CAPITOLO TERZO

La luce si stava sostituendo alla notte. Burton era ancora addormentato, ma era così vicino alla soglia della coscienza da rendersi conto che aveva sognato.

Poi i suoi occhi si aprirono, ed egli non riuscì a capire dove si trovasse.

Sopra di lui c’era un cielo azzurro. Una lieve brezza spirava sopra il suo corpo nudo. La testa calva, e la schiena, e le gambe, e il palmo delle mani poggiavano su uno strato di erba. Girò a destra il capo e vide una distesa ricoperta di erba corta, verdissima e folta. La distesa saliva per un chilometro e mezzo con un lievissimo pendio. Dopo la distesa c’era una fila di colline che iniziavano con una leggera inclinazione, divenendo poi più erte e più alte a mano a mano che s’innalzavano verso le montagne assumendo un profilo irregolarissimo. Le colline sembravano stendersi per quattro chilometri circa. Erano tutte coperte di alberi, alcuni dei quali risplendevano di sfumature scarlatte, azzurre, verde brillante, giallo fiamma, rosa cupo. Le montagne, di là dalle colline, si ergevano di colpo, a perpendicolo, raggiungendo un’altezza incredibile. Erano nere e verdi-bluastre, simili a vitree rocce eruttive, e almeno un quarto della loro superficie era coperto da enormi macchie di licheni.

Tra Burton e le colline c’erano numerosi corpi umani. Il più vicino, a un metro circa, era quello della donna bianca che si trovava sotto di lui in quella colonna di corpi.

Burton volle alzarsi, ma si sentiva fiacco e intorpidito. Tutto quello che poté fare per il momento, e che richiese un notevole sforzo, fu di girare il capo a sinistra. Da quella parte, su una distesa che digradava verso un fiume distante forse un centinaio di metri, c’erano degli altri corpi nudi. Il fiume era largo un paio di chilometri circa, e sull’altra sponda c’era un’altra distesa, larga probabilmente altrettanto. Questa saliva verso la base di nuove colline, coperte anch’esse di alberi, dietro alle quali torreggiavano a strapiombo delle montagne nere e verdi-bluastre. Quello era l’est, pensò Burton con sgomento. Il sole era appena sorto da dietro la cima delle montagne laggiù.

A poca distanza dalla riva del fiume c’era una strana struttura. Era un granito grigio con venature rosse, e aveva la forma di un fungo. La sua larga base non poteva essere alta più di un metro e mezzo, e l’«ombrello» del fungo aveva un diametro di una quindicina di metri.

Burton cercò di alzarsi di quel tanto che bastava per stare appoggiato su un gomito.

Lungo entrambe le rive del fiume c’erano altri massi di granito dalla forma di fungo.

In ogni punto della distesa c’erano degli esseri umani, nudi e calvi, circa a un paio di metri di distanza l’uno dall’altro. La maggior parte di essi giaceva ancora sulla schiena, con lo sguardo fisso al cielo. Altri cominciavano a muoversi, a guardare intorno, o perfino ad alzarsi.

Anche Burton si alzò, e si toccò il cranio e il volto con ambo le mani. La pelle era liscia.

Il suo corpo non era quello raggrinzito, rugoso, contorto, avvizzito, del sessantanovenne disteso sul letto di morte. Era il corpo dalla pelle liscia e dai muscoli gagliardi che egli aveva avuto all’età di venticinque anni. Lo stesso corpo che aveva quando stava galleggiando tra quelle barre di quel sogno. Sogno? Era sembrato troppo vivido per essere un sogno.

Intorno al suo polso c’era un sottile bracciale trasparente, collegato a una striscia dello stesso materiale e lunga quindici centimetri. L’altri estremità di questa era assicurata ad un semicerchio di metallo, che costituiva l’impugnatura di un cilindro di metallo grigiastro, chiuso con un coperchio.

Con una certa inerzia, senza troppo concentrarsi in quanto la sua mente era ancora annebbiata, Burton sollevò il cilindro. Pesava solo pochi etti, per cui non poteva essere di ferro, neanche cavo. Il suo diametro era di quarantacinque centimetri, ed era alto più di settantacinque. Ciascuno dei corpi aveva un oggetto similare assicurato al polso.

Barcollando alquanto, e col cuore che cominciava a prendere velocità a mano a mano che i sensi gli si risvegliavano, Burton si alzò in piedi.

Anche altri si stavano alzando. Molti avevano il volto inerte, oppure con un’espressione di assoluta meraviglia. Alcuni sembravano atterriti. I loro occhi erano spalancati, e roteavano; il loro petto si alzava e abbassava rapidamente; il loro respiro era sibilante. Alcuni tremavano come se fosse passato su di loro un vento gelido, malgrado l’aria fosse piacevolmente calda.

Ma la cosa più strana, la cosa davvero sovrumana e terrorizzante, era il silenzio pressoché assoluto. Nessuno diceva una parola; Burton udì solo il respiro sibilante di quelli vicini a lui, un leggero schiocco quando un uomo si schiaffeggiò una gamba, il debole fischio di una donna.

Quegli esseri avevano la bocca aperta come se fossero stati sul punto di dire qualcosa.

Poi cominciarono a muoversi intorno, guardandosi in faccia l’uno con l’altro, tendendo talvolta una mano per toccarsi. Strascicavano i piedi nudi, si giravano da una parte, poi da quell’altra, fissavano le colline, gli alberi coperti di enormi fiori dai colori brillanti, le vertiginose montagne macchiate di licheni, il fiume verde e scintillante, le pietre dalla forma di fungo, le cinghiette e i grigi contenitori metallici.

Alcuni si tastavano il cranio calvo e il volto.

Ognuno ripeteva in silenzio gli identici sciocchi gesti.

Di colpo una donna si mise a gemere. Cadde ginocchioni, gettò all’indietro la testa e le spalle, e cominciò a mugolare. Al tempo stesso, da un punto molto distante lungo la riva del fiume, qualcun altro mugolò.

Fu come se quei due pianti fossero stati dei segnali. O come se fossero stati la chiave per la voce umana, e le avessero così reso la libertà.

Gli uomini e le donne e i bambini presero a gridare, o a singhiozzare, o a graffiarsi il volto con le unghie, o a picchiarsi il petto, o a cadere in ginocchio alzando le mani in preghiera, o a gettarsi bocconi cercando, a mo’ di struzzi, di seppellire il volto nell’erba per non essere visti, o a rotolarsi avanti e indietro, abbaiando come cani o ululando come lupi.

Il terrore e l’isterismo si comunicarono a Burton. Questi provò desiderio di mettersi in ginocchio e pregare affinché il giudizio fosse a lui favorevole. Sentì un grande bisogno di misericordia. Non voleva veder apparire sopra le montagne l’accecante volto di Dio, un volto più splendente del sole. Non era coraggioso e innocente come aveva creduto. Il giudizio sarebbe stato così terrificante, così completamente finale che egli non poteva sopportarne il pensiero.

Una volta aveva fantasticato di trovarsi davanti a Dio dopo la morte. Era piccolo e nudo, al centro di una vasta distesa simile a quella, ma era del tutto solo. Poi Dio, grande come una montagna, aveva preso ad avanzare verso di lui. Ed egli, senza arretrare d’un passo, aveva sfidato Dio.

Lì Dio non c’era, ma Burton fuggì ugualmente. Corse lungo la distesa, spingendo via dal suo cammino uomini e donne, scansando alcuni corpi, passando con un salto sopra ad altri che erano rotolati a terra. Correndo urlava: — No! No! No! — e le sue braccia si agitavano come pale di mulino a vento, per respingere mostri invisibili. Il cilindro assicurato al suo polso ruotava e oscillava.

Quando il suo respiro divenne così affannoso da non consentirgli più di urlare, e braccia e gambe gli si fecero più pesanti, e i polmoni furono sul punto di scoppiare, e il cuore di esplodere, Burton si gettò a terra sotto l’albero più vicino.

Dopo un po’ si mise a sedere, voltandosi verso la pianura. Il rumore prodotto dalla folla si era mutato da urla e gemiti in un chiacchiericcio generale. Quasi tutti parlavano l’uno all’altro, ma sembrava che nessuno stesse ad ascoltare. Burton non riuscì a captare alcuna singola parola. Quà e là un uomo e una donna si abbracciavano e baciavano, come se si fossero già conosciuti nella loro vita precedente ed ora cercassero di rassicurarsi a vicenda sulla propria identità e realtà.

C’era una quantità di bambini in quella folla numerosa. Nessuno però era al di sotto dei cinque anni. Avevano la testa calva, come gli adulti. Una metà frignava, ferma sul posto. Altri, pur piangendo, correvano avanti e indietro, scrutando i volti sopra di loro, evidentemente in cerca dei genitori.

Burton cominciava a respirare con minor fatica. Si alzò in piedi e si voltò. L’albero sotto il quale si trovava era un abete rosso, alto circa sessanta metri. Accanto a questo, c’era un albero di un tipo che egli non aveva mai visto. Dubitò che fosse mai esistito sulla Terra. (Burton era sicuro di non trovarsi sulla Terra, benché al momento non ne avesse alcuna precisa ragione.) L’albero aveva un grosso e nodoso tronco nerastro, e molti grossi rami che portavano foglie triangolari lunghe circa due metri, di color verde con screziature scarlatte. Era alto circa novanta metri. C’erano anche degli alberi che sembravano querce, larici, tassi, pini.

Qua e là c’erano macchie di altre piante simili al bambù, e in tutti i punti lasciati liberi dagli alberi e dai bambù cresceva un’erba alta poco meno di un metro. Non si vedevano animali. Nessun insetto, nessun uccello.

Burton si guardò attorno per cercare un bastone o una clava. Non aveva la minima idea di che cosa fosse in programma per l’umanità; ma questa, lasciata senza sorveglianza o senza controllo, sarebbe tornata presto allo stato solito. Cioè, passato il primo colpo, la gente avrebbe cominciato a cercare di arrangiarsi, il che significava che alcuni si sarebbero messi a fare i prepotenti a spese di altri.

Burton non trovò nulla che potesse servire da arma. Poi gli venne in mente che come arma si poteva usare il cilindro di metallo. Lo sbatté contro un albero. Benché fosse assai leggero era estremamente robusto.

Burton sollevò il coperchio, che era incernierato all’interno di un’estremità del cilindro. L’interno, cavo, aveva sei supporti elastici, sfasati in modo che ciascuno reggeva una capace tazza, o un piatto, o un contenitore rettangolare di metallo grigio. I sei recipienti erano vuoti. Burton richiuse il coperchio. Senza dubbio, avrebbe scoperto a suo tempo quale fosse lo scopo del cilindro.

A parte tutto il resto, la resurrezione non aveva dato dei corpi fatti di delicato e inconsistente ectoplasma. Burton era tutto di ossa e sangue e carne.

Benché si sentisse ancora alquanto distaccato dalla realtà, come se fosse stato isolato dagli ingranaggi del mondo, si stava rimettendo dall’emozione.

Aveva sete. Doveva scendere al fiume e bere di quell’acqua, con l’augurio che non fosse avvelenata. A questo pensiero ghignò e si passò un dito sul labbro superiore. Il dito provò un’impressione di disappunto. Che curiosa reazione, rifletté Burton. Poi ricordò che i suoi folti baffi erano spariti. E… Ah, sì, si stava augurando che l’acqua del fiume non fosse avvelenata. Che idea bizzarra! A quale scopo far rivivere un morto solo per ucciderlo di nuovo? Ma Burton rimase a lungo sotto l’albero. Detestava dover raggiungere il fiume passando in mezzo a quella folla frenetica e isterica che parlava e singhiozzava senza posa. Lontano dalla calca di costoro, era in buona parte indenne dal terrore e dal panico che li aveva sommersi come una marea. Se si fosse azzardato a tornare là sarebbe rimasto travolto di nuovo dalle loro emozioni.

D’un tratto vide una figura staccarsi dalla ressa nuda e dirigersi verso di lui. E vide che non si trattava di un essere umano.

A questo punto Burton fu sicuro che quel Giorno della Resurrezione non era stato previsto da nessuna religione. Burton non aveva creduto nel Dio descritto dai cristiani, mussulmani, indù o da qualsiasi altra fede. In realtà non era sicuro di credere in alcun Creatore. Egli aveva creduto in Richard Francis Burton e in pochi amici. Ed era sempre stato convinto che, quando fosse morto, il mondo avrebbe cessato di esistere.

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