BRAN

“Vola.” Una voce gli sussurrava dalle tenebre. La caduta pareva non avere fine.

“Vola!” Ma Bran non sapeva volare, poteva solo continuare a cadere.

Maestro Luwin aveva fatto un bambino di creta, una volta. L’aveva messo nel forno finché la creta non era diventata scura e dura. Gli aveva messo addosso i vestiti di Bran, poi l’aveva gettato dall’alto delle mura. Bran ricordava il modo in cui era esploso in mille pezzi. «Ma io non cado» aveva detto a maestro Luwin. Invece continuava a cadere.

Fendeva turbinanti nebbie grigiastre, tendaggi spessi, opachi. La terra era talmente lontana che riusciva a vederla a stento, ma sentiva a quale folle velocità stava cadendo. E sapeva, sapeva, che cosa l’aspettava là sotto. Perfino nei sogni, nessuno cade per l’eternità. Ci si risveglia sempre una frazione di secondo prima di colpire il suolo. Anche questo sapeva. Una frazione di secondo prima di colpire il suolo.

“E se non succedesse?” chiese di nuovo la voce.

Adesso la terra era più vicina, ancora lontanissima, eppure nettamente più vicina. Prima o poi, l’avrebbe colpita.

Lassù, nelle tenebre, il freddo era raggelante. Niente sole, niente stelle. Solo il terreno che saliva inesorabilmente per frantumarlo, le nebbie grigiastre e la voce che sussurrava. Voleva piangere.

“No, non piangere. Vola!”

«Non so volare! Non posso volare, non posso…» disse Bran.

“Come fai a esserne certo? Hai mai provato?”

La voce era acuta, sottile. Bran gettò uno sguardo attorno a sé, cercando di capire da dove proveniva. Un corvo scendeva a spirale assieme a lui, lo seguiva nella caduta, appena fuori dalla portata delle sue braccia.

«Aiutami» disse Bran.

“Ci sto provando. Di’ un po’, hai del grano?” rispose il corvo.

Le tenebre si capovolsero, rotearono, si rovesciarono. Bran riuscì comunque a frugarsi nelle tasche, a tirare fuori una manciata di chicchi. Le tenebre si contorsero. I piccoli chicchi dorati gli scivolarono tra le dita e caddero nel vuoto. Caddero con lui.

Il corvo gli atterrò sulla mano e cominciò a mangiare.

«Ma tu sei davvero un corvo?» chiese Bran.

“E tu stai davvero cadendo?” chiese a sua volta il corvo.

«Sto sognando.»

“Ne sei certo?”

«Quando colpirò il suolo, mi sveglierò» disse Bran all’uccello.

“Quando colpirai il suolo, morirai.” Detto questo, il corvo riprese a mangiare i chicchi di grano.

Bran guardò in basso. Adesso vedeva le montagne, le cime innevate. Vedeva gli argentei percorsi dei fiumi che solcavano le foreste. Chiuse gli occhi e cominciò a piangere.

“Le lacrime non ti serviranno a niente” disse il corvo. “Te l’ho già detto. La risposta non è piangere: è volare. Ma quanto difficile sarà mai?” Il corvo lasciò la mano di Bran e volteggiò attorno a essa. “Io lo faccio, no?”

«Tu hai le ali!» protestò Bran.

“Forse anche tu le hai.”

Bran si tastò le spalle, alla ricerca di lunghe penne remiganti. Non trovò niente. Le sue dita incontrarono soltanto pelle secca, tesa.

“Esistono diversi tipi di ali” insisté il corvo.

Bran osservò le proprie gambe, le braccia. Vide un corpo scarno, dalle ossa sporgenti come rostri. Era sempre stato così scheletrico? Non riusciva a ricordare.

Dalle nebbie emerse un volto. «Amore, amore…» Lineamenti illuminati di una luce dorata. «Quali atti si compiono in tuo nome.»

Bran urlò.

“No! No!” Il corvo volò a spirale attorno a lui, gracchiando in modo ossessivo, quasi furibondo. “Non pensare a quello! Non ora. Metti da parte quella cosa. Dimenticala. Falla svanire.” Atterrò sulla spalla di Bran, lo beccò e il volto dorato svanì.


Bran continuava a cadere a una velocità accecante, adesso. Le nebbie cineree gli sibilavano attorno mentre precipitava verso la terra.

«Ma che cosa mi stai facendo?» chiese al corvo. Aveva la gola contratta dalle lacrime.

“Ti sto insegnando a volare.”

«Non posso volare!»

“Adesso stai volando.”

«No! Sto cadendo!»

“Ogni volo ha inizio con una caduta” sentenziò il corvo. “Guarda giù.”

«Ho paura…»

“Guarda giù!”

Bran guardò. Sentì le viscere diventargli acqua. Il suolo gli stava precipitando addosso. L’intero mondo si dilatava sotto di lui, una gigantesca scacchiera di bianco, marrone, verde. Poteva vedere ogni dettaglio con tale cristallina chiarezza che per un momento dimenticò la paura. Poteva vedere tutti i Sette Regni e tutti gli esseri dei Sette Regni.

Vide Grande Inverno come solamente le aquile potevano vederlo. Da quell’altezza, le sue altissime torri non erano che bassi, tozzi moncherini, e le imponenti mura nient’altro che rilievi appena accennati nella terra.

Vide maestro Luwin sulla sua terrazza, intento a studiare il cielo attraverso un lucido tubo di bronzo, la fronte aggrottata mentre prendeva alcune note in un libro.

Vide suo fratello Robb, più alto e forte di come lo ricordava, che si allenava con la spada nel cortile del castello. Una spada d’acciaio.

Vide Hodor, il gigante dalla mente semplice, dirigersi alla forgia di Mikken con un’incudine sulla spalla; la trasportava con la medesima facilità con cui un altro uomo avrebbe trasportato una balla di fieno.

Vide il cuore stesso del parco degli dei. Il volto scolpito nel grande, pallido albero-diga si rifletteva nelle acque scure dello stagno, le foghe frusciavano nel vento gelido. Il volto percepì lo sguardo di Bran. I suoi occhi immobili da millenni si distolsero dall’immagine riflessa sulla superficie delle acque impenetrabili e guardarono in alto, verso di lui, pieni di conoscenza antica.

Guardò verso est. Vide un grande vascello sfrecciare sulle acque del Morso. Sua madre era sola in una cabina, lo sguardo fisso su una daga macchiata di sangue che teneva davanti a sé. Vide i rematori con i muscoli tesi ritmicamente sui remi e ser Rodrik Cassel curvo su una murata, scosso da tremiti e sussulti. E poi vide una spaventosa tempesta avanzare verso di loro, venti impetuosi e lampi accecanti che squarciavano l’orizzonte nero, ma nessuno sul vascello sembrava in grado di vedere la minaccia in avvicinamento.

Guardò verso sud, verso la maestosa corrente blu-verde del Tridente. Vide suo padre, il volto scavato dalla sofferenza, implorare re Robert e sua sorella Sansa passare le notti a piangere disperata mentre Arya osservava in silenzio, tenendo cupi segreti sigillati nel cuore. Attorno a loro si affollavano ombre sinistre. Una era scura come la cenere e il suo volto era il muso di un mastino digrignante, un’altra indossava un’armatura del colore dei raggi del sole, dorata e bellissima. Su entrambe incombeva l’ombra di un gigante in armatura fatto di pietra. Ma quando il gigante sollevò la celata, non c’era nulla dietro di essa: in quel nulla, solo tenebre e orrido sangue nero.

Bran alzò lo sguardo e scrutò attraverso il mare Stretto, verso le Città Libere, il verde mare Dothraki e oltre, fino a Vaes Dothrak, ai piedi della sua immane montagna, fino ai paesi fiabeschi del mare di Giada, fino ad Asshai presso la Terra delle Ombre, dove i draghi si muovevano nella luce dell’alba.

Guardò infine verso nord. Vide la Barriera che scintillava come cristallo azzurro. Jon Snow, il suo fratello bastardo, dormiva in un letto gelido e la sua pelle si faceva livida e dura al ricordo del calore perduto per sempre.

Dopo aver visto tutto questo, Brandon Stark scrutò oltre la Barriera, oltre le foreste senza fine ammantate di neve, oltre la Costa Congelata e i giganteschi fiumi di ghiaccio azzurrino, oltre le morte desolazioni nelle quali nulla cresceva e nulla viveva. Scrutò a nord, ancora più a nord, fino ai tendaggi di luce nei cieli vuoti all’estremo confine del mondo. Guardò in profondità al di là di quei tendaggi, nel cuore stesso dell’inverno.

E allora urlò di terrore e il calore delle lacrime scavò sentieri di fuoco nel suo volto.


“Ora sai” sussurrò il corvo appollaiato sulla sua spalla. “Ora capisci perché devi vivere.”

«Perché?» chiese Bran che non capiva, mentre cadeva e cadeva e cadeva.

“Perché l’inverno sta arrivando.”

Bran guardò il corvo sulla sua spalla. Il corvo sostenne il suo sguardo. Aveva tre occhi e il terzo era pieno di una conoscenza terribile.

Bran tornò a guardare giù. Adesso non c’era più niente. Solamente neve, gelo e morte, un abisso in fondo al quale rostri di ghiaccio erano in attesa di ghermirlo, lance acuminate che correvano verso di lui. Tanti altri sognatori giacevano là sotto, impalati su quelle gelide punte. La paura, una paura disperata, tornò a invaderlo.

«È possibile che un uomo che ha paura possa essere anche coraggioso?» Era la sua voce a parlare, ma lontanissima e flebile.

«Possibile?» Fu la voce di suo padre a rispondergli. «È quello il solo momento in cui un uomo può essere coraggioso.»

“Adesso, Bran” dichiarò il corvo. “Decidi. O voli o muori.”

La morte di ghiaccio salì verso di lui, urlando e sibilando.

Brandon Stark allargò le braccia e cominciò a volare.

Ali invisibili si riempirono di vento e lo riportarono in alto. Sotto di lui, quelle spaventose lance di ghiaccio si allontanarono. Sopra di lui, il cielo si spalancò. Bran salì e salì. Era incredibile, meraviglioso, meglio di qualsiasi scalata, di qualsiasi altra cosa potesse esistere. Il mondo divenne nuovamente piccolo e distante.

«Sto volando!» Bran era estatico.

“Lo vedo.” Poi, di colpo, il corvo con tre occhi si staccò dalla sua spalla e si mise a svolazzargli in faccia, sbattendo le ali, accecandolo. Bran barcollò mentre il corvo lo artigliava, lo beccava nel centro della fronte, in mezzo agli occhi.

«No! Che fai?…» gridò.

Le nebbie grigie si squarciarono come un velo opaco. Il corvo con tre occhi spalancò il becco e gracchiò: un rauco suono di paura che parve arrivare fino al più alto dei cieli.

Non era un corvo. Era una donna dai lunghi capelli neri. Bran ricordava di averla già vista. Ma certo: una domestica di Grande Inverno.

Allora Bran si rese conto di essere in un letto alto, in una fredda stanza di una delle torri della Prima Fortezza. La donna dai capelli neri lasciò cadere il bacile di terracotta che reggeva, mandandolo a frantumarsi sul pavimento. Cominciò a urlare e si lanciò di corsa giù lungo i gradini di pietra: «Si è svegliato! Si è svegliato! Si è svegliato!…».

Bran si tastò la fronte, in mezzo agli occhi. Il punto in cui il corvo l’aveva beccato continuava a dolere, ma non c’era nessun segno, nessuna ferita, nessuna traccia di sangue. Non c’era niente di niente.

Cercò di scendere dal letto, ma non ci riuscì. Si sentiva debole, intontito, intorpidito. Accanto a lui, qualcosa si mosse e saltò atterrando sulle sue gambe. Lui non sentì nulla. Due occhi gialli, splendenti come soli, si fissarono nei suoi. La finestra era aperta e ventate d’aria fredda invadevano la stanza, ma il calore che emanava il meta-lupo lo avviluppava come quello generato da un bagno caldo.

Il suo cucciolo… Ma come poteva essere diventato così grosso? Bran cercò di accarezzarlo. La sua mano tremava come una foglia al vento.

Robb Stark irruppe nella stanza, senza fiato per la corsa fino alla cima della torre. Il meta-lupo senza nome stava leccando il viso di suo fratello.

«Estate.» Bran lo guardò serio. «Il suo nome è Estate.»

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