Robert Silverberg Il secondo viaggio

1

Perfino la strada gli sembrava sbagliata sotto i piedi. C’era qualcosa di stranamente elastico nel selciato, cedeva troppo. Come se avessero cambiato la mescola del cemento durante i quattro anni di guai che aveva passato. Un nuovo materiale futuristico, il marciapiede modello 2011, elastico e bizzarro. Ma no. Il marciapiede era sempre uguale. Lui era diverso. Come se quando l’avevano cambiato avessero cambiato anche il suo passo, l’articolazione delle ginocchia, la rotazione dell’anca. Non si sentiva più sicuro dei suoi movimenti. Non sapeva se doveva appoggiarsi sul selciato con il tallone o con la punta. Ogni passo era una nuova scoperta. Si sentiva goffo e incerto all’interno del suo stesso corpo.

Ma era davvero il suo? Fino a che punto arrivavano quelli della Riab a ricostruire l’esistenza di un uomo? Magari un trapianto totale di cervello. Estraevano la vecchia materia grigia, ci iniettavano dentro qualche medicina, la ficcavano in un nuovo corpo. E magari mettevano il cervello riabilitato di qualcun altro nel tuo cranio vuoto. Il vino vecchio in una brocca nuova. No. No. Non è così che lavorano. Questo è il corpo con cui sono nato. Ho qualche difficoltà di coordinamento, è vero, ma c’era da aspettarselo. Il primo giorno di libertà. Martedì di un qualche giorno di maggio del 2011. Limpido cielo azzurro sopra i grattacieli di Manhattan Nord. Sono un po’ goffo, da principio. E allora? E allora? Non mi avevano detto che sarebbe successo qualcosa del genere?

Calmati adesso. Controllati. Non ti ricordi come camminavi? Cerca solo di essere naturale.

Passo. Passo. Passo. Prendi il ritmo. Tallone punte, tallone punte. Passo. Passo. Così si fa! Uno-due-uno-due-uno-due. Così cammina Paul Macy. Sicuro di sé, lungo la maledetta strada. Spalle dritte. Pancia in dentro. Trentanove anni. Nel fiore della vita. Forte come un… Com’era la frase? Forte come un toro? Sì. Un toro. Un toro. La fortuna ti aspetta. Un secondo viaggio, un secondo inizio. Il brutto sogno è finito; adesso sei sveglio. Passo. Passo. E le tue braccia? Lasciarle penzolare? Mani in tasca? Non preoccuparti di questo, continua a camminare. Che le braccia se la cavino da sole. Ti ci abituerai. Sei sulla strada, sei libero, sei stato riabilitato. Stai andando ad assumere il tuo nuovo lavoro. La tua nuova carriera. La tua nuova vita. Passo. Passo.

Uno-due-uno-due.

Non poteva evitare la sensazione che tutti lo stessero guardando. Anche questo probabilmente era normale, un piccolo attacco di paranoia. Dopo tutto, aveva il distintivo Riab sul risvolto, quel pezzettino di metallo scintillante che indicava la sua condizione di ricostruito. L’immagine di nuovi virgulti che crescevano da un vecchio ceppo, che avvertivano chiunque l’avesse conosciuto ai vecchi tempi di usare tatto con lui. Nessuno avrebbe dovuto salutarlo con il suo vecchio nome. Nessuno avrebbe dovuto ammettere l’esistenza di un passato. Il distintivo Riab aveva lo scopo di proteggerlo dall’insinuarsi dei vecchi ricordi. Ma naturalmente attirava anche l’attenzione. La gente lo guardava… perfetti sconosciuti, per quanto ne sapeva, anche se non poteva esserne certo… la gente lo guardava e si faceva domande. Chi è questo tipo, cosa ha fatto per essere condannato alla Riab? Il triplice assassino dell’ascia. Ha violentato una bambina di nove anni con le forbici. Ha sottratto dieci milioni di dollari. Ha avvelenato sei vecchiette per impadronirsi delle eredità. Ha messo la dinamite nella cattedrale di Chartres. Tutti quegli occhi su di lui, che si interrogavano. Immaginavano i suoi peccati. Il distintivo li avvertiva che lui era qualcosa di speciale.

Non c’era modo di nascondersi da quegli occhi. Macy raggiunse il marciapiede e camminò lungo il bordo. Entro la striscia di lucido metallo rosso inserito nel lastrico che lanciava impulsi magnetici che impedivano alle auto di saltare sul marciapiede. Anche quello non servì a niente. Immaginava che i guidatori che gli sfrecciavano accanto si sporgessero per fissarlo. Attraversando il marciapiede in diagonale, trovò un altro cammino, rasente i fianchi degli edifici. Bravo, Macy, nasconditi. Tieni una spalla più alta dell’altra e illuditi che questo serva a non farti vedere in faccia. Abbassa la testa. Jack lo Squartatore a passeggio. Nessuno ti sta guardando. Questa è New York, ricordi? Potresti camminare lungo la strada seminando merda e nessuno se ne accorgerebbe. Non qui. Questa città è piena di Riab. Perché qualcuno dovrebbe occuparsi di te e del tuo passato cancellato? Basta con la paranoia, Paul.

Paul.

Anche questa era una parte difficile. Il nuovo nome. Io sono Paul Macy. Un nome dolce, compatto. Chi l’aveva inventato? C’è un computer nelle viscere della terra che mette insieme le sillabe e fabbrica nuovi nomi per i ragazzi della Riab? Paul Macy. Niente male. Avrebbero potuto dirmi che ero Dragomir Slivovitz. Izzy Levine. Leroy Rastus Williams. Invece saltano fuori con Paul Macy. Per il lavoro all’olovisione, immagino. Ci vuole un nome del genere per i media. "Buona sera, vi parla Dragomir Slivovitz, con le notizie delle undici. Parlando dalla sua residenza alla Casa Bianca Lunare, il Presidente ha dichiarato…" No. Avevano trovato il nome giusto per la sua nuova carriera. Fottutamente anglosassone.

D’improvviso provò un gran desiderio di vedere la faccia che aveva. Non riusciva a ricordare che aspetto avesse. Fermandosi bruscamente, si voltò a sinistra e guardò la sua immagine riflessa su un pilastro lucido come uno specchio accanto all’ingresso di un edificio adibito a uffici. Vide una faccia standard anglosassone, con guance larghe e labbra sottili, un grosso mento e un sacco di capelli giallo-castani, mossi dal vento, e occhi azzurri alquanto infossati. Niente barba né baffi. La faccia sembrava forte, affabile. Ben proporzionata e del tutto sconosciuta. Rimase sorpreso vedendo quanto sembrava rilassato: nessuna riga di tensione sulla fronte, nessun cipiglio né durezza nello sguardo. Macy assorbì tutto questo in una frazione di secondo; poi, la persona che stava camminando alle sue spalle, presa alla sprovvista dalla sua improvvisa fermata, gli venne addosso. Macy si girò. Una ragazza. Sollevò subito la mano prendendola per il gomito, per sostenerla. Era più colpa di lei che sua: dovrebbe guardare dove va. Tuttavia si sentiva un po’ in colpa. — Mi dispiace terribil…

— Nat — disse lei — Nat Hamlin, per l’amor di Dio!


Qualcuno stava infilando un lungo ago freddo nel suo occhio. Sotto la palpebra, con grande delicatezza, su e su, attorno alla sommità del globo oculare, oltre i fili intrecciati dei nervi, fino al cervello. L’ago possedeva una sorta di estensione; sembrava espandersi telescopicamente, scivolando attraverso le masse corrugate e involute di morbido tessuto, trapassandolo dalla fronte fino alla calotta. Un minuscolo lampo di luce brillante dovunque la punta dell’ago toccasse. Ah, bene, noi tagliare questo, e poi isolare questo, e poi recidere un poco qui, ja, ja, ist gut! E il dolore. Oh, Cristo, il dolore, il dolore, il dolore, il fuoco che scorreva lungo ogni neurone e ogni sinapse, il dolore! Come se mille denti gli venissero estratti contemporaneamente. Gli avevano detto che non gli avrebbe fatto il minimo male. Quei fottuti bastardi.


Gli avevano spiegato come affrontare una situazione del genere. Doveva essere gentile ma fermo. Gentilmente ma fermamente disse: — Mi spiace, ma si sbaglia. Il mio nome è Paul Macy.

La ragazza si era ripresa dallo shock. Fece un paio di passi indietro e lo studiò con attenzione. Lui e lei costituivano adesso un’isola di stasi sul marciapiede affollato; la gente passava senza sosta accanto a loro.

Lei era alta ed esile, con lunghi capelli rossi, lisci, inquieti occhi verdi, lineamenti delicati. Una lieve spruzzata di efelidi alla radice del naso. Labbra piene. Niente trucco. Indossava una giacca primaverile a quadri blu, spiegazzata. Aveva l’aria di non aver dormito bene negli ultimi tempi. Doveva avere 28 o 29 anni. Molto pallida. Attraente, in una maniera stanca e fragile. Disse: — Non prendermi in giro. Lo so che sei Nat Hamlin. Ti trovo bene, Nat.

Ogni volta che la ragazza pronunciava quel nome, lui sentiva l’ago scivolargli dietro i globi oculari.

— Macy. Paul Macy.

— Non mi piace questo scherzo. È crudele, Nat. Non sarebbe la prima volta.

— Non la conosco proprio, signorina.

— Non mi conosci proprio. Non mi conosci proprio.

— Non la conosco proprio. Esatto.

— Lissa Moore.

— Spiacente.

— Che razza di viaggio stai facendo, Nat?

— Il secondo — disse Macy.

— Il… secondo?

Si toccò il distintivo. Questa volta lei lo vide.

— Riab? — disse. Sbatté un paio di volte le palpebre: evidentemente cercando di riorientarsi. Del colore sulle guance, adesso. Si morse le labbra, imbarazzata.

Lui annuì. — Sono appena uscito. Adesso capisce? Non la conosco. Non l’ho mai conosciuta.

— Cristo — disse. — Siamo stati tanto bene insieme, Nat.

— Paul.

— Come faccio a chiamarti così?

— È il mio nome adesso.

— Siamo stati tanto bene insieme — ripeté. — Prima che tu te ne andassi. Prima che io stessi male. Non lavoro molto adesso, sai. È stata dura.

— Mi dispiace — le disse, a disagio. — Non è bene che trascorra troppo tempo con persone conosciute durante il mio primo viaggio. O anche poco tempo, a dire la verità.

— Non vuoi venire da qualche parte a parlare?

— Non posso. Non devo.

— Forse un’altra volta? — chiese lei. — Quando ti sarai abituato un po’.

— Temo proprio di no — disse Macy. Fermamente ma cortesemente. — Il punto è che ho dato un taglio netto al passato, e non devo cercare di ricucire questo taglio, o lasciare che qualcun altro lo faccia. Sono in un viaggio completamente nuovo, lo capisce?

— Lo capisco — mormorò lei — ma non lo voglio. Ho un sacco di guai in questi ultimi tempi, e tu puoi aiutarmi, Nat, se solo…

Paul. E non sono in condizioni di aiutare nessuno. Riesco appena ad aiutare me stesso. Guardi come mi tremano le mani.

— E stai sudando. Hai la fronte bagnata.

— La pressione è tremenda. Sono condizionato a stare lontano dalle persone del mio passato.

— È orribile sentirti parlare così. Persone del mio passato. Come una ghigliottina che cala. Mi hai amato. E io ti ho amato. Amato. Ancora. Amato. E quando dici…

— La prego.

— Io ti prego. — Tremava, stringendolo per un braccio. I suoi occhi, che erano diventati vitrei, sbattevano velocissimi. — Andiamo a bere qualcosa, a fumare, a parlare. So cos’è la Riab, ma ho troppo bisogno di te. Ti prego. Ti prego.

— Non posso.

Ti prego. - E si protese verso di lui, le dita che affondavano fino all’osso del suo polso destro, e Macy avvertì una strana sensazione alla cima del cranio. Una specie di intrusione. Un pizzicore. Un leggero calore. Insieme a esso ci fu un fastidioso offuscamento della personalità, una duplicazione dell’io che per un attimo lo lasciò senza ormeggi. Paul Hamlin. Nat Macy. Nel cuore della sua mente esplose una scena netta, dai colori sgargianti: lui chino su una specie di tastiera, e quella ragazza in piedi nuda dall’altra parte di una stanza piena di cose, le mani premute contro le guance. Grida, stava dicendo lui. Avanti, Lissa, grida. Facci sentire un bell’urlo. L’immagine svanì. Era tornato su una strada di Manhattan Nord, ma aveva delle difficoltà con la vista, era tutto sfocato, e diventava più appannato a ogni secondo. Le gambe non lo reggevano. Una fitta di dolore sotto lo sterno. Forse addirittura un attacco di cuore. — Ti prego — stava dicendo la ragazza. — Non mandarmi via, Nat. Nat, cosa ti succede? Hai la faccia tutta rossa!

— Il condizionamento… — annaspò lui.

La pressione si allentò. La ragazza arretrò, accostando le nocche delle dita alle labbra. Man mano che la distanza fra loro aumentava si sentiva meglio. Si appoggiò al fianco dell’edificio con una mano e con l’altra le fece segno di andarsene. Vai via. Via. Fuori dalla mia vita. Chiunque tu fossi, non c’è più posto ora. Lei annuì. Continuò ad arretrare. Ebbe un’ultima visione della sua faccia tesa, con gli occhi gonfi, poi venne nascosta dal flusso di gente. Sarà così ogni volta che incontro qualcuno che ho conosciuto ai vecchi tempi? Ma forse gli altri non faranno così. Rispetteranno il mio distintivo e mi passeranno a fianco in silenzio. Datemi la possibilità di ricominciare. È una questione di correttezza. Lei non è stata corretta. Una troia nevrotica, che pensava solo ai suoi di guai. Aiutami, continuava a dire. Ti prego, ti prego, Nat. Come se io potessi aiutare qualcuno.


Venti minuti dopo arrivò all’ufficio della compagnia. Dieci minuti di ritardo, ma era inevitabile. Gli ci era voluto un po’ per riprendersi, dopo l’incontro con la ragazza. Per eliminare l’adrenalina dal sistema, per lasciar asciugare il sudore. Era importante che si presentasse con un aspetto sereno; più importante, in effetti, che arrivare in orario il primo giorno. Quelli della compagnia probabilmente erano disposti a tollerare un po’ di ritardo all’inizio, considerando tutto quello che aveva passato. Ma doveva dimostrare di possedere le qualità professionali che il lavoro richiedeva. Lo assumevano per generosità, era vero, ma non era pura carità: non l’avrebbero accettato se non fosse stato adatto al lavoro. Perciò doveva dimostrare di possedere quella facciata di disinvoltura, di scioltezza che era indispensabile per un commentatore dell’olovisione. Fermati a riprendere fiato. Pettinati i capelli. Sistemati il colletto. Datti un’aria di tranquilla sicurezza. Hai avuto un brutto momento, lungo la strada, ma adesso ti senti molto meglio. Bene. Adesso entra. Passo sicuro. Uno-due-uno-due.

L’atrio era oscuro, cavernoso. Schermi dappertutto. Un centinaio di sensori montati nelle pareti di onice, robot antivandali dall’aria affabile e impersonale, pronti a intervenire se qualcuno cercava di creare fastidi. Macy accese uno degli schermi e una faccia femminile sorridente apparve. Appena un accenno di prosperosi seni nudi sul fondo dello schermo, tagliati dalla pudibonda telecamera. — Ho un appuntamento — disse. — Con il signor Bercovici. Paul Macy.

— Certamente, signor Macy. L’elevatore alla sua destra. Trentottesimo piano.

Entrò nel pozzo. Era già programmato; serenamente, galleggiò verso l’alto. In cima, un altro schermo. La faccia di una ragazza negra, elegante, molto magra, con le sopracciglia rasate e gli zigomi lucidi. Il solito alone di capelli luminescenti. — Prego, usi l’Ingresso Verde — disse, con voce roca da contralto. — Il signor Fredericks l’attende alla Galleria Nove della Rotonda.

— Io ho appuntamento con il signor Bercovici…

Troppo tardi. Lo schermo si era spento. L’Ingresso Verde, un immenso portale ovale, color foglia di rododendro, si stava aprendo come il diaframma a iride di una vecchia macchina fotografica. Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Macy passò rapidamente, col timore che il diaframma si chiudesse mentre aveva una gamba da una parte e l’altra dall’altra. Oltre la soglia l’aria era appiccicaticcia, carica di un calore e di un’umidità da foresta tropicale, e di fragranze misteriose. Vide corridoi bassi e scuri che si diramavano in una dozzina di direzioni. Le pareti erano rosa e incurvate, senza angoli, e sembravano fatte di una sostanza spugnosa ed elastica. Quel posto era come un immenso grembo. Intrappolato nelle tube di Falloppio. Macy cercò di non rimettersi a sudare. Si sentì uno schiocco, come quello che può essere prodotto facendo scivolare un dito all’interno della guancia ed estraendolo di scatto dalla bocca, e la ragazza negra emerse da una fenditura nella parete, che immediatamente tornò a sigillarsi. Anche lei era sigillata come una crisalide, in una guaina di plastica rossa che andava dalla gola ai piedi, e copriva tutto senza nascondere niente, facendo risaltare i contorni del corpo scheletrico. Una superba struttura ossea. Disse: — Mi chiamo Loftus. L’accompagno nell’ufficio del signor Fredericks.

— Il signor Bercovici…

Lei non aspettò. Si avviò veloce lungo il corridoio, le gambe che si muovevano come pistoni, i piedi nudi che colpivano il pavimento spugnoso con un suono soffocato. Sedere piatto. Niente natiche, per quel che poteva vedere: come il posteriore di un gatto. Macy era sconvolto. Bercovici era quello con cui aveva parlato al centro Riab, tutto sorrisi e sincerità, capelli biondi e radi, guance paffute. Non si preoccupi, signor Macy, la seguirò personalmente durante il suo difficile ritorno alla vita di ogni giorno. Bercovici era la sua ancora di salvezza. Senza voltarsi la ragazza disse: — Il signor Bercovici è stato trasferito all’ufficio di Addis Abeba.

— Ma ho parlato con lui solo dieci giorni fa, signorina Loftus!

Lei si fermò. Un momentaneo bagliore degli occhi. — Loftus è sufficiente — disse. Poi la sua espressione si addolcì. Forse ricordandosi che aveva a che fare con un convalescente. — Qualche volta i trasferimenti arrivano all’improvviso da noi. Ma il signor Fredericks ha il suo dossier. Conosce tutti i problemi.

Il signor Fredericks aveva un ufficio lungo e cavernoso, arrotondato e simile a un grembo, dal cui soffitto inclinato penzolavano centinaia di morbidi globi rosa, a forma di mammella, con una minuscola luce montata su ciascun capezzolo. Era un uomo piccolo e vivace, con una stretta di mano umidiccia. Rivolse a Macy un sorriso triste e imbarazzato, il tipo di sorriso che si può rivolgere a uno che abbia avuto un paio di arti amputati, o magari i genitali, per bloccare la metastasi di qualche nuovo cancro rapido. — Sono felice che sia venuto, signor Macy. Posso chiamarti Paul? Tu chiamami Stilton. Qui abbiamo rapporti molto informali. Hai una meravigliosa occasione, entrando in questa organizzazione. — Gli occhi andarono al distintivo Riab, poi si staccarono, poi tornarono su di esso, come se non potesse fare a meno di guardarlo. Il marchio della guarigione.

— Ti faccio fare un giro — stava dicendo Fredericks. — Così conosci tutti. Qui ci sono opzioni straordinarie: il moderno sistema di raccolta dati da tutto il mondo è al tuo servizio. Ti faremo incominciare con calma, flash di novanta secondi, all’inizio; poi quando comincerai a trovarti a tuo agio, ti mandiamo in prima linea.

Buona sera, signore e signori, qui è Pavel Nathanielovitch Macy che vi parla dal Cremlino alla vigilia di un summit molto atteso…

La parete di fondo dell’ufficio svanì come se fosse stata annullata da qualche massa vagante di antimateria, e Macy si trovò a guardare entro un immenso abisso, un pozzo buio largo centinaia di metri e forse infinitamente profondo. Una grande quantità di particene dorate galleggiavano liberamente in quella coppa di nulla. Rimase a tal punto impressionato da quella vista inaspettata che si perse un pezzo del discorso di Fredericks, ma fece in tempo a sentire: — …Vedi, abbiamo migliaia, letteralmente migliaia di telecamere volanti situate in ogni punto del mondo dove ci si può aspettare qualche avvenimento. La loro altezza normale è fra i 25 e i 30 metri, ma naturalmente possiamo alzarle o abbassarle mediante telecomando. Puoi considerarle come degli osservatori passivi, sospesi in aria dappertutto, piccoli osservatori autonomi che assorbono l’intera gamma di avvenimenti audio e video, conservandoli in bobine della durata di ventiquattro ore. Noi qui al Quartier Generale di Manhattan Nord possiamo utilizzare una qualsiasi di queste informazioni a piacere. Per esempio, se volessi sapere cosa sta succedendo alla manifestazione per la Giornata della Sterilità, a Trafalgar Square… — Sfiorò un piccolo pulsante azzurro su un grande quadro di comando che aveva sulla scrivania, e dall’oscurità una delle particelle dorate arrivò a gran velocità e si arrestò a mezz’aria, appena dietro il punto dove era stata la parete dell’ufficio. — Questa — spiegò Fredericks — è la controparte della telecamera volante sospesa in questo istante sopra la manifestazione. Devo semplicemente indurre un output… così, e abbiamo il video. — Macy vide delle donne che gesticolavano e agitavano striscioni e accendevano razzi. — E così abbiamo l’audio. — Grida roche e slogan.

Macy non aveva mai sentito parlare di una Giornata della Sterilità. Il mondo può diventare terribilmente strano quando uno passa quattro anni fuori circolazione.

— Se ci serve qualcosa per la prossima trasmissione, basta mandare il segnale a un registratore e prepararlo per la revisione… e nel frattempo l’occhio volante è ancora lassù, che osserva tutto e lo trasmette a richiesta. Raccogliere notizie non è più una rottura di palle se si hanno diecimila di questi piccoli fottuti aggeggi che lavorano per te. — Una risatina nervosa. — Qualche volta usiamo qualche parolaccia da queste parti. Dopo un po’ uno non ci fa più caso. — Non si usano parolacce con un uomo che porta sul risvolto il marchio del suo trauma, giusto?

Fredericks lo prese per un braccio. — È ora di incontrare i tuoi colleghi — stava dicendo. — Voglio mostrarti tutto quello che c’è da vedere. Ti piacerà lavorare qui.

Lasciarono l’ufficio. La parete di fondo si ricompose misteriosamente mentre uscivano, il nero pozzo degli occhi volanti che svaniva. Giù nell’umido passaggio falloppiano. Porte che si aprivano. Dirigenti ben vestiti e cortesi dappertutto, che si alzavano per salutarlo. Alcuni che parlavano con voce portentosamente chiara e precisa, come se pensassero che un uomo che aveva avuto i suoi guai potesse trovare difficile capire quello che dicevano. Ragazze dalle lunghe gambe che lanciavano promesse di estasi. Alcune sembravano un poco spaventate; forse erano a conoscenza delle malvagie azioni della sua precedente personalità. Macy era consapevole dei crimini che il precedente inquilino del suo corpo aveva commesso, e qualche volta spaventavano anche lui.

— Da questa parte — disse Fredericks. Una stanza luminosa e colorata, due volte le dimensioni dell’ufficio di Fredericks. — Vorrei farti conoscere il direttore delle notizie diurne, Paul. Harold Griswold: un gran figlio di puttana. Harold, questo è il nostro nuovo uomo, Paul Macy. Numero sei nel notiziario serale. Bercovici ti ha detto tutto, no? Bene. Si inserirà alla perfezione.

Griswold si alzò, un processo lento e complicato, e sorrise. Macy sorrise. I muscoli facciali cominciavano a fargli male per tutti i sorrisi che aveva dovuto fare nell’ultima ora e mezza. Uno non sorride molto al centro Riab. Strinse la mano del direttore delle notizie diurne. Griswold era incredibilmente alto, la mascella squadrata, doveva avere una cinquantina d’anni, ed era evidentemente un uomo di grande prestigio; a Macy rammentava in qualche maniera George Washington. Indossava un abito a un solo pezzo azzurro brillante, un orologio da orecchio e un elaborato pettorale formato da parecchi generi di legni esotici lucidati. Il suo ufficio era una specie di museo, con opere artistiche dappertutto: plastiquadri, cristallini, punte parlanti, risonanze programmate. Una collezione da un milione di dollari. In un angolo, alla destra della scrivania a forma di rene, si ergeva una impressionante psicoscultura, la figura di un’anziana donna. Macy, che aveva guardato i vari pezzi in segno di implicito complimento a Griswold, ebbe un sobbalzo alla vista di quest’ultima opera, tossì, afferrò l’orlo della scrivania per non cadere. Gli sembrava di essere stato colpito con un bastone alla nuca. Immediatamente delle mani lo afferrarono. — Ti senti bene? Che ti succede, amico? — Macy combatté lo stordimento. Si raddrizzò e si liberò delle mani che lo soccorrevano.

— Non so cosa mi sia successo — mormorò. — Guardando quella scultura nell’angolo…

— Quell’Hamlin laggiù? — chiese Griswold. — Uno dei miei preferiti. Me l’ha regalato la mia prima moglie, dieci anni fa, quando Hamlin era ancora uno sconosciuto…

— Se non vi dispiace… dell’acqua fresca…

Due sorsi. Un’altra tazza. Tre sorsi. Evitando accuratamente di guardare la figura della vecchia. L’Hamlin laggiù. I funzionali bene educati che lo scrutavano con la fronte aggrottata, poi cancellavano le rughe non appena lui se ne accorgeva. Tutti così solleciti. — Perdonatemi — disse. — Sapete, è il mio primo giorno fuori. La fatica, la tensione…

— Naturalmente. La tensione. — Griswold.

— La fatica. Comprendiamo. — Fredericks.

Si costrinse a guardare la psicoscultura. L’Hamlin laggiù. Un’opera eccellente. Intensa. Commovente. Il tragico senso della vecchiaia, l’eroismo di sconfiggere il tempo. Un sommesso ronzio che giungeva dai risuonatori dava una sottile colorazione alle sensazioni che doveva stimolare. L’Hamlin laggiù. Macy disse: — È un’opera di Nathaniel Hamlin?

— Esatto — disse Griswold. — Sa Dio quanto vale adesso. A causa della tragica fine di Hamlin. Non che io intenda lontanamente venderla, ma naturalmente quando un artista muore giovane le sue opere acquistano un valore incredibile.

Non lo sapeva, dunque. Non era possibile che fingesse. E non poteva essere così stupido. O Bercovici non glielo aveva detto, oppure gli era stato detto e non se ne ricordava più. Interessante. Macy era scosso per l’intensità della sua reazione alla vista inattesa della scultura. Al Centro Riab non l’avevano avvertito che potevano capitargli cose del genere. Annotò mentalmente di chiederlo, quando fosse tornato la settimana successiva per la prima sessione di post-terapia. E si annotò anche di restare lontano il più possibile dall’ufficio di Griswold.

La scultura stava ancora esercitando un effetto su di lui. Sentiva una specie di risacca, un oceano subcerebrale che lo risucchiava. Cupo rumoreggiare di onde dal basso. Un martellare alla soglia della coscienza. L’Hamlin laggiù. È un’opera di Nathaniel Hamlin? A causa della sua tragica fine. Gesù. Gesù. Un brutto attacco di ginocchia flosce. Fronte sudata. Parossismo di confusione. Sto per cadere, per avere un attacco isterico, per vomitare sul peloso tappeto elettronico di Griswold. Controllati. In fretta. Si voltò con aria di scusa verso Stilton Fredericks e disse con voce impastata: — È più sconvolgente di quanto pensassi. Fammi uscire da qui.

Fredericks lo prese per un braccio. Con fermezza. A Griswold: — Ti spiegherò dopo. — Lo spinse urgentemente verso la porta. Incespicando. La testa che gli dondolava. Gesù. Fuori dall’ufficio, finalmente.

Il momento di intollerabile angst che si allontanava.

— Mi sento molto meglio adesso — mormorò Macy.

— Hai bisogno di una pillola?

— No, no. Niente.

— Sei sicuro di star bene?

— Sicuro.

— Non hai una bella cera.

— Passerà. Mi ha scosso più di quanto mi aspettassi. Ascolta Fredericks… Stilton… non voglio che tu pensi che io sia fragile, o qualcosa del genere, ma sai che sono stato appena dimesso dal Centro Riab, e per i primi giorni…

— È del tutto naturale — disse Fredericks. Una pacca cameratesca sulle spalle. — Comprendiamo il problema. Possiamo venirti incontro. È stata colpa mia, comunque. Avrei dovuto controllare, prima di portarti qui. Ha tante di quelle opere d’arte nel suo ufficio…

— Certo. Come potevi immaginarlo?

— Avrei dovuto controllare lo stesso. Adesso che ho visto il problema, controllerò l’intero edificio. Non immaginavo che ti avrebbe sconvolto fino a questo punto trovarti di fronte a una delle tue sculture.

— Non è mia — disse Macy scuotendo con forza la testa. — Non è mia.

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