Capitolo VI

A parecchi milioni di chilometri di distanza, l’astronave proveniente dal pianeta di una stella lontana puntava verso l’astronave terrestre il cui equipaggio era il primo, nella storia della Terra, ad entrare in contatto con un’altra razza di uomini provenienti da un mondo diverso.

Non c’era da stupirsi, quindi, se gli astronauti erano incapaci di dominare la febbrile eccitazione che li aveva afferrati. Nessuno pensava più a riposare; ma Moot Ang insistette, e, dopo aver controllato ancora una volta i calcoli per accertare il punto in cui sarebbe avvenuto l’incontro fra le due astronavi, chiese a Svet Sim di somministrare tranquillanti a tutti i componenti dell’equipaggio.

«Dovremo trovarci in forma perfetta, fisicamente e intellettualmente, quando incontreremo i nostri fratelli cosmici,» disse, rispondendo alle proteste degli altri. « Ci aspetta un lavoro ciclopico: dovremo trovare il modo di comunicare con gli sconosciuti, per impadronirci della loro conoscenza e per cedere loro la nostra.» E il suo volto si oscurò. «Mai, prima d’ora, ho temuto, come adesso, di essere impari al mio compito.» L’ansia segnava i lineamenti, solitamente sereni, del capitano. Le nocche dei suoi pugni contratti erano diventate bianche.

Ora, forse «per la prima volta, il resto dell’equipaggio comprese quanto grande fosse la responsabilità che l’imminente incontro comportava. Presero le pillole di Svet Sim senza nemmeno un mormorio di protesta, e si ritirarono nelle rispettive cabine.

Dapprima Moot Ang decise di rimanere in servizio insieme a Kari Ram, poi cambiò idea e fece segno a Tey Eron di accompagnarli nella sala comando.

Moot Ang si lasciò cadere nel sedile; soltanto ora si rendeva conto di essere molto stanco. Distese le gambe e appoggiò il capo contro le mani intrecciate.

Tey Eron e Kari Ram non dissero nulla. Non volevano disturbare i pensieri del capitano.

Adesso l’astronave stava viaggiando molto lentamente, rispetto alle velocità cosmiche: viaggiava alla velocità definita tangenziale, corrispondente a duecentomila chilometri all’ora. Era la velocità con la quale le astronavi entravano nel limite di Roche di qualsiasi corpo celeste. Gli autopiloti mantenevano rigorosamente la nave sulla rotta calcolata: era ormai tempo, per il localizzatore, di captare i segnali dell’altra nave, ma era troppo lontana; non si aveva quindi il minimo segno del suo avvicinarsi. Tey Eron diventava sempre più nervoso man mano che i minuti passavano.

Improvvisamente Moot Ang si irrigidì sul sedile; le sue labbra si schiusero in quello strano sorriso che ogni componente dell’equipaggio conosceva così bene.

«Vieni, amico lontano, varca il cancello aperto…» cantò, sottovoce.

Tey aggrottò la fronte, non appena guardò verso l’oscurità dello schermo di prua. Aveva l’impressione che la leggerezza del capitano fosse un poco fuori posto in quelle circostanze. Ma Kari si unì al canto, lanciando un’occhiata ironica ai viso arcigno del secondo ufficiale.

«Prova a frugare il cielo con il raggio localizzatore, Kari… due punti a babordo e poi a tribordo e poi in alto e in basso,» esclamò ad un certo momento Moot Ang, interrompendo il canto.

Trascorsero due ore. Kari spazzava l’immensità dello spazio con il raggio localizzatore, a centinaia di migliaia di chilometri per volta. Era una specie di segnalazione a vista che ricordava gli sbandieramenti dalle antiche navi terrestri, ma svolta su una scala mai sognata, neppure nelle più fantastiche leggende che fossero mai state inventate sulla Terra.

Tey Eron sedeva, immerso nei suoi pensieri: pensieri lenti e sonnacchiosi, completamente svuotati di ogni emozione.

Dal momento in cui aveva lasciato la Terra, non era riuscito a togliersi di dosso quella strana sensazione di distacco. L’uomo primitivo doveva aver provato la stessa sensazione; la sensazione di non essere legato a nulla, di essere libero da ogni obbligo, da ogni preoccupazione per il futuro. Gli uomini che si erano trovati coinvolti in grandi catastrofi naturali, nelle guerre, negli sconvolgimenti sociali dovevano avere provato l’identica sensazione. Anche per Tey il passato era perduto senza possibilità di ritorno, qualsiasi cosa avesse lasciato dietro di sé sulla Terra: ed era separato dal futuro da un abisso di migliaia di anni, al di là del quale tutto era nuovo ed ignoto. E questo spiegava la mancanza di progetti, di desideri, di sentimenti personali. Tutto ciò che desiderava era portare sulla Terra le conoscenze che la spedizione aveva il compito di strappare alle profondità dell’universo. Questo era stato il significato e lo scopo della sua vita. E, adesso, si trovava di fronte a qualcosa al cui confronto tutto diventava meschino ed insignificante.

I pensieri di Moot Ang, nel frattempo, erano rivolti alla nave che stava per incontrare. Cercava di immaginare l’astronave e il suo equipaggio; e di vederli simili alla sua nave, al suo equipaggio. Era più facile immaginare gli sconosciuti navigatori degli spazi dotati delle caratteristiche più fantastiche che costringere la propria immaginazione entro le rigide leggi di cui Afra Devi aveva parlato con tanta convinzione.

Moot Ang non stava guardando lo schermo, in quel momento, ma l’improvvisa tensione dei suoi compagni gli diede la certezza che la loro attesa non era stata vana.

Il punto luminoso lampeggiò attraverso lo schermo, il segnale sonoro svanì quasi nello stesso istante in cui aveva cominciato a squillare.

Gli astronauti balzarono in piedi, si piegarono verso il pannello dei comandi, come in uno sforzo istintivo per ottenere una visione migliore dello schermo localizzatore: ma, per quanto breve fosse stato quello sprazzo, aveva rivelato loro la realtà. L’altra astronave era ritornata indietro, per incontrarli. Questo significava che era guidata da creature non meno versate di loro stessi nell’arte della navigazione spaziale: avevano calcolato la posizione delle due astronavi con sufficiente approssimazione e adesso stavano cercando la Tellur con il loro localizzatore. L’immaginazione vacillava, al pensiero delle due minuscole particelle perdute nell’immensità dello spazio, che si cercavano l’un l’altra… due granelli di polvere che, nello stesso tempo, erano due mondi enormi, carichi di energia e di conoscenza, che si cercavano per mezzo di raggi luminosi.

Kari regolò il comando principale del raggio, da 1488 a 375, poi lo regolò in senso inverso: il punto luminoso riapparve, svanì, riapparve di nuovo, accompagnato dal segnale sonoro che si spense dopo una frazione di secondo.

Moot Ang afferrò i vernieri del localizzatore e descrisse una gigantesca spirale, dall’orlo al centro di un cerchio gigantesco, nella zona celeste da cui avevano origine i segnali.

L’altra astronave fece, evidentemente, la stessa cosa, perché dopo qualche tentativo, il punto di luce sa inserì stabilmente entro i limiti del terzo cerchio dello schermo nero, vacillando soltanto di quel minimo margine che si poteva attribuire alla vibrazione delle due navi. Il segnale sonoro, adesso, era costante, ed era così intenso che fu necessario farlo cessare. Non c’era dubbio, anche i segnali della Tellur erano stati captati dagli sconosciuti.

E adesso le due astronavi si avvicinavano ad una velocità non inferiore ai quattrocentomila chilometri all’ora.

Tey Eron lesse i risultati forniti dal calcolatore. Le astronavi distavano circa tre milioni di chilometri l’una dall’altra. Alla velocità attuale, si sarebbero incontrate entro sette ore: l’azione frenante integrale avrebbe potuto avere inizio entro un’ora, e questo avrebbe causato un ritardo di qualche altra ora, purché l’altra nave si comportasse nello stesso modo e decelerasse nella stessa misura. Era possibile che l’astronave straniera fosse in grado di fermarsi prima della Tellur, ma d’altra parlo c’era il rischio che i due vascelli spaziali si incrociassero ancora una volta, e questo avrebbe rappresentato un ulteriore ritardo. Gli astronauti speravano che questo non accadesse, perché un’attesa più lunga pareva loro insopportabile.

L’altra astronave non perse tempo: ridusse la velocità ancora più rapidamente della Tellur e poi, dopo aver stabilito il tasso di decelerazione dei terrestri, riprese velocità per adeguarsi. Adesso le due navi si stavano avvicinando.

L’equipaggio della Tellur era radunato di nuovo nella sala comando: tutti gli sguardi erano attratti dal punto luminoso sullo schermo localizzatore, che ormai si ingrandiva fino a diventare una macchia di luce. Era il raggio emesso dalla Tellur che veniva riflesso dall’altra nave. Gradualmente, la macchia prese la forma di un cilindro, cerchiato, al centro, da un anello più spesso; non somigliava affatto alla Tellur. Quando fu più vicina, fu possibile scorgere, alle due estremità, due rigonfiamenti a forma di cupola.

I contorni splendenti della nave ingrandirono, fino ad occupare l’intero diametro dello schermo.

«Attenzione! Tutti al proprio posto! Decelerazione finale a otto gravità!»

Gli occhi degli astronauti si iniettarono di sangue, il sudore scorse sui loro volti, mentre il peso immane li schiacciava contro gli assorbitori idraulici antiurto dei sedili imbottiti.

Finalmente, la Tellur rimase immobile, nella gelida oscurità dello spazio, in cui non v’era nulla, né a destra né a sinistra, né in alto né in basso, a centodue parsec di distanza dall’astro-madre, il giallo Sole.

Non appena si furono ripresi dagli effetti della decelerazione, gli astronauti accesero gli schermi diretti e il potente riflettore dell’astronave: ma videro soltanto unta nebbia splendente, a prua verso sinistra. Il riflettore si spense, ed una luce azzurra, fortissima, accecò completamente gli uomini che fissavano gli schermi.

«Polarizzatore a trentacinque gradi! I filtri!» ordinò Moot Ang.

«A una lunghezza d’onda di 620?» chiese Tey Eron.

«Esatto!»

Il fulgore azzurro scomparve; al suo posto, un flusso possente di luce arancione tagliò l’oscurità, ondeggiò, colse qualcosa di solido e finalmente si diffuse sulla superficie dell’astronave straniera.

Adesso distava soltanto pochi chilometri, e questo tornava a lode dei piloti di entrambi i vascelli spaziali: ma la distanza, tuttavia, era ancora troppo grande per poter determinare la forma esatta dell’astronave sconosciuta.

Improvvisamente, uno spesso raggio arancione saettò dalla nave: la sua lunghezza d’onda era identica a quella della luce della Tellur. Poi il fascio luminoso scomparve, per riapparire subito dopo; questa volta rimase verticale.

Moot Ang si passò la mano sulla fronte, come faceva sempre, nei momenti di maggiore concentrazione.

«Credo di capire. Mi sembra che ci stiano chiedendo di restare dove ci troviamo mentre loro ci raggiungono. Cerchiamo di rispondere.»

La Tellur spense il riflettore, poi lo riaccese, su una lunghezza d’onda di 430. Il raggio azzurro saettò verso poppa. La luce arancione dell’altra nave si spense di colpo.

Gli astronauti attesero, tesi, senza respiro. L’astronave davanti a loro, adesso, era chiaramente visibile. Aveva la forma d’un cilindro, che terminava con due coni. La base di uno dei coni, evidentemente la prua, recava una specie di cupola, mentre a poppa c’era una vasta apertura a forma di imbuto. A metà della nave c’era una spessa banda dal profilo incerto, che emanava una debole luminosità, attraverso la quale si potevano scorgere i contorni della parte cilindrica dello scafo. Improvvisamente, la banda diventò più densa ed opaca e cominciò a girare velocemente come la ruota di una turbina. L’astronave si ingrandì, e, dopo tre o quattro secondi aveva riempito gli schermi. Era evidente che le sue dimensioni erano superiori a quelle della Tellur.

«Afra, Yas e Kari, venite con me nella piattaforma di osservazione,» disse Moot Ang. «Tey, tu resta ai comandi. Accendi il proiettore planetario e le luci di atterraggio.»

Nella camera stagna, i quattro indossarono in fretta le tute spaziali che venivano usate per esplorare i pianeti e per uscire dalla nave, nello spazio aperto, dovunque non vi fosse il pericolo delle radiazioni stellari.

Moot Ang controllò i meccanismi delle tute dei suoi tre compagni, controllò i propri, poi attivò la pompa pneumatica. In un attimo la camera stagna fu vuotata dell’aria. Quando l’indicatore della pressione divenne verde Moot Ang azionò tre leve, una dopo l’altra.

In risposta, parecchi strati di pannelli scivolarono da parte, senza rumore, un varco rotondo si aprì nel soffitto, e l’elevatore idraulico entrò in azione.

Lentamente, il pavimento della camera stagna si sollevò fino a che i quattro astronauti si trovarono parecchi metri al di sopra della prua della Tellur, sulla piattaforma di osservazione.

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