Parte terza

I Incubo

In tutte le case della collina si stava ancora festeggiando l’anno nuovo, quando il capo Dakin balzò fuori dal suo macinino e corse su per il vialetto di casa Haight, sotto le vecchie stelle del nuovo millenovecentoquarantuno. Il capo della polizia annuì tra sé: era molto meglio. Nessuno si sarebbe accorto che qualcosa non andava. Dakin era sottile, nervoso; sembrava un contadino e aveva due occhi opachi, divisi da un grosso naso tipicamente americano. Assomigliava a una vecchia tartaruga finché non ci si accorgeva che la sua bocca era la bocca di un poeta. Nessuno a Wrightsville se n’era accorto, eccetto Patricia Wright e forse la signora Dakin, per la quale il capo della polizia riuniva in sé i migliori aspetti di Abramo Lincoln e del Padreterno. La chiamata telefonica di Carter Bradford l’aveva interotto nel bel mezzo di un’allegra carola inneggiante al nuovo anno, cantata in coro coi familiari.


«È veleno» fece Dakin in tono asciutto, rivolgendosi a Carter Bradford, al di sopra del cadavere di Rosemary Haight. «Mi pare che abbiate esagerato un po’ nei festeggiamenti di capodanno, questa volta. Di che specie di veleno si tratta, dottore?»

«Arsenico. Uno dei composti, ma non saprei dire quale.»

«Veleno per topi, vero?» Poi il capo della polizia soggiunse lentamente: «Immagino che questo bel pasticcio metta il nostro Procuratore Distrettuale nei guai; che ne dice, Cart?».

«Altro che! Tutti gl’indiziati sono miei amici.» Bradford tremava. «Dakin, mettiamoci all’opera, per amor del cielo.»

«Ma certamente, Cart.» Gli occhi di Dakin si posarono su Frank Lloyd. «Buonasera, signor Lloyd.»

«Buonasera a lei» borbottò Lloyd. «Non potrei andar fuori dai piedi?»

«Preferirei di no» rispose Dakin con un sorriso di scusa. «Grazie. Ora veniamo a noi. Come diavolo è stato che la sorella di Jim Haight ha ingoiato del veleno per topi?»

Carter Bradford e il dottor Willoughby glielo dissero. Il signor Queen, seduto in un angolo, osservava, ascoltava, e pensava quanto un certo poliziotto di New York assomigliasse al capo Dakin di Wrightsville. Quell’aria pacata e autorevole… Dakin ascoltava rispettosamente le voci agitate dei suoi amici; poi i suoi occhi si posarono tre volte sulla persona del signor “Smith”, e questi si fece piccino piccino.

«Capisco» disse infine Dakin annuendo. E si diresse lentamente verso la cucina.

«Non posso crederci» gemette improvvisamente Jim Haight. «È un incidente. Come può essere finita nel bicchiere quella roba? Forse qualche ragazzino… dalla finestra. È uno scherzo!»

Nessuno gli rispose, e Jim fece schioccare le dita e fissò con gli occhi sbarrati i giornali stesi sul sofà. L’agente Brady, con la faccia color mattone, entrò un po’ affannato, cercando di non far vedere che era sulle spine.

«Ho ricevuto una chiamata» annunziò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Perdinci.» Si diede una lisciatina, e raggiunse il suo capo in cucina.

Quando i due funzionari riapparvero, Brady portava numerose bottiglie e bicchieri. Scomparve col suo carico, e poco dopo ritornò a mani vuote. In silenzio, Dakin gli indicò i vari bicchieri vuoti del salotto. Brady li raccolse uno per uno, deponendoli nel suo berretto d’uniforme; li maneggiava delicatamente, prendendoli per il bordo, e li disponeva nel berretto come fossero uova di piccione.

«È per le impronte digitali» spiegò Dakin, parlando apparentemente al caminetto. «Non si può mai dire. Poi si deve fare l’esame chimico.»

«Che cosa?» esclamò involontariamente Ellery Queen.

Per la quarta volta gli occhi del capo Dakin si fissarono come raggi X sulla persona del signor “Smith”.

«Buonasera, signor Smith» disse il capo della polizia sorridendo. «A quanto pare, noi c’incontriamo sempre nei momenti difficili.»

«Prego?» domandò il signor Smith, con voce completamente inespressiva.

«Quel giorno, sulla strada provinciale» sospirò il capo della polizia. «Quando io ero in macchina con Carter. Il giorno in cui Jim Haight era così ubriaco…» Jim si alzò: Dakin si sedette senza guardarlo. «Che cosa sa di tutta questa faccenda, signor Smith?» domandò con la massima cortesia.

«Che una donna chiamata Rosemary Haight è morta qui, questa sera.» Ellery si strinse nelle spalle. «Questo è l’unico fatto che posso fornirle. Non credo che sia molto; considerando che il cadavere è a meno di tre metri da noi.»

«Avvelenata, come dice il dottor Willoughby» osservò educatamente Dakin. «Questo è un altro fatto.»

«Oh, sì!» convenne umilmente Ellery, mentre il dottor Willoughby gli lanciava un’occhiata interrogativa. “Stai attento!” si disse. “Il dottor Willoughby si ricorda senz’altro del flaconcino di idrossido di ferro che tu gli hai dato proprio nel momento in cui Nora aveva bisogno di un antidoto e i minuti erano preziosi… Chissà se il buon dottore racconterà lo strano fatto che un estraneo alla casa, alla famiglia, al delitto, si portava in tasca un simile preparato proprio quando, stranamente, una donna moriva e un’altra correva lo stesso rischio per via di un veleno il cui antidoto ufficiale era proprio l’idrossido di ferro?”

Il dottor Willoughby guardò altrove.

“Sospetta che io sappia qualcosa che riguarda i Wright” pensò ancora Ellery. “È un vecchio amico di famiglia. Ha fatto nascere le tre ragazze… Ora è imbarazzato. Devo forse metterlo maggiormente in imbarazzo confidandogli che ho comperato quel farmaco perché avevo promesso a Patricia Wright che sua sorella Nora non sarebbe morta?”

Ellery Queen sospirò. Le cose si complicavano.

«Dov’è tutta la famiglia?» domandò Dakin.

«Di sopra» rispose Bradford. «La signora Wright insiste perché Nora… la signora Haight… sia trasportata in casa Wright.»

«Qui non è il posto migliore per lei, Dakin. Nora sta molto male. Ha bisogno di cure assidue e affettuose.»

«Per me facciano pure» dichiarò il capo della polizia. «Cioè, se il Procuratore Distrettuale non ha nulla in contrario.»

Bradford accennò frettolosamente di sì, e si morse le labbra.

«Non le vuole interrogare?»

«Ecco, non vedo perché dovrei tormentare i Wright, facendoli star peggio di quanto già stiano» dichiarò il capo della polizia lentamente. «Quindi se non ha obiezioni, Cart, direi che per questa notte basta. Ci ritroveremo tutti qui in questa stanza domattina. Avverti tu i Wright, Cart, tanto per non dare ufficialità alla cosa.»

«Tu resti qui?»

«Solo per un momento. Dovrò chiamare qualcuno per far portar via il corpo… Lloyd, mi raccomando a lei. Niente chiacchiere sul giornale.» Il Capo della Polizia sospirò. «È la prima volta che capita un omicidio a Wrightsville e io occupo questa carica da più di venti anni. Dottore, vuole essere così gentile da fare lei l’autopsia? Il magistrato Salemson è in vacanza.»

«Va bene» rispose il dottore. Uscì senza salutare.

Ellery Queen si alzò.

Carter Bradford attraversò la stanza, si fermò e si voltò.

Jim Haight era seduto immobile sulla sedia.

«Perché se ne sta lì seduto, Haight!» tuonò Bradford con voce astiosa.

Jim sollevò lentamente lo sguardo. «Cosa?»

«Non può stare lì tutta la notte. Perché non va da sua moglie?»

«Non mi lasciano.» Prese un fazzoletto e si asciugò gli occhi. «Non mi lasciano.»

Balzò dalla sedia e salì le scale. Udirono una porta sbattere: si era chiuso nel suo studio.

«Ci vediamo domattina, signori» disse il Capo Dankin.

Se ne andarono e Dankin rimase solo, solo col corpo di Rosemary. Il signor Queen avrebbe voluto rimanere, ma lo sguardo di Dankin lo aveva scoraggiato.


Ellery non vide Patricia Wright fino al mattino dopo, quando tutti si riunirono nel salotto, dove si era svolta la festa, alle dieci del mattino del primo giorno dell’anno… tutti, eccetto Nora, che giaceva nel suo letto di ragazza nell’altra casa, guardata a vista da Ludie. Il dottor Willoughby l’aveva già visitata quel mattino, e le aveva proibito non solo di lasciare la stanza, ma anche d’alzarsi. Ellery riuscì finalmente a bloccare Pat sotto il portico di casa Haight.

«Prima di entrare» disse rapidamente «vorrei spiegarle…

«Non la biasimo, Ellery.» Pat pareva malata, quasi come Nora. «Poteva anche andar peggio… Poteva capitare a Nora. Per poco non toccava veramente a lei.» La ragazza rabbrividì.

«Mi dispiace per Rosemary» affermò Ellery.

Pat gli lanciò uno sguardo completamente inespressivo. Poi entrò in casa. Ellery indugiò sotto il portico. Era un giorno grigio, come il viso di Rosemary Haight: un giorno grigio e freddo, un giorno che si addiceva alla morte. Un’automobile si fermò al cancello. Ne balzò fuori Frank Lloyd seguito da Lola Wright. I due percorsero insieme il vialetto.

«Come sta Nora?» domandò con ansia la ragazza.

«Ho dato un passaggio a Lola» dichiarò Lloyd, che sembrava respirare a fatica. «Stava salendo a piedi la collina.»

«Lola sapeva già qualcosa?» domandò Pat mentre entrava in casa con Frank.

«No, faceva una passeggiata; almeno così mi ha detto. Nessuno sa ancora niente.»

«Lo sapranno quando il suo giornale sarà messo in vendita» osservò Ellery quasi seccato.

«Lei è un maledetto ficcanaso» gemette Lloyd «ma mi è simpatico. Voglio darle un consiglio: salti sul primo treno e se ne vada.»

«Mi piace star qui» sorrise Ellery. «E poi, perché dovrei partire?»

«Perché questa è una città pericolosa; vedrà che cosa succede quando la notizia sarà risaputa. Tutti coloro che hanno partecipato alla festa di ieri sera saranno infamati.»

«Una coscienza pulita ha delle ottime qualità detersive» ribatté amabilmente il signor Queen.

«Non capisco proprio perché sto qui a perdere il mio tempo con un idiota come lei» dichiarò il giornalista con violenza e si diresse a grandi passi verso il salotto.

«Il veleno» stava dicendo il dottor Willoughby «è triossido di arsenico, o ossido arsenioso, come preferite. Arsenico bianco.»

I presenti erano seduti in semicerchio come spettatori increduli ad una seduta spiritica. Dakin era in piedi vicino al caminetto, e si batteva un rotolo di carta contro i denti falsi.

«Avanti, dottore» invitò. «Che cosa ha trovato d’altro? Fin qui andiamo bene: abbiamo fatto il controllo stanotte nel nostro laboratorio.»

«In medicina lo si usa principalmente come tonico» proseguì il medico con voce impersonale. «La più alta dose terapeutica è di un decimo di grano. Dai residui del cocktail non si può dire nulla; nulla di certo, almeno, ma giudicando dalla rapidità con cui il veleno ha agito, io direi che in quel bicchiere ve ne fossero almeno tre o quattro grani.»

«Non ha prescritto una medicina contenente arsenico, di recente, a nessuno… di sua conoscenza, dottore?» domandò Carter Bradford.

«No.»

«Noi siamo riusciti a stabilire qualcosa di più» dichiarò il capo della polizia guardandosi attorno. «Molto probabilmente si trattava di comune veleno per topi. E, per di più, non se n’è trovata traccia se non nel bicchiere… non negli altri bicchieri, non nelle bottiglie, non nel vaso delle ciliege, o in nessun altro recipiente.»

«Che impronte digitali ha trovato sul bicchiere del veleno, capo?» domandò il signor Queen con la sensazione di fare una domanda stupida.

«Quelle del signor Haight, della signorina Haight, della signora Nora Haight e nessun’altra.»

Ellery rivolse un pensiero di ammirazione all’abilità del capo della polizia. Dakin non era rimasto in ozio, quella notte. Aveva preso le impronte digitali del cadavere. Aveva trovato qualche oggetto che apparteneva sicuramente a Nora, probabilmente in camera da letto, e aveva rilevato le sue impronte. Jim Haight era rimasto in casa tutta notte, ma Ellery era pronto a scommettere che nemmeno Jim era stato disturbato. Un bel lavoro, molto abile. Ma appunto quella efficienza e quell’abilità turbarono il signor Queen. Il giovane lanciò un’occhiata a Pat, che osservava il capo della polizia come ipnotizzata.

«Qual è stato il risultato dell’autopsia, dottore?» domandò Dakin in tono deferente.

«La signorina Haight è morta per avvelenamento, dovuto a triossido di arsenico.»

«Grazie. Adesso cerchiamo di organizzare un po’ le cose, se ai signori non dispiace» fece Dakin. «Dunque, noi sappiamo che le signore sono state avvelenate da quell’unico cocktail. Chi l’ha preparato?» Nessuno rispose. «Ebbene, io lo so già. È stato lei, signor Haight. Lei ha preparato quel cocktail.»

Jim Haight non si era fatto la barba. Intorno agli occhi aveva delle ombre bluastre.

«Davvero?» Aveva la voce roca, e tentò varie volte di schiarirsela. «Se lo dice lei… ne ho preparati tanti…»

«E chi ha servito i liquori?» domandò Dakin. «Tutti i liquori, compreso quello avvelenato? È stato ancora lei, signor Haight. Mi sbaglio? Perché vede, così mi hanno detto» concluse in tono di scusa.

«Se cerca d’insinuare…» cominciò Hermione con voce imperiosa.

«Benissimo, signora Wright» si arrese il capo della polizia. «Forse mi sbaglio. Però quei cocktails li ha preparati lei, signor Haight; lei li ha serviti; quindi, a quanto pare, lei è l’unico che poteva avvelenarne uno, col veleno dei topi. Ma io ho detto “a quanto pare”. Era davvero solo? Ha lasciato il vassoio da qualche parte anche per pochi secondi?»

«Senta» sbottò Jim. «Forse sono impazzito. Forse quel ch’è accaduto ieri sera mi ha fatto dar di volta il cervello. Ma che cos’è tutta questa commedia? Mi si sospetta di aver avvelenato mia moglie?»

Parve improvvisamente che l’aria della stanza diventasse di nuovo respirabile. Sul viso di Hermy tornò un po’ di colore, e persino Pat guardò Jim.

«Che sciocchezze, signor Dakin!» esclamò Hermione freddamente.

«È stato lei, signor Haight?» domandò cortesemente il signor Dakin.

«Naturalmente ho portato io il vassoio in salotto!» Jim balzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro davanti all’ispettore. «Ma ricordo che avevo appena finito di mischiare i liquori e stavo per buttarvi dentro le ciliege, quando ho dovuto lasciare la dispensa per qualche minuto. Ecco tutto!»

«Vede che stiamo arrivando a qualcosa!» esclamò Dakin cordialmente. «Non potrebbe essere entrato qualcuno di nascosto nella dispensa e aver avvelenato un bicchiere, senza che lei se ne accorgesse?

La sensazione di sollievo svanì rapidamente; a tutti i presenti parve nuovamente di soffocare…

«Io non ho avvelenato quei cocktails» affermò Jim. «Quindi qualcuno deve essere entrato per forza.»

Dakin si rivolse all’auditorio:

«Chi è uscito dal salotto mentre il signor Haight stava preparando i cocktails in cucina? Questa domanda è molto importante; vi prego di pensarci bene.»

Ellery accese una sigaretta, pensando che senz’altro qualcuno doveva aver notato la sua assenza la sera precedente. Ma tutti cominciarono a parlare contemporaneamente finché il capo li interruppe con un gesto.

«Non arriveremo a nulla, se insisteremo su questa unica domanda. Si è ballato e bevuto troppo, ieri sera; poi la camera era quasi buia perché solo le candele dell’albero erano accese… non che questo faccia molta differenza» soggiunse Dakin.

«Che cosa vuol dire?» domandò Pat rapidamente.

«Voglio dire che questo non è un punto importante, signorina Wright.» In quel momento la voce di Dakin era fredda, quasi gelida. «Quel che importa è: chi ha avuto il controllo della distribuzione delle bibite? Rispondete a questa domanda! Perché colui che ha portato il cocktail alla signora… dev’essere per forza la persona che l’ha avvelenato!»

“Benissimo, capo!” pensò il signor Queen. “Tu non sai quel che so io, ma hai colpito nel segno ugualmente. Dovresti mettere a frutto il tuo talento…”

«Lei ha portato quel cocktail, Jim Haight» disse con forza Dakin. «Nessun avvelenatore avrebbe lasciato cadere dell’arsenico in uno di quei bicchieri, fidando poi in Dio perché la persona designata prendesse quello giusto. Nossignore. Non ci sarebbe senso. Sua moglie ha ricevuto il bicchiere avvelenato, sì o no?»

«E va bene, sono stato io. E con questo?» Gli occhi di Jim sembravano due tizzoni. «Si sente soddisfatto, ora?»

«Pienamente» dichiarò il capo con tono mite. «Solo una cosa non sapeva, signor Haight. Lei è uscito dal salotto per preparare altre bibite, senza immaginare che sua sorella Rosemary avrebbe insistito per farsi dare un altro liquore; non sapeva che sua moglie, dopo aver bevuto due piccoli sorsi dal proprio bicchiere, gliel’avrebbe offerto. Così, invece di uccidere sua moglie, ha ucciso sua sorella!»

«Non può credere ch’io abbia fatto una cosa simile, Dakin» mormorò Jim con voce roca.

Dakin si strinse nelle spalle.

«Signor Haight, io so soltanto quello che mi dice il buon senso. I fatti rivelano chiaramente che lei, soltanto lei, aveva, come si dice?, l’occasione. Quindi può darsi che lei non avesse quello che si chiama il movente… io non lo so. Lo sa qualcuno dei presenti?»

Era una domanda disarmante. L’ammirazione del signor Queen per Dakin crebbe ancora. La sottigliezza del capo della polizia era squisita.

«Vuole sapere perché avrei dovuto uccidere mia moglie, dopo quattro mesi di matrimonio?» rispose aggressivamente Jim. «Vada all’inferno.»

«Questa non è una risposta, signor Haight. Chi di voi ci può aiutare?»

John strinse con forza i braccioli della sua poltrona, lanciando un’occhiata ad Hermy. Ma nello sguardo di sua moglie non lesse che orrore.

«Mia figlia Nora» disse John a fatica «ha ereditato centomila dollari dal nonno il giorno del suo matrimonio con Jim. Se Nora fosse morta… Jim avrebbe ereditato tutto a sua volta.»

Jim rimase seduto, guardandosi attorno, senza vedere. Il capo Dakin fece un cenno a Bradford ed entrambi lasciarono la stanza. Cinque minuti dopo rientrarono. Carter era ancora pallido e fissava davanti a sé, cercando di evitare gli sguardi degli altri.

«Signor Haight» disse gravemente Dakin «sono costretto a chiederle di non lasciare Wrightsville per nessuna ragione.»

Era stato Bradford a ritardare l’arresto vero e proprio, pensò Ellery, ma non l’aveva fatto per compassione. Aveva agito per dovere, piuttosto; il caso, da un punto di vista legale, era tutt’altro che completo. Ma il “caso” sarebbe proseguito, comunque. Il signor Queen era certo che, se non fosse sopravvenuto un vero e proprio miracolo, Jim Haight non avrebbe girato a lungo libero per le strade di Wrightsville.

II Nora parla

Un cadavere in casa Wright. Wrightsville discuteva l’avvenimento con letizia sempre crescente. In casa Wright, nella prima famiglia della città, un avvelenamento! Un delitto! Chi non ricordava la storia di tre anni prima? La fuga di Jim Haight, la morte di quel tale che veniva da chissà dove? Ormai tutti chiamavano la casa di Nora, la “casa del malaugurio”. La soddisfazione dei maligni del paese si sfogava in chiacchiere senza fine. Il signor “Ellery Smith-Queen” aveva la sensazione di essere diventato un soldato che difendeva una roccaforte. Una piccola folla sostava sempre davanti ai cancelli di casa Haight, e uno dei posti di vendetta più ricercato era il terrazzo di Emmeline Du Pré, la pettegola principe, il gazzettino della comunità. Se un viso appariva alla finestra di una delle due case incriminate, dal perenne gruppetto degli spettatori si sollevava un vivo brusìo.

«Ma che cosa ci sta accadendo?» gemeva Hermione. «Io non ho più il coraggio di rispondere al telefono!»

«Siamo diventati il museo degli orrori» osservò Lola cupamente.

Sin dal primo dell’anno Lola non aveva più lasciato la casa dei suoi. Divideva la camera con Pat, e la notte, in silenzio, lavava da sola la propria biancheria nello stanzino da bagno di Pat. Non voleva accettare assolutamente nulla dalla famiglia, e prendeva i pasti insieme a Jim. Lola fu l’unico membro della famiglia che osò uscire di casa nei primi giorni di gennaio. Il due gennaio diede a Emmeline Du Pré una tale risposta che per poco non la mandò in convulsioni.

Alberta Manaskas non si era più presentata in servizio, così Lola cucinava per Jim. Jim non diceva nulla e andava in banca come al solito. Anche John non diceva nulla, e andava in banca a sua volta. I due uomini non si parlavano mai. Nora, in preda alla febbre, si agitava nel letto, soffriva moltissimo e chiamava disperatamente suo marito. Il suo cuscino era sempre bagnato di lacrime. Carter Bradford si era rintanato in ufficio e, di tanto in tanto, aveva lunghi colloqui segreti con il capo della polizia.

In mezzo a tutto questo scompiglio, il signor Queen si moveva silenziosamente, senza dar fastidio a nessuno. Tre giorni dopo il delitto, bloccò Pat e con un cenno le indicò le scale. Ellery condusse la ragazza nella propria camera e chiuse la porta a chiave.

«Pat, ho pensato molto in questi giorni.»

«Spero che le abbia fatto bene.» Pat era molto inquieta.

«Quando il dottor Willoughby è stato qui stamattina, l’ho sentito parlare al telefono con Dakin. Il magistrato della Contea, Salemson, ha interrotto le vacanze ed è tornato in città. Domani ci sarà l’inchiesta.»

«L’inchiesta! Dovremo uscire di casa?»

«È la legge, tesoro; mi dispiace, mi dispiace tanto.»

«Ma non Nora!»

«No; il dottor Willoughby le rifiuta il permesso di alzarsi. Ho sentito che lo diceva a Dakin.»

«Ellery… Che cosa faranno?»

«Cercheranno di stabilire i fatti e di arrivare alla verità.»

«La verità.» Pat era terrorizzata.

«Pat» disse Ellery gravemente «noi conosciamo già i due dati più importanti di questo problema… ormai non si tratta più di un delitto potenziale. Un assassinio è stato commesso. Una donna è morta… Il fatto che sia morta per sbaglio non ha importanza; perciò la legge…»

«Lei sta cercando di dirmi, con inutili giri di parole» lo interruppe Pat con forza «che dobbiamo andare alla polizia a raccontare tutto quello che sappiamo…?»

«Sta a noi mandare o non mandare Jim Haight alla sedia elettrica.»

Pat balzò in piedi. Ellery le prese la mano.

«Ellery, non è possibile! Non può esserne convinto! E nemmeno io, sebbene sia la sorella di Nora…»

«Noi stiamo parlando di fatti, ora, e i sentimenti non c’entrano» dichiarò Ellery irritato. «Non si rende conto che noi siamo in possesso di quattro gravissimi indizi, cioè di quattro fatti che possono provare la colpevolezza di Jim?»

«Quattro?» balbettò Pat. «Sono tanti!»

Ellery la costrinse a sedersi. La ragazza aveva un’espressione perplessa.

«Fatto numero uno: le tre lettere nascoste nella cappelliera di Nora, che indicano chiaramente le sue intenzioni.» Pat s’inumidì le labbra. «Fatto numero due: il disperato bisogno di danaro di Jim. Lo sappiamo per certo, perché è andato a impegnare i gioielli di sua moglie, e le ha chiesto dei soldi… senza contare che Dakin sa… che alla morte di Nora, Jim avrebbe ereditato una grossa sostanza… non le sembra un motivo sufficiente?»

«Sì… sì.»

«Fatto numero tre: il libro di tossicologia appartenente a Jim, segnato dalla sua matita rossa in un punto dove si parlava del triossido di arsenico; e di triossido d’arsenico era pieno il bicchiere di Nora. Fatto numero quattro:» Ellery scosse il capo «qualcosa che io solo posso stabilire perché ho tenuto Jim sott’occhio ogni momento, la sera dell’ultimo dell’anno. Nessuno, all’infuori di lui, avrebbe potuto avvelenare il bicchiere fatale, e nessuno l’ha fatto. Io sono quindi in grado di stabilire che Jim, non solo aveva la migliore occasione per avvelenare il bicchiere, ma anche l’unica occasione.»

«Senza parlare del pomeriggio in cui Jim era ubriaco e ha detto che aveva intenzione di liberarsi di sua moglie. Dakin e Cart hanno sentito…» sospirò Pat.

«E senza contare, inoltre» proseguì Ellery gentilmente «le due altre occasioni nelle quali Nora è stata avvelenata con l’arsenico: il ventotto novembre e il giorno di Natale, precisamente secondo le date delle due lettere di Jim. Sono dei fatti molto conclusivi, Pat. Chi non crederebbe che Jim voleva uccidere Nora?»

«Eppure lei non lo crede» affermò Pat.

«Non ho detto questo» rispose Ellery lentamente. «Io…» si strinse nelle spalle. «La questione è un’altra: dobbiamo deciderci subito. Parliamo all’inchiesta di domani, o no?»

«E se Jim fosse innocente?» domandò Pat, pensosa, mordendosi un’unghia. «Come posso, come possiamo far condannare un uomo a morte? Un uomo che conosciamo? Ellery, io non me la sento. E poi» continuò Pat col viso sempre più sconvolto «non credo che ci riproverà più, Ellery! Non ora, dopo che ha ucciso sua sorella per errore; non dopo che si è scoperto tutto, e la polizia… voglio dire se è stato lui…»

Ellery si fregò le mani finché gli fecero male, camminando su e giù davanti alla ragazza con la fronte aggrottata.

«So io che cosa dobbiamo fare» dichiarò alla fine. «Dobbiamo sottoporre il problema a Nora.» Pat sgranò gli occhi. «Nora è la vittima, Jim è suo marito. Lasciamo che sia lei a decidere. D’accordo?»

La ragazza rimase a lungo in silenzio.

«Nora è sola in questo momento. Andiamo. E… Ellery.» Il giovane aprì la porta. «Grazie per essere stato un così buon amico, discreto e silenzioso.»

Il signor Queen la prese per un braccio e si incamminarono verso le scale.

Nora giaceva tutta rannicchiata sotto la coperta blu, fissando il soffitto.

“È sempre più spaventata” pensò Ellery.

«Nora» Pat afferrò la mano delicata della sorella. «Ti senti abbastanza forte per parlare?»

Gli occhi dell’ammalata corsero rapidamente da Pat a Ellery; poi con voce ansiosa domandò:

«Che cosa c’è? Che cos’è accaduto? E Jim… lo hanno…?»

«No; non è accaduto nulla, Nora.»

«Ellery pensa… io penso… che è arrivato finalmente il momento di parlarci» dichiarò Pat. Poi soggiunse con forza: «Nora, ti prego, Nora: non richiuderti in te stessa! Ascoltaci!».

Nora raccolse le sue forze e cercò di mettersi a sedere. La sorella minore le aggiustò lo scialle intorno alle spalle con un gesto molto materno. La malata rimase a fissare le lenzuola con lo sguardo vuoto.

«Non abbia paura» intervenne Ellery. E con voce pacata cominciò a raccontare tutto quello che lui e Pat avevano scoperto sin dal principio. Gli occhi di Nora si facevano sempre più grandi.

«Ho cercato di dirtelo!» gridò Pat con voce rotta. «Non hai mai voluto ascoltarmi! Nora, perché?»

«Perché non è vero» mormorò Nora. «Forse al principio anch’io lo pensavo… Ma non è vero, non può essere stato Jim; voi non lo conoscete. La gente gli fa paura. Si comporta in un modo tanto strano, ma nel suo intimo è come un bambino. È debole, troppo debole, per fare quello… che voi pensate abbia fatto. Oh, vi prego!» Nora cominciò a piangere e nascose il viso tra le mani. «Gli voglio bene» singhiozzò. «Ho sempre amato Jim; non crederò mai che abbia voluto uccidermi. Mai! Mai!»

«Ma i fatti, Nora» osservò Ellery stancamente.

«Oh, i fatti! Che importanza hanno i fatti? Una donna sente, sa che tutta questa storia è senza senso. So che qualcuno ha cercato di avvelenarmi tre volte, ma sono certa che non è stato Jim!»

«E le tre lettere, Nora, le lettere scritte da Jim?»

«Non le ha scritte lui! Le avranno falsificate.» Nora ansava, ora. «Non avete mai sentito parlare di falsificazioni?»

«E le minacce che ha lanciato contro di lei, il giorno in cui era ubriaco?» chiese Ellery.

«Non si rendeva conto di quel che diceva!»

Nora non piangeva più; combatteva con tutte le sue forze. Ellery ricostruì con lei, passo passo, tutta la storia di quello strabiliante caso, e la ragazza mise in discussione ogni sua argomentazione. Non con altri argomenti. Con la sua fede: una fede adamantina, spaventosa. Alla fine Ellery si trovò a battersi solo contro le due donne.

«Ma voi due non ragionate…» esplose, alzando le braccia al cielo. Poi sorrise. «Ebbene, che volete? «È una sciocchezza, grossa, ma la farò.»

«Non dirà nulla alla polizia?»

«Non dirò nulla.»

Nora ricadde sui cuscini, chiudendo gli occhi. Pat le sfiorò le guance con un bacio. Ma il signor Queen si rifiutò di lasciarla in pace.

«Senta, Nora: dal momento che sono suo complice, ho bisogno che mi dica tutta la verità.»

«Quello che vuole» fece Nora con voce stanca.

«Perché Jim l’ha lasciata tre anni fa, alla vigilia del matrimonio?»

Pat guardò ansiosamente sua sorella.

«Oh, è questo che vuole sapere?» Nora era sorpresa. «Ma… una cosa da niente… non può aver a che fare con…»

«Se non le dispiace, vorrei saperlo ugualmente.»

«Lei non conosce Jim; quando ci siamo incontrati e ci siamo innamorati, io non avevo capito fino a che punto fosse indipendente. Non vedevo che male ci sarebbe stato ad accettare qualche aiuto da papà finché non fosse stato in grado di marciare con le sue sole gambe. Ma Jim si ostinava a dire che doveva vivere solo col suo stipendio da cassiere.»

«Ricordo quei litigi» mormorò Pat. «Ma non mi sarei mai sognata che fossero così…»

«Nemmeno io lo prendevo molto sul serio. Quando Lola mi raccontò che papà stava preparando una bella casetta tutta ammobiliata come regalo di nozze, pensai di tenere il segreto con Jim. Glielo rivelai solo il giorno precedente al matrimonio. Lui andò su tutte le furie. Mi disse che aveva già preso in affitto un’altra villetta all’altro capo della città, per cinquanta dollari al mese… era tutto quello che potevamo permetterci, per il momento, dato che dovevamo vivere esclusivamente con quel che lui guadagnava.» Nora sospirò. «Immagino di aver perso la testa. Ne nacque un litigio. Un brutto litigio. E Jim scappò come il vento. Questo è tutto.» Nora alzò gli occhi. «È veramente tutto. Non l’ho mai detto né a papà, né alla mamma. Essere piantata in asso, così, da Jim…»

«Suo marito non le scrisse mai, durante l’assenza?»

«No; nemmeno una volta. Ed io… credetti di morire. Tutta la città ne parlava… poi Jim ritornò; entrambi ammettemmo che eravamo stati due sciocchi, ed eccoci qua.»

Così, fin da principio, la causa di tutti i guai era stata la casa, pensò Ellery. Che strano! In ogni punto di quella triste storia s’imbatteva nella casa. Ellery cominciava a credere che il giornalista che aveva inventato la frase “la casa del malaugurio”, fosse dotato di una seconda vista.

«E i litigi che avete avuto con Jim dopo il matrimonio?»

«Danaro. Jim mi chiedeva soldi continuamente. Poi il cammeo, e altre cose, ma è una situazione temporanea» soggiunse in fretta. «Ha giocato d’azzardo in quel locale equivoco, sulla strada provinciale… Immagino che ogni uomo passi attraverso un periodo simile.»

«Nora, che cosa ne pensa di Rosemary Haight?»

«Nulla; so che è morta, e che non dovrei… ma… Ecco: non mi piaceva. Non mi piaceva affatto.»

«Amen» commentò Pat cupamente.

«Nemmeno io posso dire di esserne stato follemente innamorato» affermò il signor Queen. «Ma, volevo dire… Non sa nulla di lei che si possa collegare alle lettere… alla condotta di Jim, in tutto questo rompicapo?

«Jim non ha mai voluto parlare di lei» mormorò Nora faticosamente. «Ma io ho una sensazione ben precisa. Quella ragazza era una poco di buono. Non capisco come lei e Jim potessero essere fratello e sorella.»

«Be’, comunque lo erano» osservò Ellery allegramente. «Ma lei è stanca, Nora. Arrivederci, e… grazie.»

Il giovane uscì rapidamente dalla stanza, mentre Pat passava un asciugamano umido sulla fronte della sorella.

Nulla; assolutamente nulla. E l’indomani ci sarebbe stata l’inchiesta.

III A furor di popolo

Salemson, il magistrato, era molto innervosito dagli ultimi avvenimenti. Un pubblico di più di tre persone gli paralizzava sempre le corde vocali, e dagli archivi risultava che, l’unica volta in cui il magistrato aveva aperto la bocca (ma non allo scopo di respirare, poiché soffriva d’asma), era stato durante un consiglio municipale, quando John Pettigrew aveva chiesto l’abolizione dell’ufficio del magistrato, dato che in tanti anni non vi era stato un solo cadavere che ne giustificasse l’esistenza.

Ora, finalmente, il cadavere c’era.

Ma, se c’era un cadavere, doveva esserci un’inchiesta, e questo significava che il magistrato doveva sedere nella corte del giudice Martin (presa in prestito per l’occasione dal consiglio della Contea).

Sarebbe ingiusto dire che il povero Salemson, nervoso, infelice, disperato, pensasse di sabotare tutte le testimonianze deliberatamente. Era una questione di fede. Salemson non poteva concepire che i membri dell’onorata famiglia Wright potessero avere una macchiolina, nemmeno del più pallido rosa, sulla coscienza. Perciò doveva trattarsi di un mostruoso errore; quella povera diavola doveva essersi tolta la vita volontariamente… Il risultato fu che, con grande disgusto di Dakin e sollievo dei Wright (per non parlare del malinconico divertimento del signor Queen e della disillusione di tutta la cittadinanza di Wrightsville), la confusissima giuria emise un verdetto di: «Morte per mano di persona, o più persone, sconosciute».

Dakin e il procuratore distrettuale Bradford si ritirarono immediatamente nell’ufficio di Cart per un altro colloquio. La famiglia Wright si rintanò in casa e il magistrato Salesmon si rinchiuse nella sua villa avita e si ubriacò con una bottiglia di vino di annata.


Riposa in pace

Come si chiamava? Rosalie? Rose-Marie?

Dicono che fosse molto bella. Ora la stanno sotterrando… quella che Jim Haight ha avvelenato per errore… sua sorella… Dicono che Jim Haight… C’era sul giornale ieri. Non l’hai letto? Be’, non era proprio detto in modo chiaro ma lo si capiva tra le righe. Certo, Frank era presente. È innamorato di Nora… lo è sempre stato… poi Jim gliel’ha soffiata. E lui non l’ha mai digerita. … Ma perché non arrestano Jim?

Questo mi piacerebbe sapere!

Ceneri alle ceneri…

Una storia ambigua…

Non lo sapevi? Cart Bradford e Patricia Wright filano… È la cognata di Jim Haight…

I ricchi se la cavano sempre… Se dovesse capitare a noi…

Riposa in pace

Rosemary Haight fu sepolta nel Cimitero di East Twin Hill e non in quello di West Twin Hill dove i Wright avevano la loro cappella di famiglia.


L’indomani mattina il signor Queen, alzandosi presto, vide scritta da mano ignota, a caratteri cubitali, la parola Uxoricida sul marciapiede che costeggiava la casa del malaugurio. Il signor Queen cancellò la parola accuratamente.


«Buongiorno» disse Myron Garback, il proprietario della farmacia.

«Buongiorno, signor Garback» rispose il signor Queen, accigliato, «Vorrei che mi aiutasse a risolvere un problema. Ho preso una casa in affitto, e nel giardino c’è una piccola serra… pensi che ho trovato delle verdure rigogliose in gennaio!»

«Davvero?» domandò Myron con scarso interesse.

«Proprio così. A me piacciono moltissimo i pomodori coltivati in casa, e nella mia serra c’è una bellissima pianta; però è infestata da una quantità di bestioline rotonde e giallastre. Stanno mangiandosi tutte le foglie.»

«Già, già. Hanno delle strisce nere sulle ali?»

«Mi pare di sì» dichiarò il signor Queen, molto infelice.

Myron sorrise con indulgenza.

«Dorifora decemlineata. Scusi, mi piace far pompa del mio latino. Comunemente è conosciuta come “scarafaggio della patata”.»

«Proprio così: scarafaggio della patata!» si lagnò il signor Queen. «Dori… come ha detto?»

«Non ha importanza» affermò Myron con sussiego. «Immagino che voglia qualcosa per mandarle al creatore.»

«Precisamente» affermò il signor Queen con un feroce cipiglio. Myron si allontanò di corsa e ritornò poco dopo con una piccola scatola di cartone dall’etichetta bianca e rosa.

«Questa andrà bene.»

«Qual’è l’ingrediente che scoraggerà quelle brutte bestie a tornare sulle mie piantine?» domandò il signor Queen.

«Arsenico… ossido arsenioso. Il quindici per cento. Chimicamente…» Myron fece una pausa. «Per essere esatti, si tratta di aceto-arsenite di rame. Ma è l’arsenico che uccide gli insetti. Faccia attenzione, però: è velenoso.»

«Lo spero!» esclamò il signor Queen, porgendo a Myron un biglietto da cinque dollari.

«Eccole il resto» fece Myron.

«Grazie mille. Grazie ancora!» esclamò il signor Queen con effusione, senza dar segno d’andarsene. «Arsenico, arsenico» continuò loquace. «Senta un po’: non è di questa roba che si parla sul giornale? Voglio dire, per quell’omicidio? Sa la storia di quella tale che ha bevuto dell’arsenico in casa Wright, la notte dell’ultimo dell’anno?»

«Sì» rispose secco il farmacista, con un’occhiata penetrante a Ellery. Poi voltò le spalle al cliente e prese ad armeggiare tra gli scaffali.

«Mi domando dove sono riusciti a trovarlo» osservò in tono cortese il signor Queen, appoggiandosi al banco. «Non è necessaria la ricetta di un medico per venderlo?»

«Non sempre» ribatté il farmacista con una certa impazienza. «Anche lei non ne ha avuto bisogno in questo momento? Moltissimi preparati commerciali contengono arsenico.»

«Ma se un farmacista vendesse arsenico a una persona senza la dovuta prescrizione…?»

Myron Garback si voltò di scatto.

«I miei registri sono perfettamente in ordine! L’ho detto anche al capo Dakin. L’unica volta in cui il signor Haight può esserselo procurato è stato quando…»

«Quando?» fece eco il signor Queen.

Myron si morse le labbra.

«Mi scusi, signor Smith. Non credo proprio di doverne parlare» disse, e ad un tratto assunse un’espressione sorpresa.

«Aspetti un momento!» esclamò. «Lei non sarà quel tale che…»

«No certamente» dichiarò frettoloso il signor Queen. «Buongiorno!» e uscì di corsa dal negozio. Dunque, il veleno era stato acquistato nella farmacia di Garback. Era qualcosa, un piccolo indizio, e Dakin l’aveva raccolto. Tranquillamente, sotto sotto, stava lavorando per provare la colpevolezza di Jim Haight.


Ellery s’incamminò sull’acciottolato scivoloso dirigendosi alla fermata dell’autobus. Soffiava un vento gelido e il giovane sollevò il bavero del cappotto per ripararsi il viso. Con la coda dell’occhio vide un’automobile fermarsi all’altro capo della piazza. Ne uscì l’alta figura di Jim Haight che si diresse rapidamente verso la Banca Nazionale. Alcuni ragazzini con le cartelle penzoloni sulla schiena cominciarono a seguirlo. Ellery si fermò come affascinato. I bambini urlarono qualcosa all’indirizzo di Jim, e il giovane si fermò, si voltò a dir loro qualcosa con un gesto di collera. I ragazzini arretrarono, e Jim riprese la propria strada. Ellery gridò un avvertimento, ma troppo tardi. Uno dei ragazzini aveva raccolto una pietra e l’aveva lanciata con violenza. Jim cadde bocconi.

Ellery attraversò la piazza di corsa, ma altri avevano notato la scena, e quando l’investigatore raggiunse Jim si era già radunata una piccola folla. I bambini erano spariti.

«Lasciatemi passare, per favore.»

Jim era intontito. Il cappello gli era caduto. I suoi capelli chiari erano sporchi e bagnati di sangue.

«Avvelenatore!» gridò una donna grassa. «È lui… è lui l’avvelenatore!»

«Uxoricida!» esclamò un’altra voce. «Ma perché non lo arrestano? Che legge c’è in questa città?… Dovrebbero impiccarlo…»

Un uomo piccolo e magro buttò via con un calcio il cappello di Jim. Una donna dalle guance cascanti balzò addosso al giovane urlando.

«Basta!» ruggì Ellery. Scostò con violenza l’uomo e, piantandosi tra la donna grassa e l’aggredito, disse in fretta: «Fuori di qui, Jim. Andiamocene».

«Chi mi ha colpito?» domandò Jim. Aveva gli occhi vitrei. «La mia testa…»

«Linciamo quello sporco assassino!»

«Chi è quell’altro?»

«Linciamo anche lui!» si urlò.

Ellery si trovò impegnato in una lotta assurda per salvare la propria vita da un gruppo di selvaggi assetati di sangue. Battendosi pensava: “Ecco quel che capita ai ficcanaso. È meglio che me ne vada da questa città, non mi giova molto restarci”. Usando i gomiti, i piedi e a tratti anche i pugni, riuscì a trascinare la folla verso la banca.

«Ricambi i colpi» gridò a Jim. «Si difenda!»

Ma il giovane rimaneva con le braccia penzoloni. Una manica del suo cappotto era sparita, e un rivoletto di sangue gli correva lungo una guancia. Si lasciava colpire, graffiare, prendere a calci. A un tratto, una figurina minuta, che aveva però tutta la forza di una divisione corazzata, assaltò la folla dal marciapiedi.

Ellery ci vedeva ormai a fatica e aveva il naso gonfio.

«Cannibali! Lasciateli stare!» urlò Pat.

«Ahi!»

«Vi sta bene, Hosy, Molloy e lei… signora Landesman! Non si vergogna? E lei, brutta vecchia strega ubriaca, sì, dico proprio a lei, Julie Asturio! Finitela, dico!»

«Brava Patty!» gridò un uomo in mezzo alla folla. «Smettetela, gente, venite via, non è il modo di comportarsi!»

Pat si slanciò nel fitto della mischia. In quel momento Buzz Congress, il fattorino della banca, caricò la folla con la forza delle sue spalle poderose. Buzz pesava circa cento chili, e il colpo fu considerevole. La gente si sbandò ed Ellery e Pat riuscirono finalmente a trascinare Jim in banca. Il vecchio John corse loro incontro, ed affrontò la folla coi capelli grigi al vento.

«Andatevene a casa, razza di bestie! Altrimenti vi salto addosso io!»

Qualcuno rise, qualcuno gemette, e poi un poco vergognoso l’assembramento si sciolse ritirandosi lentamente come una marea.

Mentre Ellery aiutava Pat a medicare Jim, vide, oltre le porte a vetri, la silenziosa figura di Frank Lloyd sul marciapiede. C’era una piega amara sulle labbra del giornalista e, quando si accorse che Ellery lo osservava, sorrise come per dire: “Non l’avevo avvertita che questa città era pericolosa?”. Poi s’allontanò lentamente attraverso la piazza.

Pat ed Ellery condussero Jim in automobile alla piccola casa sulla collina. Là trovarono il dottor Willoughby che li aspettava… John aveva telefonato dalla banca.

«Vedo dei brutti graffi, delle larghe contusioni e una ferita profonda al cuoio capelluto del capo, ma starà bene presto» commentò il medico.

«E il signor Smith, zio Milo?» domandò ansiosamente Pat. «Ha l’aria di essersi salvato a stento dalla macina di un mulino!»

«Sto perfettamente bene» protestò Ellery, ma il dottor Willoughby dovette medicare anche lui.

Non appena il dottore se ne fu andato, Ellery svestì Jim e aiutò Pat a metterlo a letto. Immediatamente il giovane si voltò da un lato, posando il viso bendato sulla mano e chiuse gli occhi. I due lo guardarono per un istante poi uscirono in punta di piedi.

«Non ha detto una sola parola» gemette Pat «non una parola durante tutta questa terribile scena… sembra quel personaggio della Bibbia…»

«Giobbe» fece Ellery cupo. «Il paziente arameo che soffriva in silenzio. Ebbene il nostro arameo farà bene a starsene lontano dalla città d’ora in poi!»

Il giorno dopo Jim cessò di andare in banca.

IV L’America scopre Wrightsville

Durante quel penoso mese di gennaio, al signor Queen parve che le sue indagini seguissero un circolo chiuso; e, in seguito, gli parve di non riuscire a far nessun passo che il capo Dakin e il procuratore distrettuale non avessero già fatto. Tranquillamente, silenziosamente, lo precedevano sempre. Ellery non disse a Pat che queste segrete indagini della legge avrebbero condotto a un doloroso risultato. Non valeva la pena di far soffrire la ragazza più di quanto già non soffrisse.

E poi c’era la stampa. Gli articoli di Frank Lloyd erano riusciti a schizzare qualche goccia di veleno fino a Chicago, poiché nella prima metà di gennaio, poco dopo il funerale di Rosemary Haight, una ragazza snella, molto elegante, dai capelli striati d’argento e dagli occhi dolci e affaticati, si fece condurre all’infelice casa in cima alla collina. Il giorno seguente i lettori di duecentocinquantanove giornali degli Stati Uniti apprendevano che Roberta si era lanciata in un’altra battaglia per l’amore. L’articolo di fondo della Rubrica di Roberta, di Roberta Roberts, diceva:

“Oggi, in una piccola città d’America che si chiama Wrightsville, si svolge una tragedia romantica e fantastica in cui un uomo e una donna sono i tragici protagonisti.”

Questo attirò l’attenzione di centinaia d’altri giornalisti. Alla fine di gennaio arrivò a Wrightsville una dozzina dei reporters più quotati che s’affrettarono ad assicurarsi la cooperazione di Frank Lloyd. La storia di Jim Haight figurava sulle prime pagine dei più importanti giornali d’America.


La schiera dei giornalisti e corrispondenti continuò ad aumentare. Abitavano dappertutto, si vedevano dappertutto, curiosavano dappertutto.

Il signor Ellery Queen osservò amaramente che la città di Wrightsville somigliava sempre più alla fiera della Contea. Nei negozi cominciarono ad apparire dei generi di lusso, i prezzi salirono vertiginosamente; nei parcheggi attorno alla piazza era praticamente impossibile trovare un posto. Dakin dovette mettere in circolazione cinque nuovi agenti per dirigere il traffico e mantenere l’ordine. L’involontaria causa di tutto questo progresso, rimaneva barricata nella sua piccola casa bianca e si rifiutava di parlare a chiunque, esclusi i Wright, Ellery e in seguito a Roberta Roberts. Con la stampa Jim fu inflessibile.

«Fino a prova contraria pago ancora le tasse!» gridò a Dakin per telefono. «Ho il diritto di starmene in pace! Mettetemi un poliziotto di guardia alla porta!»

«Va bene, signor Haight» rispose cortesemente il capo della polizia. E da quel pomeriggio l’agente Dick Gobbin, che negli ultimi tempi era rimasto a guardia della casa in abito borghese, ligio agli ordini superiori si mise in uniforme e divenne visibile. Jim ritornò alla sua reclusione.

«Le cose vanno sempre peggio» riferì Pat ad Ellery. «Jim beve fino a istupidirsi. Anche Lola non ottiene nulla con lui. Ellery, crede che abbia paura?»

«No, non mi pare affatto spaventato. Il suo sentimento è molto più profondo, Patty. Non ha ancora visto Nora?»

«Si vergogna d’andarle vicino. Nora minaccia di saltare dal letto e di andarlo a trovare personalmente, ma il dottor Willoughby dice che, se fa una cosa simile, la manda all’ospedale. Ho dormito con lei ieri notte. Ha pianto quasi continuamente.»

«Crede sempre che suo marito sia innocente?»

«Naturalmente. E vorrebbe che si difendesse. Dice che, se solo potesse parlargli, lo convincerebbe a resistere a tutti gli attacchi. Ha visto che cosa scrivono quei maledetti reporters sul conto di Jim?»

«Sì» sospirò Ellery.

«È tutta colpa di Frank Lloyd! Che vergogna, tradire così i suoi migliori amici. Papà è fuori di sé, e dice che non parlerà mai più con Frank.»

«È meglio lasciar stare Lloyd» brontolò Ellery, accigliato. «È una specie di bestione primitivo, molto pericoloso quando s’inferocisce. Ne parlerò con suo padre.»

«Non si disturbi. Sa che papà non ha voglia di parlare con nessuno» fece Pat a voce bassa. «E poi… ma come può la gente esser così cattiva? Le amiche della mamma non la frequentano più, e mormorano alle sue spalle le cose più disgustose…»

«Patty, che cosa sa di quella Roberta Roberts?»

«È l’unica giornalista umana che ci sia in città.»

«È strano come sappia trarre delle conclusioni completamente diverse da quelle degli altri giornalisti dagli stessi fatti. Comunque, mi sembra un tipo un po’ appiccicaticcio. Credo che indagherò io stesso su questa specie di Cupido in gonnella.»


Ma le indagini confermarono quello che gli articoli della Roberts avevano lasciato capire. La giornalista si batteva con tutte le sue forze perché l’opinione pubblica si voltasse in favore di Jim. Dopo un solo colloquio con Nora, le due donne erano divenute alleate.

«Se soltanto Jim venisse qui a parlarmi!» si lagnò Nora. «Non può cercare di convincerlo, signorina Roberts?»

«Forse a lei darebbe ascolto» intervenne Pat. «Ha detto che lei era l’unica amica che gli rimaneva al mondo.»

Pat aveva solo tralasciato di dire in quali condizioni si trovava il giovane quando aveva fatto questa dichiarazione. «Jim è un tipo strano» dichiarò Roberta Roberts. «Ho parlato con lui due volte, e non sono ancora riuscita ad ottenere la sua fiducia. Proverò a parlargli ancora.»

Ma Jim si rifiutò d’uscire di casa.

«Ma perché, Jim?» domandò la giornalista pazientemente. Ellery era presente e così pure Lola Wright; una Lola molto più silenziosa, in quei giorni.

«Lasciatemi in pace.» Jim non si era raso ed era grigiastro in viso. Era chiaro che aveva bevuto moltissimo.

«Ma non può stare qui come un cane rognoso e permettere che la gente le sputi addosso. Vada a trovare Nora, Jim. In lei troverà la forza e inoltre… come fa a non aver voglia di vederla?»

Jim voltò verso il muro il viso contratto.

«Nora è in buone mani. La sua famiglia si prende cura di lei. Io le ho già fatto abbastanza male. Lasciatemi in pace!»

«Ma Nora crede in lei!»

«Non voglio vedere Nora fino a che tutto questo sarà finito» borbottò il giovane. «Non la vedrò fin tanto che non sarò di nuovo Jim Haight e non più una bestia pericolosa.»

Con un gesto incerto, il giovane afferrò un bicchiere e bevve il liquore d’un fiato. Poi cadde all’indietro intontito e tutti gli sforzi di Roberta non riuscirono a farlo tornare in sé.

Quando la giornalista se ne fu andata, Ellery domandò a Lola Wright:

«E lei, cara sfinge, cosa ne pensa?»

«Non ho punti di vista. Qualcuno deve pur prendersi cura di Jim. Io lo nutro, lo lavo, e gli faccio avere una bottiglia di “scaccia-pensieri”, ogni tanto.» Lola sorrise.

«Non è molto convenzionale» commentò il signor Queen con un sorriso.

«È appynto nel mio stile» ribatté Lola. «Io non sono convenzionale.»

«Non ha ancora espresso la sua opinione, Lola…»

«Sono state già espresse troppe opinioni, in questo caso» ribatté la ragazza. «Che cosa vuole che le dica, io prendo sempre le parti dei perseguitati. Questo povero ragazzo soffre e mi basta.»

«A quanto pare, questo basta anche a Roberta Roberts» borbottò Ellery.

«Chi? L’antesignana “dell’amore vince tutto”?» Lola si strinse nelle spalle. «Se vuole il mio parere, quella donna è tutto zucchero e melassa con Jim, solo per poter arrivare dove gli altri giornalisti non arrivano.»

V La festa di San Valentino

Tenendo conto che Nora era costretta a letto per un avvelenamento da arsenico, che John andava perdendo lentamente tutti i suoi clienti più danarosi, che Hermione era ostracizzata dalle sue amiche, che Pat era trasformata più o meno in un’infermiera, e perfino Lola era costretta ad abbandonare il suo isolamento… era veramente meraviglioso vedere come i Wright fingevano coraggiosamente anche tra di loro che non fosse successo nulla. Tutti parlavano delle condizioni di Nora come di una “malattia” quasi che la ragazza soffrisse di laringite o di qualche misterioso ma rispettabile disturbo “femminile”. John continuava a parlare di affari con la sua consueta aria sbrigativa… se non partecipava a tutti i consigli di amministrazione era perché aveva troppo da fare, se non andava ai pranzi settimanali della Camera di Commercio era perché soffriva di stomaco.

In quanto a Jim… non se ne parlava proprio.

Ma Hermy, dopo un primo periodo di smarrimento, ricominciò la solita vita. Nessuno le avrebbe impedito di farsi vedere in città. Fece la sua comparsa al circolo femminile, con l’abito più elegante che aveva, come se non fosse successo nulla.

Agli inizi di febbraio le cose avevano ripreso una tale aria di normalità che Lola tornò nel suo appartamento e Pat si assunse il compito di cucinare per Jim e di badare alla casa di Nora, che, comunque, cominciava a rimettersi.

Giovedì tredici febbraio, il dottor Willoughby annunziò che Nora si poteva alzare. Tutta la famiglia esultò di gioia. Ludie preparò un’immensa torta meringata di limone, il dolce favorito di Nora. John ritornò a casa più presto dalla banca con un enorme fascio di rose rosse (dove fosse riuscito a trovarle, in febbraio a Wrightsville, era davvero inspiegabile); Patty si stiracchiò come se fosse stata rattrappita, si lavò i capelli e si smaltò le unghie mormorando:

«Mamma mia, come m’ero lasciata andare!»

Nora chiese subito di vedere Jim, ma Hermione le rifiutò il permesso di uscire di casa.

«È il primo giorno, cara! Ma sei pazza?»

Nora telefonò alla casa accanto. Ma dopo poco riappese il ricevitore desolata. Nessuno aveva risposto.

«Forse è uscito per fare una passeggiata» disse Pat.

«Sono sicura che è così, Nora» disse Hermy che non rivelò di avere visto proprio in quel momento il viso grigiastro del giovane premuto contro i vetri della camera da letto del villino. «Credo bene!» fece Nora un poco agitata; poi telefonò al cartolaio che le mandasse il più bel cartoncino di S. Valentino che avesse in negozio.

Il cartoncino arrivò, era una cosina graziosa di raso rosa trapunta, orlata di pizzo e adorna di grassi Cupidi rosa, e delle frasi dolci e sentimentali che usavano spedirsi gli innamorati il giorno di S. Valentino.

Nora scrisse la busta febbrilmente e mandò fuori Ellery a infilarla nella cassetta delle lettere della casa vicina.

Nella posta del venerdì mattina, non c’era nessun cartoncino di S. Valentino per Nora.

«Vado da lui» dichiarò Nora fermamente. «Sta comportandosi come uno sciocco. Mette il broncio perché crede che tutto il mondo sia contro di lui. Voglio andare…»

Ludie entrò trepida e spaurita mormorando:

«C’è qui il capo Dakin col signor Bradford, signora Hermy.»

«Dakin!» Hermy divenne pallidissima. «Per me, Ludie?»

«Il signor capo dice che vuol vedere la signora Nora.»

«Vuol vedere me?» domandò Nora con voce tremante.

«Me ne occupo io!» affermò John alzandosi di tavola e dirigendosi verso il salotto.

Il signor Queen fece i gradini a quattro a quattro e andò a svegliare Pat:

«Scenda Pat… ci siamo.»

Tre minuti dopo tornava a pianterreno con la ragazza. Mentre varcavano la soglia del salotto, Dakin stava dicendo:

«Naturalmente, signora Haight, dovremo ricostruire insieme tutta questa storia. Avevo detto al dottor Willoughby di farmi sapere quando lei avrebbe potuto alzarsi…»

«Molto gentile da parte sua» mormorò Nora. Si capiva che era spaventata a morte. Il suo corpo aveva una rigidezza legnosa, gli occhi passavano incessantemente da Dakin a Bradford. Pareva una marionetta mossa da invisibili mani.

«Salve, signor Dakin, non le sembra un po’ presto per una visita di società?» domandò Pat in tono sprezzante.

Carter Bradford la fissò furioso e infelice.

«Non vedo che cosa vi aspettiate da Nora» osservò freddamente John. «Patricia, siediti!»

«Patricia?» mormorò Pat. Suo padre non l’aveva chiamata Patricia da molti anni: da quando l’aveva sculacciata l’ultima volta.

Dakin salutò cortesemente Ellery con un cenno del capo.

«Lieto di vederla, signor Smith. Ora che siamo tutti pronti… Carter, volevi dire qualche cosa?»

«Sì!» esplose Carter. «Volevo dire che sono in una posizione impossibile. Volevo dire…»

Fece un gesto disperato e andò verso la finestra a guardare i campi coperti di neve.

«Ed ora, signora Haight, vuole raccontarmi che cosa è successo la sera di capodanno? Vuole dirmi che cosa ha visto? Ho già sentito il racconto di tutti…»

«E perché no? Che cosa me ne importa?» Nora aveva parlato con voce roca e dovette schiarirsi la gola. Poi cominciò a parlare rapidamente e con voce acuta. «Non ho proprio niente da dirle. Cioè tutto quel che ho visto…»

«Quando suo marito è venuto a offrirle il cocktail, le ha porto un bicchiere particolare o ha fatto in modo che lei ne scegliesse uno piuttosto che un altro?»

«Come posso ricordarmene?» chiese Nora indignata. «È un’insinuazione orribile!»

«Signora Haight.» La voce di Dakin divenne improvvisamente gelida. «Suo marito non ha per caso tentato di avvelenarla prima di Natale?»

«No!» La risposta era stata secca, tagliente.

«Nora cara, non agitarti» ansimò Pat.

«Ne è certa, signora Haight?» insisté Dakin.

«Naturalmente.»

«Non vuole dirci nulla delle continue liti che aveva con suo marito, signora Haight?»

«Liti!» Nora era livida ora. «Immagino che sia stata quell’orribile Du Pré a parlarne oppure…» il tono della voce di Nora fu tale che perfino Carter Bradford si voltò. La giovane aveva parlato con forza, con odio quasi e ora guardava Ellery duramente.

«Oppure… chi, signora Haight?» domandò Dakin.

«Nulla, nessuno. Non potete lasciar stare Jim?»

Nora ora piangeva istericamente. Entrò il dottor Willoughby, ansioso e preoccupato.

«Nora, piangi ancora? Dakin, l’avevo avvertita…»

«Ho dovuto fare il mio dovere, dottore» affermò il capo della polizia con dignità. «Signora Haight, non ha nulla da dirci che possa aiutare suo marito?…»

«Non è stato lui, lo giuro!»

«Allora, se non mi dice nulla, signora, credo proprio che dovrò farlo.»

«Che cosa, per l’amor del cielo?»

«Dovrò arrestare suo marito.»

«Arrestare… Jim?»

Nora cominciò a ridere istericamente. Dietro gli occhiali le sue pupille erano molto dilatate. Il dottor Willoughby cercò di calmarla, ma lei lo respinse.

«Non potete arrestare Jim! Non ha fatto niente, non avete nessuna accusa a suo carico!»

«Ne abbiamo diverse» affermò Dakin.

«Mi spiace, Nora» mormorò Carter Bradford. «Ma è vero.»

«Moltissimi capi d’accusa…» mormorò Nora. Poi gridò rivolta a Pat: «Troppa gente lo sapeva! Ecco cosa vuol dire avere degli estranei in casa!»

«Nora!» protestò Pat. «Ma cara…»

«Un momento, Nora» cominciò Ellery.

«Lei non osi rivolgermi la parola!» gridò Nora con voce stridula. «Lei lo ritiene colpevole per via di quelle tre lettere! Non lo arresterebbero se lei non avesse parlato!»

Qualcosa dello sguardo fisso di Ellery parve fermare la crisi di nervi di Nora, che s’interruppe con un gemito e s’appoggiò al dottor Willoughby. Nei suoi occhi si leggeva ora un’enorme paura. Attonita, fissò prima Dakin poi Bradford e si strinse ancor di più i pugni portandosene uno alla bocca.

«Quali lettere?» domandò Dakin.

«No! Non volevo dire…»

Carter le corse vicino e le afferrò una mano.

«Nora! Quali lettere?» domandò con voce dura.

«No! No!»

«Ma deve dirmelo. Se ci sono delle lettere…»

«Vuole dirmelo lei, signor Smith?» chiese il capo della polizia.

Ellery assunse un’espressione attonita, e scosse il capo.

Pat balzò in piedi e spinse indietro Bradford.

«Lascia stare Nora!» urlò la ragazza con voce appassionata. «Giuda!»

Bradford reagì con violenza alla violenza.

«Non potete contare sulla mia amicizia!» urlò Carter. «Perquisite questa casa e la casa accanto!»

«L’avrei fatto da molto tempo, Cart, se lei non avesse sempre cercato di impedirmelo» affermò il capo della polizia e scomparve.

«Carter» disse John a voce bassissima «lei non deve più venir qui. Capisce?»

Pareva che Bradford stesse per piangere. Nora svenne tra le braccia del dottor Willoughby con un gemito pietoso. Il dottore la portò al piano superiore. Scossi e addolorati, tutti i familiari la seguirono.

«Smith» disse Bradford senza voltarsi.

«Risparmi il fiato» consigliò cordialmente il signor Queen.

«Devo avvertirla che se ha contribuito a sopprimere delle prove…»

«Prove?» fece eco il signor Queen come se non avesse mai udito prima quella parola.

Cart girò su se stesso con la bocca contratta.

«Lei ha cercato di ostacolarmi fin dal principio» disse con voce roca. «Lei si è intrufolato in questa casa, mi ha rubato l’affetto di Pat…»

«Faccia attenzione a quello che dice» lo interruppe il signor Queen con la massima cortesia.

Cart tacque e strinse i pugni; Ellery andò alla finestra e guardò fuori. Dieci minuti dopo i due giovani erano ancora nella stessa posizione quando Patty entrò piangendo; il suo viso li sconvolse. La ragazza andò direttamente verso Ellery.

«È accaduta una cosa tremenda» disse, e singhiozzò più forte.

«Pat, per amor del cielo!»

«Nora, Nora è…»

Il dottor Willoughby chiamò dalla soglia:

«Bradford…»

Entrò il capo della polizia: il suo viso non prometteva nulla di buono. In mano aveva la cappelliera di Nora e il grosso libro di Edgcomb. Dakin si fermò di botto.

«Che cosa è successo?» domandò rapidamente. «Che cosa c’è?»

Il dottor Willoughby disse lentamente:

«Nora Haight è incinta, di quattro mesi.»

Nessuno parlò. Nella stanza si udirono soltanto i sospiri di Pat contro il petto di Ellery.

«Pat…» disse Bradford con voce tremante. «Questo è… è troppo» e uscì barcollando. Dopo un momento, si udì la porta di strada sbattere rumorosamente.

«Io non mi prendo la responsabilità della vita della vita della signora Haight» disse brusco il dottor Willoughby «se dovessero capitarle altri episodi come questo! Può chiamare tutti i medici della Contea e le confermeranno quanto ho detto. È incinta, ha i nervi a pezzi, è di costituzione delicata…»

«Senta dottore» fece Dakin «non è colpa mia se…»

«Oh, vada al diavolo!» sbottò il medico e partì di corsa su per le scale.

Dankin rimase immobile al centro della stanza, con la cappelliera di Nora in una mano e il libro di tossicologia di Jim nell’altra. Poi sospirò e disse: «Non è colpa mia! E adesso si aggiungono queste tre lettere e questo libro…»

«Dakin…» fece Ellery Queen.

«Queste tre lettere» proseguì Dakin «praticamente chiudono il caso. Quello che non capisco è come mai si trovavano nella cappelliera della signora Haight. Non capisco…»

«Possibile che non capisca?» piagnucolò Pat. «Le pare che Nora avrebbe tenuto quelle tre lettere se avesse pensato che Jim voleva avvelenarla? Perché siete tutti così stupidi?»

«Allora voi due sapevate delle lettere!» esclamò Dakin. «Capisco. Signor Smith anche lei è dentro fino al collo. Non la biasimo, certo, so il significato della parola amicizia. Io non ho niente contro Jim, o contro i Wright… ma devo accertare dei fatti. Se Jim è innocente, non sarà condannato…»

«Se ne vada, per favore» disse Ellery Queen.

Dakin scrollò le spalle e lasciò la casa. Era in preda all’ira e all’amarezza.


Alle undici di mattina del quattordici febbraio, festa di S. Valentino, quando tutta Wrightsville rideva divertita delle cartoline comico-sentimentali che si spediscono in quell’occasione, e mangiava canditi a forma di cuore, il capo della polizia Dakin si fermò alla casetta sulla collina in compagnia dell’agente Gobbin e fece un cenno all’agente. Gobbin bussò alla porta. Nessuno venne ad aprire. Dopo pochi istanti di attesa i due entrarono in casa. Trovarono Jim Haight che russava sul divano della stanza da pranzo, in una confusione di sigarette, di bicchieri sporchi e di bottiglie vuote. Dakin scosse Jim gentilmente e alla fine il giovane ebbe un sussulto. I suoi occhi erano rossi e vitrei.

«Che cosa…»

«Jim Haight» disse Dakin porgendogli un foglio di carta azzurra. «La dichiaro in arresto per il tentato omicidio di Nora Wright e per l’omicidio di Rosemary Haight.»

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