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Lane si aspettava di sentirsi dilatare e stritolare nello stesso tempo, invece, non accadde nulla di tutto questo.

In seguito, quando si rese conto che sarebbe sopravissuto, si sforzò a lungo di capire cosa fosse successo, senza mai trovare una spiegazione.

Sapeva che tutto ruotava nell’universo, soprattutto le stelle contratte. Stelle di neutroni che non avevano mai posseduto una massa abbastanza grande per contrarsi fino a diventare buchi neri, ruotavano intorno ai loro assi alla velocità di un secondo e anche meno. Quello che Lane ignorava — ma anche l’avesse saputo non gliene sarebbe importato — era che quando comincia a formarsi un buco nero la stella che si contrae ruota a velocita incommensurabile. Così facendo distorce a tal punto il buco nero da formare non uno, ma due orizzonti apparenti.

Se la Deathmaker li avesse superati tutt’e due sarebbe avvenuto tutto ciò che Lane aveva previsto. Se si fosse trovato anche solo di due metri più vicino al centro, sarebbe stato attratto verso quel punto più velocemente con quella parte del suo corpo che era più vicina che con il resto, e in questo caso sarebbe stato letteralmente strappato in due, anche se l’enorme campo gravitazionale l’avrebbe ucciso prima che questo accadesse.

Invece la Deathmaker non superò tutt’e due i bordi, ma seguì il Mangiatore d’Anime nell’intercapedine fra l’uno e l’altro, e fu scaraventata fuori dal suo tempo e dal suo spazio dall’inimmaginabile forza di quella rotazione.

Quello in cui finì per trovarsi non era l’iperspazio mistico o il superspazio immaginato dalla fantasia degli scrittori, e neppure uno dei cunicoli nel tessuto dello spazio postulati dalle teorie degli scienziati, e nemmeno la curvatura dello spazio ipotizzata nei calcoli di Einstein. E non si trattava neppure di una contrazione dello spazio e del tempo, sebbene forse questo termine ne descriva gli effetti nel modo migliore. Era semplicemente la negazione momentanea di tutto il tempo e di tutto lo spazio, l’unica negazione possibile secondo le leggi che regolano l’universo.

Lane non provava vertigini, né nausea, né alcun senso di disorientamento. Sapeva chi era, e pensava di sapere dove si trovava. Nessuno strumento di bordo funzionava, gli orologi si comportavano in modo folle e così pure gli schermi.

E poi, dopo un periodo di tempi indeterminato e indeterminabile, Lane si trovò… altrove.

Gli strumenti ripresero a funzionare regolarmente e lui tentò di scoprire dove fosse finita la nave.

Poi guardò uno schermo e si rese conto che non sapeva nemmeno quando era.

Si trovava in un universo, ma non avrebbe saputo dire se fosse il suo o un altro, né lo scoprì mai. Ma qualunque esso fosse, era un universo ai suoi primordi. Per quanto enorme — e per definizione tutti gli universi sono enormi — era più compatto di quello che aveva finora conosciuto. C’erano pochissime stelle, ma in. compenso c’erano milioni e milioni di super stelle ciascuna delle dimensioni di una rossa o di una azzurra gigante, che ardevano con tale intensità da abbagliarlo anche a migliaia di parsec di distanza. Stavano sospese sullo sfondo di velluto del cielo come enormi gemme scintillanti, facendo saettare la loro sostanza incredibilmente luminosa in torrenti e raggi lunghi miliardi di migliaia, e ruotando a una tal velocità che si riuscivano a malapena a distinguere le piccole variazioni d’intensità.

Lane sapeva che erano delle quasar e concluse che si trattava di galassie in embrione, a meno che quell’universo non si trovasse in uno stadio di vecchiaia per cui stava contraendosi, invece che in un’infanzia in espansione, nel qual caso quelle stelle indicavano la conclusione della vita galattica e non l’inizio. Lane propendeva per la prima ipotesi, ma ebbe poco tempo per pensarci perché a un quarto di milione di chilometri davanti a lui fluttuava il Mangiatore d’Anime.

Quella creatura era il suo unico punto di riferimento in un universo sconosciuto, l’unica entità fissa e nota in un tempo e in uno spazio che gli sarebbero sempre stati alieni. Forse erano le due uniche creature viventi in quell’universo.

E una doveva morire.

Con un ghigno accelerò la Deathmaker. Sembrava che il Mangiatore d’Anime fosse ignaro della sua presenza finché la distanza non si ridusse a settantacinquemila chilometri. Allora si mosse, e Lane la seguì per un’ora senza riuscire ad accorciare la distanza. Teneva la mano posata sull’arma, sapendo di dover sparare prima che la creatura gli sfuggisse nuovamente lasciandolo solo e sperduto.

Premette il grilletto e immediatamente udì o percepì o sentì un disumano grido d’angoscia. Il Mangiatore d’Anime vacillò zigzagando, mentre una sua parte diventava prima blu, poi grigia e infine svanì. Pochi attimi dopo aveva riacquistato la sua forma sferica, e ripresa la manovra evasiva, anche se a velocità più ridotta.

La sensazione di dolore non era più tanto acuta, e Lane aveva ripreso il dominio di sé tanto da poter riprendere i comandi. E in quel momento, al dolore fisico si aggiunse una sensazione di offesa, non di risentimento o di amarezza, ma di perplessità quale può provarla un cucciolo picchiato dal padrone.

Lane non riusciva a sopportare quella sensazione così penosa e rallentò fino a trovarsi fuori portata dalle sensazioni della creatura. Poi riprese l’inseguimento mantenendosi a una distanza di duecentomila chilometri.

Inserì i comandi automatici, e, per la prima volta, si guardò intorno. Il cadavere di Vostuvian lo fissava con una smorfia orribile e un’espressione di rimprovero. Lane lo trascinò in un compartimento stagno lo scagliò nel vuoto, poi, preso da improvvisa apprensione, si precipitò alla cuccetta di ibernazione. Il Mufti era morto, come aveva temuto. Il suo metabolismo si era fermato quando gli strumenti di bordo avevano cessato di funzionare durante la permanenza alla periferia del buco nero.

Prese fra le braccia il corpicino inerte e lo carezzò a lungo. Poi, col cuore gonfio di amarezza e di pena, tornò nella cabina di pilotaggio e si sedette stringendolo al seno con tal forza che il Mufti avrebbe gridato se fosse stato vivo.

Dopo un po’ di tempo, pur senza accettarne la morte, andò a deporlo nel compartimento stagno, e un attimo dopo Lord Gran Mufti veniva scagliato nello spazio. Lo spazio poteva comportarsi in modo gentile o grottescamente capriccioso con un corpo. Lane aveva visto come si riduceva un uomo quando la sua tuta spaziale si strappava mentre era ancora vivo, e non era un bello spettacolo. Invece questa volta lo spazio avrebbe trattato con benevolenza il Mufti conservandone integro il corpo per l’eternità, e di questo Lane gliene era grato.

Poi tornò a occuparsi del Mangiatore d’Anime.

Era tutto quello che gli restava. Vostuvian era morto, il Mufti era morto, l’universo che conosceva era praticamente morto per lui. Restavano loro due, nient’altro importava, non solo, nient’altro esisteva.

Lane era sicuro che l’avrebbe uccisa quando l’avesse voluto. L’aveva mutilata, e i suoi strumenti rivelavano infatti che adesso il diametro della creatura era ridotto a cinque chilometri.

Tuttavia non poteva sgombrare la mente e scacciare il ricordo della sua reazione quando l’aveva ferita. Si era fidata di lui, proprio come il Mufti, e Lane non se la sentiva di uccidere nello stesso giorno due creature che avevano avuto fiducia in lui. Domani sarebbe stato anche troppo presto.

Ma il giorno seguente il Mangiatore d’Anime aveva ripreso energia e aumentato la velocità. E inoltre, forse perché era disorientato o per il panico, continuava a cambiar direzione, e Lane non ebbe altra scelta che seguirlo.

Andarono avanti così per una settimana, finché a un tratto Lane si rese conto di un’altra cosa: aveva consumato più carburante seguendo le manovre della creatura nel corso degli ultimi sei giorni di quanto ne avesse consumato in tutto l’inseguimento fino al buco nero. Se continuava così, entro dieci giorni avrebbe avuto i serbatoi vuoti.

Il Mangiatore d’Anime continuò a cambiar direzione ogni poche ore per altri sei giorni e Lane ebbe l’assoluta certezza che, se non l’avesse ucciso presto, non ci sarebbe mai più riuscito.

E poi, il Mangiatore d’Anime cominciò a rallentare. Forse aveva finalmente consumato le sue ultime riserve di energia, forse risentiva a distanza degli effetti dell’arma a entropia, forse voleva allettarlo. Comunque fosse si avvicinò riducendo la distanza a centomila chilometri, poi a ottantamila, poi a quarantamila, e quando furono a dodicimila chilometri preda e cacciatore si fermarono.

Lane si accorse subito di non provare quel senso di tensione che si accompagnava sempre alla presenza del Mangiatore d’Anime. Invece si sentiva vecchio, stanco, debole, e sopraffatto da un senso orribile e doloroso di solitudine.

Il Mangiatore d’Anime si era arreso. Era disposto a morire, stanco di fuggire, incapace di comprendere perché qualcosa di cui si fidava potesse farlo soffrire tanto. Non agitò la bandiera bianca, non chiese di discutere un armistizio. Si era arreso senza condizioni.

Lane posò la mano sul grilletto dell’arma a entropia… e si immobilizzò.

Guardò la creatura sullo schermo: pareva vecchia e sfinita. Il colore era fosco e senza più quelle variazioni che lo avevano caratterizzato, il corpo non pulsava più di energia, la forma rimaneva costante.

Lane cercò di analizzarne le emozioni. Non c’erano ira, né odio, né rancore verso il destino, ma solo rassegnazione, e il desiderio che l’inevitabile avvenisse il più presto possibile.

Quello era il momento che Lane aveva atteso per più anni di quanto non riuscisse a ricordare, il momento che aveva bramato, per cui aveva ucciso, rubato e mentito.

Era il suo trionfo definitivo, la vittoria per cui aveva rinunciato alla sua carriera, alla ricchezza e alla gioventù.

Staccò la mano dal grilletto. Doveva assaporare il più a lungo possibile quel momento. La creatura era vinta e umiliata, non avrebbe tentato di fuggire. Poteva indugiare per gustare il sapore della vittoria.

Era un sapore amaro.

Pensò alla domanda che gli aveva rivolto Tchaka nel congedarsi, e scoprì che neppure adesso avrebbe saputo cosa rispondere. Cosa avrebbe fatto dopo aver sparato?

Era un cacciatore. Aveva bisogno della sua preda tanto quanto quella particolare preda aveva bisogno di lui. Anche se fosse morto dopo una settimana, quei suoi ultimi giorni sarebbero stati i più solitari, i più vuoti, i più inutili della sua vita.

E poi capì anche come la domanda di Tchaka avesse solo scalfito la superficie. Non beveva, non si drogava più, aveva perso ogni interesse per le donne e sapeva che, dopo l’esperienza col Mangiatore d’Anime, niente avrebbe mai più potuto procurargli tanto piacere. Non aveva famiglia, né amici, solo qualche conoscente. Aveva speso quasi tutto quel che possedeva, aveva venduto l’ufficio e l’hangar, la sua professione rappresentava ormai soltanto un lontano ricordo. Tutto quello che aveva, tutto quello che gli restava, era unicamente la creatura sconfitta che fluttuava vicino alla Deathmaker.

La odiava per quello che gli aveva fatto?

Sì.

Ma sapeva, con una certezza che non ammetteva discussioni, che ne aveva bisogno più di quanto la odiasse.

— Al diavolo! — mormorò, poi, con cura, quasi con tenerezza, puntò il vibratore al centro del Mangiatore d’Anime e l’attivò.

E invece della solita, violenta scossa fisica e mentale, sentì un gentile tentacolo emotivo estendersi progressivamente e avvolgerlo, insinuandosi in ogni centimetro, in ogni molecola, in ogni atomo del suo corpo e della sua mente. Rimase così per un poco, affettuoso, pieno di gratitudine, e poi si ritrasse.

Per qualche minuto Lane cercò di analizzare quello che la creatura aveva provato, e le sue reazioni. E quando finalmente capì quali erano le sue emozioni, e non le trovò ripugnanti, la creatura si protese ancora a raggiungerlo.

E questa volta, dolore e solitudine erano scomparsi.

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