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La strada ringhiò verso Phil. Per l’esattezza il ringhio proveniva da una macchina elettrica lanciata a tutta velocità che accostandosi al marciapiede aveva strappato via un pezzo triangolare di posteriore a un uomo grasso che non era stato abbastanza veloce da mettersi in salvo. Guardando meglio, Phil si accorse che non era un uomo grasso, ma un uomo magro che indossava un abito a pallone. Mentre si sgonfiava, l’uomo sedette sul marciapiede e cominciò a singhiozzare. Gli abiti a pallone non offrivano alcuna protezione reale ai pedoni, tranne forse per il fatto che ingrandivano l’apparente obiettivo; ma andavano molto di moda. Durante l’ultima guerra venivano riempiti di idrogeno come scudo contro i neutroni. Poi alcune piccole ma spiacevoli esplosioni in affollati rifugi avevano indotto il governo a prendere dei provvedimenti restrittivi.

Dopo avere ringhiato, la strada continuò a brontolare sordamente dai suoi due livelli inferiori. Il brontolio era composto dal ronzio delle vetture elettriche, dal rombare del traffico pesante sotterraneo, dal cicaleccio della pubblicità sonora, dallo strisciare affrettato dei piedi, lo stesso di quando Roma e Babilonia erano giovani, ma reso più intenso dal fatto che i piedi di molte donne erano sollevati su zoccoli ortopedici alti da sei a trenta centimetri.

Nessuna di questa miriade di rumori disturbava Phil che in un’altra occasione si sarebbe già infilato i tappi nelle orecchie, e avrebbe camminato rigido e guardingo, attento alle auto pirata, che talvolta saltavano anche sui marciapiedi. Ma quel giorno voleva assorbire tutto ciò che gli stava intorno, vedere le cose a cui era stato sempre cieco, osservare le espressioni apatiche ma ansiose sui visi dei passanti, sentire le invisibili linee di forza che simili a ragnatele e a fili di burattini, li legavano agli onnipresenti annunci pubblicitari: dal perentorio: Imparate a spaccare l’osso del collo! all’allettante Una bambola spogliarellista tutta per voi!, dal conciso Perché non lobotomizzarvi? allo stimolante Rendete attraente la vostra figura con un Abito da Sera Spray! La plastistoffa si applica in un batter d’occhio. Non scalda, non si appiccica! Speciali rigonfiamenti rendono attraente il seno! Disegnato da artisti proprio sul vostro corpo!

Lucky non sembrava più spaventato di Phil dalla strada. Trotterellava vicino alla base della monumentale facciata della Skyway Tower, il cui color verde poteva forse spiegare perché nessuno dei passanti si accorgesse del gatto. Anche se in verità non erano necessarie molte spiegazioni per capire perché quei sacchi ambulanti di nervi non vedessero al di là del proprio naso.

Uno scintillante robot venditore si diresse verso di lui sulle sue silenziose ruote, ma Phil abilmente interpose fra sé e la macchina un altro passante con l’abito a pallone. L’uomo fu così costretto a sorbirsi un lungo discorso sulle virtù di certe pillole dimagranti: evidentemente il robot l’aveva catalogato dalle sue dimensioni. Phil si affrettò dietro a Lucky che aveva girato nell’abbagliante Opperly Avenue.

Come se seguisse qualche odore particolare, il gatto abbandonò d’improvviso il muro, attraversò il marciapiede e si lanciò nella Opperly Avenue fra le macchine che sfrecciavano. Phil lo seguì con un certo batticuore, ma senza essere realmente in ansia. Qualcosa gli permetteva di avvertire facilmente le intenzioni di tutte le auto, evitarle perciò era un gioco da ragazzi.

Raggiunse il marciapiede opposto con un metro e mezzo abbondante di vantaggio nei confronti di un giovane giocherellone su una carcassa che assomigliava a una jeep spaziale ed era ricoperta di scritte del tipo: EHILÀ, VENUSIANO! e ATTENZIONE, RAGAZZE! VELOCITÀ DI FUGA ZERO. Ripreso fiato, Phil si trovò a guardare la bocca di una caverna adorna di cartelloni illuminati da antiquate luci al neon. Il più grande portava scritto: QUESTA SERA! Juno Jones l’Amazzone stritolamaschi contro Zubek il Nano il Misogino spaccaossa!

Non ebbe il tempo di leggere il resto del cartellone, perché Lucky si era lanciato lungo l’ampio corridoio fiancheggiato da stereografie giganti che rappresentavano uomini e donne mezzi nudi, minacciosi, che nella semioscurità sembravano tanti geni della lampada, appena materializzati da una nube di fumo.

Solitamente Phil avrebbe provato un certo disgusto, misto a paura e a un’affascinata inquietudine, nell’entrare, o soltanto nel passare vicino a una palestra specializzata in combattimenti fra maschi e femmine, ma quel giorno gli sembrò una cosa del tutto normale. Non gli venne neppure in mente di non seguire Lucky.

Appena prima di un cancelletto girevole e di un robot bigliettario nascosto nell’ombra, si scorgeva l’imboccatura illuminata di un altro corridoio. Lucky vi si infilò come un razzo. Phil aveva fatto appena in tempo a girare l’angolo che un lungo braccio, senza mano e senza ossa, spuntò dalla parete e si piazzò fermamente davanti a lui.

— Dove credi di andare, bello? — gracchiò una voce invisibile. — Torna indietro. — Il braccio gli diede un’energica spinta verso la biglietteria.

Phil vide il gatto che lo guardava con aria interrogativa dal corridoio, sul quale si aprivano varie porte. Cercò di girare attorno al braccio, ma questo si allungò fino a raggiungere la parete opposta.

— Sei ancora qui? — chiese la voce gracchiante. — Sentimi, bello, non conosco la tua voce. Se devi parlare con qualcuno, dimmi il nome e la parola d’ordine.

— Voglio solo prendere il mio gatto — rispose Phil. Lucky aveva raggiunto l’estremità del corridoio e stava sbirciando nell’ultima porta. — Vieni qui, Lucky — chiamò, ma il gatto non gli diede retta.

— Questo nome non significa niente per me — continuò la voce, raucamente. — Non mi hai ancora detto nessun nome che faccia scattare i miei relè.

Lucky sparì attraverso la porta. — Per favore, lasciami passare un momento a prendere il mio gatto — disse Phil, cercando di usare il suo tono più sincero. — Tornerò indietro subito.

— Io non lascio passare nessuno. Dimmi nome e parola, bello, e in fretta.

In quell’istante un terribile senso d’angoscia si impadronì di Phil, come se una luce nel suo cervello si fosse spenta e il suo cuore fosse diventato di ghiaccio. Sapeva che era successo qualcosa a Lucky. Si infilò sotto il braccio grigio e si lanciò in avanti, ma prima che avesse potuto fare cinque passi si sentì afferrare. Il corridoio roteò intorno a lui mentre veniva trascinato violentemente indietro. Si accorse di essere strettamente avvolto dal braccio elastico simile a un pitone. La voce gli chiese nell’orecchio: — Non si passa, bello. Ora devo tenerti finché non arriva il guardiano.

— Lasciami andare! Devo entrare là, hai capito? — gridò Phil. Lottò invano per liberarsi le braccia, senza mai distogliere lo sguardo dalla porta attraverso cui era sparito Lucky. — Lasciami andare!

— Cosa succede qui? — Una donna grande e grossa, con i capelli biondi tagliati corti, il naso rotto, la mascella prominente e due grandi occhi azzurri, era sbucata dalla porta più vicina. — Calmati, figliolo — tuonò avvicinandosi. — Che cosa vuoi?

— Il mio gatto è entrato là — spiegò Phil, cercando di mantenere la calma. — In quella porta là in fondo. — Fece un cenno con la testa verso di essa. — Cercavo di riprenderlo, ma questa cosa mi ha afferrato.

— Il vostro gatto?

— Sì, il mio gatto.

Lei ci pensò su. Phil si accorse per la prima volta, forse perché fino a quel momento la sua attenzione era stata tutta concentrata sulla porta, che la donna indossava dei calzoni aderenti, marroni, ed era nuda fino alla vita. Aveva seni piccoli e spalle massicce, muscolose.

— Va bene — disse lei dopo un po’ — lascialo andare.

— Non mi ha detto né un nome né una parola — si lamentò la voce. — Ha cercato di passarmi sotto. Devo trattenerlo finché non arriva il guardiano.

— Ci vorrà almeno un’ora, se non conosco male Jake. Lascialo andare, stupido robot — disse la donna con voce profonda, da basso. — Quest’uomo è un mio amico. Lo faccio passare io.

— Va bene, signora Jones — disse la voce, in tono imbronciato. Il braccio grigio si svolse d’attorno a Phil e rientrò nel muro.

— Ora va’ a cercare il tuo gatto e fila — disse la gigantessa.

— Grazie mille — disse Phil, voltandosi a metà verso di lei ma controllando sempre con la coda dell’occhio la porta. Lei non rispose, limitandosi a guardarlo con aria dubbiosa, per nulla imbarazzata della propria parziale nudità.

Phil cercò di non correre, anche se il corridoio sembrava non finire mai. Continuava a dirsi che non era successo niente a Lucky, sperando ardentemente che fosse vero. Non si sentiva più né coraggioso né avventuroso. Passò davanti alla porta da cui era uscita la donna, notando vagamente mucchi di indumenti sporchi e un robot dalle braccia di gomma per gli allenamenti. Raggiunse l’ultima porta, dopo aver notato che tutte le altre erano ermeticamente chiuse. Esitò. Non si sentiva nessun rumore. Entrò.

La stanza era grande, col soffitto basso. Alle pareti erano appoggiati degli armadietti e delle panche. All’estremità opposta vi era una porta chiusa, con a fianco due bassi tavoli automassaggiatori, le cui braccia articolate, protese goffamente in alto, li rendevano simili a scarafaggi rovesciati sulla schiena. C’erano anche degli altri attrezzi che Phil non conosceva, ma il pavimento era quasi del tutto sgombro.

Quasi al centro della stanza vi era una scatola marrone, larga una trentina di centimetri. Due uomini, con le spalle rivolte a Phil, la stavano fissando. Uno era piuttosto piccolo, dall’aria agile, vestito con una maglia nera a girocollo e pantaloni neri aderenti, e impugnava una pistola. L’altro era ancora più piccolo e più magro, vestito in modo simile ma di blu. Teneva in mano un filo attaccato alla scatola.

Phil si schiarì la gola. I due uomini lo guardarono con occhi inespressivi, poi tornarono a rivolgersi verso la scatola. Phil avanzò cautamente nella stanza, sbirciando negli angoli in cerca di Lucky. Poi fece un salto all’indietro. Per poco non aveva calpestato un topo morto.

Osservando più attentamente, si accorse che c’erano una mezza dozzina di topi morti sparsi sul pavimento.

Si schiarì ancora la voce, più rumorosamente, ma questa volta i due non lo guardarono neppure. Allora si fece avanti, scavalcando cautamente il topo morto.

Si udì un clic. Una piccola apertura si aprì in cima alla scatola marrone e ne schizzò fuori un topo. Non appena a terra corse via zigzagando freneticamente, scivolando ad ogni curva. Phil aspettava che da un momento all’altro Lucky uscisse allo scoperto e si lanciasse all’inseguimento. L’uomo vestito di nero seguì i movimenti del topo con la pistola. Non si udì alcuna esplosione, né apparve alcuna fiammata, ma il topo si fermò.

— Cerca di sorprendermi meglio la prossima volta, Cookie — disse l’uomo in nero al compagno. — Ti ho visto muovere la mano quando hai premuto il bottone. — I due ripresero la posizione di prima, immobili e all’erta.

Muovendosi cautamente in cerchio, attorno ai due uomini, Phil si mise alla ricerca di Lucky. Ben presto si rese conto che erano pochi i posti in cui avrebbe potuto nascondersi. Gli armadietti erano alti fino al soffitto, e tutti chiusi.

Uno dei topi a terra si mosse. Cookie mise giù il filo con il bottone, prese il topo e lo rimise nella scatola attraverso un’apertura laterale. Phil cominciava a sentirsi inquieto. Gli sembrava che dovesse esserci un nesso fra Lucky e i topi, ma era un nesso privo di senso. I muscoli del polpaccio cominciavano a fargli male a forza di camminare sulla punta dei piedi.

Facendosi coraggio si avvicinò ai due uomini immobili. — Scusatemi — disse nervosamente. — Non avete visto entrare un gatto per caso?

La domanda, al pari dei precedenti colpi di tosse, non ottenne risposta. — Vi prego di scusarmi, ma devo assolutamente trovarlo — continuò sfiorando il gomito dell’uomo in nero. La reazione fu immediata, anche se venne da un’altra direzione. Quello chiamato Cookie lo afferrò per la giacca e lo tirò indietro. I suoi tratti infantili si erano trasformati in una dura maschera.

— Cos’hai fatto! Hai interrotto il re durante il suo svago! Hai osato spingere il re! Meriti una punizione, un castigo!

Phil si sentì male per la paura. Era solo capace di pensare che se Lucky fosse stato lì, a infondergli nuovamente quella splendida sicurezza, non si sarebbe sentito così vergognosamente terrorizzato da quel piccolo prepotente che lo teneva per il bavero.

Si inumidì le labbra. — Stavo solo cercando il mio gatto — disse con voce tremante. — E poi, non l’ho spinto.

— Certo che l’hai spinto! Ti ho visto io! Gli hai dato uno spintone! E per quel che riguarda i gatti, sappi che Swish Jack Jones, lo scannafemmine, è il miglior gatto che ci sia qui, l’unico gatto. — La mano che lo teneva gli torse più strettamente il bavero attorno alla gola. — Non sperare di cavartela tanto a buon mercato. Allora, Jackie, cos’hai intenzione di fargli?

Finalmente l’uomo in nero si mosse. Girò lentamente la testa che spuntava dal collare di lana nera e guardò Phil col sorriso triste e stanco di un re che conosce il noioso ma inevitabile destino di infliggere condanne e punizioni. Allungò lentamente una mano e prese Phil per un gomito.

— No, per favore — sussurrò Phil, ma proprio in quel momento il pollice gli premette un nervo fra le ossa e non poté trattenere un grido di dolore. L’uomo dal viso da bambino sogghignò, soddisfatto che finalmente venisse fatta giustizia.

Swish Jack Jones si accigliò, come se il grido non fosse stato abbastanza forte; alzò l’altra mano. — Questa è una pistola paralizzante — disse con tono affettato — a ultrasuoni. Potrei ripassarti la spina dorsale, per tenerti fermo prima di lavorarti. Adesso è regolata per i topi, ma potrei aumentare, la potenza, se necessario.

Phil sentiva le budella che gli si scioglievano. — Non dovete farmi del male — disse. — Vi dico che cercavo solo il mio gatto.

L’altro scosse tristemente la testa e disse: — I piccoli ficcanaso dalle cattive intenzioni verso Bast non dovrebbero spararle così grosse. — E allungò una mano verso la coscia di Phil.

In quel momento arrivò l’uragano. Cookie venne sbattuto tre metri lontano, la pistola paralizzante cadde a terra; Swish Jack Jones fece un balzo indietro, e la gigantessa bionda, si piazzò infuriata fra Phil e lui, tuonando: — Sai benissimo che sopporto tutto, tranne che tu faccia il prepotente!

Si era infilata un kimono corto e alquanto sporco, meravigliosamente ricamato nel migliore stile orientale, solo che la figura sulla schiena non era quella di un drago ma di un’astronave eruttante fiamme.

— Non toccarmi, Juno, ti avverto — ringhiò l’uomo in nero, con una voce che aveva perso gran parte della sua patina da intellettuale Si stava massaggiando un polso.

— Ti ho steso la prima volta che abbiamo fatto un incontro — replicò la gigantessa. — Ti ho steso la notte che ci siamo sposati E posso rifarlo ogni volta che voglio. E Cookie insieme a te — aggiunse, mentre quest’ultimo faceva una smorfia che voleva essere minacciosa, ma che tradiva solo la rabbia. — Perché stavi tormentando questo poveretto?

— Io? — disse Jack alzando la voce. — Non lo stavo affatto tormentando. Stavo solo prendendo le mie precauzioni. È arrivato qui come un matto, senza dire niente, saltellando sulla punta dei piedi e blaterando di un gatto. Sembrava che stesse per dare i numeri. È pericoloso.

Cookie, con le labbra strette, muoveva la testa su e giù a conferma, ma Juno non si lasciò impressionare minimamente. — A me è sembrato pericoloso quanto una mosca. Perché non hai lasciato che si cercasse il gatto e che se ne andasse?

Il viso di Jack assunse un’espressione esterrefatta. — Come, Juno, sei stata tu a lasciar entrare questo scimunito? Mi stavo giusto chiedendo come avesse fatto a spuntarla col Vecchio Bracciodigomma. Vuol dire che ti sei bevuta questa storiella del gatto?

— Perché, non è qui? — chiese Juno guardandosi intorno.

— E come potrebbe esserci, Juno? — protestò Jack, con una lieve sfumatura di superiorità nella voce. — L’hai forse visto? No. E se ci fosse un gatto, correrebbe dietro ai topi, non ti pare? E poi, dove potrebbe nascondersi? Non certo là — continuò, mentre lo sguardo di Juno si posava sull’altra porta. — C’è dentro lui. — Juno annuì. — E allora dov’è? — chiese Jack. — Non crederai che Cookie ed io l’abbiamo… rapito, per caso?

Juno si fregò pensosamente il naso schiacciato. Poi si volse a Phil con un’espressione ancora amichevole ma piena di dubbi. — Dicci qualcosa di più su questo gatto, figliolo. Di che colore era?

— Verde — disse Phil, e nonostante le espressioni incredule degli altri non poté trattenersi dal continuare. — Sì, verde brillante. E gli piace la marmellata di mirtilli. È venuto da me circa un’ora fa. L’ho chiamato Lucky perché mi faceva sentire bene, come se potessi capire tutto.

Ci fu un lungo silenzio. Phil avrebbe voluto sprofondare. Poi Juno gli posò una grossa mano sulla spalla che gli fece piegare le ginocchia. — Vieni, figliolo — disse gentilmente. — È meglio che tu te ne vada.

Jack fece un passo avanti, gettando a Juno un’occhiata di sbieco. — Senti, amico — disse con voce sollecita, in cui si sentiva ancora una punta di scherno — aveva appuntamento con uno psichiatra stasera, ma mi pare che tu ne abbia più bisogno di me — e tese a Phil un pezzo di nastro fonoscritto. Phil lo prese umilmente e se lo mise in tasca. Cookie ridacchiò. Juno si voltò di scatto verso di lui. — Sentimi bene — ruggì. — Il fatto che sia matto non ti dà il diritto di ridere di lui, né di fare il prepotente!

In quel momento si aprì la porta. Phil non poté vedere nell’altra stanza perché un uomo alto e grasso, con le guance grigiastre e spessi occhiali scuri, riempiva la soglia quasi completamente. I tre si fecero immediatamente rispettosi.

— Cos’è questo baccano? — chiese con una voce che fece sobbalzare Phil, perché era quella del Vecchio Bracciodigomma.

— Questo tipo… — cominciò Cookie, ma venne zittito da un’occhiata di Jack.

Gli spessi occhiali si volsero verso Phil. — Oh, uno dei tuoi fanatici ammiratori, Jack — disse il grassone con condiscendenza. — Mandalo via.

— Certo, signor Brimstine — disse Jack. — Subito.

La porta si richiuse. Phil si lasciò portar fuori da Juno. Si sentiva uno straccio, tanto che quasi non si accorse di una strana coppia che veniva lungo il corridoio verso di loro. L’uomo aveva un’aria serafica e insieme allegra. Era molto abbronzato, portava scarpe arancioni e un berretto dello stesso colore. La donna assomigliava a una giovane strega, con quel naso ossuto e il mento appuntito. Aveva un cappellino rosso, fissato con una ventina di lunghi spilloni alla sua capigliatura scura e arruffata, e una corta gonna rigida e spessa come un tappeto. Entrambi portavano maglioni neri col collo alto. Phil, immerso nei suoi dispiaceri, li notò appena, ma si accorse ugualmente che i due ignorarono volutamente la gigantessa.

— Troverete il vostro eroe da fumetti là in fondo, che spara ai topi — disse la donna con voce irosa. La ragazza si limitò ad arricciare il naso da strega. L’uomo roteò i suoi occhi da furetto e fece un mezzo sorriso benevolo. — Amore, Juno — ammonì. — Nient’altro che amore.

La gigantessa restò un momento a guardarli con aria corrucciata, poi proseguì. — Un paio di ammiratori di Jack, intellettualoidi — confidò amaramente. — Poeti, fanatici religiosi, e tutto il resto. Gli hanno montato la testa, quei fetenti.

Raggiunsero la fine del corridoio. Il Vecchio Bracciodigomma agitò la sua mano senza dita e borbottò: — Circolare, circolare — ma Juno lo ridusse al silenzio con uno stanco: — Sta’ zitto!

— Ora fila a casa, figliolo — disse a Phil. — Se fossi in te non so se andrei dallo psichiatra di Jack. Probabilmente è qualche svitato che gli hanno affibbiato gli Akeley, quei tizi che abbiamo incrociato poco fa. Però qualche dottore dei matti potrebbe fare al caso tuo. — Gli diede una pacca sulle spalle e sorrise, mostrando una cicatrice all’interno delle labbra. — Mi dispiace per quello che è successo là dentro, con quello schifoso di mio marito. Vieni a trovarmi quando ne hai voglia. Il Vecchio Bracciodigomma ha l’impronta della tua voce. Chiedi di Juno Jones. Ma ricordati di una cosa, figliolo: basta coi gatti verdi.

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