«Anch’io ne ho uno» mormorò Lola, rivolta ad Ellery «per lunedì mattina in tribunale.»
«Che cosa?»
«Un mandato di comparizione per testimoniare a favore della cara e amatissima accusa.»
«Quel ragazzotto ci prepara qualche scherzo» disse il giudice Martin. «Ma si può sapere che cosa fa in tribunale J. C. Pettigrew? Guardi, Bradford sta parlando con lui sottovoce. Eppure non avrebbe nulla a che vedere con questa faccenda.»
«Oh, che sciocchezze» fece Lola, molto pallida con voce strozzata.
J. C. Pettigrew si sedette tremante e agitato sullo sgabello dei testimoni. Dichiarò d’essere uno degli agenti immobiliari più importanti di Wrightsville e di essere amico dei Wright da molti anni… sua figlia Carmel era la migliore amica di Patricia.
Carter Bradford aveva un’aria trionfante quella mattina, ma la sua fronte era imperlata di sudore.
D. «Guardi questo assegno, signor Pettigrew. È in data 31 dicembre 1940. Dice: “pagate al portatore la somma di cento dollari. Firmato J. C. Pettigrew”. L’ha emesso lei questo assegno, signor Pettigrew?»
R. «Sì, l’ho scritto io.»
D. «A chi l’ha dato?»
R. «A Lola Wright.»
D. «Ci racconti, per favore, le circostanze in cui la signorina ha ricevuto l’assegno.»
R. «Ecco… io, la cosa mi fa un effetto curioso… Voglio dire… l’ultimo giorno dell’anno stavo uscendo dall’ufficio quando entrò Lola. Disse che era in un grave pasticcio, che la conoscevo sin da quando era piccola e se mi fidavo a prestarle un centinaio di dollari. Capii che era preoccupata…»
D. «La signorina Wright non le ha detto perché desiderava quel danaro?»
R. «No, signore. E io non gliel’ho chiesto.»
L’assegno fu catalogato fra le prove e Pettigrew scese dalla pedana.
Lola Wright era nervosa mentre prestava giuramento, ma nel suo sguardo brillava una tal luce di sfida che Carter Bradford arrossì.
«Signorina Wright, che cosa ne ha fatto di questo assegno dopo averlo ricevuto dal signor J. C. Pettigrew il 31 dicembre ultimo scorso?»
«L’ho messo nella borsetta» ribatté Lola. Vi furono delle risa soffocate.
«Sì, lo so» rispose Carter impassibile. «Ma a chi l’ha dato?»
«Non ricordo.»
«Signorina Wright, legga la girata sul retro.»
Lola inghiottì faticosamente, poi lesse a bassa voce:
«Jim Haight.»
«Può spiegare come mai un assegno che lei ha ricevuto come prestito da J. C. Pettigrew porta una girata per Jim Haight?»
«L’ho dato io a Jim, quella sera stessa.»
«Dove?»
«A casa di mia sorella Nora.»
«Eppure gli altri testimoni sono concordi nel dire che lei non era presente alla festa. Come spiega questa faccenda?»
«Ho fatto una visita in casa Haight, ma non ho partecipato alla riunione.»
«Non ha visto nessuno oltre suo cognato, l’accusato?»
«No, sono entrata dalla porta posteriore della cucina.»
«Come faceva a sapere che Jim Haight era in cucina?» domandò Carter Bradford seccamente.
«Sono rimasta in giardino finché ho visto dai vetri che Jim era in cucina. Poi l’ho visto dirigersi verso la dispensa e ho pensato che ci potesse essere qualcuno con lui. Ho bussato, è venuto ad aprire, e sulla porta gli ho dato l’assegno.»
Dunque questa era stata la ragione della visita di Lola, pensò Ellery.
«Gli ha dato l’assegno» ripeté Bradford cortese. «Signorina Wright, l’accusato le aveva chiesto del danaro?»
«No!»
«Eppure lei si è fatta prestare cento dollari dal signor Pettigrew per darli all’accusato?»
«Sì» ribatté Lola freddamente. «Glieli ho chiesti per pagare un debito che avevo verso Jim. Io ho debiti un po’ con tutti.»
Ellery ricordò la sera lontana in cui Jim aveva chiesto disperatamente del danaro a Lola. La notte dell’ultimo dell’anno Lola Wright non aveva pagato un debito, ma aveva portato il suo piccolo contributo alla felicità di Nora. Bradford voleva in fondo provare il disperato bisogno di danaro di Jim Haight.
Il giudice Martin si accinse al contro-interrogatorio con aria quasi soddisfatta.
«Signorina Wright, lei ha deposto un momento fa di essersi recata a casa di sua sorella la notte dell’ultimo dell’anno. A che ora di preciso ci è andata, si ricorda?»
«Sì, ho guardato l’orologio perché dovevo ritornare presto in città. Mancavano quindici minuti alla mezzanotte.»
«Dove ha avuto luogo esattamente la sua conversazione con Jim Haight?»
«Davanti alla porta posteriore della cucina.»
«Che cosa ha detto a Jim?»
«Gli ho domandato che cosa stava facendo e mi ha risposto che stava preparando i cocktails.»
«Ha visto i cocktails in questione?»
Il pubblico si agitò, Carter Bradford si sporse in avanti accigliato. Era un punto importante perché proprio allora doveva essere stato avvelenato il bicchiere fatale.
«No, dal punto in cui mi trovavo della cucina non potevo vedere in dispensa. Non ho visto i bicchieri.»
«Signorina Wright, se qualcuno si fosse intrufolato in cucina dall’atrio o dalla stanza da pranzo mentre lei e il signor Haight stavate parlando sulla porta posteriore, avrebbe potuto vedere quella persona?»
«No» rispose decisa l’interrogata.
«In altre parole, signorina Wright, mentre lei e il signor Haight stavate parlando, qualcuno potrebbe essersi intrufolato in cucina e poi in dispensa attraverso la porta dell’atrio per poi ritornare sui propri passi senza che nessuno si accorgesse della sua presenza?»
«Senz’altro, signor giudice.»
«Qualcuno avrebbe potuto anche entrare in dispensa attraverso la porta della sala da pranzo senza che lei e il signor Haight lo vedeste, vero?»
«Esatto.»
«Quanto è durata la vostra conversazione, vicino alla porta posteriore?»
«Cinque o sei minuti, direi.»
Carter Bradford si alzò per riprendere in mano l’interrogatorio.
«Signorina Wright, so che è penoso per lei, ma devo sapere con esattezza come sono avvenuti i fatti. È entrato veramente qualcuno in dispensa, mentre lei conservava con il signor Jim Haight? E quando?»
«Non lo so. Ho detto semplicemente che qualcuno potrebbe esservi entrato senza che noi ce ne accorgessimo.»
«Quindi lei non dice che è entrato qualcuno, mentre invece ha visto Jim Haight prima uscire dalla dispensa e poi rientrarvi.»
«Nient’affatto» ribatté Lola piuttosto aspra. «Ho fatto dietro-front e ho lasciato Jim alla porta.»
Carter ringraziò. Lola scese dalla pedana e passò altezzosa davanti a Carter.
«E ora vorrei richiamare uno dei miei precedenti testimoni, Frank Lloyd.»
Il sugo della deposizione di questi fu che Jim Haight non era stato il solo ad uscire dal salotto quando si erano preparati i famosi cocktails. Un’altra persona l’aveva seguito.
Il signor Queen pensò: “Ecco, ci siamo!”.
D. «E chi era quell’altra persona, signor Lloyd?»
R. «Un ospite dei Wright. Ellery Smith.»
D. «Il signor Smith lasciò la stanza subito dopo l’accusato?»
R. «Sì, e non tornò finché Haight non comparve col vassoio dei cocktails e non cominciò a distribuirli.»
“Sei un animale astuto” pensò Ellery ammirato. “Ma in trappola sono io… che fare?”
In quella la voce dell’usciere gridò:
«Ellery Smith!»
Mentre il signor Ellery Queen prendeva posto sul banco dei testimoni, le sue preoccupazioni non andavano alle domande che il Procuratore Distrettuale gli avrebbe rivolto: quelle se le immaginava anche troppo bene e sapeva pure, con molta esattezza, che quando fossero stati rivelati i movimenti del misterioso signor “Smith”, la sera fatale, la posizione di Jim sarebbe notevolmente peggiorata. Non gli passò nemmeno per la testa di mentire. Sapeva che la verità vien sempre a galla.
«Signor Smith» esordì Carter Bradford a bassa voce «oggi lei è sul banco dei testimoni sotto giuramento e dovrà dire la verità. Lei conosceva l’esistenza delle tre lettere che incriminano l’imputato prima che il capo della polizia ed io le trovassimo?»
«Sì.»
Bradford fu sorpreso e proseguì in tono sospettoso:
«Quando ne ha saputo l’esistenza?»
Ellery glielo disse; la sorpresa di Bradford si trasformò in soddisfazione.
«Allora lei sapeva che la signora Haight correva il pericolo di venir uccisa da suo marito?»
«Nient’affatto. Sapevo solo che c’erano delle lettere che potevano lasciarlo supporre.»
«A suo giudizio era stato l’accusato a scrivere quelle lettere?»
«Non ho espresso giudizi di sorta.»
«La signorina Patricia Wright non ha identificato la scrittura di suo cognato?»
«Sì. Ma era un’identificazione con un valore abbastanza relativo.»
«Lei non ha fatto dei controlli personalmente?»
«Sì, ma non credo d’essere un perito calligrafico.»
«Signor Smith, lei sapeva, per aver letto il libro di tossicologia di Edgcomb che, se un delitto avesse dovuto aver luogo, sarebbe stato perpetrato per mezzo dell’arsenico?»
«Diciamo pure di sì.»
«Signor Smith, lei dunque era in condizione di sapere, per aver letto la terza lettera, che se la “morte” della signora Haight avesse dovuto aver luogo, sarebbe avvenuta alla vigilia di capodanno?»
«Sì.»
«Durante la festa dell’ultimo dell’anno ha continuamente tenuto sott’occhio l’accusato seguendolo sempre quando usciva dal salotto?»
«Sì.»
«L’ha osservato mentre preparava i cocktails in dispensa?»
«Sì.»
«Si ricorda l’ultima volta che l’imputato ha preparato delle bibite prima di mezzanotte?»
«Me ne ricordo perfettamente.»
«L’ha seguito anche quella volta?»
«Sì, sono uscito nell’atrio, mentre il signor Haight è entrato in cucina. In seguito è passato in dispensa. Io mi sono fermato nell’atrio dietro la porta.»
«Il signor Haight l’ha vista?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Ha cercato di non farsi vedere?»
Il signor Queen sorrise.
«Non ho cercato di nascondermi. Mi sono limitato a starmene in piedi vicino alla porta aperta.»
«Comunque lei poteva veder bene l’accusato?»
«Perfettamente bene.»
«Che cosa ha fatto?»
«Ha mischiato i cocktails e li ha versati nei bicchieri. Stava per prendere il barattolo delle ciliege al maraschino, quando hanno bussato alla porta posteriore. Il signor Haight ha lasciato i bicchieri ed è andato in cucina per vedere chi c’era.»
«Era la signorina Lola Wright, vero?»
«Sì.»
«Il vassoio è rimasto tutto il tempo della conversazione sulla tavola della dispensa?»
«Proprio così.»
Carter Bradford esitò. Poi chiese con decisione:
«Ha visto qualcuno avvicinarsi a quei cocktails mentre l’imputato era assente?»
«Non ho visto nessuno.»
«Dunque la dispensa è rimasta completamente vuota?»
«Appunto.»
Bradford quasi non riuscì a nascondere la propria soddisfazione per quanti sforzi facesse.
«Che cosa ha fatto dopo l’imputato?»
«Ha messo una ciliegia al maraschino in ciascuno dei bicchieri, poi ha preso il vassoio e si è incamminato verso il salotto.»
«Durante il percorso tra la dispensa e il salotto, il signor Haight è stato avvicinato da qualcuno?»
«Da nessuno, eccetto me.»
«Questo è tutto quel che ha visto?»
«Sì.»
«Ci ha detto tutto? Non è accaduto nient’altro?»
«No.»
«Non ha visto l’imputato versare della polvere in uno dei bicchieri?»
«Assolutamente no.»
«È certo che non ha versato la polvere durante il percorso verso il salotto?»
«Era impossibile, il signor Haight aveva entrambe le mani occupate. Non ha versato nessuna sostanza estranea nei bicchieri quando era in dispensa né durante il tragitto.»
Nell’aula ci fu un mormorio. I Wright si guardarono l’un l’altro con un’espressione di sollievo.
Ma il signor Queen capì che aveva perso la partita con la giuria: tutti erano convinti che mentisse perché amico di famiglia.
«Ebbene signor Smith, risponda a questa domanda» continuò Bradford «c’è qualcun altro che avrebbe potuto avere l’occasione di mettere il veleno in uno di quei bicchieri?»
«Che mi risulti, nessun altro, ma…»
«In altre parole, signor Smith» gridò Bradford «l’imputato Jim Haight aveva non solo la migliore, ma anche l’unica occasione di avvelenare quel cocktail.»
«No» affermò il signor Smith, e sorrise.
Il signor Carter Bradford rimase interdetto; poi si riprese e gridò:
«Si rende conto di quello che dice? Ha appena finito di dichiarare che nessuno è entrato in dispensa! Nessuno ha avvicinato l’imputato mentre portava i vassoi in salotto! È vero o non è vero tutto questo?»
«Sì» fece il signor Queen pazientemente.
«Ciononostante lei dice… Smith chi, oltre Jim Haight, avrebbe potuto avvelenare uno di quei cocktails?»
Il giudice Martin balzò in piedi, ma prima che potesse dire «mi oppongo», Ellery dichiarò tranquillamente:
«Avrei potuto benissimo avvelenarlo io.»
Si udì una serie di esclamazioni nell’aula e il signor Queen proseguì:
«Vede, mi sarebbe bastato un attimo per scivolare in dispensa e versare l’arsenico in uno di quei bicchieri…»
Nell’aula scoppiò il finimondo; il signor Queen si guardò attorno con un sorriso benigno. Al di sopra delle grida, del clamore dei giornalisti, e dei colpi furiosi della mazzetta del giudice Newbold, Carter Bradford ruggì con voce trionfante:
«Ebbene, Smith, ha avvelenato lei quel cocktail?»
Si udì la voce del giudice Martin esclamare debolmente: «Mi oppongo», poi il signor Queen osservò in tono correttissimo:
«Dal punto di vista costituzionale…»
L’aula si trasformò in una torre di Babele, il giudice ruppe la mazzetta in due e urlò all’usciere di sgombrare quella “maledetta aula”, poi corse a ritirarsi nei suoi appartamenti ove rimase fino al mattino seguente applicandosi, si presume, delle compresse d’aceto sulla fronte.
La mattina seguente diversi cambiamenti si erano verificati. L’attenzione di Wrightsville si era spostata da Jim Haight a Ellery Smith.
Il giornale di Frank Lloyd uscì in edizione straordinaria e riferì la sensazionale testimonianza di Ellery Queen. L’editoriale diceva tra l’altro: “La bomba fatta scoppiare ieri dal signor Smith ha fatto cilecca. Quest’uomo non può essere colpevole. Smith non ha nessun movente. Prima di venire a Wrightsville non conosceva Nora, Jim Haight e nessun altro della famiglia Wright. Non ha avuto praticamente nessun contatto con la signora Haight e tanto meno con Rosemary Haight. Questo suo gesto donchisciottesco non significa assolutamente nulla. E inoltre, anche ammesso che Smith potesse veramente essere stata l’unica persona a parte Jim Haight ad avere la possibilità di avvelenare i cocktail, non avrebbe potuto essere assolutamente certo, contrariamente a Jim, che la bevanda fatale finisse nelle mani di Nora. Né il signor Smith avrebbe potuto scrivere le lettere, che sono scritte, senza ombra di dubbio, dalle mani di Jim. Wrightsville e la giuria possono solo concludere che quello che è accaduto ieri è stato o un gesto disperato di amicizia oppure una cinica ricerca di pubblicità da parte di uno scrittore che ha fatto di Wrightsville la sua cavia.”
Non appena Ellery mise piede sul banco dei testimoni il mattino seguente, Bradford gli disse:
«Questo è il verbale ufficiale della sua testimonianza di ieri. Vuole leggerlo per cortesia?»
Ellery inarcò le sopracciglia, ma prese il foglio e lesse.
«Domanda: “Qual è il suo nome?”. Risposta: “Ellery Smith…”»
«Si fermi. Ieri lei ha dichiarato che il suo nome è Ellery Smith, vero?»
«Sì» affermò Ellery che cominciò a provare una curiosa sensazione di freddo.
«Smith è il suo vero nome?»
“Accidenti” pensò Ellery “questo individuo è una vera calamità.”
«No» disse poi a voce alta.
«È uno pseudonimo?»
«Silenzio in aula!» urlò l’usciere.
«Sì.»
«Qual è il suo vero nome?»
Il giudice Martin si affrettò a dire:
«Non vedo la ragione di questo interrogatorio, Vostro Onore. Il signor Smith non è sotto processo…»
«Vuole spiegarmi il perché di questa richiesta, signor Bradford?» domandò il giudice Newbold incuriosito.
«Nella sua testimonianza di ieri, il signor Smith ha affermato che avrebbe potuto avere l’opportunità di avvelenare quel cocktail» dichiarò Bradford con un debole sorriso. «Perciò nell’esame di questa mattina, devo necessariamente includere alcune domande che servono a determinare il carattere del signor “Smith”.»
«E lei ritiene di poter determinare il carattere del signor Smith facendogli rivelare il suo vero nome?» domandò accigliato il giudice Newbold.
«Sì, Vostro Onore.»
«Va bene, proceda.»
«Per cortesia vuole rispondere alla mia ultima domanda?» chiese Bradford rivolto a Ellery. «Qual è il suo vero nome?»
Non c’era niente da fare. Era chiaro che Bradford, quella notte, non era rimasto in ozio.
Il nome di Queen, in teoria, non l’avrebbe salvato da un’accusa di omicidio, naturalmente, ma in pratica nessuno si sarebbe mai sognato di pensare che un poliziotto tanto noto avrebbe potuto impegolarsi in un delitto.
«Il mio nome è Ellery Queen» dichiarò il giovane con un sorriso.
Carter Bradford era un ottimo tempista. Il giudice Martin, date le circostanze, fece del suo meglio.
«Signor Queen» domandò non appena poté procedere al contro-interrogatorio «nella sua qualità di studioso dei fenomeni criminali, era interessato in questo caso?»
«Immensamente.»
«Per questo dunque ha tenuto continuamente sott’occhio Jim Haight durante la sera dell’ultimo dell’anno?»
«Per questo e per l’affetto che mi lega alla famiglia Wright.»
«Stava in guardia per impedire un possibile tentativo di avvelenamento da parte di Jim Haight?»
«Sì.»
«E ha visto Jim Haight compiere quel tentativo?»
«No, assolutamente.»
«Non ha visto l’imputato fare il minimo gesto di versare una sostanza estranea in un bicchiere?»
«No, ripeto, no!»
«Eppure lei stava in guardia, vero?»
«Appunto.»
«Grazie, basta così» concluse il giudice Martin trionfante.
Per la seconda volta arrivò il fine settimana e tutte le persone interessate al processo se ne tornarono alle loro case.
Il comitato non ufficiale di difesa di Jim Haight si riunì di nuovo nel salotto di casa Wright la sera del venerdì. L’atmosfera era pesante e sconsolata.
«Che ne pensate?» domandò Nora rivolgendosi al giudice Martin e a Roberta Roberts.
«La testimonianza di Queen sarebbe stata di immenso aiuto se il collegio dei giurati non fosse già così prevenuto contro Jim. No, Nora, le cose vanno male, non posso dirti nulla di consolante.»
Nora fissò il fuoco intensamente con gli occhi spenti.
«E pensare che ho avuto Ellery Queen ospite in casa mia per tanto tempo» sospirò Hermy. «Una volta forse ne sarei stata terribilmente elettrizzata…»
«Su con la vita, mammina!» mormorò Lola.
Hermy sorrise, ma poco dopo si scusò e si ritirò in camera sua a passo strascicato. John borbottò:
«Grazie, Queen» e seguì sua moglie di sopra. Tutti rimasero in silenzio per lungo tempo. Finalmente Nora parlò:
«Se non altro, Ellery, quel che lei ha visto conferma l’innocenza di Jim. È già qualcosa. Dovrebbe essere qualcosa per lo meno. Santo cielo, saranno costretti a crederle!» concluse in lacrime.
«Speriamo.»
«Giudice Martin» fece Roberta Roberts improvvisamente. «Lunedì dovrà cominciare l’arringa di difesa. Su che cosa sarà basata?»
«Perché non me lo dice lei?» ribatté il giudice Martin.
«Io non so nulla che la possa aiutare» sospirò la giovane abbassando gli occhi.
«Dunque avevo ragione» mormorò Ellery. «Non credete che degli altri giurati potrebbero…»
Si udì d’improvviso il rumore di qualcosa che si spezzava. Pat era balzata in piedi e i frammenti del bicchiere di Xeres che stava bevendo erano sparsi sul pavimento ai suoi piedi.
«Che ti succede?» domandò Lola. «Se questa non è una famiglia di svitati…»
«Sono stanca di starmene con le mani in mano» scattò Pat. «Voglio fare qualche cosa! Mi è venuta un’idea!»
«La piccolina ha avuto un’idea» rise Lola amaramente. «Anch’io ho avuto un’idea, una volta, e un istante dopo stavo divorziando da un mascalzone, e tutti mi trattavano da donna perduta. Siediti, mocciosetta.»
«Un momento» intervenne Ellery. «Che idea le è venuta Pat?»
«Continuate pure a fare i furbi» protestò Pat eccitata. «Divertitevi pure alle mie spalle. Ma io ho un piano e ho intenzione di metterlo in pratica.»
«Che specie di piano?» domandò il giudice Martin. «Sarò felice di saperlo, Patricia.»
«Ma davvero?» ribatté Pat in tono ironico. «Ma io non voglio parlarne. Saprete tutto al momento opportuno. Zio Eli, tu però devi farmi un favore…»
«E cioè?»
«Devi chiamarmi come ultimo testimone per la difesa!»
«Eh?» esclamò il giudice sorpresissimo.
«Che cosa sta architettando, bambina?» domandò Ellery. «Sarebbe meglio che ne parlasse prima con gli adulti.»
«Ci sono già state anche troppe chiacchiere, nonno.»
«Ma che cosa vuole fare?»
«Voglio tre cose» Pat era cupa e decisa. «Un certo periodo di tempo. E la certezza di poter deporre come ultimo testimone per la difesa, e un po’ del tuo nuovo profumo “Odalisca”, Nora… Che cosa voglio fare? Io salverò Jim! La farò vedere io a quel Carter Bradford!»
E minacciosa uscì dalla stanza.
«Sarà quel che Dio vorrà» mormorò Eli Martin al signor Queen in tribunale, il lunedì mattina, mentre aspettavano l’ingresso del giudice Newbold.
«Vale a dire?» domandò Ellery.
«Vale a dire» sospirò l’avvocato «che, a meno di un intervento miracoloso, il genero del mio amico è fritto. Mamma mia, che disastro di processo! Non mi è mai capitato niente di simile. Nessuno vuol dirmi niente: l’accusato, la Roberts, la famiglia; nemmeno quella scimmietta di Patricia ha voluto parlare con me…»
«Patty…» mormorò pensosamente Ellery.
«Pat vuole che la chiami a testimoniare, ed io non so nemmeno perché! Questa non è legge: è pura follia.»
«È uscita sabato sera con un’aria molto misteriosa» mormorò Ellery. «Ieri è uscita di nuovo, e tutte e due le volte è rientrata molto tardi. E aveva bevuto, anche.»
«Quasi dimenticavo che lei è un investigatore. Come l’ha scoperto, Queen?»
«L’ho baciata.»
Il giudice Martin trasalì.
«Baciata?»
«Ho i miei metodi» disse rigido il signor Queen, ma poi sorrise. «Però non è servito a nulla; non ha voluto dirmi assolutamente che cosa stava combinando…»
«E il profumo “Odalisca”» brontolò il vecchio giudice. «Se Patricia Wright crede che un profumino dolciastro possa impedire al giovane Bradford di fare quel che vuol fare…»
Il primo testimone che il giudice Martin chiamò a favore di Jim Haight fu Hermione Wright. Hermy salì con regale dignità sullo sgabello dei testimoni e disse «Giuro» con voce ferma, quasi tragica. Era stata una mossa astuta, da parte di Martin, chiamare la madre di Nora a testimoniare in favore dell’uomo che aveva cercato di uccidere la figlia! Il pubblico e i giurati rimasero molto impressionati dalla ferma dignità con cui Hermy affrontò i loro sguardi. Era una donna veramente coraggiosa.
Con grande abilità, il vecchio avvocato portò Hermione a parlare della gaiezza della serata, dell’infantile gioia di Jim e di Nora quando avevano ballato insieme e incidentalmente le fece anche dire quanto aveva bevuto quella sera Frank Lloyd, il testimone principale di Bradford. Risultò chiara in contrario la sobrietà del signor Ellery Queen, il quale aveva bevuto un solo liquore prima del tragico brindisi al millenovecentoquarantuno.
Il giudice Martin indusse poi Hermy a parlare della conversazione avuta col genero, poco dopo il ritorno degli sposi dalla luna di miele. Jim le aveva confidato che Nora sospettava di dover avere un bambino. La sposa desiderava tenere la cosa segreta finché non ne fosse sicura, ma Jim aveva dichiarato di essere troppo felice per poter stare zitto.
Con una vaga emozione sul volto, Carter Bradford rinunziò al contro-interrogatorio. Vi fu un tentativo di applauso quando Hermy scese dal banco dei testimoni.
Il giudice Martin chiamò poi una lunga serie di persone per testimoniare la mitezza di carattere di Jim Haight. Una serie lunga quasi come il muso del giudice Newbold. E quando John si presentò a sua volta sulla pedana e dichiarò che Jim era un buon ragazzo, un figliolo d’oro, e che tutta la famiglia Wright giurava per lui, nel pubblico vi fu un’ondata di simpatia per i Wright che attutì un po’ l’animosità popolare verso l’imputato.
Durante la sfilata di questi testimoni, Carter Bradford mantenne un atteggiamento distaccato.
Poi il giudice Martin chiamò Lorenzo Grenville. Era un o’metto con gli occhi acquosi e il volto raggrinzito. Si definì un esperto calligrafico.
Dichiarò di essere stato presente in aula fin dall’inizio del processo e di aver sentito la testimonianza degli esperti dell’accusa riguardo l’autenticità della calligrafia delle tre lettere presumibilmente scritte dall’imputato. Disse inoltre di aver avuto l’opportunità di esaminare le suddette lettere, oltre a campioni della grafia di Jim Haight, e che secondo la sua «esperta» opinione esistevano gravi motivi per dubitare della paternità di Jim riguardo le lettere incriminate.
«Quindi lei non ritiene che Jim Haight abbia scritto quelle lettere?»
«No.» (Il Pubblico Ministero lanciò un’occhiata obliqua in direzione della giuria.)
«E perché, signor Grenville?» domandò il giudice.
Il signor Grenville si buttò sui dettagli. E poiché arrivò a delle conclusioni diametralmente opposte a quelle degli esperti citati dall’accusa, la giuria, con grande soddisfazione del giudice, era naturalmente confusa.
«Signor Grenville, ha qualche altra ragione per ritenere che quelle lettere non siano state scritte dall’imputato?»
Il signor Grenville spiegò: «Il fraseggiare è ampolloso, e non corrisponde al solito stile che l’imputato usa nelle lettere.»
«Concludendo, signor Grenville, qual’è la sua opinione definitiva?»
«Secondo me, si tratta di falsi.»
Il signor Queen si sarebbe sentito rassicurato se non avesse saputo che un altro imputato, in un altro processo aveva firmato un assegno e il signor Grenville aveva dichiarato che la firma era falsa. Ellery non aveva nessun dubbio sulle tre lettere. Erano state scritte da Jim Haight. Si domandò come avrebbe reagito il giudice Martin e lo scoprì subito.
«Secondo lei» disse il giudice «è facile o difficile falsificare la grafia del signor Haight?»
«Molto facile.»
«E lei sarebbe in grado di farlo?»
«Certamente.»
«Potrebbe farlo qui, subito?»
«Be’, dovrei studiarci un po’… diciamo un paio di minuti.» Bradford balzò in piedi e seguì un violento diverbio col giudice Newbold. Infine la corte accettò la dimostrazione e al perito furono consegnate carta, penna, inchiostro e una copia fotostatica di un campione di calligrafia di Jim.
Lorenzo Grenville studiò la fotocopia esattamente per due minuti.
Poi prese la penna, la intinse nell’inchiostro e cominciò a scrivere.
«Riuscirei meglio» disse «se avessi la mia penna.»
Poi il giudice Martin osservò ciò che il suo teste aveva scritto, e con un sorriso passò il foglio alla giuria, assieme alla fotocopia. Dall’espressione di stupore che si dipinse sul volto dei giurati, Ellery capì che il colpo era riuscito.
Vic Carlatti alla sbarra. Si, il proprietario del locale più malfamato della città.
D. «Signor Carlatti, lei conosce l’imputato, James Haight?»
R. «L’ho visto spesso in giro.»
D. «È mai venuto nel suo locale?»
R. «Si.»
D. «A bere?»
R. «Be’, un bicchiere o due, ogni tanto, non c’è nulla di male.»
D. «Ora, signor Carlatti, c’è stata una testimonianza secondo la quale pare che Jim Haight abbia ammesso con la moglie di aver perduto del denaro al gioco, nel suo locale. Ne sa qualcosa?»
R. «È una sporca menzogna.»
D. «Vuol dire che Jim Haight non ha mai giocato nel suo locale?»
R. «Mai.»
D. «L’imputato si è mai fatto prestare dei soldi da lei?»
R. «Mai.»
D. «L’imputato le deve del denaro?»
R. «Non un centesimo.»
D. «A quanto ne sa, l’imputato non ha mai perduto denaro nel suo locale? Al gioco o in qualche altro modo?»
R. «Gli unici soldi che l’imputato ha tirato fuori nel mio locale è stato per comprarsi da bere.»
«Signor Bradford, a lei!» disse il giudice Martin.
Contro-interrogatorio di Bradford:
D. «Carlatti, è contro la legge gestire una bisca?»
R. «E chi dice che io gestisco una bisca?»
D. «Nessuno, signor Carlatti. Si limiti a rispondere alle mie domande.»
R. «È una sporca montatura. Lo dimostri. Non sono qui in veste di imputato… Giudice Newbold: Il teste si astenga da commenti gratuiti e si limiti a rispondere alle domande.»
D. «Nella saletta posteriore del suo cosidetto night-club esistono una roulette e altri tavoli da gioco?»
R. «E io dovrei rispondere a una sporca domanda come questa? È un insulto, giudice. Non ho intenzione di stare qui a farmi insultare…»
Giudice Newbold: «Ancora un commento come questo e…»
Giudice Martin: «Mi sembra, Vostro Onore che questo interrogatorio sia improprio. Il problema se il teste gestisce una bisca o no non rientra nel caso in esame.
Giudice Newbold: «Respinto!»
Giudice Martin: «Eccezione!»
Bradford: «Se Jim Haight le deve dei soldi perduti ai suoi tavoli da gioco, signor Carletti, lei è costretto a negarlo per non incorrere nella legge, vero?»
Giudice Martin: «Io sostengo che la domanda…»
R. «Ma che vi prende a tutti? Se credete di farmi paura vi sbagliate! Ho un sacco di amici e vi faranno vedere che Vic Carlatti non si farà incastrare…»
Giudice Newbold: «Signor Bradford, ha altre domande?»
Bradford: «Credo che basti, Vostro Onore.»
Quando Nora prestò giuramento, si sedette e cominciò a deporre con voce soffocata, il tribunale pareva una chiesa. La donna che Jim Haight aveva cercato di uccidere, doveva per forza essere contro di lui… Ma Nora non era contro Jim. Era dalla sua parte, con tutta se stessa; fu una testimone superba, e difese suo marito da tutte le accuse. Ripeté che l’amava, che aveva fede nella sua innocenza. Mentre parlava, i suoi occhi continuavano a posarsi sulla misera figura di Jim che, a pochi passi di distanza, se ne stava a capo chino fissando la punta delle proprie scarpe sporche.
Nora non poté offrire ai giurati nessun fatto positivo per scagionare il marito, ma implorò per lui con tutta la forza della sua fede. Carter Bradford, generosamente, rinunziò al contro-interrogatorio.
La sposa sarebbe dovuta essere l’ultimo teste della difesa, ma Pat dal suo posto cominciò a fare segni frenetici al giudice Martin finché questi, con aria infelice, quasi colpevole, la chiamò a prestare giuramento. Il signor Queen si sporse in avanti sulla sedia, preso da una tensione indescrivibile.
Era chiaro che il giudice Martin non sapeva da che parte cominciare, ma Pat prese le redini del colloquio quasi immediatamente. Era indomabile. “Ma dove vuole arrivare?” si domandò Ellery.
Sebbene fosse un testimone della difesa, Pat fece chiaramente il gioco dell’accusa. Più parlava, e più danneggiava la disgraziata causa di Jim. Dipinse il cognato come un poco di buono, un bugiardo. Raccontò che aveva umiliato Nora, l’aveva trascurata, le aveva rubato i gioielli, le aveva rovinato la vita tormentandola e litigando con lei continuamente… Prima che potesse finire, il pubblico fischiava; il giudice Martin sudava come una fontana e faceva di tutto per rimandare la ragazza al suo posto. Nora fissava la sorella come se la vedesse per la prima volta, ed Hermy e John scivolavano sempre più giù dai loro sedili come due statue di cera sul punto di sciogliersi.
Il giudice Newbold interruppe Pat nel bel mezzo di una requisitoria contro il cognato.
«Signorina Wright, si rende conto di essere una teste della difesa?»
«Sono molto spiacente, Vostro Onore» ribatté Pat seccamente. «Ma io non posso sopportare di assistere a questa dolorosa commedia quando so che Jim Haight è colpevole…»
«Mi oppon…» cominciò il giudice Martin fuori di sé.
«Signorina» cominciò a sua volta il giudice Newbold irosamente. Ma Pat lo prevenne.
«È colpevole, come dicevo anche a Bill Ketcham ieri sera…»
«Che cosa?»
L’esplosione era venuta contemporaneamente dal giudice Newbold, da Eli Martin e da Carter Bradford. Per un momento il pubblico rimase in silenzio, agghiacciato dalla sorpresa; poi si scatenò una specie di giudizio universale, e il giudice Newbold ruppe la seconda mazzetta.
«Vostro Onore!» gridò al di sopra del baccano il giudice Martin. «Voglio che sia messo immediatamente a verbale che la dichiarazione fatta dalla mia teste un minuto fa mi giunge assolutamente nuova. Non avevo la minima idea che…»
«Un momento, un momento, giudice Martin» gemette il giudice Newbold con voce strozzata. «Signorina Wright!»
«Dica, Vostro Onore» fece Pat sorpresa, come se non riuscisse a capire il perché di tanta agitazione.
«Ma ho sentito bene? Ha detto d’aver parlato con Bill Ketcham, ieri sera?»
«Sì, Vostro Onore» assentì Pat rispettosamente. «E Bill era del mio parere…»
«Mi oppongo!» urlò Carter Bradford. «Questa è una commedia preordinata!»
La signorina Wright rivolse a Carter Bradford uno sguardo innocente.
«Un momento, signor Bradford!» Il giudice Newbold si sporse dal suo seggio. «Che cos’è accaduto ieri sera?»
«Ecco: Bill ha detto che Jim era colpevole senz’altro, e che se io gli avessi promesso di…» Pat arrossì. «Ehm, se io gli avessi promesso una certa cosa, lui avrebbe fatto sì che Jim avesse quel che si meritava. Disse che avrebbe parlato agli altri giurati e, da buon agente d’assicurazioni, ha detto che li avrebbe senz’altro persuasi tutti. Ha detto ch’io ero la ragazza dei suoi sogni, e che per me avrebbe scalato anche l’Himalaya.»
«Silenzio in aula!» ruggì il giudice Newbold. «Dunque, signorina Wright» continuò poi, cupo in volto. «Dobbiamo credere che ieri sera lei ha avuto una conversazione con Bill Ketcham, il giurato numero sette di questo processo?»
«Sì, Vostro Onore» fece Pat con gli occhi spalancati. «C’è qualcosa di male? Se l’avessi saputo…» il resto delle sue parole si perse nel baccano.
«Usciere, sgombrate l’aula!» urlò il giudice Newbold.
«Ed ora sentiamo tutto» fece il giudice Nevvbold con voce così fredda, che a Pat vennero le lacrime agli occhi.
«Siamo usciti insieme, Bill ed io, sabato sera. Bill m’ha detto qualcosa a proposito di non farci vedere, perché forse non era legale; così siamo andati in un ritrovo notturno di Slocum che lui conosce. Da allora ci siamo tornati tutte le sere. Io gli ho detto che Jim era colpevole, e Bill mi ha dato ragione; lui pensa che…»
«Vostro Onore» cominciò il giudice Martin con voce terribile.
«Eli Martin, se la sua reputazione non fosse… io penserei… Ohi, laggiù! Ketcham numero sette! In piedi!»
Il grasso Bill Ketcham, l’assicuratore, cercò di obbedire, ma ricadde a sedere. Finalmente riuscì a rizzarsi, e rimase in piedi oscillando leggermente.
«Bill Ketcham, è vero che ha trascorso tutte le sere, da sabato in qua, in compagnia di questa signorina? Le ha veramente promesso d’influenzare gli altri giurati…? Usciere! Dakin, prendetelo!»
Ketcham fu afferrato nella corsia principale mentre tentava di guadagnare la porta, dopo aver fatto lo sgambetto a due colleghi giurati. Quando fu trascinato davanti al giudice, cominciò a balbettare:
«Io… io non credevo di far niente di male, signor giudice. Io non mi sono reso conto, signor giu… giudice. Io giu… giuro che tutti sanno che quel figlio d’un cane è colpevole…»
«Fermate quest’uomo» mormorò il giudice Newbold. «Usciere, metta dei piantoni alle porte. C’è una sospensione di cinque minuti. Il resto dei giurati deve rimanere dove si trova. Nessuno dei presenti lasci l’aula.»
Il giudice Newbold si diresse verso il suo spogliatoio.
«Questo» disse il signor Queen mentre aspettava «capita quando non si tengono richiusi i giurati. Capita anche» soggiunse, fissando la signorina Patricia Wright «quando i ragazzini senza cervello s’impicciano degli affari dei grandi.»
«Ma Patty, come hai potuto?» singhiozzò Hermione. «Con quell’impossibile Ketcham! Ti avevo avvertita che avrebbe fatto delle avances spiacevoli se tu l’avessi incoraggiato. Ti ricordi, John, come tormentava Patty perché…?
«Me lo ricordo!» esclamò John, fuori dalla grazia di Dio. «E ricordo anche dove si trova il battipanni!»
«Sentite un po’» intervenne Pat a bassa voce. «Jim correva un grave pericolo, non è vero? Io allora mi sono lavorata quel ciccione di Bill, che ha tentato un paio di volte di mettermi le mani addosso… Avanti, continuate a guardarmi come se fossi una donnaccia!» Patricia cominciò a piangere. «In ogni caso, io ho fatto qualcosa che voi non siete stati capaci di fare… ve ne accorgerete in seguito!»
«È vero» convenne Ellery. «In questo processo Jim sarebbe stato senz’altro giudicato colpevole.»
«Se solo…» cominciò Nora col viso pallido, illuminato da un’immensa speranza. «Oh, Patty: sei una pazzerella, ma ti voglio tanto bene!»
«E Carter è diventato tutto rosso» balbettò Pat fra le lacrime. «Crede di essere così in gamba…»
«Sì» le fece notare il signor Queen. «Ma guardi il giudice Martin.»
Eli Martin si accostò a Pat.
«Patricia, tu mi hai messo in una delle più imbarazzanti posizioni della mia carriera. A me non importa, come non m’importa l’aspetto morale della tua condotta; però ti avverto che, nonostante quel che dirà il giudice Newbold, tutti capiranno che l’hai fatto apposta, e questo può forse ricadere su Jim…»
«Immagino che quei graffiacarte di vecchi avvocati debbano sempre fare i pignoli» dichiarò Lola. «Ma non prendertela, mocciosina; in ogni caso sei riuscita a dare a Jim un po’ di fiato… e qualche migliore probabilità!»
Pochi minuti dopo, il giudice Newbold rientrò in aula, e con voce fredda e irritata annunziò che il processo veniva rimandato a nuovo ruolo.
La corte di giornalisti forestieri si ritirò, ripromettendosi di tornare per il nuovo processo, ma Wrightsville chiacchierò, spettegolò, malignò, finché perfino le orecchie del piccolo Budda di porcellana sulla toeletta di Pat fischiarono.
Bill Ketcham, per qualche curiosa ragione, divenne invece l’eroe della città.
Nora crollò improvvisamente. La domenica di Pasqua, proprio mentre la famiglia Wright ritornava dalla chiesa, si udirono delle strane risate provenire dalla sua camera da letto. Pat, che stava pettinandosi nella stanza accanto, allarmata dal suono curioso e innaturale delle risa di Nora, corse da lei e la trovò che si rotolava sul pavimento ridendo irrefrenabilmente, mentre il suo viso passava dal rosso porpora a un giallo grigiastro. Nei suoi occhi ardeva un’espressione cupa e selvaggia.
Fu chiamato il dottor Willoughby, che rimase in camera di Nora per un quarto d’ora. Quando uscì, disse con voce roca:
«Bisogna portarla all’ospedale. Provvedo io a tutto.»
Hermy si afferrò al braccio di John; Lola e Pat si strinsero l’una all’altra, ma nessuno riuscì a parlare.
Nell’ospedale di Wrightsville vi era poco personale, essendo il giorno di Pasqua e non vi erano camere private, ma il dottor Willoughby aveva fatto isolare un lettino con dei paraventi, e qui aveva messo Nora.
La famiglia non fu ammessa al suo capezzale. Dovettero rimanere tutti nella sala d’aspetto dell’atrio, una sala d’aspetto grande e vecchia che puzzava di disinfettante.
Nessuno parlava. Passò molto tempo. Poi tornò il dottor Willoughby, e tutti si strinsero intorno a lui.
«Non ho molto tempo» ansimò il medico. «Ascoltatemi: Nora è di costituzione delicata. È sempre stata molto nervosa. Ed ora le preoccupazioni, le pene che ha dovuto sopportare… i tentativi di avvelenamento, la vigilia di capo d’anno, il processo… è molto, molto debole, molto abbattuta…»
«Che cosa stai cercando di dirci, Milo?» domandò John, stringendo forte il braccio del suo amico.
«John, Nora è in condizioni molto gravi. Non posso nasconderlo a te e ad Hermy. È una creatura ammalata.»
Il dottor Willoughby si voltò come per correre via.
«Milo, aspetta. E… e… il bambino?»
«Sta per averlo, Hermy. Dobbiamo operare.»
«Ma se sono poco più di sei mesi…»
«Sì» mormorò il dottor Willoughby faticosamente. «È meglio che aspettiate qui. Devo andare a prepararmi.»
«Milo» disse John. «Qualsiasi cosa sia necessaria… per Nora… Voglio dire: chiama chi vuoi… il migliore…»
«Siamo fortunati, John. Henry Gropper è a Slocum, in visita presso alcuni parenti. È stato un mio compagno d’università. Il migliore ginecologo della costa orientale. L’ho fatto chiamare. Sta arrivando.»
«Milo» gemette Hermy.
Ma il dottor Willoughby se n’era già andato. Riprese l’attesa nella camera silenziosa, mentre fuori brillava il sole, e i primi fiori pasquali spandevano un dolce profumo. John si sedette accanto alla moglie e le prese la mano. Rimasero immobili a fissare le lancette dell’orologio sulla parete. I secondi passavano, diventavano minuti e ore. Lola voltava di tanto in tanto le pagine di una rivista.
«Pat, venga qui» chiamò Ellery.
«Dove?» La ragazza stava lottando con le lacrime.
«Vicino alla finestra, lontano dai suoi» mormorò il giovane.
Pat raggiunse Ellery nell’angolo più lontano della stanza. La ragazza si sedette sopra una poltrona accanto alla finestra e guardò fuori. Ellery Queen le diede una sigaretta, poi le prese la mano.
«Parli.»
«Oh, Ellery!»
«Lo so» assentì l’investigatore con dolcezza «ma parli ugualmente. Dica qualsiasi cosa: le farà bene.»
«Parlare…» la voce di Pat era amara. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Perché no? Ma sono così confusa. Nora è là… il suo bambino sta per nascere… e Jim è in prigione a pochi passi da qui. Guardi papà e mamma in quell’angolo: stanno seduti come due vecchi… Ellery, sono vecchi.»
«Sì, Patty» mormorò Ellery.
«Pensare che eravamo tanto felici, prima. Se io e Nora non avessimo deciso di arredare il nuovo studio di Jim… se io non avessi aperto quella cassa di libri!»
«Quale cassa di libri?» domandò Ellery sorpreso.
«L’avevo portata di sopra io stessa. Quando la roba di Jim era arrivata da New York, l’avevamo messa tutta in cantina. Pensi… se io non avessi aperto quella cassa? Se non avessi trovato, non so, il martello o il cacciavite… se avessi aspettato una settimana, un giorno, anche solo un’altra ora… Ellery, ma che cosa c’è?»
Il signor Queen era in piedi, immobile, col volto contratto. E sembrava la statua dell’ira.
«Lei mi sta dicendo» sibilò con calma minacciosa «che quei libri, quelli che Nora ha lasciato cadere, non facevano parte della collezione che stava sullo scaffale del salotto?» Scrollò la ragazza con violenza, e Pat fece una piccola smorfia di dolore. «Pat, risponda. È sicura che quella cassa veniva dalla cantina?»
«Naturalmente, ne sono sicurissima» rispose Pat, tremante. «Che cosa le succede? Era una cassa inchiodata; l’ho aperta io stessa. E pochi minuti prima che lei arrivasse, ho riportato la cassa vuota in cantina insieme con gli arnesi e a una quantità di chiodi storti.»
«È… fantastico» sospirò Ellery, e si lasciò cadere pesantemente sopra una seggiola. Pat era sbalordita.
«Ellery!» Ora era Pat che scuoteva lui. «Cosa sono questi misteri? Che cosa c’è?»
«Aspetti un momento!»
La ragazza rimase in attesa finché Ellery mormorò:
«Se soltanto l’avessi saputo. Ma no, non potevo immaginare… è stato un destino. Un destino che mi ha portato in quella stanza cinque minuti più tardi. Il destino che le ha impedito di dirmelo per tutti questi mesi. Il destino che mi ha nascosto il fatto essenziale.»
«Ellery…»
«Dottor Willoughby!»
Fu un grido generale, e tutti attraversarono di corsa la sala d’aspetto. Il medico avanzava lentamente. Portava il camice chirurgico, e la mascherina di tela abbassata sotto il mento. Il camice era imbrattato di sangue, ma le sue guance erano bianche come la neve.
«Milo!» gemette Hermione.
«E allora?» chiese John con voce aspra.
«Per l’amor di Dio, dottore!» gridò Lola.
Pat gli corse accanto e afferrò la mano del vecchio medico.
«Ecco…» cominciò il dottor Willoughby con voce roca, e tacque subito. Poi ebbe un tristissimo sorriso, e passò un braccio intorno alle spalle di Hermy. «Nora ti ha fatto un regalo per Pasqua… nonna.»
«Nonna» mormorò Hermy.
«Il bambino!» esclamò Pat. «Sta bene?»
«Benissimo, Patricia. È una bamboccina assolutamente perfetta. È piccolissima e molto fragile, naturalmente; dovremo metterla nell’incubatrice, ma fra qualche settimana sarà perfettamente a posto.»
«E come sta Nora?»
Il medico abbassò il capo e disse come in un soffio:
«Nora… è morta!»