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A sette anni-luce e mezzo dalla Terra, in direzione della costel­lazione dell’Aquila, la battaglia infuriava. Le flotte della Con­federazione aveva attaccato i ribelli ed erano state respinte.

La nave spaziale più podero­sa che mai la Terra avesse lanciato nello spazio, la “Salamina”, colpita in più punti dal fuoco nemico, non aveva più a bordo un solo essere vivente. L’unità, però, possedeva anco­ra il suo cervello, il calcolatore elettronico che continuava im­perterrito a dirigere il combat­timento.

Gli schermi di protezione avvampavano e si spegnevano bruscamente, pronti a intercet­tare e a deviare i missili o le cariche di energia che, in caso contrario, avrebbero annienta­to la nave. La “Salamina”, a sua volta, rispondeva al fuoco, aprendo, per una frazione infi­nitesimale di secondo, gli schermi protettivi, per lasciare passare i missili e le salve di energia dei pezzi puntati con­tro il nemico.

Alla fine, l’inevitabile accad­de. Circondata da un numero soverchiante di unità nemiche, la “Salamina” non fu più in grado di accumulare energia per i suoi schermi di forza, e questi, a un tratto, s’infiamma­rono. La “Salamina” arse tut­ta, come una piccola stella, illuminando per decine di chi­lometri lo spazio circostante. I più possenti schermi protettivi finora costruiti per un’astrona­ve esplosero, e il muro saturo di energia concentrò tutta la sua potenza sulla “Salamina”.

La minuscola stella divenne sempre più vivida e in quel momento l’energia accumulata esplose, disperdendosi: la “Sa­lamina” aveva cessato di esiste­re.

I ribelli salutarono l’esplo­sione con una grande ovazio­ne. La nave più potente della Confederazione era stata di­strutta. I ribelli ripartirono al­l’attacco. Le linee della Confe­derazione s’infransero e il gros­so della flotta fece dietro-front, ripiegando in direzione della Terra.

I ribelli cominciarono l’inse­guimento. La battaglia era fini­ta e, davanti a loro, c’era la Terra.

A bordo della nave ammira­glia “Guadalcanal”, un incro­ciatore pesante da battaglia, il generale Henri Kantralas pian­geva, non si sa se di tristezza o di gioia.

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