L’ala rosea dell’alba gli sfiorava gli occhi.
Si alzò in piedi, sapendo che le sue ferite erano scomparse e che era di nuovo tutto intero, e tuttavia dubitandone un po’. Accanto a lui c’erano un graal e una fila di sei salviette accuratamente piegate, di diverso formato, colore e spessore, piegate strettamente e ammucchiate una sull’altra.
A quattro metri circa di distanza un altro uomo, anch’egli nudo, si stava alzando dalla bassa erba d’un verde brillante. Burton si sentì accapponare la pelle. I capelli biondicci, il volto largo, gli occhi d’un azzurro pallido, erano quelli di Hermann Goering.
Il tedesco sembrò altrettanto stupefatto. — Qui c’è qualcosa che proprio non va — disse lentamente, come se si fosse appena destato da un sonno profondo.
— Sì, qualcosa di poco chiaro — rispose Burton. Intorno al meccanismo della resurrezione non sapeva gran che. Non ne aveva mai vista una, però conosceva la descrizione data da quelli che vi avevano assistito. All’alba, appena il sole sbucava da dietro la cima delle invalicabili montagne, un luccichio appariva nell’aria, accanto a una pietra-fungo. In un batter di ciglio l’immagine evanescente diveniva materia e sull’erba accanto all’argine spuntava dal nulla il corpo nudo di un uomo, o di una donna, o di un bambino. Accanto al «lazzaro» risorto c’erano sempre l’indispensabile graal e le salviette.
Si poteva ragionevolmente supporre che la valle del Fiume fosse lunga dai quindici ai trenta milioni di chilometri, che vi abitassero dai trentacinque ai trentasei miliardi di persone, e che ogni giorno ne morisse un milione. Vero che non c’erano malattie, tranne quelle mentali, ma detto milione rappresentava il numero probabile (benché non ci fossero statistiche) di persone morte ogni ventiquattr’ore nelle miriadi di guerre che scoppiavano tra l’uno e l’altro del milione e più di staterelli, oppure uccise in delitti passionali, o suicidate, o giustiziate, o perite in incidenti. C’era insomma un intenso e continuo andirivieni attraverso la cosiddetta «piccola resurrezione».
Ma Burton non aveva mai sentito che due morissero nello stesso momento e nello stesso luogo e risorgessero insieme. Il meccanismo di scelta della zona in cui il morto sarebbe risorto di nuovo era casuale, o almeno così egli aveva sempre ritenuto.
Naturalmente un caso simile poteva pure capitare, quantunque ci fosse una probabilità su venti milioni. Ma se la cosa si ripeteva due volte, una di seguito all’altra, allora si trattava di un miracolo.
Burton non credeva nei miracoli. Nulla accade che non si possa spiegare in base alle leggi della fisica, purché si conoscano tutti i dati.
Egli non li conosceva, per cui per il momento non si preoccupava per la «coincidenza». Era più urgente la soluzione di un altro problema: che fare, con Goering?
Il tedesco conosceva la sua identità e poteva indicarlo a un Etico che fosse stato alla sua ricerca.
Burton guardò rapido intorno, e vide un gruppetto di uomini e donne che si avvicinavano con aria amichevole. C’era tempo per dire soltanto due parole al tedesco.
— Goering, posso uccidere te o me. Nessuna delle due cose mi va, almeno per ora. Per me sei un pericolo, e il perché lo sai. Non dovrei correre rischi con te, iena infida. Però c’è qualcos’altro in te, qualcosa che mi sfugge. E…
Goering, noto per le sue capacità di recupero, parve essersi ripreso. Sorrise con aria astuta e disse: — Ti ho in pugno, eh?
Nel vedere il ringhio di Burton, si affrettò ad alzare una mano aggiungendo: — Ma ti giuro che non rivelerò a nessuno la tua identità. E non farò nulla che ti possa nuocere. Forse non siamo amici; ma almeno ci conosciamo, e ora siamo in terra straniera. È bello avere accanto una faccia nota. Lo so, ho sofferto troppo di malinconia e di solitudine spirituale: pensavo che sarei diventato matto. Questa è una delle ragioni per cui mi sono dato alla narcogomma. Ma credimi, non ti tradirò.
Burton non gli credette. Ritenne comunque di potersi fidare di lui per un po’. Goering aveva bisogno di un potenziale alleato, almeno finché avesse tastato il polso alla popolazione di quella zona e visto cosa poteva o non poteva fare. Inoltre era possibile che fosse cambiato in meglio.
No, disse Burton tra sé. No. Ci caschi di nuovo. Per quanto tu sia cinico a parole, sei poi sempre pronto a perdonare, a passar sopra alle offese che ti vengono fatte, a concedere al tuo nemico una seconda possibilità. Non comportarti un’altra volta da sciocco, Burton.
Tre giorni dopo, Burton era ancora indeciso riguardo a Goering.
Burton aveva assunto l’identità di Abdul ibn Harun, un abitante del Cairo del diciannovesimo secolo. Le ragioni di questa scelta erano numerose. Burton parlava un ottimo arabo, conosceva il dialetto del Cairo di quell’epoca, e aveva il pretesto per coprirsi il capo con una salvietta avvolta a mo’ di turbante. Sperava che questo contribuisse a fargli cambiare aspetto. Goering non svelò il travestimento: Burton ne era abbastanza sicuro, dal momento che il tedesco stava con lui per la maggior parte del tempo. Erano stati alloggiati nella stessa capanna, finché non si fossero abituati ai costumi locali e avessero superato il periodo di prova. Questo comprendeva, tra l’altro, un intensivo addestramento militare.
Burton era stato uno dei più grandi spadaccini del diciannovesimo secolo, e conosceva pure ogni tipo di lotta con le armi o con le mani. Dopo una dimostrazione delle sue capacità in una serie di prove, era stato ammesso come recluta. In più gli avevano promesso che, una volta imparata a sufficienza la lingua, l’avrebbero nominato istruttore.
Goering ottenne con altrettanta rapidità la stima degli indigeni. Malgrado i suoi difetti non gli mancava il coraggio. Sapeva maneggiare le armi con abilità ed energia, era allegro, si rendeva simpatico quando questo serviva ai suoi scopi, e si andava impadronendo della lingua con la stessa facilità di Burton. In breve tempo ottenne, e cominciò a usare, l’autorità, come si addiceva all’ex-Reichmarschal della Germania di Hitler.
Quel settore della sponda occidentale era abitato da gente che parlava una lingua sconosciuta perfino a Burton, superpoliglotta sia sulla Terra che sul pianeta del Fiume. Quando Burton l’ebbe imparata abbastanza da poter fare domande, arguì che si trattasse di una popolazione vissuta nell’Europa centrale all’inizio dell’Età del Bronzo. Aveva curiose abitudini, una delle quali era il coito in pubblico. Questo era assai interessante per Burton, che era stato, nel 1863, uno dei fondatori della Reale Società di Antropologia di Londra, e durante le sue esplorazioni sulla Terra aveva visto tante cose strane. Egli non partecipava a tale rito, ma neppure ne era scandalizzato.
Un’usanza che Burton adottò invece con entusiasmo, era quella dei baffi dipinti. I maschi erano seccati per il fatto che i Resurrettori avessero loro tolto per sempre il pelo dal volto, così come per essersi trovati circoncisi. Per il secondo «oltraggio» non potevano far nulla, ma potevano rimediare in parte al primo. Si spalmavano sul labbro superiore e sul mento un liquido scuro composto di carbone macinato finemente, colla di pesce, tannino di quercia, e parecchi altri ingredienti. I più raffinati si tatuavano con tale colorante, sottoponendosi a una dolorosa e interminabile serie di punzecchiature mediante un’acuminata scheggia di bambù.
Ora Burton era doppiamente camuffato, e tuttavia era nelle mani di uno che lo poteva tradire alla prima occasione. Egli desiderava attirare un Etico, ma non voleva che l’Etico fosse certo della sua identità.
In sostanza gli bastava essere sicuro di poter fuggire in tempo prima di cadere nella rete. Era un gioco pericoloso, come camminare su una fune tesa sopra un recinto di lupi affamati, ma gli piaceva giocarlo. Sarebbe scappato solo in caso di assoluta necessità; per il resto del tempo avrebbe fatto la parte dell’inseguito che insegue l’inseguitore.
Tuttavia l’immagine della Torre Scura, o Grande Graal, era sempre presente nei suoi pensieri. Perché giocare al gatto e al topo quando invece poteva addirittura dar l’assalto ai bastioni del castello in cui riteneva che gli Etici avessero il quartier generale? Ovvero (se «dar l’assalto» non era l’espressione esatta) introdursi di nascosto nella Torre, scavarsi un passaggio come fa un topo in una casa… o in un castello. Mentre i gatti guardavano da un’altra parte, il topo si sarebbe intrufolato nella Torre, e qui avrebbe potuto mutarsi in una tigre.
A questa immagine Burton scoppiò a ridere, provocando occhiate di curiosità da parte dei due uomini che dividevano con lui la capanna: Goering e un inglese del diciassettesimo secolo, di nome John Collop. La sua risata era di scherno verso di sé, all’idea della tigre. Cosa l’autorizzava a credere che egli, semplice uomo e da solo, potesse colpire in qualche modo i Creatori di quel pianeta, i Resurrettori di miliardi di morti, che provvedevano al cibo e alle necessità di chi era chiamato di nuovo in vita? Intrecciò le mani, sapendo che in esse e nel cervello che le guidava era racchiuso il potere di sconfiggere gli Etici. Ma ignorava quale fosse la spaventevole cosa che albergava in lui. Però Essi lo temevano. Se solo avesse potuto scoprire perché…
Ma solo per metà la sua risata era stata di scherno. Con l’altra metà di sé riteneva di essere una tigre in mezzo agli uomini. L’uomo è ciò che è la sua mente, mormorò.
Goering disse: — Amico mio, la tua risata è davvero singolare. Un po’ troppo femminea per un uomo così virile. Sembra… sembra una pietra che rimbalzi su un lago gelato. O il verso di uno sciacallo.
— Io ho qualcosa dello sciacallo — replicò Burton. — E anche della iena. Così affermavano i miei denigratori, e avevano ragione. Ma io sono ancora più di questo.
Si alzò dal letto e fece gli esercizi per scacciare dai muscoli il torpore del sonno. Entro pochi minuti si sarebbe recato con gli altri alla pietra-fungo accanto all’argine del Fiume, per caricare il graal. Poi ci sarebbe stata l’ora dedicata alle pulizie. Indi l’addestramento seguito da esercizi con la lancia, la clava, la frombola, la spada dalla lama di ossidiana, l’arco, l’ascia di selce; infine la lotta a mani e piedi nudi. Un’ora per riposare, chiacchierare, mangiare. Un’ora di lingua. Due ore di lavoro obbligatorio alla costruzione dei bastioni che segnavano i confini dello staterello. Mezz’ora di riposo, poi una corsa di un chilometro e mezzo, anche questa obbligatoria, per acquistare resistenza. Cena col solito sistema dei graal, quindi serata libera, tranne per chi aveva il turno di guardia o altre incombenze.
Simili programmi e attività erano svolti negli altri minuscoli stati a monte e a valle del Fiume. Quasi dovunque l’umanità era in guerra, o si apprestava ad entrarvi. Gli abitanti dovevano tenersi in forma ed essere in grado di combattere al massimo delle proprie capacità. Inoltre l’addestramento li teneva occupati. Per quanto monotona fosse la vita marziale, era sempre meglio che non sedersi in cerchio e chiedersi cosa fare per divertirsi. La mancanza di preoccupazioni per il cibo, l’affitto, le rate, e tutte le piccole e grandi seccature che avevano assillato i terrestri facendo saltar loro i nervi, non era un grande dono. Era in corso una lotta sistematica contro la noia, e i capi di ciascuno stato erano indaffarati a escogitare sistemi per tenere occupati i loro sudditi.
Nella valle del Fiume avrebbe dovuto esserci il paradiso: invece c’era guerra, guerra, guerra. Secondo alcuni, comunque, a parte altre considerazioni, in quel mondo la guerra era un’ottima cosa. Dava un significato alla vita ed eliminava il tedio. La bramosia e l’aggressività umane avevano il loro lato positivo.
Dopo cena, uomini e donne erano liberi di fare ciò che volevano, nei limiti consentiti dalle leggi locali. Si potevano barattare sigarette e liquori trovati nel proprio graal (oppure il pesce catturato nel Fiume) contro un arco migliore, o contro scudi, o ciotole e tazze, tavoli e sedie, flauti di bambù, trombe di argilla, tamburi di pelle d’uomo o di pesce, pietre rare (che erano rare davvero), collane fatte con le ossa meravigliosamente articolate e colorate dei pesci di profondità, oppure di giada o di legno intagliato; e specchi di ossidiana, sandali e scarpe, disegni a carboncino, carta di bambù (rara e costosa), inchiostro e penne ricavate dalle lische dei pesci, cappelli ottenuti intrecciando i lunghi e resistenti steli dell’erba delle colline, arpe di legno con corde di budella di «pescedrago», anelli di legno di quercia per dita di mani e piedi, figurine di terracotta, carretti con cui scendere lungo il pendio delle colline; e altri oggetti, utili o decorativi.
Più tardi, naturalmente veniva l’ora di far l’amore. Per il momento Burton e i suoi compagni di capanna ne erano esclusi. Solo quando fossero stati dichiarati cittadini a tutti gli effetti avrebbero potuto traslocare in abitazioni private e vivere con una donna.
John Collop era un giovane piccolo e snello, con lunghi capelli biondastri, un volto aguzzo ma gradevole, e grandi occhi azzurri con lunghissime ciglia nere piegate all’insù. La prima volta che aveva avuto l’occasione di parlare con Burton, dopo essersi presentato aveva detto: — Dalle tenebre del un grembo di mia madre (e di chi se no?) passai alla luce del Dio della Terra, nel 1625. Dopo un periodo incredibilmente breve tornai di nuovo in grembo, quello di Madre Natura. Avevo fede nella resurrezione, e come vedi non sono stato deluso. Debbo confessare però che questo aldilà non è quello in cui mi avevano fatto credere i sacerdoti. Ma come avrebbero potuto conoscere la verità quei poveri ciechi che guidavano altri ciechi?
Non passò molto tempo che Collop rivelò a Burton di essere membro della Chiesa della Seconda Possibilità.
Burton inarcò le sopracciglia. Aveva già incontrato quella nuova religione in molte zone lungo il Fiume. Benché fosse ateo si faceva un dovere di studiare a fondo ogni religione. Chi conosce il credo di un uomo conosce quell’uomo già per metà. Se poi conosce anche sua moglie, ne conoscerà l’altra metà.
Questa Chiesa aveva pochi semplici dogmi, alcuni basati su fatti reali, ma la maggior parte su supposizioni e speranze e desideri. In questo non differiva da nessuna religione nata sulla Terra. Ma i suoi seguaci avevano un vantaggio rispetto agli altri credenti: erano in grado di dimostrare senza difficoltà che i morti potevano risorgere, e non una sola volta ma parecchie.
— E perché gli uomini hanno avuto una Seconda Possibilità? — disse Collop con la sua voce bassa e calda. — Forse che la meritavano? No. Salvo poche eccezioni gli uomini sono una massa di esseri meschini, miserabili, gretti, viziosi, di mente angusta, esageratamente egoisti, sempre litigiosi, e insomma rivoltanti. Guardandoli, gli dèi, o Dio, dovrebbero vomitare. Ma in questo vomito divino c’è uno sputo di pietà, se mi consenti l’espressione. L’uomo, per quanto ignobile, ha in sé una scintilla divina. Che l’uomo sia stato creato a immagine di Dio non è una frase fatta. Nel peggiore di noi c’è qualcosa che merita di essere salvato, e da questo qualcosa si può formare un uomo nuovo.
«Chiunque ci abbia dato questa nuova occasione di salvarci l’anima conosce tale verità. Siamo stati portati in questa valle, su questo pianeta straniero sotto cieli stranieri, perché operiamo la nostra salvezza. Quanto tempo ci sia concesso, né io né i capi della Chiesa cui appartengo arrivano a ipotizzare. Forse un’eternità, forse soltanto cent’anni o mille. Ma dobbiamo far buon uso del tempo che ci è dato, amico mio, qualunque sia la sua durata.
Burton replicò: — Non sei stato sacrificato sull’altare di Odino da norvegesi rimasti fedeli alla vecchia religione, anche se questo mondo non è il Valhalla promesso dai loro preti? Non pensi di aver perso tempo e fiato tenendo loro delle prediche? Essi credono negli stessi dèi di prima, con la sola differenza che hanno apportato qualche modifica alla loro teologia per adattarla alle attuali condizioni. Anche tu sei rimasto fedele alla tua precedente religione.
— I norvegesi — ribatté Collop — non sanno dare alcuna spiegazione a questa nuova vita, ma io sì. Io ho una spiegazione ragionevole, che essi finiranno con l’accettare, e alla quale crederanno con lo stesso fervore dal quale sono animato io. Hanno ucciso me, ma un altro membro della mia Chiesa, più convincente, andrà presso di loro e riuscirà a parlare prima che lo sbattano sul grembo del loro idolo di legno e gli trafiggano il cuore. E se non lui, ci riuscirà il successivo missionario.
«Sulla Terra era vero che il sangue dei martiri è il seme della Chiesa. Qui è ancora più vero. Se uccidi un uomo per chiudergli la bocca, quello spunterà in un altro punto lungo il Fiume. E sarà rimpiazzato da un altro, martirizzato a centomila chilometri di distanza. La Chiesa della Seconda Possibilità finirà col prevalere. Allora gli uomini porranno termine a queste guerre inutili e generatrici di odio e intraprenderanno la vera occupazione, l’unica degna: quella di meritarsi la salvezza.
— Quello che dici intorno ai martiri — osservò Burton — vale per chiunque abbia dei propositi. Anche un malvagio quando viene ucciso rispunta da un’altra parte e continua a compiere i suoi misfatti.
— I buoni finiranno col prevalere, e la verità col risplendere incontrastata — dichiarò Collop.
— Non so se sulla Terra hai fatto lunghi viaggi, né quanto sia stata lunga la tua vita — disse Burton. — Ma l’una e gli altri devono essere stati assai limitati, a giudicare dalla tua cecità. Io so come stanno le cose in realtà.
— La mia Chiesa non si basa soltanto sulla fede — replicò Collop. — I suoi insegnamenti poggiano su qualcosa di assai concreto e reale. Dimmi, Abdul, amico mio: hai mai sentito parlare di qualcuno che sia risorto morto?
— Ma è assurdo! — esclamò Burton. — Cosa intendi con «risorto morto»?
— Ci sono almeno tre casi riconosciuti, e quattro altri di cui la Chiesa ha avuto notizia senza però poterli convalidare. Si tratta di uomini e donne uccisi in un punto lungo il Fiume e trasportati in un altro. Lo strano è che i loro corpi, pur creati di nuovo, mancavano della scintilla della vita. Perché mai?
— Non posso immaginarlo — rispose Burton. — Dillo tu. Io t’ascolto, dato che parli con tale autorità.
Burton invece poteva immaginare il motivo, dal momento che aveva già sentito altrove quella storia. Ma voleva vedere se la versione di Collop coincideva con le altre.
La storia era identica, perfino nel nome dei «lazzari» morti. Diceva che quegli uomini e donne erano stati identificati da altri che li avevano conosciuti sulla Terra, e che erano tutti dei mezzi santi: uno di essi, anzi, era già stato canonizzato. Secondo il parere della Chiesa della Seconda Possibilità, costoro avevano raggiunto un grado di santità che non richiedeva più il passaggio attraverso il «purgatorio» del pianeta del Fiume. Le loro anime erano andate in… in qualche altro luogo, abbandonando il bagaglio in eccedenza costituito dal corpo fisico.
Presto, asseriva la Chiesa, altri avrebbero acquisito tale condizione, e anche i loro corpi sarebbero rimasti senza vita. Dopo un certo periodo di tempo la valle del Fiume avrebbe finito col rimanere spopolata, e tutti si sarebbero spogliati di ogni odio e vizio, riempiendosi dell’amore verso i propri simili e verso Dio. Anche i più corrotti, quelli che sembravano essere perduti senza scampo, avrebbero potuto liberarsi dal retaggio del corpo. Tutto ciò che occorreva per conseguire questa grazia era l’amore.
Burton sospirò, scoppiò in una sonora risata e disse: — Plus ça change, plus c’est la mème chose. Un’altra fiaba per dare agli uomini la speranza. Le vecchie religioni sono state screditate, benché alcune rifiutino di ammetterlo: e così bisogna inventarne di nuove.
— È una cosa logica — replicò Collop. — Hai una spiegazione migliore del motivo per cui siamo qui?
— Forse. Anch’io so comporre fiabe.
In effetti Burton aveva una spiegazione, ma non poteva darla a Collop. Spruce gli aveva detto qualcosa circa identità, storia, scopi del suo gruppo, gli Etici. Molto di ciò che aveva spiegato concordava con la teologia di Collop.
Spruce si era ucciso prima di parlare dell’«anima». Presumibilmente l’«anima» doveva far parte del quadro generale della resurrezione: altrimenti, una volta che il corpo avesse raggiunto la «salvezza» e fosse stato privato della vita, l’essenza di un uomo sarebbe scomparsa anch’essa. Poiché la vita post-terrestre poteva essere spiegata in termini fisici, l’anima doveva essere un’entità fisica anch’essa, da non liquidare con l’etichetta «soprannaturale» come era avvenuto sulla Terra.
Burton ignorava ancora molto a questo riguardo, ma era al corrente di numerosi particolari, sul funzionamento del pianeta del Fiume, di cui nessun altro essere umano aveva la minima idea.
In possesso di tale piccola conoscenza, egli intendeva spingersi ancora più avanti, far saltare il coperchio, e intrufolarsi nel «sancta sanctorum». Per far questo doveva raggiungere la Torre Scura, e l’unico sistema per arrivarvi in fretta era di prendere il Direttissimo del Suicidio. Per prima cosa doveva essere scoperto da un Etico, e poi sopraffarlo, impedendogli di uccidersi e tirandogli fuori in un modo o nell’altro nuove informazioni.
Nel frattempo continuava a fingersi Abdul ibn Harun, medico egiziano del diciannovesimo secolo divenuto ora cittadino di Bargawhwdzys. Come tale decise di entrare a far parte della Chiesa della Seconda Possibilità. Annunciò a Collop che non credeva più in Maometto e nei suoi insegnamenti, e così fu il primo in quella regione ad essere convertito da Collop.
— Devi giurare — disse Collop — di non impugnare le armi contro nessun uomo, mio caro amico, e di non difendere la tua vita.
Burton si ribellò, dicendo che non sarebbe andato in giro disarmato né avrebbe permesso ad alcuno di aggredirlo.
— Non è una cosa innaturale quella che ti chiedo — replicò Collop con voce suadente. — È contraria all’abitudine, questo sì. Ma un uomo, sempre che lo desideri e abbia forza di volontà, può divenire qualcosa di diverso da quello che è sempre stato, qualcosa di meglio.
Burton uscì in un violento «No!», e gli voltò le spalle. Collop scosse tristemente il capo, ma conservò nei confronti di Burton il suo atteggiamento amichevole. Talvolta, con un certo senso dell’umorismo, lo chiamava «convertito di cinque minuti», intendendo non già il tempo impiegato per condurlo nel suo gregge, ma quello occorso a Burton per uscirne.
Circa in quell’epoca Collop fece la sua seconda conversione.
Goering non aveva fatto altro che schernire e beffare Collop. Poi riprese a masticare la narcogomma, e gli incubi tornarono.
Per due notti tenne svegli Collop e Burton con i suoi lamenti, i suoi sussulti, le sue urla. La sera del terzo giorno chiese a Collop se lo voleva accettare nella Chiesa. Però intendeva confessarsi: Collop doveva sapere che tipo di uomo era stato, sia sulla Terra sia sul pianeta del Fiume.
Collop stette ad ascoltare quel misto di autoumiliazione e autoesaltazione, poi disse: — Amico mio, non m’importa cosa puoi essere stato, ma solo quello che sei e sarai. Ho voluto ricevere la tua confessione soltanto perché essa dà sollievo all’anima. Ho potuto notare che sei profondamente turbato e che provi dolore e pentimento per quello che hai fatto, pur compiacendoti per ciò che una volta eri, cioè un uomo dotato di grande potere. Non ho compreso alcuni particolari di quanto mi hai detto, poiché non conosco molto della tua epoca; ma non ha importanza. Solo l’oggi e il domani devono riguardarci: gli altri giorni si governeranno da soli.
Burton ebbe l’impressione che Collop, più che non dar peso a quello che era stato Goering, non avesse creduto alla sua storia terrestre di gloria e di infamia. Gl’impostori erano così numerosi che gli autentici eroi o farabutti venivano svalutati. Burton aveva già incontrato tre Gesù Cristo, due Abramo, quattro Re Riccardo Cuor di Leone, sei Attila, una dozzina di Giuda (uno solo dei quali parlava l’aramaico), un George Washington, due Lord Byron, tre Jesse James, un’infinità di Napoleone, un generale Custer (che parlava con un forte accento dello Yorkshire), un Finn MacCool (che non conosceva l’irlandese antico), un Tchaka (che parlava il dialetto zulù sbagliato), e un mucchio di altri che probabilmente non erano ciò che affermavano di essere.
Qualunque cosa un uomo fosse stato sulla Terra, sul pianeta del Fiume doveva ricominciare da capo. Questo non era facile, in quanto le condizioni erano sostanzialmente diverse. Le vanterie dei grandi e dei potenti della Terra venivano accolte con scherno, e non era loro concesso di dimostrare la propria identità.
Tale umiliazione, secondo Collop, era una grazia divina. Prima l’umiliazione, diceva, e poi l’umiltà. Dopo di che, per forza di cose, sarebbe giunto il senso dell’umanità.
Goering era stato intrappolato nel Grande Progetto, come lo chiamava Burton, perché per sua natura era intemperante, soprattutto riguardo alle droghe. Pur sapendo che la narcogomma strappava quelle orribili cose nere dall’abisso del suo io riportandole alla luce e dilaniandolo in mille pezzettini, continuava a masticarla a più non posso. Per un po’, essendo stato momentaneamente disintossicato dalla seconda resurrezione, era riuscito a non accogliere il richiamo della droga. Ma poche settimane dopo il suo arrivo in quella regione aveva ceduto, e ora ogni notte era lacerata dal suo urlo: — Hermann Goering, ti odio!
— Se continua così — disse Burton a Collop — diventerà matto. O si ucciderà di nuovo o costringerà qualcuno a ucciderlo, così da potersi separare da se stesso. Ma il suicidio è inutile: una volta risorto ricomincerà da capo. Dimmi la verità, ora: questo non è l’inferno?
— Direi piuttosto il purgatorio — rispose Collop. — Il purgatorio è l’inferno con in più la speranza.