CAPITOLO PRIMO

La moglie lo aveva stretto fra le braccia, come per tenere la morte lontana da lui.

Egli aveva esclamato: — Mio Dio, muoio!

Si era aperta la porta ed egli aveva visto, fuori, un dromedario nero gigantesco, aveva udito tintinnare i sonagli dei finimenti sfiorati dal vento caldo del deserto. Poi una enorme faccia nera sotto un gran turbante nero era apparsa nel riquadro. L’eunuco nero era entrato nella stanza come una nuvola, con una scimitarra smisurata in pugno. Il distruttore dei Piaceri, il Dissociatore. La morte era giunta.

Buio. Nulla. Il suo cuore aveva ceduto per sempre, ma egli non se ne accorse. Nulla.

Poi aprì gli occhi. Gli batteva forte il cuore. Era forte, fortissimo! I dolori della gotta ai piedi, l’atroce mal di fegato, le fitte al cuore: spariti, completamente.

C’era un tale silenzio che egli si udiva circolare il sangue in testa. Era solo in un mondo senza suono.

Nella forte luce diffusa, vedeva. Ma non capiva quel che vedeva. Quelle cose, sopra, accanto e sotto di lui, che cos’erano? Dove si trovava?

Cercò di tirarsi su a sedere e provò un confuso senso di panico. Non c’era niente, per tirarsi su a sedere: galleggiava nel nulla. Il movimento abbozzato lo spinse avanti a tuffo, ma molto lentamente come se si trovasse a bagno nella melassa fluida. A trenta centimetri dalla punta delle sue dita, una barra di metallo brillava, come arroventata, scendendo all’infinito dall’alto e continuando, sotto, all’infinito. Cercò di aggrapparsi ad essa perché era l’oggetto solido più vicino, ma qualcosa di invisibile si oppose, come se un fascio di linee di forza, premendo contro di lui, lo respingesse.

Fece una lenta capriola e la resistenza lo fermò con le dita ad una quindicina di centimetri dalla barra. Protendendosi, riuscì ad avanzare di qualche millimetro. Al tempo stesso, il suo corpo prese a ruotare sul proprio asse longitudinale. Egli aspirò l’aria con un lungo rumore raschiante. Pur sapendo che non c’erano appigli, sbatté affannosamente le braccia per cercare di agguantare qualcosa.

Adesso era a faccia «in giù». O «in su»? Comunque, in direzione opposta a quella in cui guardava al risveglio. Ma non faceva differenza; la vista, «sopra» e «sotto» di lui era identica. Egli era sospeso nello spazio, in un invisibile bozzolo che gli impediva di precipitare. Un paio di metri «sotto» il corpo di una donna, dalla pelle esangue. Era nuda e completamente glabra. Sembrava addormentata. Aveva gli occhi chiusi, il petto che si alzava e abbassava dolcemente. Le gambe unite e tese, le braccia lungo i fianchi. Ruotava lenta come un pollo sul girarrosto.

E anche lui, per la stessa forza, girava. Altri corpi nudi e glabri si susseguivano via via nel suo campo visivo, uomini, donne, bambini, tutti in file silenziose che giravano su se stesse. Sopra di lui girava il corpo nudo e senza peli di un negro.

Egli abbassò il capo per vedere il proprio corpo. Anche lui era nudo e senza peli.

Aveva la pelle liscia, i muscoli del ventre ben disegnati e salienti, le cosce piene di muscoli robusti e giovanili. Le vene, che una volta risaltavano come cunicoli bluastri di talpa, erano scomparse. Egli non aveva più il corpo del sessantanovennc malato e pieno di acciacchi che agonizzava un istante prima. Erano scomparse anche le innumerevoli cicatrici.

A questo punto si accorse che non c’erano corpi di persone anziane tra quelli che lo circondavano. Tutti sembravano sui venticinque anni, benché fosse difficile stabilire l’età esatta dal momento che la mancanza di capelli, e di peli sul pube, li faceva apparire al tempo stesso più vecchi e più giovani.

Si era sempre vantato di non aver mai conosciuto la paura. Ora invece la paura gli strozzò un urlo in gola, lo invase, spremette nuova vita da lui.

In un primo momento era rimasto attonito di essere ancora vivo. Inoltre la sua posizione nello spazio e la disposizione del nuovo ambiente gli avevano congelato i sensi. Vedeva e percepiva come attraverso una spessa finestra semiopaca. Dopo alcuni secondi qualcosa scattò dentro di lui. Poté quasi udirne il rumore, come se un schermo fosse stato sollevato d’improvviso.

Il mondo assunse una forma che egli poteva cogliere, se pur non ancora comprendere. Sopra di lui, ai lati, al di sotto fin dove giungeva il suo sguardo, galleggiavano dei corpi. Erano allineati, orizzontalmente e verticalmente. Nel senso verticale, le file erano separate mediante barre rosse, sottili come manici di scopa, una a trenta centimetri dai piedi dei dormienti, l’altra a trenta centimetri dalla loro testa. Tra corpo e corpo, sopra, sotto, e ai lati, c’era un distacco di circa due metri.

Le barre salivano da un abisso senza fondo e s’innalzavano verso un altro abisso senza fine. Quel grigiore nel quale sparivano le barre e i corpi, sopra e sotto, a destra e a sinistra, non era né cielo né terra. Non c’era nulla al limitare, tranne l’opacità dell’infinito.

Egli si trovava di fianco a un uomo bruno, di tipo toscano. Sull’altro lato c’era un’indiana, e oltre questa un pezzo d’uomo d’aspetto nordico. Solo dopo aver girato per tre volte su se stesso riuscì a capire che cosa c’era di strano in quest’ultimo. Il braccio destro, a partire da un punto proprio al di sotto del gomito, era rosso. Come se mancasse lo strato esterno di pelle.

Dopo alcuni secondi, parecchie file più in là, vide un corpo di maschio adulto privo della pelle e di tutti i muscoli del volto.

C’erano altri corpi non del tutto completi. Vide in lontananza, appena di sfuggita, uno scheletro con un guazzabuglio di organi all’interno.

Egli continuava a girare e ad osservare, mentre il cuore gli picchiava nel torace, dal terrore. Ormai sapeva di trovarsi in un locale smisurato, e che le barre metalliche irradiavano una forza che sosteneva e girava milioni, forse miliardi di esseri umani.

Ma dove?

Di certo non nell’Impero Austro-Ungarico, non a Trieste, non nel 1890.

Quel luogo non era simile ad alcun inferno o paradiso di cui egli avesse udito o letto, anche se riteneva di conoscere ogni teoria riguardante l’aldilà.

Egli era morto, ed ora si trovava di nuovo vivo. Aveva sempre schernito l’idea di una vita dopo la morte. Per una volta, doveva riconoscere di essersi sbagliato. Ma nessuno gli avrebbe rinfacciato: — Te l’avevo detto, brutto miscredente!

Perché lui solo, fra milioni e milioni, era sveglio.

Nel girare, alla velocità stimata di una rotazione completa ogni dieci secondi, vide qualcos’altro che lo fece rimanere a bocca aperta per lo stupore. Cinque file più in là c’era un corpo che, a a prima vista, sembrava umano. Ma nessun esemplare di Homo sapiens aveva tre dita e un pollice per ciascuna mano e quattro dita per ciascun piede. E neppure naso e sottili e coriacee labbra nere da cane. Né uno scroto con numerose pallottoline. Né orecchie con quelle strane spire.

Il terrore scomparve. Il cuore smise di battergli in fretta, pur non tornando ancora ad un ritmo normale. Il cervello si scongelò. Egli doveva uscire da quella situazione, in cui era impotente come una porchetta sul girarrosto. Doveva trovare qualcuno che gli spiegasse che cosa stava facendo lì, come vi era giunto, perché vi si trovava.

Decidersi e passare all’azione fu tutt’uno.

Sollevò le gambe, scalciò, e scoprì che quell’azione, o meglio la reazione, lo spingeva in avanti di un centimetro. Di nuovo scalciò e si spostò vincendo la resistenza. Ma quando si fermava veniva lentamente riportato indietro al punto di partenza. E gambe e braccia erano spinte con garbo nella loro rigida positura iniziale.

Scalciando come un matto, e muovendo le braccia come un nuotatore, si sforzò di raggiungere la barra. Ma più le si avvicinava, più resistenti divenivano le linee di forza. Non smise di tentare. Se l’avesse fatto si sarebbe trovato di nuovo al punto di partenza, e senza neanche più la forza di rimettersi a lottare. Non era da lui arrendersi prima che tutte le sue energie fossero esaurite.

Respirava affannosamente, il suo corpo era ricoperto di sudore, braccia e gambe si muovevano come in una densa gelatina, e i suoi progressi erano impercettibili. Alla fine riuscì a sfiorare la barra con i polpastrelli della mano sinistra. Sembrava calda e dura al tatto.

Di colpo seppe da che parte stava il «basso». Cadde.

Il contatto con la barra aveva spezzato l’incanto. La ragnatela di aria intorno a lui si lacerò senza rumore, ed egli precipitò.

Era abbastanza vicino alla barra da afferrarla con una mano. L’improvviso arresto della sua caduta gli fece battere l’anca contro di essa con un colpo doloroso. Scivolando giù lungo la barra si ustionò la pelle della mano: allora l’afferrò con l’altra mano e si fermò.

Davanti a lui, dall’altra parte della barra, i corpi avevano preso a cadere. Scendevano alla velocità di caduta di un corpo sulla Terra, e ciascuno conservava la propria posizione allungata e la distanza primitiva dal corpo soprastante e da quello sottostante. E continuavano anche a girare.

Fu a questo punto che le folate d’aria sulla sua schiena nuda e sudata lo indussero a girarsi lungo la barra. Dietro di lui, anche i dormienti della colonna nella quale si era trovato fino a un momento prima stavano cadendo. Continuando a ruotare lentamente, precipitavano passando accanto a lui uno dopo l’altro, quasi fossero stati buttati giù con regolarità da una botola. Le loro teste lo evitavano di pochi centimetri. Era una fortuna che quei corpi non l’avessero strappato dalla barra facendolo cadere nell’abisso insieme a loro.

I corpi continuavano a cadere in un’imponente processione. Precipitavano uno dopo l’altro a entrambi i lati della barra, mentre i milioni e miliardi di corpi delle altre colonne rimanevano indisturbati ai loro posti.

Per un attimo stette a guardare ad occhi sbarrati. Poi prese a contare i corpi: i numeri gli erano sempre piaciuti. Ma quando arrivò a 3001 si fermò. Dopo di che fissò con sgomento quella cascata di carne. Fino a che altezza, fino a quale incommensurabile altezza erano ammucchiati i corpi? E in quale abisso infinito potevano mai cadere? Egli stesso li aveva fatti precipitare inavvertitamente quando col suo contatto aveva interrotto le linee di forza emesse dalla barra.

Non poteva arrampicarsi su per la barra, ma poteva lasciarsi scivolare giù lungo di essa. Cominciò a scendere; poi diede un’occhiata in su, e dimenticò i corpi che gli precipitavano accanto. Da qualche parte, in alto sopra di lui, un ronzio stava sovrastando il fruscio dei corpi che cadevano.

Uno stretto scafo, di forma simile a quella di una canoa e costruito con un materiale di un verde brillante, stava calando tra la colonna dei corpi che cadevano e quelle circostanti dei corpi sospesi. Egli rifletté che quella «canoa aerea» non aveva visibili mezzi di sostentamento. Era così atterrito che non si accorse della comicità di questa espressione. Nessun mezzo di sostentamento. Come un vascello magico uscito dalle Mille e una notte.

Un volto apparve oltre il bordo, lo scafo si fermò, il ronzio si spense. Un altro volto si affiancò al primo. Entrambi erano incorniciati da lunghi capelli, neri e lisci. D’un tratto i volti scomparvero, il ronzio tornò a prodursi, e la canoa ricominciò a scendere verso di lui. Quando giunse a due metri circa di distanza si fermò. Sulla prora verde c’era un piccolo simbolo: una spirale destrorsa, bianca. Uno degli occupanti della canoa parlò in una lingua con molte vocali e frequenti interruzioni gutturali, che richiamava il polinesiano.

D’improvviso il bozzolo invisibile tornò a farsi sentire. Anche i corpi in caduta cominciarono a perdere velocità, e poi si fermarono. L’uomo appeso alla barra sentì che la forza di sostentamento gli si chiudeva intorno e lo spingeva verso l’alto. Malgrado fosse disperatamente avvinghiato alla barra, le sue gambe furono staccate e sollevate, e il suo corpo le seguì. In pochi istanti egli si trovò a faccia in giù. Le sue mani vennero strappate dalla barra, e a lui parve di aver perso l’ultimo contatto con la vita, con la sanità mentale, col mondo. Venne attirato verso l’alto, e cominciò a girare su se stesso. Passò accanto allo scafo e continuò a salire. I due uomini nella canoa erano nudi e ben fatti, e la loro pelle era scura come quella degli arabi yemeniti. I lineamenti erano nordici, e somigliavano a quelli di alcuni islandesi che egli aveva conosciuto.

Uno dei due uomini sollevò una mano, che impugnava un oggetto metallico dalle dimensioni di una matita. L’uomo puntò l’oggetto, come se avesse voluto sparare qualcosa con quello.

L’uomo sospeso a mezz’aria gridò per la rabbia e l’odio e l’impotenza, e sbatté le braccia per nuotare in direzione dello scafo.

— Voglio uccidere! — urlò. — Uccidere! Uccidere!

L’oblio giunse di nuovo.

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