CAPITOLO SETTIMO

«Avevate detto che il veicolo non avrebbe volato!» disse il Cervello in tono accusatorio.

I suoi organi sensoriali esaminarono a fondo le volute dei messaggeri sospesi sul soffitto della caver­na cercando di captare se quel ronzio afferente tra­smettesse il senso della frase. Ma la configurazione rivelata dalla luce al fosforo emessa dagli insetti ope­rai rimase fissa, immobile come la macchia di stelle che si stagliava all’imboccatura della caverna dietro i messaggeri.

Il Cervello pulsò una richiesta di sostanze chimiche, causando nei suoi insetti infermieri una frene­tica assistenza. Quella era la sensazione più vicina alla costernazione che avesse mai provato. La sua lo­gica definiva quell’esperienza come un’emozione e ne ricercava dei riferimenti paralleli anche mentre con­trollava la sostanza dell’informazione.

Il veicolo ha volato solo per una breve distanza ed è ammarato sul fiume, e ora è lì inattivo, costretto a non utilizzare la sua spinta.

Ma può volare!

Allora il Cervello cominciò a dubitare seriamente dell’informazione ricevuta. L’esperienza era una for­ma di alienazione insita nella natura che l’aveva creata.

«L’asserzione che il veicolo non avrebbe volato è stata fatta direttamente dagli umani», danzarono gli insetti. «Ci siamo limitati a riportare la loro valutazione.»

Era un’affermazione prammatica, prodotta più per completare l’informazione che anticipava il tentativo di fuga, che per difendersi dalle accuse del Cervello.

Quell’azione doveva far parte dell’informazione originale, pensò il Cervello. I messaggeri devono im­parare a non intervenire, ma a riportare tutti i par­ticolari precedentemente valutati. Ma come si può ottenerlo? Sono creature dai riflessi stabili, legate a un sistema di autolimitazione.

Naturalmente i nuovi messaggeri avrebbero dovu­to essere programmati e istruiti.

Con quel pensiero, il Cervello si allontanava sempre più dalla natura dei suoi creatori. Capì allora in che modo «un’azione di mimesi», un semplice rifles­so, si potesse produrre, ma il Cervello, la cosa prodotta-per-riflesso, stava avendo un inevitabile effet­to retrospettivo, che lo portava a modificare i rifles­si originali che lo avevano creato.

«Che cosa dobbiamo fare del veicolo sul fiume?» chiesero i messaggeri.

Con la sua nuova facoltà intuitiva, il Cervello capì in che modo si era formata quella domanda: dal riflesso di sopravvivenza.

L’istinto di sopravvivenza deve essere assecondato, pensò.

«Al veicolo sarà concesso di procedere solo tempo­raneamente», ordinò il Cervello. «Per il momento non si devono dare segni evidenti di attacco, ma dob­biamo predisporre nuovi rinforzi. Uno sciame giova­ne sarà fatto affluire nottetempo nel veicolo. Si deve ordinar loro di infiltrarsi in qualsiasi buco disponibi­le e di rimanere nascosti in attesa di nuovi ordini, senza attaccare assolutamente! Tuttavia devono esse­re pronti a distruggere gli occupanti del veicolo qua­lora si riveli necessario.»

Quindi il Cervello tacque, consapevole che i suoi ordini sarebbero stati trasmessi. E si servì della sua nuova capacità di valutazione, considerandola come un frammento di autonomia. L’esperienza si rivelò sia affascinante sia terrificante, poiché, vivendo al­l’interno della propria essenza, quell’esperienza rap­presentava un elemento capace di produrre sia una dialettica sia un’azione separata.

Decisioni, decisioni consce, pensò il Cervello, pu­nizioni inflitte dalla coscienza alla propria essenza. Esistono decisioni consce capaci di frammentare la propria individualità. Come possono gli umani sop­portare un tale carico di decisioni?


Chen-Lhu appoggiò il capo contro l’angolo formato dal finestrino e la paratia e fissò la fetta di luna alta nel cielo. Aveva il colore del rame fuso.

Un’incrostazione di acido scorreva diagonalmente dal finestrino fino alla parte bombata della carrozze­ria esterna. Chen-Lhu seguì con lo sguardo quella striscia e per un attimo, nel punto in cui finiva il finestrino vicino a lui, gli parve di vedere una fila di puntini piccolissimi simili a tante zanzare che stri­sciavano lungo il finestrino.

In un batter d’occhio svanirono.

Me li sono immaginati? si domandò.

Pensò di avvertire gli altri, ma Rhin aveva avuto un attacco isterico dopo aver assistito alla morte dei compagni ed era ancora molto scossa.

Me li sono immaginati, pensò Chen-Lhu. Non c’è che il chiarore lunare… quei puntini davanti agli occhi, non è il caso di preoccuparsi.

In quel punto il fiume si restringeva e presentava un’ampiezza sei o sette volte superiore all’apertura alare della capsula. Una scura parete di alberi spio­venti fiancheggiava il corso dell’acqua.

«Johnny, accenda un attimo le luci di posizione delle ali», disse Chen-Lhu.

«Perché?»

«Potrebbero individuarci», spiegò Rhin. Rimase colpita dal tono isterico della sua stessa voce. Sono un entomologo, pensò. Qualunque cosa ci sia là fuori, non può essere che un’alterazione di qualche specie conosciuta.

Ma quel ragionamento non le fu di conforto. Si re­se conto che la paura primaria di cui era pervasa aveva suscitato in lei delle sensazioni istintive che contrastavano con la ragione.

«Cerchiamo di non commettere errori», ammonì Chen-Lhu, cercando di controllare la voce. «Chiun­que abbia attaccato i nostri amici… sa dove siamo. Per favore accenda le luci, vorrei avere la conferma dei miei sospetti.»

«Siamo inseguiti, eh?» chiese Joao. Girò l’inter­ruttore.

L’improvviso bagliore rischiarò due caverne piene di insetti svolazzanti… nuvole di insetti dalle ali bianche.

La capsula fu trascinata dalla corrente in un punto in cui il fiume formava un gomito. Le luci illumina­rono la sponda rivelando grovigli di radici a forma di medusa avvinte all’argilla rosso scuro, quindi per l’effetto di un vortice si spostarono, scoprendo un isolotto… giunchi ed erba gigante e folta, occhi che si riflettevano nello specchio dell’acqua.

Joao spense le luci di scatto.

Nell’oscurità che sopraggiunse, i tre udirono il sordo ronzio degli insetti e il ritmico gracidio delle rane… poi, simile a una risposta giunta in ritardo, il verso roco di un branco di scimmie dalla sponda opposta.

Joao aveva la sensazione che la presenza di que­gli animali avesse un significato ben preciso, ma in quel momento gli sfuggiva.

Lungo una striscia di fiume illuminato dalla luna, riuscì a scorgere un gruppo di pipistrelli che sfiora­vano il pelo dell’acqua per dissetarsi.

«Ci stanno seguendo… osservando, aspettando», disse Rhin.

Pipistrelli, scimmie, rane, tutte creature che vive­vano in stretto rapporto con il fiume, pensò Joao. Ma Rhin aveva asserito che l’acqua del fiume era ca­rica di veleni. Che ragione aveva di mentire? Cercò di studiare il suo volto scarno nella pallida luce della luna, ma riuscì a scorgere solo delle ombre.

«Forse ce la faremo», dichiarò Chen-Lhu, «se ter­remo la cabina chiusa ermeticamente e gli aeratori in funzione».

«La apriremo solo di giorno», fece Joao. «Così po­tremo dare un’occhiata in giro e servirci dei fucili, se necessario.»

Rhin strinse le labbra per evitare che tremassero. Appoggiò il capo allo schienale e guardò il cielo at­traverso il pannello trasparente che la sovrastava. Una distesa di stelle punteggiava il cielo e, quando abbassò lo sguardo, poteva ancora vederli, tanti pun­tini luminosi, tremolanti sulla superficie del fiume. Improvvisamente la notte la riempì di una sensazio­ne di solitudine immensa, opprimente che la teneva prigioniera fra le pareti oscure del fiume.

L’aria della notte era permeata degli odori della giungla che nemmeno i filtri di aerazione potevano dissolvere. Ogni respiro era denso di profumi stimo­lanti e ripugnanti al tempo stesso.

Nella sua immaginazione la giungla assunse una dimensione di consapevole malvagità. Avvertiva la presenza di qualcosa di misterioso là fuori nella notte… un’entità pensante capace di inghiottirla senza un attimo di esitazione. La sensazione di realtà con cui la sua mente abbracciava quell’immagine la som­mergeva e la penetrava. Non riusciva a dar forma a quell’immagine, aveva solo proporzioni macroscopiche… eppure era là.

«Johnny, è molto veloce la corrente, qui?» chiese Chen-Lhu.

Domanda intelligente, pensò Joao. Si sporse in avanti per dare un’occhiata al quadrante luminoso dell’altimetro. «L’ago segna ottocentotrenta metri di altitudine», disse. «Se ho calcolato bene la nostra posizione, nei prossimi trenta chilometri il fiume pre­senterà un dislivello di settanta metri.» Fece mental­mente un rapido calcolo. «Posso dirlo solo in modo approssimativo ma la corrente sarà dai sei agli otto nodi.»

«Non ci staranno per caso cercando?» chiese Rhin. «Continuo a pensare…»

«Non crearti illusioni», fece Chen-Lhu. «Non lo credo, ma, se così fosse, sarebbe merito mio. Sapevo dove venire a cercarti, Rhin.» Esitò un attimo, nel dubbio di fornire a Joao troppi indizi. «Solo alcuni dei miei uomini erano a conoscenza del luogo in cui mi sarei recato, e per quale motivo.» Sperò che lei avesse captato il tono di segretezza della sua voce e lasciasse cadere il discorso.

«Sapete come sono giunto fin qui», disse Joao. «Anche se qualcuno volesse cercarmi… da dove po­trebbe cominciare?»

«Ma esiste una possibilità di cavarcela, vero?» chiese Rhin rivelando la disperazione che la portava a credere in una possibile via di scampo.

«La speranza è l’ultima a morire», declamò Chen-Lhu e pensò: Devi calmarti Rhin, quando avrò biso­gno di te, non dovrai essere sopraffatta né dalla pau­ra né dall’isterismo.

Quindi concentrò la mente sulla possibilità di scre­ditare Joao Martinho, nel caso che avessero fatto ri­torno alla civiltà. Naturalmente, per portare a ter­mine il suo piano, sarebbe stato necessario l’aiuto di Rhin. Joao rappresentava il perfetto capro espiato­rio e quella situazione doveva essere risolta su ordinazione, sempre se fosse riuscito a convincere Rhin. In caso contrario sarebbe stato costretto a elimi­narla.


La notte oscurò la caverna prima che il Cervello ricevesse altre informazioni sui tre uomini e il loro veicolo galleggiante. Parte delle notizie dei messagge­ri rivelavano solo le tensioni e le pressioni cui gli umani erano sottoposti. Si rendevano conto, forse in­consciamente, di trovarsi in trappola. I dati ricevuti potevano essere in buona parte accantonati momen­taneamente, ma c’era un problema che necessitava di un’immediata soluzione. Il Cervello aveva il sentore di un’imminente contrarietà che la sua stessa logica non aveva precedentemente valutato.

«Gruppi di azione devono essere immediatamente inviati lungo la rotta del veicolo», ordinò il Cervello, «e rimanere nascosti nella vegetazione adiacente. Devono tenersi pronti a volare sul fiume e a formare una barriera contro eventuali soccorsi aerei.»


Una semiala della capsula andò a sfiorare le pian­te rampicanti lungo la sponda del fiume. Joao, che si era appena assopito, si svegliò, lanciò un’occhiata alle sue spalle e scorse Chen-Lhu vigile e attento.

«È ora del suo turno», fece Chen-Lhu. «Rhin sta ancora dormendo.»

«Abbiamo urtato la sponda altre volte?» mormorò Joao.

«Soltanto sfiorata.»

«Comunque sarebbe opportuno attaccare l’anco­ra… quella costruita da Vierho.»

«Non ci eviterebbe, però, di andare a sbattere con­tro la riva; anzi, potrebbe impigliarsi in qualcosa.»

«Il Padre ha rivestito le marre in modo da evitare tale inconveniente. Adesso abbiamo il vento alle spalle e durerà fino al mattino. Con una draga come questa non possiamo che acquistare velocità.»

«Ma come farà ad attaccarla là fuori?»

«Già…» annuì Joao. «Meglio aspettare fino a do­mattina.»

«Buona idea, Johnny.»

Rhin si agitava senza tregua.

Joao accese le luci di posizione. Due fasci di luce si infiltrarono nel fitto della giungla e andarono a illuminare un gruppo di palme sago che si elevava su una distesa di caña brava. Miriadi di insetti svo­lazzavano lungo le fasce luminose.

«I nostri amici non vogliono proprio abbandonar­ci», mormorò Chen-Lhu.

Joao spense le luci e udì accanto a sé Rhin che re­spirava affannosamente, come se stesse soffocando. Le afferrò un braccio e chiese a bassa voce: «Si sen­te male?»

Ancora nel dormiveglia, Rhin avvertì la sua pre­senza accanto a lei e sentì un estremo bisogno di protezione. Gli si fece più vicina mormorando: «Fa caldo. Mi manca il respiro».

«Sta sognando», bisbigliò Chen-Lhu.

«Ma è vero, fa caldo», disse Joao. Si sentiva in imbarazzo di fronte all’evidente bisogno che Rhin aveva di lui; sapeva che questo divertiva Chen-Lhu.

«Verso l’alba avremo un po’ di refrigerio. Perché non fa un pisolino, Travis?»

«Sì, ha ragione.» Si sdraiò sul cassone domandan­dosi: Dovrò ucciderli? Sono proprio pazzi, Rhin e Johnny… sono così attratti l’uno dall’altra e nello stesso tempo vogliono soffocare il loro sentimento.

La brezza della notte faceva dondolare la capsula. Rhin, ora più tranquilla, aveva appoggiato il capo sulla spalla di Joao e respirava profondamente.

Joao guardava fuori del finestrino.

La luna era calata dietro le colline lasciando al chiarore stellare il compito di proiettare scure om­bre lungo le sponde del fiume. Il flusso continuo di quelle vaghe forme esercitò in Joao un effetto ipno­tico. Le palpebre gli si appesantirono sempre più, finché, al limite della tensione, concentrò la mente su come sarebbe riuscito a rimaner sveglio. Scrutò attraverso il buio della notte.

C’era solo il movimento del fiume e un leggero in­crespamento in superficie.

La notte risvegliava in lui una sensazione di mi­stero. Quel fiume era popolato dalle anime di coloro che l’avevano percorso… e ora da un’altra presenza. Una presenza che riusciva ad avvertire. Il silenzio della notte ne era saturo. Persino le rane non gra­cidavano più.

Dalla giungla gli giunse un latrato. Poi improvvi­samente gli parve di aver udito il suono sordo di un tamburo. Lontano… molto lontano: una vibrazione che percepiva più col corpo che con l’udito. Svanì prima ancora che ne avesse la conferma.

Tutti gli indiani sono scappati dalla zona Rossa. Chi avrebbe potuto usare i tamburi? Devo essermeli immaginati; forse si è trattato delle mie stesse pulsa­zioni, ecco cos’è stato.

Rimase intento all’ascolto, ma udì solo il respiro di Chen-Lhu, profondo e uniforme, e un leggero sospiro di Rhin.

In quel punto il fiume si allargava e la corrente diminuiva la sua spinta.

Trascorse un’ora… un’altra. Il tempo sembrava an­corato alla corrente del fiume. Un profondo senso di solitudine si impadronì di Joao. La capsula che li conteneva sembrava così fragile, inadeguata. Si do­mandò come avesse potuto affidare la sua vita a quella macchina così vulnerabile.

Non ce la faremo mai! pensò.

La voce tonante di Chen-Lhu ruppe il silenzio: «È sicuro che questo fiume sia l’Itacoasa, Johnny?»

«Ne sono certo.»

«Qual è la località più vicina?»

«L’area bandeirante a Santa Maria de Grao Cuyaba.»

«A sette od ottocento chilometri, vero?»

«Circa.»

Joao sentiva che Rhin si muoveva fra le sue brac­cia e si rendeva conto di non essere insensibile alla sua femminilità. Si sforzò di eludere quelle sensazio­ni e concentrò lo sguardo sul fiume: un corso sinuoso, con rapide e baratri; sotto la costante minaccia di quella insopportabile presenza che incombeva so­pra di loro. E c’era un altro pericolo di cui non aveva parlato a Rhin e Travis: quelle acque abbon­davano di pesci cannibali, i piranha.

«Quante rapide ci saranno?» chiese Chen-Lhu.

«Non so di preciso. Otto o nove, forse di più. Di­pende dalla stagione e dalla profondità dell’acqua.»

«Dovremo accendere il motore e superare le rapi­de volando.»

«Quest’aggeggio non ce la farà a decollare e am­marare diverse volte», fece Joao, «per via del gal­leggiante di destra.»

«Vierho ha fatto un buon lavoro. Terrà.»

«Speriamo.»

«È troppo pessimista, Johnny. Non è il miglior modo per affrontare questo viaggio. Quanto ci met­teremo per raggiungere Santa Maria?»

«Sei settimane, se siamo fortunati. Ha sete?»

«Sì, grazie. Quant’acqua abbiamo?»

«Dieci litri… e una piccola riserva nel caso non ci bastasse.»

Joao riprese la borraccia dalle mani di Chen-Lhu e bevve tutto d’un fiato. L’acqua era calda e sgra­devole.

In lontananza, un uccello notturno gridò: «Tuta! Tuta!» un verso simile al suono del flauto.

«Che cos’era?» sibilò Chen-Lhu.

«Un uccello… solo un uccello.»

Joao sospirò. Il verso dell’uccello risuonava in lui come un presentimento, un triste presagio non col­legato alle sue ataviche superstizioni. Guardò nuo­vamente nell’oscurità, scorse l’affascinante luccichio delle lucciole che si rincorrevano lungo la sponda de­stra, respirò l’odore del vento che spirava dalla giungla simile alle esalazioni di un soffio malefico.

Si sentiva oppresso dalla situazione disperata in cui si trovavano. Erano prossimi alla stagione delle piogge, e centinaia di chilometri di cascate e baratri li separavano da qualsiasi fonte di soccorso. E inol­tre erano il facile bersaglio di un’intelligenza crude­le che usava la giungla come arma.

La capsula veniva spinta dall’impeto del fiume.

Joao capì allora come fossero legati alla corrente del fiume che fluiva lentamente verso il mare simile a un nero cordone.

Trascorse un’altra ora… e un’altra ancora.

A destra, in lontananza, i primi chiarori dell’alba. Le scimmie diedero il benvenuto alla luce del giorno con schiamazzi e grida. Il trambusto stimolò gli uc­celli al cinguettio mattutino che riecheggiò da ogni angolo nascosto della foresta: prolungati garriti, mo­dulati squittii, stridii intermittenti.

Lentamente il cielo assunse tonalità prima perla­cee e poi biancastre che illuminarono il mondo che circondava la capsula galleggiante.

Joao guardò verso occidente e non vide che basse colline, una dietro l’altra, ammassate ai piedi della catena montuosa delle Ande. Si rese conto allora di aver già superato il primo ripido pendio del fiume che portava all’altopiano.

La capsula galleggiava dolcemente come un gigan­tesco insetto acquatico, sullo sfondo di alberi ornati dallo sfolgorio di magnifici fiori. Il lento movimen­to della corrente formava dei mulinelli i cui flutti si frangevano contro i galleggianti.

Rhin si svegliò, si ritrasse dalle braccia di Joao e guardò fuori del finestrino. Tra le due alte pareti di alberi il fiume era simile alla navata di una cat­tedrale.

Joao si massaggiò il braccio nel punto in cui il ca­po di Rhin gli aveva rallentato la circolazione san­guigna. Così facendo la osservava. C’era nel suo aspet­to un qualcosa di infantile: i capelli rossi scompi­gliati, un’espressione innocente sul viso.

Rhin sbadigliò, gli sorrise… e si accigliò di colpo nel prendere coscienza della loro situazione. Scosse il capo e si volse a guardare Chen-Lhu.

Il cinese dormiva profondamente. Rhin ebbe l’im­provvisa sensazione che Chen-Lhu simboleggiasse la immagine del suo paese, una grandiosità decaduta. La pelle del viso, porosa e grinzosa, conferiva ai suoi lineamenti un’asprezza che Rhin non aveva mai no­tato. Una peluria ispida e grigia spiccava sul labbro superiore. Rhin si rese conto che Chen-Lhu si tinge­va i capelli. Era un tocco di vanità che non aveva mai sospettato.

«Non c’è un alito di vento», osservò Joao.

«Ma fa più fresco», disse lei. Guardò fuori e notò piccoli ciuffi d’erba rossa avvinti al galleggiante.

La capsula, a ogni spinta improvvisa della cor­rente, compiva strani zigzag. Il movimento in sé aveva una certa imponenza: giri lenti e prolungati simili a una danza, accompagnata dal ritmo del fiume.

«Sento uno strano odore», fece notare Rhin.

Joao annusò: odore di benzina… appena percetti­bile, un leggero odore di traspirazione… muffa. Sen­za chiedergliene conferma, sapeva che quello era l’odore a cui lei si riferiva. «È muffa», le disse.

«Muffa?» Rhin si guardò attorno, lanciando un’oc­chiata al telone marrone che scorreva lungo i bor­di del soffitto e alle rifiniture cromate del cruscot­to. Appoggiò una mano sulla cloche e la mosse.

Muffa, pensò.

«Siamo prossimi alla stagione delle piogge, vero?» chiese. «Quali saranno le conseguenze?»

«Guai seri», rispose lui. «Il livello dell’acqua si alzerà… si formeranno delle rapide.»

«Perché dovete pensare sempre al peggio?» si in­tromise Chen-Lhu.

«Perché è necessario», fu la secca risposta di Rhin.

Chen-Lhu passò la borraccia a Rhin che la rifiu­tò, sopraffatta da uno strano senso di nausea.

Il veleno contenuto nell’acqua del campo mi ha condizionata a tal punto da provarne repulsione, pensò. Vedere Joao bere la faceva star male. Con quanto gusto beveva! Si girò dall’altra parte.

Joao restituì la borraccia a Chen-Lhu, mentre pen­sava: Strano che si sia svegliato così all’improvviso intromettendosi nel nostro discorso con quel suo tono invadente e presuntuoso. Probabilmente finge­va di dormire, mentre era sveglio e all’erta.

«Credo di aver fame», disse Rhin.

Chen-Lhu estrasse dal cassone tre pacchetti con­tenenti le razioni di cibo e i tre mangiarono in si­lenzio.

Ora Rhin aveva sete… e fu sorpresa nel constatare che Chen-Lhu le porgesse la borraccia prima ancora di avergliela chiesta. Si sentì osservata; era certa che quell’uomo fosse a conoscenza delle sue impressioni, dei suoi pensieri e ne rimase turbata. Bevve con rab­bia e restituì la borraccia al cinese.

Lui sorrise.

«I nostri amici ci hanno abbandonati, a meno che non si siano nascosti sopra il tetto o sotto le ali dove non possiamo scorgerli», osservò Joao.

«Anch’io l’ho notato», disse Chen-Lhu.

Joao percorse con lo sguardo entrambe le sponde.

Nessun movimento.

Nessun suono.

Il sole era già alto nel cielo e aveva ormai dissolto la foschia mattutina.

«Ho l’impressione che sarà una giornata maledet­tamente calda», fece Rhin.

Joao annuì.

Il caldo comincia proprio in un momento ben defi­nito, pensò. Prima non si avverte, poi ti piomba ad­dosso all’improvviso e ti opprime. Sganciò la cintura di sicurezza, spostò il sedile e scivolò nella parte posteriore. Prese ad armeggiare fra i morsetti colle­gati alla chiusura ermetica del portello posteriore.

«Dove ha intenzione di andare?» chiese Rhin. Arrossì nel rendersi conto della domanda sciocca che gli aveva rivolto.

Chen-Lhu non riuscì a soffocare una risatina ironica.

Rhin sentì di odiare l’insensibilità di Chen-Lhu no­nostante lui cercasse di attenuare l’effetto della sua reazione dicendo: «Mia cara, dobbiamo imparare ad assimilare gli aspetti convenzionali del tempera­mento occidentale».

Joao aprì il portello, ne esaminò i cardini, dentro e fuori. Nessun segno di insetti. Si chinò e guardò la superficie piatta che si estendeva fra i due galleg­gianti accanto ai motori a razzo: una piattaforma lun­ga due metri e mezzo e larga un metro circa. Anche lì nessuna traccia di insetti.

Saltò giù e chiuse il portello alle sue spalle.

Appena il portello fu chiuso, Rhin aggredì Chen-Lhu. «Sei proprio insopportabile!» urlò.

«Lo scopri ora, dottor Kelly?»

«È inutile che metti l’accento su quel ‘dottor’, continui a essere insopportabile.»

Chen-Lhu abbassò il tono della voce e disse: «Pri­ma che lui ritorni, abbiamo alcune cosette da mette­re in chiaro. Non c’è tempo da perdere in queste scaramucce. L’OIE ci ha dato degli ordini e noi dobbiamo eseguirli».

«L’unica cosa che rimane da fare ora è di comuni­care la tua confessione alle autorità.»

Lui la fissò. Naturalmente si aspettava una reazio­ne simile, ma doveva trovare un sistema per farle cambiare idea. I brasiliani hanno un detto, pensò e disse: «Quando discuti di lavoro, parla anche di soldi».

«A conta foi paga por mim», replicò Rhin. «Ho già saldato quel conto.»

«Non intendevo dire che devi pagare qualcosa.»

«Intendi dire che vuoi comprarmi?» chiese lei con asprezza.

«Altri l’hanno fatto.»

Rhin gli lanciò un’occhiata piena d’odio. Stava forse minacciando di svelare a Joao la sua attività in seno al servizio spionistico-investigativo dell’OIE? Che faccia pure! Ma non essendo stata del tutto in­formata sullo scopo della sua missione, si sentiva ora disorientata. Dove voleva arrivare Chen-Lhu?

Il cinese sorrise. Il popolo occidentale ha sempre avuto una particolare predisposizione alla cupidigia, pensò. «Non vuoi sapere altro?» chiese.

Il silenzio di lei fu come un tacito consenso.

«Per ora», riprese lui, «ti limiterai a esercitare il tuo fascino su Johnny Martinho e a farlo innamora­re. Deve ridursi al punto da essere disposto a fare qualsiasi cosa per te. Non dovrebbe riuscirti dif­ficile».

L’ho già fatto prima, pensò. Be’… se l’ho fatto, è stato esclusivamente per dovere.

Chen-Lhu, in cuor suo, si sentiva soddisfatto. I mo­delli di vita erano inflessibili. Rhin aveva finito col convincersi, come era sua abitudine.

Il portello alle sue spalle si aprì e Joao si arram­picò nella cabina. «Niente», riferì scivolando sul suo sedile. «Non ho chiuso ermeticamente il portello nel caso in cui uno di voi voglia uscire.»

«Rhin?» fece Chen-Lhu.

Lei scosse il capo, mentre un brivido le correva lungo la schiena. «No.»

«Allora approfitto io dell’occasione», disse Chen-Lhu. Aprì il portello e si lasciò scivolare sul galleg­giante, quindi richiuse il portello.

Rhin era convinta che l’avesse solo accostato per poter orecchiare attraverso la fessura. Guardò dritto davanti a sé seguendo la scia argentea del fiume. La capsula sembrava sospesa in una volta celeste, dove l’aria immobile si gonfiava lentamente, per l’effetto del caldo, fino a scoppiare.

Joao la guardò. «Tutto bene?»

A meraviglia! pensò lei.

«C’è qualcosa che non va», affermò lui. «Vi ho sentiti discutere mentre ero là fuori. Non sono riu­scito ad ascoltare quello che vi siete detti, ma lei parlava in tono collerico.»

Rhin cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. Chen-Lhu stava sicuramente ascoltando. «Io… lui mi stava prendendo in giro.»

«La stava prendendo in giro?»

«Sì.»

«E per quale motivo?»

Rhin girò il capo e studiò le linee morbide delle colline che si ergevano alla sua destra; intravide in lontananza la cima innevata di una montagna con una corona scura di cenere vulcanica. La serenità di quella montagna pervase i suoi sensi.

«È lei la causa.»

Joao abbassò lo sguardo, stupito nel constatare l’imbarazzo che quelle parole provocavano in lui.

In quel silenzio, Rhin prese a cantare a bocca chiu­sa. Aveva una bella voce, e lo sapeva: gutturale, cal­da. La voce era una della sue migliori prerogative.

Joao riconobbe la canzone e si domandò perché mai avesse scelto proprio quella. Era un canto fune­bre indigeno, una tragedia di Lorca adatta per chi­tarra:

Arresta la tua frusta, o Morte,

Non anelo il tuo mare oscuro.

Non sono solito lamentarmi, né implorare,

Ma te lo chiedo come uno che ha svolto la tua stessa opera.

Questo fiume che è tutta la mia vita,

Lascia che scorra tranquillo,

Perché il mio amore ha gli occhi grigi,

Ed è difficile dire addio.

Rhin l’aveva solo canticchiata a bassa voce, ma le parole erano lì, nell’aria.

Joao guardava alla sua sinistra.

In quel punto il fiume era fiancheggiato da file di manghi, il cui fogliame verde scuro era interrotto dal verde più sfumato del vischio tropicale e delle fo­glie pennate delle palme chonta. Al di sopra dei trat­ti diritti del fiume, si libravano due avvoltoi urubu dalle piume bianche e nere. Erano sospesi nel cielo azzurro dalle sfumature acciaio brunito, come dipin­ti su uno sfondo irreale.

L’apparente tranquillità della scena non faceva na­scere in Joao inutili illusioni. Si domandò se quella fosse la tranquillità cui si riferiva la canzone.

Uno stormo di tanagri attrasse la sua attenzione. Volavano in alto sbattendo ritmicamente le lunghe ali di un azzurro scintillante, per poi tuffarsi nel folto della giungla che sembrava inghiottirli.

Sulla sponda di sinistra, il filare di manghi lascia­va il posto a un sentiero erboso che scorreva su un argine di terra rosso scuro costellato di piccole ca­vità.

Il portello si aprì e Joao udì Chen-Lhu arrampicar­si all’interno della cabina. Udì anche il rumore dei morsetti che venivano ricollegati.

«Johnny, ho visto qualcosa muoversi fra gli al­beri dietro quel prato», riferì Chen-Lhu.

Joao concentrò lo sguardo sulla scena. Sì! Qual­cosa fra l’ombra degli alberi… numerose figure che sembravano seguire l’andatura della capsula.

Joao sfilò il fucile a gas che aveva infilato in una fessura del sedile.

«È un tiro troppo lungo», osservò Rhin.

«Lo so. Voglio solo metterli sull’avviso, mantener­li a distanza.»

Armeggiò intorno alla sicura, ma, prima ancora di riuscire a toglierla, le figure lasciarono la zona in ombra per portarsi sulla banchina erbosa illuminata dal sole.

Joao rimase senza fiato.

«Madre di Dio, Madre di Dio…» mormorò Rhin.

Era un gruppo compatto, allineato lungo la spiag­gia. Avevano un aspetto umano, quantunque apparis­sero come esemplari giganti di alcune specie di in­setti: mantidi, scarafaggi, ogni tipo di insetto prov­visto di proboscide pelosa. Quelle specie di umani avevano le sembianze tipiche degli indiani, e gran parte di loro erano simili ai due che avevano rapito Joao e suo padre.

Ma sparsi qua e là, leggermente staccati dal grup­po, c’erano degli esemplari particolari, ben distin­ti: là, uno identico al prefetto, il padre di Joao; accanto a lui… Vierho! e poi via via… gli altri uomini del campo.

Joao infilò il fucile nell’oblò.

«No!» esclamò Rhin. «Aspetti. Guardi i loro oc­chi come sono vitrei. Potrebbero essere i nostri ami­ci… sotto l’effetto di qualche droga o…» si interruppe.

O peggio ancora, pensò Joao.

«È probabile che siano tenuti in ostaggio», fece Chen-Lhu. «L’unico modo per scoprirlo… sarebbe di sparare a uno di loro.» Si alzò e sollevò il co­perchio del cassone. «Ecco una carabina…»

«Non dica sciocchezze!» esclamò Joao. Ritirò il fucile e richiuse l’oblò.

Chen-Lhu contrasse le labbra. Come sono poco realistici questi latini, pensò. Mise al suo posto la carabina e sedette. Si sarebbe potuto scegliere uno di loro come bersaglio e ottenere così valide infor­mazioni, ma forse non era il caso di precipitare le cose. Non ora.

«Non so a voi, ma a me è sempre stato insegnato di non uccidere i propri amici», disse Rhin.

«Naturalmente, Rhin, naturalmente», approvò Chen-Lhu. «Ma sono poi i nostri amici?»

«Fino a quando non ne sarò sicura…»

«Esatto!» disse Chen-Lhu. «E come potremo ac­certarcene?» Indicò in direzione delle figure, ora alle loro spalle, che si potevano scorgere fra gli al­beri e i rampicanti ripresi a fluire lungo la sponda. «Anche quella insegna qualcosa, Rhin… la giungla laggiù. Dovresti imparare anche la sua lezione.»

Doppio senso, doppio senso, pensò Rhin.

«La giungla è una scuola di pragmatismo, di ve­rità assolute. Vuoi chiedere alla giungla che cosa ne pensa del bene e del male? La risposta sarà una sola: ‘Ciò che porta al successo è bene’.»

Mi sta dicendo, in modo subdolo, di esercitare il mio fascino ai danni di Joao Martinho, mentre il poveretto non si è ancora ripreso dal suo stato di shock, d’altronde legittimo, pensò Rhin. Pericoli, violente emozioni e orrore hanno contribuito a crea­re una tale conseguenza.

Scosse il capo, mentre diceva fra sé: Con quale coraggio posso fargli ancora del male?

«Se quelli erano veramente indiani, non capisco perché abbiano macchinato quella messinscena. No, non erano veri indiani, altrimenti, ci avrebbero mi­nacciati dicendo: ‘Ora tocca a voi’. Ma quelle crea­ture… non sappiamo come e cosa pensino.»

Un profondo silenzio calò nella capsula: un isola­mento allucinante reso ancor più opprimente dal caldo e dal flusso ipnotico della vegetazione lungo la sponda.

Chen-Lhu, sdraiato sul cassone, pensava: Lascerò che il caldo e l’inattività facciano il loro effetto, a mio vantaggio.

Joao si fissava le mani. Non si era mai trovato in una situazione in cui sia la paura sia l’ozio lo co­stringessero a una analisi introspettiva. Quell’espe­rienza lo terrorizzava e l’affascinava al tempo stesso.

La paura è il castigo inferto dalla coscienza che si sente costretta a un esame profondo, pensò Joao. De­vo fare qualcosa. Ma che cosa? Dormire, ecco. Ma temeva anche il sonno e i sogni che poteva fare, si­curamente inerenti al dramma che stava vivendo.

Poter avere il cervello vuoto, scevro da qualsiasi incubo! pensò.

Sentiva che in qualche luogo nel suo passato aveva raggiunto un apice di splendore privo di qualsiasi complicazione, un luogo dove non esistevano incer­tezze. Azione… dinamismo… impeto: su tutto questo si era basata la sua vita. Ora, era tutta lì aperta al­l’introspezione, alla riflessione e alla riprova. Ma sen­tiva probabile il verificarsi di una svolta decisiva nel­la sua introspezione, che celava in lui ricordi che po­tevano ingoiarlo.

Rhin appoggiò il capo contro lo schienale e guardò su nel cielo. Presto qualcuno verrà a cercarci, pen­sò. Deve venire… deve… deve.

Si sforzò di concentrare lo sguardo sul cielo, così azzurro… azzurro… azzurro: un’enorme superficie su cui non si poteva scrivere nulla.

I soccorsi potrebbero giungere da un momento al­l’altro, pensò.

Il suo sguardo vagò e andò a posarsi sulle monta­gne che si stagliavano all’orizzonte. Si alzavano e si abbassavano a seconda dei movimenti della corrente che la trasportava attraverso la scia azzurra del fiume.

Ci sono cose alle quali non dobbiamo pensare, altrimenti possiamo essere sopraffatti dall’emozione, pensò. Quelle cose hanno un peso terribile. Sollevò la mano e strinse quella di Joao. Lui non si volse a guardarla, ma la stretta della sua mano fu più si­gnificativa di uno sguardo.

Chen-Lhu notò il movimento e sorrise.

Joao aveva lo sguardo fisso sulla vegetazione lus­sureggiante del litorale. La capsula, trascinata da una corrente tranquilla, si inoltrava fra cortine spioventi di liane. In una insenatura del fiume, torreggiavano scintillanti tre alberi Fernan Sanches: un rosso vio­lento contro il verde del fogliame. Ma lo sguardo di Joao si spostò sull’acqua, in un punto in cui il fiu­me svolgeva la sua azione: la lenta erosione di un groviglio di radici avvinte alla melma della riva.

La sua mano nella mia, pensò. La sua mano nella mia.

La sentiva amica, possessiva, leggermente umida.

La capsula era chiusa in una morsa di caldo sem­pre crescente. Il sole era diventato una palla di fuo­co che si spostava sopra di loro… e lentamente calava dietro le cime delle montagne, a occidente.

Le nostre mani unite… legate, pensò Joao.

Cominciò a pregare per la notte.

Le prime ombre della sera accarezzavano le spon­de del fiume. La notte avanzava dai flutti increspati per raggiungere lentamente le cime fiammeggianti delle montagne.

Chen-Lhu si mosse e si alzò non appena il sole scom­parve dietro i picchi. Vapori color ametista creati dal tramonto formavano una superficie d’acqua di brillante rubino, simile a sangue fluttuante. Ci fu un momento, nel buio della sera, in cui il fiume parve del tutto silente. Quindi la capsula fu avvolta nella notte ovattata.

Questa è l’ora dei timorosi e dei terribili, pensò Chen-Lhu. La notte è il mio tempo… e io non sono un timoroso.

E sorrise al modo in cui le due ombre di fronte a lui si erano unite in un’unica ombra.

Un animale con due schiene, pensò. L’idea lo di­vertì a tal punto che si portò una mano alla bocca per reprimere una risata. Subito dopo parlò: «Ora dormirei, Johnny. Faccia lei il primo turno. Mi sve­gli a mezzanotte».

I piccoli rumori provenienti dalla cabina cessarono momentaneamente, poi ripresero.

Ah, quella Rhin, pensò Chen-Lhu. Un così buono strumento anche quando non vuole esserlo.

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