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La luce era talmente abbagliante, che per un minuto intero Norton dovette stringere gli occhi. Poi si arrischiò a socchiuderli, guardando la parete metallica a pochi centimetri dalla sua faccia. Ammiccò più volte in attesa che si asciugassero le lacrime che si erano formate, e poi si voltò lentamente ad affrontare l'alba.

Resistette solo per qualche secondo prima di essere costretto a richiudere gli occhi. Non era tanto la luce abbagliante a sconvolgerlo (sapeva che a poco a poco ci si sarebbe abituato) quanto lo spettacolo di Rama, visibile per la prima volta in tutta la sua grandiosità.

Norton sapeva già cosa avrebbe visto, eppure rimase sbalordito e cadde in preda a uno spasimo di tremito incontrollabile. Strinse forte le mani sul piolo con la disperazione di un naufrago che si aggrappa a un salvagente. I muscoli degli avambracci si irrigidirono, ma quelli delle gambe, già provati da ore di faticosa salita, parevano sul punto di cedere. Se non si fosse trovato in un ambiente a bassissima attrazione gravitazionale, sarebbe caduto.

Poi, i lunghi allenamenti a cui era stato sottoposto produssero il loro effetto suggerendogli di ricorrere al primo rimedio contro il panico. Sempre tenendo gli occhi chiusi e sforzandosi di non pensare al mostruoso spettacolo che lo circondava, cominciò ad aspirare lunghe boccate, riempiendosi i polmoni di ossigeno per liberare l'organismo dai veleni della stanchezza.

Poco dopo cominciò a sentirsi meglio, ma prima di riaprire gli occhi si sforzò di staccare la destra dal piolo, e non fu un'impresa da poco perché la mano si rifiutava di ubbidire, l'abbassò all'altezza della cintura e agganciò la cinghia del respiratore al piolo. Adesso, qualunque cosa potesse succedere, non sarebbe precipitato.

Respirò ancora a fondo parecchie volte e, sempre a occhi chiusi, accese la radio. — Qui il Comandante — disse, augurandosi che la sua voce avesse un tono normale. — Tutto bene?

Controllò i nomi uno per uno, e dopò che tutti ebbero risposto, alcuni con voce tremula, la fiducia in se stesso e l'autocontrollo finirono col prendere il sopravvento. Erano tutti salvi e aspettavano istruzioni da lui, perché lui era il loro capo.

— Tenete gli occhi chiusi finché non sarete sicuri di poter resistere — disse. — Lo spettacolo è… impressionante. Se qualcuno lo trova troppo spaventoso, continui a salire senza mai voltarsi. Ricordate che fra poco saremo a gravità zero e che non potrete cadere.

Era inutile ricordarlo a spaziali esperti, ma Norton stesso continuava a ripeterselo. Il pensiero della gravità zero era una specie di talismano che lo proteggeva. Nonostante quello che potevano rivelargli gli occhi, Rama non poteva più attirarlo sulla pianura otto chilometri più in basso, e distruggerlo.

Doveva aprire gli occhi e guardare se voleva mantenere la stima di sé. Era una questione di orgoglio e di principio. Ma per prima cosa doveva essere assolutamente sicuro delle proprie reazioni fisiche. Staccò tutte e due le mani dalla scala e passò il braccio sinistro intorno al piolo. Poi aprì e richiuse più volte i pugni finché i crampi non cessarono e, quando finalmente gli parve che tutto fosse a posto, aprì gli occhi e si girò lentamente verso Rama.

La prima impressione fu di un azzurro intenso diffuso. La luce che riempiva la volta del cielo non aveva niente in comune con quella del Sole, pareva piuttosto quella di un arco voltaico. Allora, pensò Norton, il Sole di Rama deve essere più caldo del nostro. Questo interesserà agli astronomi.

Poi capì finalmente cos'erano le misteriose trincee, la Valle Dritta e le sue cinque gemelle. Erano nientemeno che giganteschi tubi luminosi. Rama aveva sei soli lineari disposti simmetricamente nel suo interno. Da ciascuno di essi scaturiva un ventaglio di luce diretto verso l'asse centrale, dimodoché illuminavano tutto. Chissà, pensò Norton, se producevano cicli di luce e di ombra alternati o se Rama era un pianeta dove il giorno non finiva mai?

Gli occhi ripresero a fargli male per aver fissato troppo le luci abbaglianti, e fu ben lieto di richiuderli per un altro po'. Solo allora, da quando l'alba era sorta improvvisamente, fu in grado di elaborare la domanda che avrebbe dovuto porsi fin dal principio.

Chi, o cosa, aveva acceso le luci di Rama?

Tutti gli esami più accurati e approfonditi avevano rivelato che Rama era sterile, e invece adesso si era verificato un fatto non spiegabile mediante l'intervento di forze naturali. Forse qui non c'era vita, ma c'era coscienza, consapevolezza, forse c'erano robot che si erano svegliati dopo un sonno di millenni. Forse questo sfolgorio di luci era frutto di una contrazione involontaria, dell'ultimo guizzo di vita di macchine che reagivano insensatamente al calore di un nuovo sole per poi tornare inerti, e questa volta per sempre.

Ma questa spiegazione troppo semplice non convinceva Norton. Alcuni pezzi del rompicapo cominciavano a trovare la sistemazione, sebbene ne mancassero ancora moltissimi. L'assenza di segni d'invecchiamento, di logorio, per esempio, e quella sensazione di nuovo, come se Rama fosse stato appena creato.

Con lenta decisione, Norton aprì finalmente gli occhi e cominciò a fare un inventario accurato di tutto quello che vedeva.

Per prima cosa doveva crearsi una specie di sistema di riferimento. Stava guardando nel più enorme spazio chiuso mai visto dall'uomo, e, per potercisi orientare, doveva farne una specie di mappa mentale.

La forza di gravità, così debole, non gli era di nessun aiuto, perché gli bastava un leggero sforzo per trasformare il su in giù, in qualsiasi direzione volesse. Ma certe direzioni erano psicologicamente pericolose, e quando la sua mente tentava di soffermarvisi, doveva scacciarle subito.

Meglio di tutto, per la sua sicurezza mentale, era pensare di trovarsi sul fondo concavo di un pozzo gigantesco largo sedici chilometri e alto cinquanta. Questa versione toglieva la paura della caduta. Però presentava gravi difetti.

Poteva immaginare che le città e le zone di forme e colori diversi fossero tutte attaccate solidamente alle pareti incombenti. Le numerose e complesse strutture che vedeva pendere dalla cupola sovrastante forse non erano più sconcertanti del grande lampadario di una sala da concerti. Ma quello che non riusciva accettabile era il Mare Cilindrico.

Lassù, a mezz'aria intorno alla parete del pozzo, c'era una fascia d'acqua che girava tutt'intorno senza nessun sostegno visibile. E non c'era dubbio: si trattava proprio di acqua. Era di un azzurro vivo punteggiato da chiazze luminose, dove la luce batteva sugli ultimi resti dei ghiacci galleggianti. Ma un mare verticale che forma un cerchio completo a venti chilometri di altezza è un fenomeno talmente sconcertante che, dopo un po', Norton cercò di trovare un'alternativa.

Spostò la scena di novanta gradi e di colpo il pozzo profondo diventò un tunnel chiuso alle due estremità. Giù era naturalmente in direzione della scala e della gradinata, e in questa prospettiva poté finalmente apprezzare la visuale secondo cui gli architetti avevano costruito quel mondo.

Lui stava aggrappato alla faccia di uno strapiombo curvo alto sedici chilometri, la metà superiore del quale si alzava complessivamente fino a fondersi col tetto arcuato di quello che era adesso il cielo. Sotto di lui, la scala a pioli scendeva per più di cinquecento metri, per terminare nella prima sporgenza o terrazza. Di qui aveva inizio la gradinata che scendeva verticale dapprima in regime di scarsa attrazione gravitazionale e poi diventava lentamente sempre meno ripida finché, dopo essere stata interrotta da altre cinque terrazze, raggiungeva la pianura lontana.

Lo strapiombo di quella ciclopica scalinata era tale per cui risultava impossibile valutarlo nella sua esatta misura. Una volta Norton aveva sorvolato l'Everest ed era rimasto colpito dalle sue dimensioni. Quella scalinata era alta come l'Himalaya, ma il confronto non serviva a niente.

E non c'erano confronti validi per le due altre gradinate. Beta e Gamma, che digradavano all'insù verso il cielo per poi curvarsi lassù al di sopra della sua testa. Norton si sentiva ormai sicuro e arrischiò di curvarsi all'indietro per guardarle un momento. Ma cercò subito di cancellarne l'immagine dalla mente.

Il troppo insistere sull'argomento riportava una terza immagine di Rama che Norton era ansioso di distruggere a tutti i costi. Era l'immagine che ne derivava considerandolo ancora come un cilindro, o pozzo verticale, di cui non occupava il fondo ma la sommità, come una mosca che si arrampica a testa in giù su un soffitto a volta, con un precipizio di cinquanta chilometri sotto di sé. Tutte le volte che gli ritornava alla mente questa immagine doveva ricorrere a tutta la sua forza di volontà per non aggrapparsi alla scala in preda al panico.

Sapeva che col tempo i suoi timori si sarebbero sopiti. Le meraviglie e la singolarità di Rama avrebbero preso il sopravvento almeno in coloro che erano abituati ad affrontare la realtà dello spazio. Forse, uno che non avesse mai lasciato la Terra e non si fosse mai trovato fra le stelle, nello spazio, non avrebbe potuto sopportare quella vista. Ma se c'era qualcuno che poteva riuscirci, pensò Norton con grinta e decisione, erano il Comandante e l'equipaggio della Endeavour.

Guardò il cronometro. La pausa era durata solo due minuti, ma gli erano sembrati anni. Con uno sforzo, per contrastare la gravità e la propria inerzia, riprese a salire lentamente fino alla cima della scala. Prima di entrare nel compartimento stagno, si voltò ancora a guardare Rama.

In quei pochi minuti era cambiato. Dal mare stava levandosi la nebbia e per le prime centinaia di metri le fantomatiche colonne bianche si inclinavano bruscamente in direzione del senso di rotazione di Rama. Poi, cominciavano a dissolversi in volute capricciose man mano che l'aria gettata verso l'alto cercava di scaricarsi del proprio eccesso di velocità. Gli alisei del mondo cilindrico cominciavano a segnare il proprio cammino nel cielo: stava per scoppiare il primo uragano tropicale dopo migliaia di anni.

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