Era di nuovo al lavoro nel suo studio, dopo troppo tempo. Tutto il suo equipaggiamento era coperto da un sottile strato di polvere. Forse i delicati meccanismi interni sono rovinati, o almeno imprecisi. Cerco di costruire la struttura di un uomo e finisco con uno scimpanzé, qualcosa del genere. Controllò attentamente tutti i quadranti di calibrazione: niente fuori posto, sorprendentemente. Solo polvere. Per forza, dopo tanti anni. C’era da meravigliarsi che non fossero stati distrutti dai vandali. Fottuti vandali dappertutto. E visigoti. Sfiorò la tastiera principale. Quello sarebbe stato il suo capolavoro, una composizione di gruppo, l’equivalente contemporaneo dei Cittadini di Calais. Ma frammentario, intenso, polivalente. Gli avrebbe dato un titolo modesto, qualcosa come La condizione umana.
Un fottuto casino mettere insieme tutti i modelli contemporaneamente. Ma le interazioni di gruppo sono importanti: merda, sono l’essenziale! Ed eccoli tutti lì, adesso. La grassona del circo, quattrocento chili di ciccia tremolante. Mezza tonnellata di risate. Il ragazzino della cooperativa studentesca, quello con la testa rapata. Gomez, lo strizzacervelli, per dare un tocco di ostilità. La ragazza incinta del supermercato. Togliti i vestiti, cocca, fai vedere la pancia. L’ombelico che sporge come una maniglia. E il vicepresidente della banca, molto molto per bene, lo faremo andare un po’ su di giri quando sarà ora di cominciare. Poi il vecchio modello in gesso, dei tempi di scuola, l’Apollo del Belvedere senza uccello. Una vera acrobazia tecnica cercare di ricavare una psicoscultura da un pezzo di gesso. Mancano le reazioni adeguate: una prova di maestria. E un gatto, quello con un occhio solo del piano di sotto, bianco e grigio, con una dozzina di artigli per zampa, dall’aspetto che ha.
Infine, Lissa. La mia amata. Mettiti vicino al banchiere, tesoro. Girati un po’ a sinistra. Il banchiere alza una mano. Vorrebbe prenderti una tetta ma non osa, e rimane lì, sospeso nella tensione fra il desiderio e la repressione. Dovresti avere i capezzoli eretti per questa scultura; dovresti essere in calore, un po’. Aspetta, ci penso io. Una toccatina o due qui sotto. Sì: guarda come si sollevano.
Bene! Bene! Tutti ai vostri posti! Interazione di gruppo, registrazione numero uno! Voglio che ciascuno di voi proietti l’emozione di cui abbiamo parlato in precedenza, proiettate solo quell’emozione, nella maniera più pura che potete. E vivetela. Non pensate: Sto posando per un artista, ma: Io sono così, e questa è la mia vita, questa è la mia anima, e la sto irradiando a palate in maniera che lui possa catturarla con la sua macchina e trasformarla in un capolavoro. Pronti? Pronti? Ehi, stronzi, perché non state in posa? Chi vi ha dato il permesso di dissolvervi? Cerchiamo di conservare un po’ di fottuta stabilità! Fermi! Fermi! Fermi!
Correva più rapidamente che poteva, e lo sforzo lo stava uccidendo. Un cerchio di metallo incandescente intorno al petto. Gli occhi che gli uscivano dalle orbite. Aveva girato a sinistra, uscito dal ristorante sulla Broadway, e si era infilato in una strada buia correndo a lunghi balzi, pensando dapprima che sarebbe riuscito a farcela, ma poi aveva sentito i passi che si adeguavano esattamente ai suoi, infaticabili, e seppe che non ce l’avrebbe fatta. Non voltarti indietro. Qualcosa forse ti sta raggiungendo.
Nat Hamlin che corre veloce alle sue spalle, con il suo stesso corpo, solo quattro anni più giovane. Gridando parolacce mentre corre. Che linguaggio che ha! Uno penserebbe che gli artisti siano tipi estetici, raffinati, invece eccoti questa antologia di sconcezze che mi rincorre. Grida: Ehi, tu, Macy, checca rincoglionita, fermati! Abbiamo un sacco di cose da dirci, stronzo!
Sicuro. La prima cosa di cui dobbiamo parlare è chi di noi due deve vivere e chi deve morire, e lo so già qual è la tua posizione su questo argomento, Nat. Perciò ho intenzione di continuare a darmela a gambe finché non crollo. Forse crollerai prima tu, anche se sei più giovane. Con tutto l’acido e le oro e le puttane che ti fai, mentre io ho fatto una vita sana al Centro, in tutti questi anni.
Avanti, avanti. Quasi al ponte adesso. Le torri scintillanti della Vecchia Manhattan davanti a me. Hamlin continua a urlare oscenità. Non è un occhio volante della rete quello lassù? Sicuro che lo è! Ci sta seguendo, registrando tutto quanto, nel caso ci sia un bell’omicidio. Chiama la polizia, macchina deficiente! Guarda, c’è un pazzo che mi insegue, un criminale condannato fuggito illegalmente nella vita dopo essere stato sradicato! Vedi, vedi, ha la mia faccia! Perché non fai qualcosa? Sono uno della rete, non vedi? Paul Macy, numero sei alle notizie della sera. Lo so che sei solo una macchina, un giornalista obbiettivo, un osservatore automatico e passivo, ma lascia perdere queste stronzate adesso. La mia vita è in pericolo. Se mi prende. E non ce la faccio più. Ho le budella in fiamme. Tutti quegli spaghetti dentro che vanno su e giù ad ogni passo. Il fegato che fa le capriole. Oh, Cristo, una mano sulla spalla. Preso!
Giù a terra. Le sue ginocchia contro le ascelle. Bloccato. Le sue labbra che sbavano. Un pazzo con la mia faccia. Vai via! Vai via! Vai via! E lui ride. E sopra la spalla vedo l’occhio volante che registra ogni cosa. Meraviglioso. E adesso ecco a voi gli ultimi momenti di Paul Macy, 39 anni, tragicamente assassinato dal suo alter-ego impazzito. Dopo un breve intermezzo pubblicitario offerto dalle Acapulco Oro. Andato. Andato. And…
Si muoveva stancamente in un sobborgo immerso nel sonno, Queens o Staten Island, non sapeva bene quale. Sembravano tutti uguali. Una gelida giornata di gennaio. Un’area di alta pressione si era stabilita sulla città: non si vedeva neppure una nuvola, soltanto una cupola azzurra che premeva sulla terra, nessun indizio di neve, anche se qualche cumolo annerito di quella caduta a Natale giaceva ancora lungo i margini della strada. In quel clima secco era difficile credere che sarebbe mai piovuto ancora. Gli alberi senza foglie simili a mazzi di stecchi che gridavano silenziosamente: sono una quercia, sono un acero, sono una magnolia, e nessuno che li ascoltava, perché sembravano tutti uguali. Tozze case in mattoni a due piani, a una distanza ragionevole l’una dall’altra, su entrambi i lati della strada. I bambini a scuola. I mariti al lavoro. Una mogliettina dietro ogni finestra munita di tendine.
Non sapeva bene come era arrivato fin lì. Era partito dal Connecticut alle nove e mezzo di mattina circa, il lavoro che gli veniva tutto sbagliato: un fottuto incubo nello studio, che era terminato in un orribile pasticcio, rovinandogli una settimana di fatiche. Poi si era messo in macchina, aveva attraversato la città, passando su due o forse tre ponti, e si era ritrovato lì. E quella familiare foschia gialla che gli circondava le tempie e la fronte, la nebbia umida della pazzia. L’accolse con piacere. Arriva un momento in cui uno si deve arrendere alle forze oscure. Sì, sì, avanti, prendete possesso di me. Nat Hamlin al vostro servizio. Chiamatemi Raskolnikov junior. Ah, quel matto di un russo ne capiva qualcosa! Come ribolliamo dentro. E qualche volta fuori.
Guarda quella casa. Una villetta di periferia perfettamente banale, vecchia di una cinquantina d’anni, prodotto dei folli anni Settanta, dei raccapriccianti anni Sessanta. Porterò qualche illuminazione nella sua squallida esistenza. Mediante un atto di volontà intensificherò l’esperienza di vita dei suoi abitanti. Vedi quanto è facile forzare la porta laterale? Solo un piccolo chiavistello: basta inserire la taglierina, muoverla su e giù, spingere… ecco.
Adesso entriamo. Buon giorno signora, sono lo stupratore pazzo, il satiro di Darien, e oggi vendo terrore estatico. No, non gridi, sono suo amico. Non faccio del male inutile. Le assicuro che non sarei qui, se non fosse per questo impulso irresistibile che mi è venuto. È colpa mia se mi manca qualche rotella? Ognuno ha diritto ad avere il suo esaurimento. Specialmente se è un artista importante. Dovrebbe essere entusiasta sapendo chi la scoperà. Lei è diventata parte di una delle più significative disintegrazioni personali nell’arte occidentale. Come se io fossi Van Gogh e mi tagliassi il fottuto orecchio proprio qui sul linoleum della sua cucina. Questo non le fornirebbe come minimo un posto periferico nella sua biografia? Bene, allora. Lui ha avuto il suo collasso, io ho il mio. Venga qui, adesso. Togliamo quella vestaglia. Vediamo che razza di mercanzia offre. Scusi, non l’avrei strappata se lei avesse cooperato. Perché opporsi? Sarebbe molto più significativo per lei se si limitasse a stendersi e collaborare. Ecco, ecco. Vede, si sta bagnando per me! Come può negare l’attività delle sue glandole di Bartolino? Questa lubrificazione la qualifica come puttana, signora mia! Ah. Dentro. Dentro. Questo è il biglietto. Dentro e fuori, dentro e fuori. Con amore. Allegro. Allegrissimo! Wham, bang, grazie signora. Su la cerniera. Fuori dalla porta. Lo stupratore pazzo colpisce ancora. Abbiamo messo in scena l’ultimo affascinante episodio del nostro caso di crollo della personalità. Sembro così per bene, per essere uno psicopatico. Oops! Ehi, no, agente! Metta via quel paralizzatore. Non… ehi, calma… mi arrendo, accidenti, mi arrendo! Vengo senza opporre resistenza! Vengo… senza… opporre resistenza…
Sbattendo furiosamente le palpebre, la testa pesante, disorientato, si svegliò. Si trovò in un letto, il suo letto, le coperte che gli arrivavano sotto il mento, la luce accesa nella camera. Buio al di là della finestra. Le lenzuola fredde sulla pelle: qualcuno l’aveva spogliato. Da un gomito sgorgavano rivoli di dolore. Per un momento fu assolutamente incapace di rammentare il suo ultimo periodo di consapevolezza; poi gli avvenimenti nel ristorante del popolo gli tornarono alla mente. Lui che piantava in asso Lissa. La ragazza che lo chiamava. La voce di Nat Hamlin che gli sussurrava come un serpente nelle orecchie. Calamità. Collasso. Caos. — Ehi? — chiamò con voce spezzata. — C’è qualcuno? Ehi? Ehi?
Dall’altra stanza entrò la ragazza. Incorniciata nella porta. Nuda. Ancora più magra di quanto avesse immaginato, la gabbia toracica visibile, la doppia linea di muscoli sulla pancia piatta, le cosce sottili con una fessura di qualche centimetro fra di esse, fino in cima. I seni ancora pieni, però. Non grossi, ma ben fatti. Il triangolo rosso di peli. La pelle rosa, come se fosse stata fregata, ancora umida. Si è fatta un bagno. Sembra più giovane di cinque anni, adesso.
— Da quanto sei sveglio? — gli chiese.
— Circa mezzo minuto. Che giorno è oggi?
— È ancora la stessa notte di lunedì. Anzi, ormai è martedì mattina. L’una e mezzo del mattino.
— Mi hai portato a casa?
— Qualcuno mi ha aiutato. C’era un autista di taxi nel ristorante del popolo. Ti ha portato fuori. Cristo, ho avuto paura, Paul. Credevo che fossi morto!
— Hai chiamato un dottore?
Lei rise. — A quest’ora di notte? Sono rimasta seduta qui a guardarti, sperando che ne uscissi. Sembrava che avessi degli incubi. Gli occhi che roteavano sotto le palpebre. Ti ho toccato la mente una volta, più o meno per caso, e mi ha fatto paura: come se venissi inseguito lungo un vicolo. — Avvicinandosi al letto disse: — Stai bene? Hai il mal di testa?
— Altro che. Gesù!
— Dopo un po’ mi è sembrato che dormissi e basta. Così mi sono fatta un bagno, come mi avevi detto tu. Avresti dovuto vedere quanto sporco è venuto via. Ma una certe volte diventa così merdosa che non pensa neppure più a lavarsi, e io ero arrivata a quel punto. Be’, adesso è passata. Non sono riuscita a far funzionare il tuo registratore, perciò mi sono messa a leggere un libro, e…
— Cosa mi è successo al ristorante? — chiese lui.
Lei si sedette sul bordo del letto. Lui le guardò le cosce, e avrebbe voluto appoggiarle la mano sopra, ma gli ci vollero due tentativi prima che il braccio tremante riuscisse a sollevarsi e a compiere il tragitto di trenta centimetri. La pelle di Lissa era fresca e liscia. Le accarezzò la coscia su e giù, fra il ginocchio e l’inforcatura.
Lei disse: — Ti sei alzato per andartene, ricordi? Non credevo che l’avresti fatto, invece l’hai fatto, e te ne stavi andando. L’unica speranza che avessi, se ne andava. E sapevo di essere arrivata in fondo.
— Perciò mi hai chiamato.
— No — disse lei. — Ti ho raggiunto, con la mia mente.
— Non hai gridato il mio nome? Non mi hai urlato di tornare indietro?
— Non ho aperto bocca. Ho raggiunto la tua mente. Ho preso contatto. Con tutti e due.
— Tutti e due?
— Sono penetrata nella tua mente, e c’era qualcuno di nome Paul Macy lì, sicuro, ma ho raggiunto anche un altro livello, e c’era Nat Hamlin. Compresso come una molla. Nascosto nel buio. Non lo dimenticherò mai, dovessero passare un milione di anni. La mia mente che si protendeva nello spazio fra te e me, e trovava due persone. Quella nascosta. O addormentata, forse.
…Addormentato è più esatto.
La voce di Hamlin. Macy ebbe un sobbalzo, e staccò la mano da Lissa, come se lei scottasse.
— Hai sentito? — chiese.
— Non ho sentito niente. Ma ho avvertito una specie di contrazione. Una piccola scossa di ESP.
— Era Hamlin, che parlava dentro di me. Ha detto : "Addormentato è più esatto". Cosa diavolo sta succedendo, Lissa?
— È ancora dentro di te — disse lei.
— No. No. È impossibile. Mi hanno detto tutti che se n’è andato per sempre.
— Credo di no — disse Lissa. — Una piccola parte di lui è rimasta, sul fondo della tua testa. Forse non si può mai cancellare fino in fondo una personalità. Come quando si fa crescere una rana intera da una cellula di un’altra rana, e quella nuova sarà identica alla vecchia. Giusto? Tu avevi un paio di cellule di Nat Hamlin ancora nella testa, e io le ho riportate in vita toccandole. Mi dispiace, Paul. È colpa mia.
— È impossibile — disse lui. — È solo un’allucinazione.
…Come preferisci, fratello.
— È veramente lì — disse Lissa. — L’ho sentito. Una presenza dentro di te. Due in una sola testa.
— No. …No?
— Non volevo riportarlo in vita, Paul. Io l’amavo, sì, ma non era una buona persona, faceva del male alla gente, era un criminale. Quando l’hanno condannato a essere cancellato hanno fatto bene. Non voglio che ritorni. Come possiamo liberarci di lui?
…ficcatelo in culo, amico.
Lissa cercò di fare un sorriso incoraggiante. Gli prese la mano fra le sue e la strinse. Sembrava trasformata dal sapone e dall’acqua calda, non più la ragazzina triste e sperduta e lunatica del ristorante. Paul si rese conto che il suo collasso adesso lo legava a lei. L’aveva portato a casa. Si era presa cura di lui. Non poteva buttarla fuori. Lei disse: — Posso portarti qualcosa? Da bere? Una oro?
— Adesso no. Vorrei vedere… se riesco ad alzarmi…
— Dovresti riposare. Hai avuto un brutto colpo.
— Sì, ma… — Si mise a sedere sul letto, e provò un paio di volte i piedi prima di affidare a essi il suo peso. Si alzò, precariamente. Ondeggiando. Rimase in piedi davanti a lei, nudo. Poi un gesto che lo sorprese: mosse la mano per coprirsi il pube. E immediatamente la ritrasse; poteva pensare a sei ragioni differenti per le quali era assurdo volersi nascondere da lei, a cominciare dal fatto che qualche anno prima lei era stata l’amante del precedente possessore del suo corpo, per un sacco di mesi.
Fece un passo, poi un altro, e si trovò in mezzo alla stanza, un po’ traballante. Il gomito sinistro era irrigidito e gli faceva male, com’era prevedibile considerando che c’era caduto sopra con tutto il peso. Fortuna che non si era rotto. Ma c’era anche un curioso intorpidimento al lato destro della faccia. Come se il dentista gli avesse fatto una iniezione di anestetico. Come se avesse avuto una paralisi, forse.
Si guardò la faccia allo specchio della camera. Sì, era un po’ asimmetrica, come quella di suo padre dopo la paralisi. La bocca contratta all’indietro, la palpebra inferiore penzolante. Macy si toccò la parte insensibile della guancia e cercò di fare assumere alle labbra la forma giusta. Era tutto duro, come carne plastica.
…Ciao.
— Sei tu che stai facendo questo?
— Che ti succede, Paul?
— La mia faccia. Mi sta tirando i muscoli. Non riesco a farlo smettere.
— Oh, Cristo, Paul! — Terrorizzata.
Una battaglia di volontà. Il terrore di Lissa lo infettò. Era raccapricciante avere metà della faccia nelle mani di qualcosa annidato nel tuo cervello. Come nuotare e riemergere con un gambero attaccato all’uccello. Lottò. Tirando i muscoli, cercando di rilassare la carne. Ri-las-sa-ti… ri-las-sa-ti… Sì. Stava avendo la meglio. Gli era tornata un poco la sensazione. La bocca non era più distorta. Hamlin si stava ritirando a mo’ di gambero nei recessi più profondi del suo cervello, mollando la presa. Domani filo dritto al Centro Riab e ci penseranno loro. Un’eliminazione completa e accurata di qualsiasi vestigia dell’io precedente che ancora rimanga. Macy guardò nuovamente lo specchio. Aprendo e chiudendo la bocca, facendo grandi smorfie. Il primo round è mio. Tornò barcollando al letto e si lasciò cadere su di esso, tremando.
— Sei inzuppato di sudore! — esclamò Lissa.
— È stata una vera battaglia. I muscoli.
— Ho visto. La tua faccia si contorceva, faceva smorfie. Sembrava che stessi diventando pazzo. Infilati sotto le coperte. Devi riposare. Vuoi fumare?
— Forse non è una brutta idea.
Lei portò due oro. Le accesero solennemente e tirarono le rituali boccate profonde, aspirando un sacco di aria. Mentre il fumo allucinogeno gli penetrava nei polmoni, lo immaginò che viaggiava veloce fino al suo cervello e stordiva il demone che l’ESP di Lissa aveva evocato. Lo induceva al sonno. Poi, quando Hamlin fosse stato intontito, piantargli un paletto d’argento nel cuore. Macy non riusciva ad avvertire nessuna traccia della presenza dell’altro, adesso. Per quel che ne sapeva, l’erba l’aveva davvero steso.
— Spegni la luce — disse Macy. — Infilati a letto con me. Stiamo qui a fumare insieme.
Le cosce di lei fresche contro le sue. Si sentiva febbricitante. La tensione delle ultime ore, senza dubbio. Le punte delle oro che brillavano nel buio. Non bruciano così in fretta come quando uno doveva arrotolarsele da solo. Tempo per meditare, tempo per contemplare. Ma alla fine finirono. Spensero i mozziconi. Ancora nessun segno dell’anima passionale e deforme di Nat Hamlin dentro di lui. Forse l’erba era la cura giusta.
Toccò Lissa.
Muoversi nel letto era difficile, a causa del gomito dolorante. Tuttavia ci riuscì. Infilò il braccio destro sotto la sua schiena, con la mano che sbucava dalla parte opposta per stringerle il seno. Un globo morbido, sodo, ballonzolante, che traboccava dalle sue dita. Intrappolò delicatamente il capezzolo fra l’indice e il medio, muovendoli per eccitarla. Poi, con una certa difficoltà, si rigirò verso l’alto, si contorse, toccò per un breve attimo, dolorosamente, con il braccio sinistro, la testiera del letto, e riuscì a infilare il ginocchio destro fra le sue cosce senza perdere la presa con il seno. Le gambe di Lissa si aprirono, e lui premette il ginocchio contro il calore di lei. Lissa emise dei piccoli rumori ronfanti. Il guaio era che in quella posizione non riusciva a baciarla, non ci arrivava con il collo, ma per il momento poteva andar bene. Cautamente fletté il braccio irrigidito, con l’intenzione di farglielo scivolare lungo l’inguine, se non era troppo doloroso.
Era la prima volta, da quando era diventato Paul Macy, che andava a letto con una donna.
Oh, certo, gli avevano fornito una serie di ricordi. Probabilmente era stato Gomez a incaricarsi della programmazione, quel piccolo satiro. Che sognava per lui scopate fantasma. Un adeguato curriculum eterosessuale, senza dimenticare una piccola innocente omofilia giovanile. Eccolo con Jeanie Grossman, nella villetta sul monte Rainier. Sedicenni entrambi, le piccole tette fredde e dure nelle sue mani. I lunghi capelli neri di Jeanie tutti spettinati, le cosce strette strette contro la sua mano indagatrice. Oh no, no, Paul, non farlo, ti prego, non farlo, diceva, poi cominciava a respirare raucamente e a mormorare: Cerca di essere gentile, tesoro; proprio come dicono in quegli stupidi romanzi rosa da cui probabilmente Gomez aveva rubato la scena. Cerca di essere gentile con me, Paul, è la prima volta. Sopra di lei e dentro di lei, wham bang. Colpi rapidi, frenetici. È la prima volta anche per me. Ma non glielo dice. Jeanie Grossman che ansima nel suo orgasmo inaugurale, con la massa bianca del monte Rainier che sbircia da sopra la sua spalla. Ma naturalmente non era accaduto. Non a lui. A Gomez forse, molto tempo prima; forse Gomez aveva programmato la propria vita sessuale in tutte i suoi lavori di ricostruzione, per mancanza di immaginazione. Povera Jeanie, chiunque tu sia. Un centinaio di uomini diversi crede di avere avuto la tua verginità.
E c’era molto altro nel curriculum di Macy. La donna sposata, non più giovane, passata la trentina, che gli si era gettata addosso con improvvisa ferocia, quando aveva diciassette anni e vendeva enciclopedie, d’estate. Seduto accanto a lei sul divano, con tutte le sue carte sparse intorno, mentre diceva: Questo è un servizio esclusivo, la nostra presentazione visiva a tre dimensioni, e abbiamo la scelta fra sei rilegature in meravigliosi colori decorativi, e forse le può interessare il nostro nuovissimo sistema videotape, e mentre lui blatera, lei spazza via i depliant dal suo grembo e si tuffa sulla cerniera, e poi l’incredibile, devastante sensazione delle sue labbra che gli avvolgono l’uccello.
Il buon vecchio Gomez. E l’infermiera a Gstaad, che l’aveva sedotto mentre era ingessato. E la ragazza tedesca grassottella, che gli faceva usare l’ingresso di servizio. E quella con la biancheria di gomma e le fruste. E anche la gara di resistenza a Kyoto. E l’orgia sulla spiaggia di Herzlia. Il buon dottore gli aveva fornito un vasto repertorio di esperienze erotiche. Ma a che serviva? Non c’era niente di reale, almeno per quel che riguardava Paul Macy, perciò non poteva rivendicarlo come un bagaglio personale, più che se l’avesse preso da Henry Miller o dal divino marchese. Era privo di ricordi sessuali autentici. Perciò, in effetti, era sul punto di perdere la sua innocenza all’età di trentanove anni.
Ma mentre abbracciava il corpo esile e flessuoso di Lissa, comprese il valore di tutti quegli episodi immaginali trapiantati dentro di lui. Un vero vergine si sarebbe trovato di fronte a problemi anatomici, ai meccanismi della faccenda, al giusto angolo di ingresso, eccetera. Lui almeno sapeva dove trovare la porta di entrata. Conoscenze di seconda mano, forse, ma utili. Il Centro Riab non l’aveva mandato allo sbaraglio nel mondo.
C’era un piccolo problema, però. Non riusciva a farlo rizzare.
Lissa era pronta ed eccitata, ben lubrificata, e il suo strumento ancora lì afflosciato. Attraverso gli occhi socchiusi lei lo guardò, e aggrottò la fronte. I succhi che inacidivano e si coagulavano dentro di lei, mentre attendeva di essere riempita nel suo vuoto. Alla fine comprese la ragione del ritardo. Si rannicchiò contro di lui; una mano sullo scroto, un solletico leggero, molto abile. Ah. Sì. Un po’ di vento nelle vele, finalmente. Il vecchio familiare irrigidimento che non aveva mai sperimentato. Su. Su. Su. Adesso era proprio ritto a dovere. Girati un po’, infilati dentro di lei. Si sistemarono tutti e due. Lei si preparò a riceverlo. Lui si sentiva infiammato, pulsante.
Poi udì una risata dentro, e un voce fredda, maligna:
…Guarda un po’ questo, amico.
Sbocciando sullo schermo della sua mente, l’immagine di Lissa con le gambe larghe, su un altro letto e in un’altra stanza, e lui stesso… no, non lui ma Nat Hamlin, chino su di lei, che le afferrava le caviglie e se le appoggiava sulle spalle, e calava su di lei con itifallica vitalità. La penetrava. E mentre la consumazione interiore aveva luogo, Macy sentì la sua verga perdere veemenza. Di nuovo floscio; rattrappito, infantile, un pisellino invece di un uccello. Stancamente si lasciò andare sulla ragazza. Farlo era impossibile per lui adesso. Non con lui che guardava. Porto il mio pubblico in testa. Hamlin, fra un turbine di risate, stava ancora facendo affiorare scena dopo scena dalle sue senza dubbio reali esperienze, accoppiandosi con Lissa in questa e quella posizione: Lissa sopra, Lissa in ginocchio, l’intera biografia copulatoria della loro antica relazione, mentre Macy, impotente, le sue immagini fantasma di Jeanie Grossman e di tutte le altre spazzate via da quell’irresistibile incursione di realtà, giaceva intontito, singhiozzante e impotente aspettando che Hamlin la smettesse di tormentarlo.
Lissa non capiva cosa stava succedendo, soltanto che Macy aveva perso la sua erezione nel momento critico, ed era chiaramente sconvolto per questo. Le sue lunghe braccia sottili lo abbracciarono con affetto.
— Va tutto bene — sussurrò. — Hai avuto dei brutti momenti, e poi una cosa del genere può succedere a chiunque. Poi starai meglio. Riposati. Non importa. Va tutto bene. Va tutto bene. — Gli premette la guancia sul petto. — Cerca di dormire un po’. — Lui annuì. Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Dal buio, la voce di Hamlin:
…Solo per farti sapere che sono ancora qui.