Si fermò nell’atrio e ficcò la testa nella guardiola del portiere. Il portiere era un tipo dagli zigomi sporgenti e dal naso aquilino, con uno sguardo velato in cui però luccicava tutto quello che aveva appreso durante cent’anni di servizio. Gli sorrise, ossequiente.
«Sì?»
«Vorrei sapere qual è la via più breve per arrivare all’undici-cinque-quattro-tre di Narvon Boulevard.»
La faccia incartapecorita si raggrinzì in un altro sorriso. «A voi maggiore interessa la vita notturna, eh? Avete prenotato? I circoli di Narvon Boulevard generalmente hanno pochi posti vuoti.»
«Devo incontrarmi là con un amico» disse Harris. «Suppongo che abbia pensato lui a tutto. Posso andarci a piedi?»
«A piedi? No, no! Non è affatto consigliabile. È un tratto molto lungo. E per niente sicuro. Ora vi chiamo un elitassì. Si fa prestissimo con quello.»
Harris annuì e lasciò scivolare una banconota nella guardiola. Il vecchio alzò una cornetta e disse poche parole. «L’elitassì sarà qui tra un momento, maggiore. Siate tanto gentile da aspettare presso l’entrata nord dell’albergo…»
Harris uscì. Un altro inserviente in uniforme gli indicò la rampa degli elitassì, che si curvava in salita, a destra. Harris salì e un momento dopo sopraggiunse un veicolo luccicante che si posò, con un ronzio sordo. Un portello si aprì nel fianco.
Harris salì.
«Narvon Boulevard, maggiore?» chiese il pilota.
«Sì.»
Harris si appoggiò allo schienale ricoperto di morbido tessuto. Il suono di una musica sommessa filtrava da un piccolo altoparlante. Si udì il pulsare improvviso dei possenti rotori, e subito furono in alto, sollevandosi verticalmente a una quota notevole.
Fu un volo breve, in direzione est, via dal centro della città. Passarono da una zona di luci splendenti a una in penombra, quindi sorvolarono di nuovo un quartiere fortemente illuminato, ma questa volta in modo sfarzoso e sgargiante.
L’elitassì scese a spirale fino a una rampa d’atterraggio pubblica.
«Tre e cinquanta» disse il pilota.
Harris gliene diede quattro e scese. L’elitassì si sollevò nella notte mite, lasciandolo solo.
L’altro agente operativo aveva indicato con esattezza l’angolo di una certa strada come punto d’incontro. Harris si avvicinò a piedi alla cantonata, dove un’insegna stradale luminosa brillava di un verde scintillante sul fianco di un edificio, e scoprì che quello era il 105° isolato di Narvon Boulevard. Doveva andare al 115°. Qualcuno aveva informato male il pilota dell’elitassì. Si sentì seccato: farsi dieci isolati a piedi, al buio, non era una prospettiva entusiasmante.
Si avviò. Era un quartiere di locali notturni, tutto luci violente e musica chiassosa. Di tanto in tanto, scorgeva figure furtive allontanarsi e sgattaiolare giù per i vicoli bui tra i vari night, ma lui tirò innanzi, tranquillo, sapendo di essere armato e in grado di sostenere qualsiasi aggressione che non fosse proprio del tutto imprevista.
Sorpassò gli isolati uno dopo l’altro: 106°, 109°, 113°. Ciascuno era identico a quello precedente, una processione senza fine di luoghi di divertimento e di locali equivoci. A giudicare dalle radiose insegne che invitavano all’esterno, ciascuno aveva la propria specialità: spogliarelliste in uno, gioco d’azzardo nell’altro, liquori esotici in quello seguente, e cose forse meno pulite in altri.
Finalmente raggiunse il 115° isolato.
Una figura stava appoggiata con aria assente contro il fusto della lampada, all’angolo sud-est della strada. Harris gli si avvicinò rapidamente. Nella zona di luce riuscì a distinguere la faccia dell’altro: asciutta, solenne, con un’espressione di severa dignità.
Harris si fermò. L’uomo lo fissò con uno sguardo assente.
Harris disse, piano: «Scusate, amico. Sapreste dirmi dove potrei comprare una maschera da carnevale?»
Era la parola d’ordine. L’altro rispose con voce roca e profonda: «Le maschere sono care. Fareste meglio a starvene a casa.»
E gli tese una mano.
Harris l’afferrò, stringendola al polso, secondo l’uso di Darruu, e provando piacere alla stretta decisa dell’altro. A millecento anni-luce da casa, contemplare un altro Servo dello Spirito! Il fardello opprimente della nostalgia gli scivolò subito giù dalle spalle.
«Sono il maggiore Abner Harris» disse.
L’altro annuì. «Piacere di conoscervi. Io sono John Carver. C’è un tavolo riservato per noi, là dentro.»
Dentro si rivelò poi un locale chiamato Club dei Nove Pianeti, sull’altro lato della strada. L’atmosfera era umida e affumicata; globi di luce fredda di sei o sette colori giravano in tondo sul soffitto, trasformando in un arcobaleno la nube di fumo. Una fila di spogliarelliste dalle lunghe gambe danzavano allegramente accompagnate dal rumore rauco e discorde che i Terrestri chiamavano «musica». Harris pensò che i chirurghi non erano riusciti a istillargli la capacità di godere della musica terrestre, anche se avevano operato meraviglie in altri settori.
Una ragazza si avvicinò. Era una megamastide rigeliana, assai ben dotata, che letteralmente esplodeva dall’aderente tunica gialla. Scoccò un sorriso sinteticamente voluttuoso, il cui cinismo fece rivoltare lo stomaco a Harris, e disse: «Cosa volete bere, ragazzi?»
«Un cocktail Nove Pianeti.»
«E voi?»
Harris esitò. «Lo stesso» disse, dopo un attimo d’incertezza.
La ragazza si allontanò, ancheggiando. «Che cosa diavolo ho ordinato?» chiese Harris.
«Fa furore, quest’anno. Vedrete.»
Il cocktail Nove Pianeti si rivelò un intruglio fresco e opaco, in un alto bicchiere traboccante di ghiaccio. Harris lo gustò e avvertì un odore muschiato, ma non sgradevole. Sembrava un miscuglio di mezza dozzina di liquori diversi e di una specie di succo di frutta. Lo sorseggiò lentamente.
«Avete avuto guai, dopo il vostro arrivo?» chiese Carver, sottovoce.
«No. Dovevo aspettarmene?»
«I guai stanno bollendo in pentola» rispose l’uomo magro, stringendosi nelle spalle. «Prima o poi potrebbero verificarsi.»
«Guai di che genere?»
«Ci sono cento agenti di Medlin sulla Terra, ora» disse Carver. «Ieri abbiamo scoperto un importante nascondiglio di documenti medlinesi. Ora abbiamo i nomi dei cento agenti con le rispettive fotografie. Sappiamo anche che si propongono di sbarazzarsi di noi in un futuro non molto lontano.»
Harris incappò in un pezzo di ghiaccio e lo sgranocchiò, pensoso. «Quanti uomini di Darruu ci sono qui, ora?»
«Voi siete il decimo.»
Harris spalancò gli occhi.
Non credeva che la situazione fosse così grave. Cento a dieci!
«Una bella differenza!»
«È vero» annuì Carver. «Ma mentre noi conosciamo le loro generalità, i Medlinesi ignorano le nostre. Possiamo colpire per primi! Se non li eliminiamo, non potremo continuare il nostro lavoro quaggiù.»
La musica aveva raggiunto un crescendo da spaccare i timpani. Harris fissò di cattivo umore il corpo di spogliarelliste e aggrottò la fronte. Il suo travestimento terrestre stava forse prendendogli la mano? Strano a dirsi, aveva provato una reazione ghiandolare alla vista di quelle figure piroettanti. Eppure, stando agli standard di Darruu, quelle ragazze erano brutte in modo osceno.
Ma lì non era Darruu.
Strinse con forza il bicchiere mezzo vuoto. «In che modo elimineremo questi cento Medlinesi?» chiese.
«Abbiamo delle armi. Avrete le indicazioni necessarie. Fate i vostri calcoli. Se riuscite a eliminarne dieci prima che loro becchino voi, e se noi tutti faremo la stessa cosa, saremo a posto.» Carver estrasse un portafoglio da sotto la camicia e con dita scarne e nervose ne tolse un’istantanea. «Ecco qui la vostra prima vittima. Uccidetela, poi riferite a me. La missione dovrebbe essere facile, perché lei alloggia allo Spaceways Hotel, proprio come voi.»
Harris si sentì balzare il cuore in petto. «Una medlinese nel mio stesso albergo?»
«E perché no? Ce ne sono dappertutto. Guardate un po’ la foto.»
Harris la prese e l’osservò. Era una lucida tridimensionale a colori. Mostrava una ragazza bionda vestita di un abito nero, corto e aderente. Sembrava che l’istantanea fosse stata scattata da un obiettivo nascosto, durante una festa. La ragazza rideva, agitando un bicchiere da cocktail, e dietro a lei s’intravvedevano altre figure.
«È troppo carina per essere un agente di Medlin» disse Harris, controllando la voce.
«Per questo è tanto pericolosa» replicò Carver. «Uccidetela per prima. Si fa chiamare Beth Baldwin.»
Harris fissò a lungo la foto. Le tempie gli battevano forte, e uno strano turbine di emozioni gli mulinava nel cervello. La ragazza… una spia? Ripensò alla serata trascorsa in sua compagnia, alla sensazione di calore e di amicizia che aveva provato accanto a lei. «Uccidetela per prima» aveva detto Carver.
«Qualcosa che non va, maggiore?»
«No. Niente.»
«Avete un’aria… molto preoccupata.»
«È soltanto effetto del viaggio» disse Harris. Gli rese la foto incriminata e soggiunse: «Okay. Missione accettata. Mi rimetterò in contatto con voi a lavoro ultimato.»
«Bene. Un altro drink?»
Harris era incerto. Il primo lo aveva lasciato col capogiro e un certo malessere alla bocca dello stomaco. Il suo metabolismo non accettava completamente quegli idrocarburi terrestri.
Tuttavia annuì con prontezza. «Sì, sì. Ne prendo un altro.»
Erano quasi le due del mattino quando Harris raggiunse il suo albergo. Aveva trascorso più di un’ora col conterraneo chiamato John Carver. Si sentiva stanco, confuso, con la testa vuota. Era costretto a prendere decisioni che lo spaventavano, proprio all’inizio della sua missione sulla Terra.
Beth Baldwin una spia di Medlin?
Gli sembrava impossibile. Eppure Carver gli aveva mostrato la foto. Poteva trattarsi di un errore? No. Carver non avrebbe mai commesso uno sbaglio in una faccenda del genere. Beth era stata riconosciuta con sicurezza, altrimenti Carver non avrebbe dato l’ordine di ucciderla.
E toccava proprio a lui farlo. Ora… Un compito che non gli era concesso di rifiutare. Lui era un Servo dello Spirito. Non poteva tradire la fiducia degli altri.
Ma prima di commettere un’azione irreparabile, avrebbe fatto qualche accertamento. Dopotutto, Carver non era infallibile. E lui non voleva macchiarsi l’anima di sangue innocente.
Salì con l’ascensore fino al 58° piano, ma invece di raggiungere la sua stanza, voltò a sinistra e s’inoltrò nel corridoio, verso la camera 5820: il numero che gli aveva dato Beth Baldwin.
Sostò un attimo fuori della parola, poi diede un colpetto al congegno di avviso.
Nessuno rispose. Lui aggrottò la fronte e ritentò. Questa volta sentì il ronzio di un dispositivo di controllo sopra la sua testa e capì che la ragazza era sveglia e proprio dietro l’uscio.
«Sono io, Abner» disse lui. «Devo vedervi, Beth.»
«È tardi. È notte inoltrata.»
«Mi spiace avervi svegliato, ma devo parlarvi. È importante.»
«Aspettate» rispose la voce assonnata dall’interno. «Mi metto addosso qualcosa.»
Lui attese. Un momento dopo, la porta scorreva, aprendosi silenziosamente. Beth gli sorrise con cordialità. Si era messa addosso qualcosa, indubbiamente, ma quel «qualcosa» non era certo molto. Una vestaglia leggerissima che nascondeva la figura come un velo trasparente.
Ma in quel momento ad Harris non interessavano le sue forme, per quanto attraenti. Fissava invece la piccola arma scintillante che lei impugnava, decisa, tenendola puntata in direzione del suo cranio.
Riconobbe l’arma.
Era la versione medlinese della pistola a raggio annientatore.
Aveva avuto la conferma che desiderava, ma non si era aspettato di ottenerla in quel modo.
«Entrate, Abner» disse lei, con voce calma e fredda, con un movimento della pistola.
Lui ubbidì, troppo allibito per poter parlare. La porta si richiuse alle sue spalle. Beth indicò una sedia.
«Sedetevi lì.»
Lui si passò la lingua sulle labbra. «Cos’è questa storia, Beth?»
«Sapete già la risposta, non c’è bisogno che sia io a darvela. Volete sedervi?»
Harris si sedette.
«Ora che siete stato da Carver» disse lei, «sapete esattamente chi sono.»
«Ha detto che siete un agente di Medlin. Io ero scettico, ma…» Lanciò un’occhiata all’arma.
Difficile crederci, ma la prova era lì, minacciosa. Lui guardò la bella ragazza che se ne stava in piedi a pochi metri di distanza, con l’annientatore puntato verso il suo cervello. A giudicare dalle apparenze, i chirurgo-plastici di Medlin erano abili quanto quelli di Darruu; forse di più, perché i Medlinesi — sottili e con la pelle ruvida, rugosa — erano ancora meno umanoidi dei Darruuesi. Eppure sarebbe stato pronto a giurare sull’albero della sua nascita che quei seni, quei fianchi e quelle gambe ben tornite erano assolutamente genuini e non un prodotto della chirurgia plastica.
Sembravano autentici.
Autentici in modo sconcertante.
Il medlinese — o la medlinese? — che si faceva chiamare Beth Baldwin disse: «Abbiamo ricevuto informazioni complete su di voi nel momento stesso in cui siete entrato nell’orbita terrestre, Abner… o meglio, Aar Khiilom.»
Lui sobbalzò per la sorpresa. Sentire pronunciare il suo nome sulla Terra gli fece lo stesso effetto di un secchio d’acqua gelata in faccia.
«Come fate a sapere questo nome?»
Lei sorrise allegramente. «L’ho saputo nello stesso modo in cui ho saputo la vostra provenienza da Darruu e il momento esatto in cui uscivate dalla vostra stanza, un attimo prima che ci scontrassimo.»
«Dunque anche questo era stato previsto?»
«Certo.»
«E sapete anche che io sono venuto qui per uccidervi?»
Lei annuì.
Harris aggrottò la fronte e considerò la situazione. «I Medlinesi non hanno facoltà telepatiche» disse, cocciuto. «Non esiste nessuna specie di telepatia nella galassia.»
«Nessuna che conosciate voi, perlomeno» replicò lei, con una luce scherzosa negli occhi.
«Che volete dire?» chiese Harris, teso.
«Niente. Lasciamo perdere.»
Lui scacciò il pensiero che lo aveva colpito. Evidentemente la rete spionistica di Medlin era organizzata in modo formidabile, e forse usufruiva delle informazioni di un paio di traditori sullo stesso Darruu. Tutti quegli accenni alla telepatia erano un falso miraggio con cui Beth cercava di metterlo su una pista sbagliata. Tuttavia l’unico fatto su cui non esistevano dubbi…
«Sono venuto qui per uccidervi» disse. «Ho fatto fiasco. Mi avete intrappolato. Immagino che ora avrete intenzione di eliminare me? O sbaglio?»
«Sbagliate. Voglio solo parlarvi.»
Lui la guardò, pensoso, e cominciò a rilassarsi un poco. «Se volete parlare» disse con voce incolore che nascondeva l’ira di vedersi trattato come un topo dal gatto, «siate tanto cortese da mettervi addosso qualcosa. Vedervi davanti quasi completamente svestita, disturba la mia capacità di conversare.»
«Ah, sì?» disse Beth, con una risata argentina. «Volete dire che questo mio corpo artificiale suscita delle reazioni nel vostro corpo, altrettanto artificiale? Strano! Interessante!» Senza voltargli le spalle, né abbassare l’annientatore, prese un abito dall’armadio e se lo infilò sopra la vestaglia trasparente.
«Ecco» disse. «Va meglio così per il vostro equilibrio ghiandolare?»
«Un poco.»
«Non vorrei proprio mettervi a disagio.»
Il darruuese cominciò a sentirsi ancora più irritato. Quella stava gingillandosi con lui. Lo sfotteva. Più ripensava alla loro conversazione precedente, alla propria sdolcinata, quasi piagnucolosa chiacchierata sulla solitudine e sulla nostalgia, più detestava Beth che si era presa gioco di lui in quel modo… anche se doveva ammettere con se stesso che neppure le sue intenzioni erano state, per così dire, cristalline.
Adesso era profondamente turbato. Non poteva azionare il segnale d’emergenza senza muovere le mani, e ogni movimento improvviso gli sarebbe stato fatale fin tanto che Beth teneva quella pistola puntata. Rimase lì seduto, immobile, col sudore che gli scorreva sulla pelle innestata.
«Dunque mi avete catturato» disse. «Che cosa volete da me? Perché non mi uccidete e la fate finita?»
«Dovete credermi terribilmente crudele.»
«Siete di Medlin.»
«Questo è vero. Ma le parole medlinese e crudele sono forse sinonimi, nel vostro vocabolario, Abner?»
«I nostri mondi sono nemici da secoli. Vi aspettate forse che io ammiri la nobiltà dei Medlinesi? La loro eccelsa intelligenza? La loro bellezza fisica? Il vostro è un mondo di sciacalli e di assassini!» esclamò, furente.
«Come siete gentile, Abner!»
«Tirate il grilletto e fatela finita, dunque!» incalzò lui. «Non accetto di essere provocato in questo modo.»
Lei si strinse nelle spalle. «Vi ho detto che preferisco parlare.»
«E parlate, allora.»
«Benissimo» fece Beth. «Vi dirò quello che so su di voi. Siete uno dei dieci agenti Darruuesi presenti sulla Terra. Altri agenti stanno arrivando da Darruu, ma per ora qui ce ne sono solo tre. Correggetemi, se sbaglio.»
«Perché dovrei farlo?» replicò Harris, asciutto.
«È una domanda giusta» convenne lei. «Voi non siete affatto obbligato a tradire la vostra gente. Ma vi assicuro che abbiamo tutte le informazioni necessarie, dunque non è il caso che inventiate niente per amore di patria. Non forzate la vostra fantasia. Andiamo avanti: voi e i vostri compatrioti siete venuti qui con lo scopo di cattivarvi la simpatia dei Terrestri e di guadagnare la Terra alla causa di Darruu.»
«Non lo nego affatto» replicò lui. «Ma voi di Medlin siete qui suppergiù per lo stesso motivo: per assicurarvi il controllo della Terra.»
«Ecco dove sbagliate» disse la ragazza, brusca. «Noi siamo venuti per aiutare i Terrestri, non per dominarli.»
«Naturale!»
«Voi motivi del genere non li capite, vero?» chiese lei, con tono sprezzante.
«Riesco a capire abbastanza bene l’altruismo» rispose Harris, disinvolto. «Solo che mi riesce difficile crederci, quando è predicato dagli abitanti di Medlin.»
Beth si rabbuiò. «Certo voi penserete che si tratti di semplice propaganda, se vi dico che noi non vogliamo la violenza, quando è possibile raggiungere i nostri scopi con mezzi pacifici…»
«Sono gran belle parole» disse Harris, «e farebbero un figurone incise sopra un monumento eretto all’armonia galattica. Ma in che modo contate di aiutare i Terrestri?»
«È una questione di genetica.»
«Non capisco.»
«Naturale. Ma questo non è né il momento, né il luogo adatto per spiegarvelo dettagliatamente.»
Lui lasciò perdere. «Dunque» disse con amarezza, «voi mi siete venuta addosso di proposito, avete permesso che vi offrissi la cena e avete passeggiato a braccetto con me, sempre sapendo che ero un abitante di Darruu travestito. Giusto?»
«Certo che lo sapevo.»
«E il vostro modo di comportarvi non lo trovate cinico?»
«E voi, che avete fatto?» chiese lei, di rimando. «Approfittare di un’ingenua ragazza della Terra… Imbottirla di bugie sul vostro conto…»
«È diverso» disse lui, scosso.
«Ah, sì?» Beth rise. «So anche che quando ieri sera avete finto di sentirvi male, era perché dovevate mettervi in contatto col vostro capo. E quando mi avete detto che andavate a trovare un amico, sapevo che in realtà vi recavate a un appuntamento d’emergenza. Sapevo anche che cosa vi avrebbe ordinato di fare Carver… Ragione per cui ho tenuto la rivoltella pronta quando avete suonato alla mia porta.»
Lui la fissò. «Supponiamo che io non avessi captato quel segnale d’emergenza. Supponiamo che non avessi idea, e in verità non l’avevo, di chi foste in realtà. Dovevamo trovarci qui, nella vostra stanza, bere qualcosa e probabilmente fare all’amore. Sareste… sareste venuta a letto con me, anche sapendo quello che sapevate?»
Beth rimase un attimo in silenzio. Poi, freddamente, disse: «Credo proprio di sì. Sarebbe stato davvero interessante vedere che tipo di reazioni biologiche sono capaci di ottenere i chirurghi di Darruu.»
Un lampo di odio cieco e selvaggio attraversò Harris-Khiilom. Che puttana! pensò. Era stato educato a odiare i Medlinesi a tutti i costi: erano i nemici ancestrali del suo popolo, i rivali galattici dei Darruuesi, da quattromila anni e forse più. La semplice vista di un abitante di Medlin era sufficiente a scatenare l’ira in uno di Darruu. Solo il travestimento terrestre aveva impedito a Harris di provare la normale repulsione verso tutto ciò che veniva da quel mondo… e quindi anche verso la sedicente Beth Baldwin.
Ma ora il ribrezzo lo travolgeva come un’ondata, alla rivelazione della cinica «curiosità» biologica della ragazza. Gli sembrava un sacrilegio che un essere così leggiadro parlasse in modo tanto odioso.
Si chiese fino a che punto potesse spingersi quel cinismo. Se avesse fatto un movimento, lei gli avrebbe sparato?
E com’era la sua mira?
Probabilmente ottima, tanto più a una distanza così ravvicinata. Dominò la propria rabbia. «Sapete guardare le cose con molta freddezza, Beth» disse.
«Può darsi. Mi spiace che la mia franchezza vi offenda.»
«Avete proprio l’aria dispiaciuta.»
Lei sorrise. «Lasciamo perdere.» Il suo tono di voce si era fatto più cortese. «Ci sono alcune cose che vorrei dirvi.»
«Per esempio?»
«Prima di tutto, sapete che voi siete fondamentalmente infedele alla vostra causa?»
Harris rise bruscamente, pensando con tormentosa nostalgia alla sua terra natale.
«Siete pazza!»
«Temo proprio di no. Sentite un po’, Abner, e dite se questa non è la verità. Voi avete una gran nostalgia di Darruu, vero?»
«Lo riconosco.»
«Voi non avreste mai voluto venire qui, ma vi è stata affidata la missione e voi l’avete accettata. Appartenete a una casta che ha determinati obblighi verso la società e voi state adempiendo a questi obblighi. Ma non sapete molto su ciò che siete venuto a fare qui sulla Terra, e per mezza moneta buca piantereste baracca e burattini e ve ne tornereste a casa con la prima nave in partenza.»
«Un’analisi molto intelligente» disse lui gelido, costretto ad ammettere interiormente la verità di quelle parole, e cercando però di non farlo capire alla ragazza. «Ora datemi l’oroscopo per i prossimi sei mesi» soggiunse in tono di pesante sarcasmo.
«Questo è abbastanza facile. Prima di tutto verrete al nostro quartier generale e apprenderete che cosa la mia gente si propone di fare sulla Terra…»
«Questo lo so già.»
«Credete di saperlo!» esclamò lei. «Invece sapete soltanto ciò che i vostri propagandisti vi hanno detto. Non interrompetemi. Conoscerete il vero motivo per cui ci troviamo qui. E una volta che l’avrete conosciuto, vi unirete a noi e ci aiuterete a proteggere la Terra dalla minaccia rappresentata dai Darruuesi.»
Lui scoppiò a ridere. «Insomma, mi rivolterò contro il mio stesso mondo?»
«Proprio così.»
«Come potete essere così sicura che mi comporterò in modo tanto assurdo?»
«È implicito nella struttura della vostra personalità. Una volta fornito il motivo giusto, non potete fare a meno di comportarvi così. E poi, state innamorandovi.»
«Di voi?» sbottò Harris. «Non lusingatevi troppo, ragazza mia.»
«Parlo obiettivamente. Conosco quello che avete dentro molto meglio di voi.»
«E avete il coraggio di starvene lì a dirmi che mi sto innamorando di una massa di finta carne femminile appiccicata sopra il corpo scarno e ripugnante di un medlinese?»
Lei rimase calma, sempre con lo stesso sorriso tranquillo, senza rispondere.
Harris misurò la distanza che li separava, chiedendosi se dopo tutto Beth avrebbe avuto davvero il coraggio di usare la pistola, nel caso che lui le fosse balzato addosso. L’annientatore bruciava completamente i tessuti nervosi; se lo avesse colpito al cervello o in qualsiasi altra parte vitale del corpo, la morte sarebbe stata istantanea e per nulla piacevole. Una scarica in uno degli arti lo avrebbe storpiato per sempre.
Decise di correre il rischio.
Era un Servo dello Spirito, non doveva dimenticarlo. Era andato lì spinto da obblighi imprescindibili: questo lo sapeva perfino quella prostituta medlinese. Aveva l’ordine di uccidere gli agenti di Medlin, non di farsi ammazzare da loro. Non c’era niente da perdere facendo quel tentativo… e niente da guadagnare, tranne una cicatrice sull’anima, se si lasciava spaventare da quel minuscolo aggeggio scintillante.
«Non mi avete risposto, Beth… o quale che sia il vostro nome» disse con voce suadente. «Credete davvero che potrei innamorarmi di un essere come voi?»
«E perché no?»
«Gli abitanti di Darruu o quelli di Medlin hanno mai provato niente che non fosse odio, gli uni per gli altri? I Medlinesi sono fisicamente ripugnanti ai Darruuesi. Questo lo sapete.»
«Biologicamente siamo Terrestri, ora. E quindi è possibile che noi si senta un’attrazione reciproca. Non potete negarlo…»
«Forse avete ragione» ammise. «Dopotutto, vi ho pregato di coprire il vostro corpo perché non mi distraesse. E ho reagito allo stesso modo davanti alle ragazze del locale notturno, quando ero là con Carver.» Sorrise. «Sono confuso» disse. «Ho bisogno di tempo per riflettere.»
«Certo. Voi…»
Lui balzò dalla sedia e superò la distanza che li separava in due lunghi salti, aspettandosi a ogni istante di sentire la vampata sfrigolante del raggio annientatore bruciargli il sistema nervoso. Allungò disperatamente una mano, per afferrare il polso del braccio che teneva la pistola. Riuscì a deviare l’arma verso il soffitto. Ma Beth non cercò neppure di sparare. Harris le strinse il polso fino a che non sentì scricchiolare le ossa delicate.
«Gettatela!» mormorò, rauco.
La pistola cadde sul pavimento; con un’abile mossa del piede, Harris la spedì sotto il letto. Poi, premendo forte contro Beth, fissò la ragazza con occhi scintillanti di furore.
Quando i loro corpi si trovarono uno contro l’altro, la rabbia si sciolse in passione. Allo sguardo caldo, invitante, di lei, Harris reagì istintivamente. Poi un’ondata di paura lo travolse.
Sta cercando di intrappolarmi col suo corpo pensò. Sfrutta questi dannati impulsi sessuali terrestri!
Fece un passo indietro per evitare un contatto troppo stretto, temendo di lasciarsi accalappiare.
Poi infilò una mano sotto la camicia per prendere la propria pistola. Era troppo pericolosa, Beth, per permetterle di continuare a vivere. Troppo bella. Era più prudente, più saggio, ucciderla subito, mentre aveva l’occasione per farlo. È soltanto una medlinese si disse. Un pericolo mortale.
All’improvviso lei alzò una mano, disegnando un rapido arco verso l’alto. Qualcosa brillò, lampeggiandole tra le dita.
Beth rise.
E Harris arretrò impotente, mentre il raggio paralizzante di una stordi-pistola lo colpiva in faccia con la forza di una clava. Era stata svelta, troppo. Harris aveva appena fatto in tempo a notare un movimento, che lei aveva già estratto l’arma nascosta.
La ragazza colpì ancora.
Lui lottò per afferrare il proprio annientatore, ma i muscoli non ubbidirono.
Rotolò in avanti, stordito, paralizzato.