro modo di vivere si avvicina di più al nostro socialismo che al decadente capitalismo del Nord America. Il guaio è che tu tendi a vederli con gli occhi di coloro che hanno provveduto alla tua istruzione.»
«Scommetto che è un insetto che ha subito una metamorfosi spontanea», disse Joao. «Sembra quasi che questi insetti appaiano in seguito a un preciso piano… trovami qualcosa per catturare questa creatura, poi portala in laboratorio.»
Il vecchio Martinho rimase fermo vicino alla sedia. «Dove dirai di averlo trovato?»
«Qui, naturalmente.»
«Allora non esiterai a esporci ulteriormente allo scherno, non è vero?»
«Ma padre…»
«Non riesci a immaginare quello che diranno? Una singolare specie di insetto. Strano che sia stato trovato proprio in casa sua. Forse li sta allevando per infestare nuovamente le zone Verdi.»
«Adesso sei tu che stai farneticando, padre. La metamorfosi è un processo abbastanza comune nelle specie di insetti minacciati da agenti esterni. E non possiamo negare che lo siano: veleni, vibrazioni alle barriere, trappole. Dammi il contenitore, non posso perdere d’occhio questa creatura.»
«Allora dirai dove l’hai trovato?»
«Non posso fare altrimenti. Dobbiamo setacciare l’intera zona alla ricerca dei nidi. Potrebbe essere… un fatto accidentale naturalmente, ma…»
«Oppure vuoi deliberatamente crearmi una situazione imbarazzante.»
Joao alzò lo sguardo e scrutò il volto del padre. C’era questa possibilità, naturalmente. Il prefetto aveva dei nemici. Per esempio i Carsonites, dei fanatici che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di raggiungere il loro scopo. Tuttavia…
Joao prese una decisione. Fissò nuovamente l’insetto immobile sul crocefisso. Suo padre doveva convincersi e adesso sapeva di aver l’argomento adatto per fare leva sulla sua testardaggine. «Guarda questa creatura», lo esortò.
Con riluttanza, il vecchio posò lo sguardo sull’insetto.
«I nostri primi veleni», disse Joao, «uccidevano gli insetti più deboli e selezionavano quelli immuni all’azione degli insetticidi. Rimanevano solo questi da allevare. I veleni che usiamo ora, almeno in parte, non danno via di scampo… e le vibrazioni mortali alle barriere…» Alzò le spalle. «Eppure questo è una specie di scarafaggio, padre, e in qualche modo si è infiltrato attraverso le barriere. Ti mostro qualcosa». Estrasse un fischietto di metallo dal taschino del gilet. «Un tempo questo aggeggio provocava la morte di innumerevoli scarafaggi. Non dovevo far altro che sintonizzarlo sul loro spettro di assorbimento.» Avvicinò il fischietto alle labbra, ci soffiò dentro, muovendo per tutto il tempo l’estremità.
Nessun suono udibile da orecchio umano uscì dallo strumento, ma le antenne dello scarafaggio vibrarono.
Joao si tolse il fischietto di bocca.
Le antenne smisero di vibrare.
«Vedi, è rimasto fermo», fece notare Joao. «È uno scarafaggio e dovrebbe essere attratto da questo fischietto, invece non si è mosso. Io credo, padre, che ci siano segni evidenti di un’intelligenza diabolica in questi insetti. Sono lungi dall’estinguersi… e ho idea che stiano cominciando a reagire.»
«Intelligenza diabolica, puah!» esclamò suo padre.
«Devi credermi», riprese Joao. «Nessuno dà ascolto a noi bandeirantes quando raccontiamo quello che abbiamo visto. Ridono, dicono che soffriamo di allucinazioni. E che prove abbiamo per convincerli? Dicono che sono tutte storie, roba da dare in pasto agli ignoranti… ai contadini superstiziosi… e allora cominciano a dubitare e a sospettare di noi.»
«E ne hanno motivo, secondo me.»
«Non credi a tuo figlio?»
«Che cosa ha fatto mio figlio per convincermi?» Adesso suo padre era soltanto il prefetto. Ritto di fronte a lui lo guardava con freddezza.
«Il mese scorso nel Goyaz», disse Joao, «il bandeirante Antonil Lisboa ha perduto tre uomini che…»
«Cose che capitano.»
«Furono uccisi dall’acido formico e dall’olio di copahu.»
«Evidentemente facevano un incauto uso dei loro veleni. Può capitare che alcuni trascurino di…»
«No! L’acido formico era particolarmente potente, altamente concentrato, identico a quello di certi insetti. Gli uomini ne erano inzuppati.»
«Vuoi insinuare che insetti come questo…» il prefetto indicò la creatura immobile sul crocefisso, «che insetti cieci come questo…»
«Non sono ciechi.»
«Non intendevo ciechi alla lettera, ma privi di intelligenza», sottolineò il prefetto. «Non puoi seriamente affermare che queste creature attacchino gli esseri umani uccidendoli.»
«Resta da definire con esattezza in che modo furono uccisi quegli uomini. L’unica prova che abbiamo sono le ferite lasciate dall’acido sui corpi. Ma ci sono stati altri decessi, padre, uomini dispersi e voci su strane creature che attaccano i bandeirantes. Ogni giorno che passa siamo sempre più convinti che…» Tacque nel vedere lo scarafaggio strisciare dal crocefisso sulla scrivania. Notò che era diventato più scuro, quasi marrone e si mimetizzava col color legno della scrivania. «Per favore, dammi un contenitore.»
Lo scarafaggio raggiunse il bordo della scrivania e si fermò. Le antenne si spostavano prima all’indietro, poi in avanti.
«Ti darò il contenitore se mi prometti che sarai discreto nel tuo rapporto circa il luogo del ritrovamento», disse il prefetto.
«Padre, io…»
D’un tratto lo scarafaggio saltò in mezzo alla stanza, si lanciò verso la parete e strisciando su di essa scomparve in una fessura di fianco alla finestra.
Joao accese la torcia per far luce nel buco che aveva inghiottito l’insetto. Poi attraversò la stanza e lo esaminò. «Da quanto tempo esiste questo buco?»
«Da anni. Una crepa nelle muratura… a causa di un terremoto avvenuto molti anni fa, prima che tua madre morisse.»
Joao si diresse a lunghi passi verso la porta, attraversò un corridoio col soffitto ad arcata, discese una rampa di scale di pietra, aprì una porta che dava in una angusta anticamera, la percorse e attraverso un cancello di ferro battuto si trovò nel giardino esterno. Accese la torcia e diresse la luce azzurra su una zona del muro, sotto la finestra dello studio.
«Joao, che cosa stai facendo?»
«Il mio lavoro, padre.»
Guardò indietro e vide che suo padre lo aveva seguito e si era fermato appena oltre il cancello del giardino. L’attenzione di Joao si spostò nuovamente sul muro esterno dello studio e con la torcia rischiarò le pietre sotto la finestra. Poi si chinò e, facendo scorrere la luce lungo il terreno, scrutò attentamente dietro le zolle, cancellando tutte le ombre.
L’operazione di ricerca si spostò sulla terra incolta, ritornò nel fitto dei cespugli e quindi sull’aiuola.
Joao udì i passi di suo padre che si avvicinava.
«L’hai trovato?»
«No.»
«Dovevi lasciarmelo schiacciare.»
Joao si drizzò, alzò il capo per scrutare lungo le tegole del tetto e la grondaia. Era buio pesto tutto intorno, l’unica fonte di illuminazione era costituita dalla luce proveniente dalla finestra dello studio più quella della torcia.
Un suono stridulo, quasi fastidioso all’udito, ruppe il silenzio intorno a loro. Giunse dal giardino esterno che fiancheggiava la strada e il muretto di cemento. Anche quando cessò, Joao ebbe la netta sensazione che fosse rimasto sospeso nell’aria. Gli ricordava il grido caratteristico dei predatori della giungla. Un brivido gli attraversò la spina dorsale. Si volse verso il viale dove aveva parcheggiato il suo aerocarro e lo illuminò con la torcia.
«Che strano suono», fece suo padre. «Io…» si interruppe per fissare l’aiuola. «Che cos’è?»
Sembrava che l’aiuola si fosse messa in movimento e si spostasse verso di loro come un’onda che si infrange sulla spiaggia. Ormai la massa scura li aveva tagliati fuori dell’ingresso della casa. Era ancora lontana una decina di passi, ma si muoveva rapidamente.
Joao afferrò il braccio di suo padre. Parlò con calma per non allarmare ulteriormente l’anziano genitore, debole di cuore. «È necessario raggiungere il carro, padre. Dobbiamo scavalcarli.»
«Scavalcare che cosa?»
«Sono insetti simili a quello che abbiamo appena visto, padre… milioni di insetti. Ci stanno attaccando. Forse non sono nemmeno scarafaggi. Forse si tratta di un esercito di formiche. Dobbiamo a tutti i costi raggiungere l’aerocarro. Là ho l’equipaggiamento adatto per affrontarli. Saremo al sicuro là dentro: è un carro bandeirante, padre. Devi fuggire con me, hai capito? Ti aiuterò, ma fa’ attenzione a non inciampare e cadere su di loro.»
«Capisco.»
Si misero a correre; tenendo stretto suo padre per un braccio, Joao si faceva strada con la torcia.
Speriamo che il suo cuore regga, pregava mentalmente il giovane.
L’ondata di insetti stava per sommergerli, quando improvvisamente si spostò da un lato, aprendo un sentiero che si chiuse dietro i due uomini in fuga.
Una quindicina di metri più avanti apparve nell’ombra la sagoma bianca dell’aerocarro.
«Joao… il cuore», boccheggiò il vecchio.
«Ce la puoi fare, più in fretta!» Quasi lo sollevò di peso per percorrere gli ultimi metri che li separavano dall’aerocarro.
Raggiunsero la portiera dello scompartimento posteriore adibito a laboratorio. Joao la spalancò, girò l’interruttore della luce sulla parete sinistra e allungò una mano per afferrare un fucile a gas e un cappuccio. Si fermò e guardò l’interno del veicolo rischiarato dalla luce gialla.
Seduti sulle panche c’erano due uomini, all’apparenza indiani sertao, con gli occhi lucenti, i capelli neri con la frangia che spuntava dai cappelli di paglia. Potevano essere due gemelli, tanto erano identici: avevano lo stesso abito grigio, gli stessi sandali e la stessa sacca di pelle a tracolla. Insetti simili a scarafaggi strisciavano attorno a loro, sulle pareti dell’aerocarro, sugli strumenti e le fiale.
«Che cosa diavolo?» sbottò Joao.
Uno dei due personaggi sollevò un flauto qena,poi parlò con voce stridula e stranamente modulata, accompagnando le parole con un gesto. «Entrate. Non vi faremo del male, se obbedite.»
Joao si accorse che suo padre si afflosciava e lo prese fra le braccia. Come era leggero! Il vecchio respirava affannosamente, il suo volto era mortalmente pallido e la fronte madida di sudore.
«Joao», bisbigliò. «Mi duole… il petto.»
«La medicina», si agitò Joao, «dov’è la medicina?»
«Casa», rispose il vecchio, «scrivania».
«Sembra che stia morendo», osservò uno degli indiani.
Tenendo sempre stretto il padre fra le braccia, Joao si volse di scatto verso l’indiano urlando: «Non so chi siate voi due e per quale motivo abbiate fatto entrare questi insetti qui dentro, so solo che mio padre sta morendo e ha bisogno di aiuto. Andatevene fuori dei piedi!»
«Obbedite o morirete tutti e due», intimò l’indiano col flauto. «Entrate.»
«Ha bisogno della sua medicina e di un dottore», insistette Joao. Non gli piacque il modo in cui l’indiano maneggiava il flauto; gli fece pensare che in realtà si trattasse di un’arma.
«Dove sente male?» chiese l’altro indiano guardando suo padre con curiosità. Il respiro del vecchio si era affievolito.
«È il cuore», rispose Joao. «Lo so che voi contadini…»
«Niente contadini», lo interruppe quello col flauto. «Il cuore?»
«Pompa», disse l’altro.
«Pompa», ripeté quello col flauto. Si alzò dalla panca posta di fronte al laboratorio e fece un gesto verso il basso. «Metti qui… padre.»
L’altro si alzò dalla panca e gli si mise di fianco.
Nonostante fosse preoccupato per la vita del padre, Joao rimase colpito dallo strano aspetto della coppia di indiani, con quei volti scavati da rughe sottili simili a squame e quegli occhi neri straordinariamente luccicanti. Si erano drogati con qualche narcotico della giungla?
«Metti qui tuo padre», ripeté quello col flauto. Di nuovo indicò la panca. «Un aiuto si può…»
«Ottenere», concluse l’altro.
«Ottenere», gli fece eco quello col flauto.
Joao concentrò lo sguardo sulla moltitudine di insetti striscianti sulla parete. Erano identici a quello trovato nello studio. Identici.
Il respiro del vecchio si stava facendo sempre più corto, sempre più affrettato. Joao lo avvertiva contro il suo petto.
Sta morendo, pensò in preda alla disperazione.
«Un aiuto si può ottenere», ripeté l’indiano col flauto. «Se obbedisci non ti faremo del male.» Sollevò il flauto e lo puntò su Joao. «Obbedisci.»
Il gesto non poteva essere frainteso. Quello strumento era una vera e propria arma.
Lentamente Joao salì sull’aerocarro, si avvicinò alle panche e con estrema delicatezza distese suo padre sulla superficie imbottita.
L’indiano col flauto gli fece cenno di indietreggiare e lui obbedì.
L’altro si chinò sul vecchio e gli sollevò una palpebra. Joao notò, con sua grande meraviglia, che c’era una certa disinvoltura professionale in quel gesto. L’indiano sollevò la camicia del prefetto sino al diaframma, gli tolse la cintura e gli allentò il colletto. Premette un dito, tozzo e scuro, sull’arteria del collo.
«Molto debole», gracchiò.
Joao lanciò un’altra occhiata all’indiano, meravigliandosi che un uomo delle foreste dell’altopiano sertao si comportasse come un medico.
«Ospedale», convenne l’indiano.
«Ospedale?» chiese quello col flauto.
L’altro rispose con un acuto sibilo.
«Ospedale», disse quello col flauto.
Quel fischio acuto! Joao fissò l’indiano chino su suo padre. Gli tornò alla mente il suono udito poco prima in giardino.
Quello col flauto gli batté sulla spalla e gli ordinò: «Tu passa davanti e manovra questo…»
«Veicolo», disse quello di fianco al padre di Joao.
«Veicolo», fece eco quello col flauto.
«Ospedale?» riprese Joao.
«Ospedale», rispose quello col flauto.
Joao lanciò un’altra occhiata a suo padre. Il vecchio non dava segni di vita. L’altro indiano si accingeva a legarlo alla panca in vista dell’imminente decollo. Nonostante il suo aspetto da selvaggio, sembrava molto competente.
«Obbedisci», intimò quello col flauto.
Joao aprì il portello della cabina anteriore e scivolò all’interno seguito dall’indiano armato, mentre alcune gocce di pioggia cominciavano a bagnare il parabrezza. Si sedette al posto di comando e chiuse il portello. L’abitacolo rimase al buio. I portelli di sicurezza si chiusero con un colpo sordo. Accese le luci del cruscotto e notò che l’indiano si era acquattato là dietro col flauto puntato contro la sua schiena. Una specie di cerbottana, pensò Joao. Probabilmente lancia frecce avvelenate.
Joao schiacciò il bottone d’accensione e, mentre attendeva che le turbine acquistassero velocità, si allacciò la cintura di sicurezza. L’indiano, ancora rannicchiato alle sue spalle, ne era sprovvisto ed era perciò esposto a eventuali sobbalzi provocati da un brusco decollo.
Joao girò gli interruttori di comunicazione situati in un angolo del cruscotto e guardò dentro il piccolo schermo in cui si proiettava l’immagine di una parte del laboratorio. Le portiere posteriori erano aperte, suo padre giaceva legato alla panca e l’altro indiano gli sedeva accanto. Chiuse le portiere per mezzo di un comando idraulico.
Le turbine raggiunsero il massimo della velocità.
Joao spense le luci e innestò il comando idrostatico.
Il velivolo si staccò da terra di soli dieci centimetri, Joao tirò a sé la cloche e il muso si drizzò verso l’alto. Virò a sinistra, si elevò di altri due metri per acquistare velocità, quindi si diresse verso le luci di un viale.
L’indiano gli parlò all’orecchio: «Gira verso quella montagna laggiù». Allungò la mano e fece un cenno a destra.
La clinica Alejandro si trova ai piedi della collina, pensò Joao. Sì, è quella la direzione giusta.
Sterzò nella direzione indicata e sorvolò una strada che intersecava il viale illuminato.
Con noncuranza diede un altro colpo alla cloche; il velivolo si sollevò di un altro metro e aumentò di velocità. Contemporaneamente azionò l’apparecchio di ascolto comunicante col compartimento posteriore e girò la chiavetta dell’amplificatore posto sotto la panca su cui giaceva suo padre.
Il fonorilevatore, capace di amplificare il suono provocato da uno spillo tanto da farlo rimbombare come una cannonata, emise solo un lontano sibilo e una specie di raschio. Joao aumentò il volume dell’amplificatore. Lo strumento avrebbe dovuto trasmettere i battiti del cuore del moribondo nella cabina.
Non udì alcun suono eccetto quel sibilo, quel raschio.
Mio padre è morto, pensò Joao. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Quei selvaggi me l’hanno ucciso.
Nello schermo del cruscotto notò che l’indiano, là dietro, aveva messo una mano sulla schiena del vecchio e sembrava che la stesse massaggiando. Il suono ritmico e raschiante accompagnava il movimento.
Joao fu assalito dall’ira. Per un attimo pensò di lasciarsi precipitare: suicidandosi avrebbe provocato la morte di quei due folli.
Il carro volante si stava avvicinando alla periferia della città. A sinistra si snodavano delle strade di circonvallazione che si immettevano in un ampio viale. Era una zona occupata da villette con giardino, ciascuna col proprio tetto d’atterraggio.
Joao sorvolò la zona e si diresse verso il viale. Alla clinica, già, pensò. Ma è troppo tardi.
Dal compartimento posteriore non giungevano i battiti del cuore di suo padre, soltanto quel raschio lento e ritmico e, adesso che prestava maggior attenzione, gli sembrava di udire anche un ronzio simile al verso della cicala.
«Là, sulla montagna», disse l’indiano dietro di lui, allungando la mano per indicare a destra.
La mano era illuminata dalle luci del cruscotto e Joao vide che la pelle del dito, ricoperta di squame, si muoveva. In quel movimento riconobbe una certa specie di insetti dotati di numerose zampe.
Gli scarafaggi!
Il dito era composto da molteplici insetti uniti tra loro che si muovevano all’unisono!
Joao si volse e fissò l’indiano negli occhi. Adesso capiva perché erano così luccicanti; erano composti da migliaia di piccole sfaccettature.
«Ospedale, là», disse la creatura, indicando con il dito.
Joao ritornò ai comandi e si sforzò di mantenere la calma. Non erano indiani… non erano nemmeno esseri umani. Erano insetti… specie di alveari dalla forma umana, organizzati in modo da assumere le sembianze dell’uomo.
Quella scoperta gli fece sorgere numerosi interrogativi. Come facevano a sostenere il loro peso? Come si nutrivano e in che modo respiravano?
Come potevano parlare?
Adesso, qualsiasi preoccupazione personale doveva essere subordinata all’impellente necessità di informare il governo e di fornire la prova della sua scoperta ai ricercatori dei laboratori governativi.
Persino la morte di suo padre doveva essere subordinata a questo imperativo, adesso. Joao sapeva che doveva catturare una di queste creature. Accese la radio trasmittente per segnalare la sua posizione alla base. Speriamo che alcuni dei miei uomini siano in ascolto, pregò mentalmente.
«Ancora più a destra», gracchiò la creatura alle sue spalle.
Joao corresse la rotta.
La voce… quel suono stridulo, raschiante. Ancora, Joao si chiese come quella creatura potesse simulare la voce umana.
Joao guardò alla sua sinistra. La luna era già alta e illuminava una fila di torri bandeirantes. La prima barriera.
Presto il carro volante avrebbe superato la zona Verde per entrare nella Grigia, quella (nel progetto di Nuova Colonizzazione) del terreno agricolo più povero, quindi, al di là di essa, la grande zona Rossa, che si estendeva attraverso il Goyaz e all’interno del Mato Grosso fino alle pendici delle Ande, dove si radunavano squadre di lavoratori provenienti dall’Ecuador. Joao scorse davanti a sé le luci sparse delle fattorie e al di là il buio.
Il carro stava acquistando troppa velocità, ma Joao non osava rallentare; i due indiani potevano insospettirsi.
«Devi volare più alto», gli intimò la creatura.
Joao azionò la pompa di dislocamento, il muso si sollevò e il veicolo si librò a trecento metri di altezza.
Si profilarono in lontananza altre torri bandeirantes, l’una vicino all’altra. Joao ricevette i segnali della barriera sul quadrante del cruscotto. Lanciò un’occhiata al suo guardiano; le vibrazioni prodotte dalla barriera non sembravano avere alcun effetto sulla creatura. Guardò fuori del finestrino laterale. Nessuno laggiù gli avrebbe intimato di fermarsi, questo lo sapeva. Era un carro bandeirante diretto nella zona Rossa… con la radio trasmittente sempre in contatto con la base. Lo avrebbero preso per un caposquadra diretto nella zona Rossa per un lavoro in appalto, che chiamava a raccolta i suoi uomini. Se i guardiani della barriera avessero riconosciuto la sua onda di chiamata, ciò avrebbe confermato la sua supposizione.
Joao Martinho aveva appena portato a termine con successo un contratto in appalto nella Serra dos Parecis. Tutti i bandeirantes lo sapevano.
Joao sospirò. Vide il fiume Sào Francisco illuminato dalla luce argentea della luna serpeggiare alla sua sinistra, mentre piccoli corsi d’acqua si snodavano come fili dalle pendici dei colli.
Devo trovare il nido: è là dove mi stanno portando, disse fra sé Joao.
Per un attimo pensò di accendere la radio ricevente, ma se i suoi uomini avessero cominciato a lanciare messaggi… No. Le creature si sarebbero insospettite e avrebbero potuto reagire con violenza.
Se non rispondo, i miei uomini si accorgeranno che c’è qualcosa che non va, pensò. Mi seguiranno.
Sempre che qualcuno sia in ascolto.
«Dove stiamo andando?» chiese Joao.
«Molto lontano», rispose l’indiano.
Joao si preparò a un lungo viaggio. Devo essere paziente, pensò. Paziente come un ragno in attesa di fianco alla ragnatela.
Le ore trascorrevano velocemente: due, tre… quattro.
Nient’altro che la giungla rischiarata dalla luna scorreva sotto di loro. La luna era bassa all’orizzonte, vicina al tramonto. Stavano sorvolando l’interno della zona Rossa dove, all’inizio, erano stati impiegati potenti insetticidi con risultati disastrosi. Là erano state scoperte le prime metamorfosi abnormi.
Il Goyaz.
Rhin Kelly avrebbe dovuo trovarsi laggiù, secondo le informazioni di suo padre.
Il Goyaz: ecco la regione che avevano riservato per l’assalto finale, usando barriere mobili se l’accerchiamento si fosse rivelato insufficiente.
«Quando atterriamo?» chiese Joao.
«Presto.»
Joao innescò la carica di emergenza che, una volta esplosa, avrebbe separato il compartimento frontale da quello di coda. Le ali della capsula e i motori a razzo lo avrebbero catapultato nella zona bandeirante.
Con i due «esemplari» là dietro, si augurò Joao.
Alzò lo sguardo per scrutare l’orizzonte. Era un autocarro che brillava al chiaro di luna laggiù a destra? Non poteva esserne certo… eppure gli sembrava così.
«Presto?»
«Avanti», gracchiò la creatura. Il suono stridulo della sua voce lo fece rabbrividire.
Joao disse: «Mio padre…»
«Ospedale per… padre… avanti.»
Presto sarebbe stata l’alba. Joao vide la prima traccia di luce lungo l’orizzonte. La notte era trascorsa velocemente. Si domandò se il suo guardiano gli avesse iniettato a sua insaputa qualche sostanza capace di fargli perdere la nozione del tempo. No, non era possibile. Si sentiva sveglio, pronto per qualsiasi evenienza. Non poteva permettersi di lasciarsi andare alla stanchezza e alla noia, doveva aguzzare lo sguardo per individuare le segnaletiche scarsamente visibili nella notte buia e tendere l’orecchio per captare tutto ciò che poteva su quelle straordinarie creature. Fu investito dall’odore acuto dell’acido ossalico.
Come si coordinavano fra loro tutte quelle unità di insetti?
Sembrava che avessero una coscienza, oppure era anche quella una simulazione? Che cosa avevano al posto del cervello?
Ormai era giorno. In lontananza apparve il plateau del Mato Grosso: un calderone di liquido grigio che ribolle sul tetto del mondo. Joao guardò dal finestrino in tempo per scorgere l’ombra lunga del carro volante che rimbalzava attraverso una radura: tetti di lamiera luccicavano sullo sfondo dello spiazzo erboso… un deposito abbandonato, oppure il barracao di una fazenda vicino alla frontiera del caffè. Un posto simpatico per costruirvi un magazzino; si ergeva di fianco a un corso d’acqua ed era circondato da terreno fertile e rigoglioso.
Joao conosceva quella regione; immaginò di ricoprirla col reticolo della carta topografica: essa si estendeva per cinque gradi di latitudine e sei di longitudine. Una volta la zona era occupata da fazendas isolate e coltivata da indigeni indipendenti e da branco sertanistos schiavizzati dal sistema encomendero della piantagione. I genitori di Benito Alvarez erano originari di quella zona. C’erano foreste equatoriali fitte di alberi di legno duro, savane, piccoli corsi d’acqua con gli argini ricoperti di una vegetazione lussureggiante. Qua e là, vicino alle sorgenti dei fiumi, giacevano abbandonati da tempo i resti di un impianto elettrico come quello delle cascate di Paulo Afonso, entrambi sostituiti dall’energia atomica e solare.
Ecco cos’era: il sertao Goyaz, una regione ancora selvaggia e inesplorata a causa degli insetti e delle malattie. Là si estendeva l’ultima roccaforte dell’emisfero occidentale, brulicante di insetti, in attesa che una moderna tecnologia tropicale la trasportasse nel ventunesimo secolo.
I rifornimenti per i bandeirantes impegnati nell’assalto sarebbero giunti via Sāo Paolo per mezzo di trasporti aerei e terrestri; quindi su antiquati treni diesel fino a Itapira, su battelli fluviali fino a Bahus e tramite aerocarri fino a Registo e Leopoldina sull’Araguaya.
Una volta espugnata, la regione si sarebbe presto ripopolata; la gente vi avrebbe fatto ritorno dai tuguri dei sobborghi metropolitani e dalle zone agricole della Nuova Colonizzazione.
Un’improvvisa raffica di vento scosse il velivolo e Joao tornò bruscamente alla realtà, prendendo coscienza della sua situazione. Lanciò una rapida occhiata all’indiano rannicchiato dietro di lui, attento, vigile… paziente come l’indio di cui aveva assunto le sembianze. La presenza di quella «cosa» era diventata insopportabile e Joao si trovò a dover lottare per respingere un senso crescente di repulsione.
La moderna tecnologia della capsula contrastava fortemente con quell’assurda creatura-insetto. Che diritto aveva di starsene là in quella cabina, volando tranquillamente su quella zona dove i suoi simili regnavano sovrani?
Joao osservava la foresta che scorreva come un enorme fiume verde, la zona da mata. Sapeva che la regione brulicava di insetti: lombrichi che scavano nella terra umida, vermi nascosti nelle radici delle savane, scarafaggi, vespe dai pungiglioni simili a frecce, mosconi consacrati al culto Xango delle foreste, pulci, sfecidi, braconidi, calabroni, termiti bianche, emitteri, leucischi rossi, tripetidi, formiche, pidocchi, moscerini, acari, farfalle esotiche, tarme, mantidi… e innumerevoli metamorfosi abnormi di tutte quelle specie di insetti.
Lo sapeva con certezza.
Sarebbe stata una battaglia dura da combattere a meno che non fosse già perduta in partenza.
Non devo indugiare su questi pensieri… non ancora, pensò. Per rispetto a mio padre.
Le mappe dell’OIE mostravano la regione in diverse gradazioni di rosso. Attorno al rosso scorreva una linea grigia con sfumature rosa che indicava una zona dove una o due specie di insetti resistevano a ogni sorta di insetticidi e a tutte le trappole meccaniche e alle allettanti esche dell’arsenale dei bandeirantes.
Un reticolo di carta topografica sarebbe stato posto su questa regione e ogni migliaio di ettaro quadrato ceduto in appalto a squadre di disinfestatori indipendenti.
Noi bandeirantes siamo una specie di ultimi predatori, pensò Joao. Non c’è da meravigliarsi se queste creature ci imitano.
Ma ne valeva veramente la pena? chiese a se stesso. Non stiamo forse oltrepassando i limiti?
«Là», disse la creatura dietro di lui. Allungò la mano-alveare per indicare una ripida scarpata appena visibile nella luce grigia del mattino. Sullo sfondo, un fitto velo di nebbia faceva pensare che nelle vicinanze ci fosse un fiume nascosto dalla vegetazione della giungla.
Proprio quello che fa al caso mio, pensò Joao. Saprò ritrovare questo luogo abbastanza facilmente.
Premette con un piede la levetta di sgancio, liberando una densa nuvola di fumo colorato allo scopo di lasciare una traccia sul terreno e nella foresta per il raggio di un chilometro. Contemporaneamente iniziò il conto alla rovescia dei cinque secondi che mancavano all’esplosione e al conseguente sganciamento della capsula.
La separazione avvenne con un tremendo boato e Joao ebbe l’impressione che la creatura là dietro si fosse schiacciata contro la paratia del compartimento posteriore.
Estrasse le semiali, alimentò i motori a razzo e virò a sinistra. Adesso il compartimento sganciato planava lentamente verso terra autocompensato dalle pompe dei comandi idrostatici.
Ritornerò, padre, pensò Joao. Sarai sepolto tra amici e parenti.
Bloccò i controlli della capsula e si volse per affrontare il suo guardiano.
Il fiato gli si mozzò in gola.
La paratia posteriore brulicava di insetti raggruppati attorno a qualcosa di bianco giallastro che pulsava. La camicia grigia e i pantaloni erano laceri, ma gli insetti li stavano già riparando con fili prodotti dalla loro secrezione. Attaccata alla superficie pulsante c’era una specie di vescica giallo scuro e più sotto… uno scheletro composto di numerosi insetti che si articolava in modo a lui familiare.
Sembrava uno scheletro umano, ma scuro di colore e chitinoso.
Davanti ai suoi occhi la cosa stava riprendendo la sua forma originaria: lunghe antenne orlate di peluria che si muovevano in avanti e all’indietro e si intrecciavano; un insetto sopra l’altro, frange di zampe sottili che si accavallavano.
La cerbottana era scomparsa e la sacca di pelle giaceva in un angolo della cabina; rimanevano gli occhi della «cosa» che lo fissavano dalle loro oscure cavità; la bocca stava prendendo forma.
La vescica gialla si contrasse e dalla bocca ancora incompleta uscì un suono. «Devi ascoltare», gracchiò la voce.
Joao deglutì spasmodicamente, si lanciò sui comandi e li sbloccò. La capsula fece un giro su se stessa.
Udì dietro di sé un ronzio assordante, un rumore che sembrava gli penetrasse in ogni parte del corpo e lo scuotesse violentemente. Sentì che qualcosa gli strisciava sul collo. La schiacciò con una mano. Immediatamente pensò alla fuga. In preda a una violenta agitazione, scrutò il suolo sottostante alla ricerca di una radura per un atterraggio di fortuna. In quel mentre, vide un altro aerocarro che gli volava accanto sul quale spiccava il distintivo della sua squadra.
Vide anche un gruppo di tende e le bandierine verdi e arancione dell’OIE che sventolavano di fianco a esse. Oltre la radura si poteva intravedere la curva di un fiume.
Joao si lanciò in picchiata verso le tende.
Qualcosa gli punse la guancia. Altre cose gli strisciavano tra i capelli, mordendogli e pungendogli la cute. Disperatamente Joao puntò in direzione di uno spazio aperto, cercando di evitare le tende. Adesso il vetro della cabina era brulicante d’insetti e gli impediva la visuale. Mormorando una preghiera, Joao tirò la barra di comando e sentì che la capsula perdeva quota, toccava il suolo slittando e girando su se stessa. Prima che il motore si spegnesse tirò la levetta a scatto per rimuovere la calotta, sganciò la cintura di sicurezza e fu catapultato fuori del velivolo. Atterrò lungo disteso sul suolo della savana.
Girò più volte su se stesso, con gli occhi serrati, sentendo le punture degli insetti che come aghi arroventati gli trafiggevano le parti esposte del corpo. Sentì che alcune mani lo afferravano e gli spruzzavano in viso una sostanza gelatinosa per proteggerglielo.
Udì il suono di una voce a lui familiare, benché camuffata dal cappuccio, che gridava: «Correte! Da questa parte… presto!» Era Vierho.
Udì lo sparo di un fucile a gas: Whoosh!
E ancora.
E ancora.
Altre mani lo rivoltarono sul dorso. Lo spray gelatinoso gli colpì la schiena. Una massa di liquido che odorava di neutralizzatore si riversò sul suo corpo.
Gli giunse uno strano rumore, una specie di tonfo, e una voce che esclamava: «Madre di Dio! Guarda un po’ qua!»