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Lo fecero uscire dalla stanza e lo accompagnarono in un ascensore che saliva, invece di scendere. Su, sempre più su, emergendo da chissà quali profondità nascoste nel cuore della città. Ripensò alla «luce del Sole» che aveva visto entrare dalla finestra con l’inferriata, e capì che si era ingannato. La cabina filava verso l’alto, sicura… Infine si fermò con un brusco sobbalzo, la porta scorrevole si aprì e lui fu scaricato al livello principale di un enorme edificio adibito a uffici.

Rimase lì per un attimo nell’atrio affollato. Terrestri e alieni di ogni razza attraversavano frettolosamente il grande locale. Harris si avviò verso l’uscita più vicina e si ritrovò nella strada rumorosa. Erano le prime ore del mattino di una giornata calda e piena di luce.

C’era una carta stradale affissa a un muro, a mezzo isolato di distanza da dove lui era uscito. Si avvicinò e osservò la complicata mappa della città. Dapprima gli riuscì difficile orientarsi. Un cerchio rosso segnava il punto in cui si trovava in quel momento, ma nessuna delle strade all’intorno gli ricordava niente. Solo quando ebbe osservato la carta nel suo insieme, scoprì il quartiere dove si trovava l’albergo.

Lo avevano portato in un posto lontano parecchi chilometri. Infilò una monetina nella fessura, marcò le coordinate seguendo le istruzioni del cartello, e una striscia luminosa gli indicò il percorso per tornare allo Spaceways Hotel. Calcolò che ci voleva almeno un’ora di elicottero per arrivarci.

Proseguì a piedi. Poco lontano, le volute di una rampa pubblica per elitassì scintillavano, gialle, nella luce del mattino. Passando davanti ai tavolini di un bar il profumo di caffè e pane fresco gli attanagliò lo stomaco. Tuttavia, benché affamato, sapeva che non poteva permettersi di mangiare prima di essersi messo in contatto col suo capo e di avergli raccontato la sua storia. Un cameriere si affacciò sulla soglia del bar e gli sorrise, pieno di speranza, indicando un tavolino libero sul marciapiede. Harris scosse la testa e tirò dritto.

Ripensava a Beth Baldwin e alle sue parole.

Chiedevano davvero troppo alla sua credulità. Quella lunga tirata su superuomini e altruismo, su tenere razze mutanti che andavano vezzeggiate e protette dalle furie e dalla gelosia degli avi ormai sorpassati, era inverosimile!

Proprio un’assurdità. Quel poco che sapeva della psicologia medlinese non lo induceva a credere che gente simile si sarebbe schierata dalla parte di un progetto tanto insensato. Semmai, avrebbe fatto il possibile per soffocare all’inizio il sorgere di nuove facoltà, potenzialmente pericolose, tra i Terrestri. Come avrebbero fatto i Darruuesi, del resto, se avessero scoperto loro i sedicenti mutanti.

In fin dei conti, non si trattava che di istinto di conservazione. I superuomini rappresentavano un superpericolo. Allo stato attuale, l’equilibrio dell’Universo era già fin troppo precario e davvero non c’era ragione alcuna per favorire l’avvento di nuove razze. Quelle già esistenti erano riuscite a trovare un modus vivendi opponendo forza a forza e raggiungendo una fase di stasi, difficile, ma tutto sommato comoda. Soltanto degli incoscienti potevano permettere a un fattore X d’insinuarsi in questa situazione… e soltanto dei pazzi all’ultimo stadio potevano contribuire attivamente all’affermarsi di questo fattore.

No, non c’erano superuomini. Era un’idea assurda… La propaganda di Medlin seguiva vie molto tortuose e lui aveva ottime ragioni per diffidare.

E c’era un’altra cosa di cui diffidare: possibile che fossero così ingenui, Medlinesi e Super-Terrestri, da lasciarlo andare fidandosi unicamente della sua parola? I Medlinesi, quanto meno, sapevano perfettamente qual era la sua missione sulla Terra. Solo grazie a una specie di gioco di prestigio, Beth si era salvata da morte certa quella notte. Eppure lo avevano liberato alla prima blanda offerta di collaborare, dopo essere stati offesi e scherniti per mezz’ora. Nel caso di individui davvero altruisti, lo si sarebbe potuto capire, perché nel suo lessico «puro altruismo» e «pura stupidità» erano sinonimi. Ma conosceva troppo bene i Medlinesi per accettare l’idea che fossero stupidi a tal punto. Forse avevano deciso di servirsi di lui come di una pedina in un piano assai più vasto.

Be’, a questo ci avrebbe pensato Carver. Era compito suo decidere sulla strategia a cui attenersi per rispondere alle mosse dei Medlinesi.

Harris raggiunse la rampa degli elitassì. Uno era già pronto per il decollo, ma un cittadino grassoccio e rubizzo, che evidentemente si riteneva molto importante, gli sgattaiolò davanti e introdusse per primo la sua mole voluminosa nel veicolo. Harris si strinse nelle spalle e chiamò un altro elitassì. Questo salì lungo la rampa e lo sportello si aprì.

«Dove, colonnello?»

«Spaceways Hotel… e sono soltanto maggiore» disse lui, riprendendo a recitare la sua parte. «Grazie per la promozione.»

«Non c’è di che, maggiore.»

I potenti motori rombarono. L’elicottero si sollevò e cercò il suo livello, seguendo le istruzioni del computer centrale sepolto nelle viscere della città. Harris chiuse gli occhi e si abbandonò contro il cuscino, che aveva un odore leggermente aspro. Il velivolo era vecchio, in cattivo stato. Harris ascoltò il mormorio indistinto della voce del calcolatore.

Non aveva mai pensato che una città potesse essere così grande. Su Darruu, la popolazione degli agglomerati urbani era limitata, da una legge antichissima, a tre milioni di persone, e nessuna città superava quel numero di abitanti. Naturalmente, poiché tutti gli agglomerati urbani erano vecchi di millenni, ciò dimostrava che l’incremento demografico si era ben stabilizzato. Negli ultimi millecinquecento anni, nessuna città nuova era stata fondata sul pianeta, e quelle già esistenti avevano raggiunto il numero di abitanti prestabilito. Chi voleva trasferirsi da un centro urbano a un altro doveva ottenere una licenza. Non era molto difficile ottenerla, perché c’era sempre un certo numero di persone che andavano e venivano, così il limite della popolazione non superava mai i tre milioni.

Ma se si voleva mettere al mondo un figlio, era un altro conto. Le nascite dovevano osservare un certo rapporto rispetto ai decessi. E la morte arrivava tardi, su Darruu. C’erano coppie costrette a sprecare in attesa inutile tutto il loro periodo di fertilità senza riuscire a ottenere la licenza di procreare a causa di un aumento della longevità.

Comunque, questo non riguardava Aar Khiilom. In quanto Servo dello Spirito, non aveva il diritto di riprodursi. Era un sacrificio liberamente scelto.

Non aveva obiezioni particolari su questo sistema demografico. Secondo lui era buono. Dava stabilità al pianeta, incoraggiava l’emigrazione verso i mondi-colonia ed evitava che gli agglomerati urbani crescessero alla rinfusa come quello che vedeva ora sotto di sé. Provava un senso di ripugnanza, guardando dagli oblò dell’elitassì la città sottostante; la città sconfinata; la città di venti, trenta e forse anche cinquanta milioni di abitanti; la città che si protendeva in lunghe file grigie fino all’orizzonte.

Trovava inconcepibile che una metropoli fosse così grande, e che si potesse volare per cinquanta minuti in elitassì senza uscirne. E non l’aveva neppure percorsa da un’estremità all’altra. No. Era semplicemente andato da una propaggine a sud-est, a un punto vicino al cuore della città stessa… e ci aveva impiegato quasi un’ora, percorrendo quindi centinaia di chilometri.

Ora stavano scendendo.

L’elitassì sorvolava in cerchi sempre più stretti la rampa di atterraggio dello Spaceways Hotel. Harris pagò il pilota, entrò immediatamente nell’albergo e salì in camera sua.

Azionò il comunicatore a breve raggio e attese fino a quando la voce metallica dell’altoparlante disse in codice: «Qui Carver.»

«Parla Harris.»

«Siete fuggito?»

«Be’, non proprio. Mi hanno liberato spontaneamente.»

«Come avete fatto?»

«È una storia lunga. Siete riuscito a localizzare l’edificio dove mi tenevano rinchiuso?»

«Sì. Perché vi hanno lasciato andare?» insisté Carver.

Harris rise. «In seguito alle loro insistenze, ho promesso di diventare agente segreto di Medlin. La mia prima missione» continuò in tono ameno, «è di assassinarvi.»

La risata che uscì dall’altoparlante non era del tutto allegra. «È una barzelletta?» chiese Carver.

«È la verità.»

«Avete acconsentito ad assassinarmi?»

«Prima voi, poi gli altri.»

Carver fece una pausa. «E va bene, Harris» disse poi. «Riferitemi dettagliatamente quello che vi è successo dopo che ci siamo incontrati al club stanotte.»

«Sono tornato all’albergo. Sono andato nella camera di Beth Baldwin con l’intenzione di farla fuori, ma lei era pronta e mi aspettava. È venuta ad aprirmi con un annientatore in pugno.»

«Cosa?»

«Gli agenti di Medlin sanno tutto, Carver. Proprio tutto. Sono sempre avanti a noi in ogni cosa. Ho strappato l’arma alla ragazza, ma lei aveva una stordi-pistola e mi ha tramortito. Ha detto che mi aveva seguito fin dall’inizio, che sapeva la ragione per cui mi trovavo lì da lei e che era al corrente di ogni particolare della missione darruuese sulla Terra. Ci dev’essere stata una fuga di notizie, Carver.»

«Impossibile.»

«Davvero? Sentite: sanno in quanti siamo. Beth mi ha detto chiaro e tondo che ci sono solamente dieci agenti di Darruu sulla Terra.»

«Ha tirato a indovinare.»

«Può darsi. Però sapeva il mio nome. Sapeva il mio nome, Carver! Mi ha chiamato Aar Khiilom! Anche in questo ha tirato a indovinare?»

L’altro rimase in silenzio.

«Carver? Non vi sento più.»

«Questo non può proprio averlo indovinato» disse lui, perplesso. «Non esistono documenti che possano avervi tradito.»

«Ve l’ho già detto. Sanno tutto. Sanno anche dell’interruzione del circuito della memoria.»

«Impossibile. È assolutamente impossibile che possano sapere una cosa simile.»

Harris cominciava a seccarsi. Cercò di dominarsi e chiese col tono più calmo che gli riuscì di ottenere: «Avete deciso di non credermi?»

«Vi credo, ma non capisco.»

«E pensate che io ci capisca qualcosa, invece?»

«Va bene. Che altro è accaduto stanotte?»

«Dopo avermi stordito, mi ha portato al quartier generale di Medlin. È un edificio sotterraneo, all’altra estremità della città. Quando mi sono riavuto, mi ha presentato altri due collaboratori. Un medlinese travestito di nome Coburn e un terrestre di dimensioni gigantesche che dice di chiamarsi David Wrynn.»

«Coburn è sul nostro elenco» confermò Carver. «È dei servizi segreti di Medlin. Invece non so niente di quel Wrynn. Probabilmente è davvero un terrestre.»

«Poi la ragazza ha cominciato a raccontarmi la storia fantastica di una specie di Super-Terrestri che loro vogliono aiutare a crescere.» Harris riferì in breve quello che gli aveva detto Beth sulla sedicente specie di mutanti. «Mi hanno chiesto di aiutarli in questa nobile causa.»

«E avete accettato?»

«Ma certo! Solo così mi hanno lasciato andare e mi hanno affidato la prima missione.»

«Che sarebbe?»

«Eliminare tutti gli agenti di Darruu esistenti sulla Terra, voi per primo.»

«Gli altri sono ben sparpagliati» disse Carver.

«Non ne dubito. Ma a quanto pare i Medlinesi sanno perfettamente dove si trovano. Conoscono ogni fase dell’operazione, da cima a fondo. Meglio appurare da dove sono uscite tutte queste informazioni segrete, Carver. Uno dei vostri uomini ci ha tradito.»

Carver rimase in silenzio per un poco. «C’è una cosa sola da fare ora» disse poi. «Accelerare l’attuazione del programma e colpire subito. La sorpresa può forse compensare la posizione di svantaggio in cui siamo venuti a trovarci. Assalteremo il quartier generale medlinese e uccideremo tutti quelli che potremo. Credete che si fidino davvero di voi?»

«Difficile dirlo. Sono propenso a credere che non si fidino per niente e che mi stiano usando come esca in una trappola molto complicata.»

«È probabile. Be’, abboccheremo all’esca. Solo che non potranno manipolarci a loro piacere, una volta che ci avranno preso.»

«Non sottovalutateli, Carver.»

«No. Ma non dobbiamo neanche sottovalutare la nostra forza. Non sottovalutate voi stesso, Harris. Ricordate che siamo Servi dello Spirito. Non conta niente, questo? Che cosa sono in fin dei conti un centinaio di Medlinesi se paragonati a noi?»

Harris chiuse gli occhi. Il suo corpo moriva di fame, e in quel momento — dopo avere constatato da vicino quali fossero le facoltà dei Medlinesi — non si sentiva così imbevuto del sacro fervore religioso che animava Carver.

«Sì» disse senza molta convinzione. «Sì. Non dobbiamo dimenticarlo.»

Carver troncò il collegamento. Lui ripose di nuovo l’attrezzatura e la guardò scivolare e sparire nel nascondiglio.

La seconda operazione in programma sulla sua agenda era una lunga permanenza sotto la doccia molecolare. L’attrito calmante delle particelle molecolari danzanti non solo asportò il sudiciume della notte passata in prigionia, ma liberò anche il suo corpo dai veleni della fatica, lasciandolo più pronto ad affrontare i nuovi tranelli dei Medlinesi.

Poi venne la prima colazione. Indossò un uniforme fresca di bucato e scese da basso, al ristorante dell’albergo, dove fece un pasto di stile terrestre, a base di succo di frutta, panini caldi, pancetta affumicata e caffè. Nonostante l’appetito, il cibo gli sembrò completamente insipido. Gli acidi corrosivi della paura inibivano il suo apparato digerente.

Tornò in camera, si chiuse dentro e si gettò, stanco, sul letto. Era sfinito e profondamente turbato.

Superuomini pensò.

Tirava fuori quell’argomento per la centesima volta, da due ore a quella parte…

Conveniva ai Medlinesi allevare e nutrire un potenziale conquistatore galattico?

No, no, mille volte no!

I Terrestri erano già abbastanza pericolosi così, e non era proprio il caso di accentuarne la forza e le facoltà. Benché nella galassia la supremazia restasse ancora divisa, come prima, tra Darruu e Medlin — la lama a doppio taglio che spaccava in due l’universo da millenni — i Terrestri, in quei trecento anni di contatto con le altre specie galattiche più antiche, avevano fatto passi da gigante verso le possibilità di raggiungere un posto importante nell’economia universale.

Trecento anni non erano che un breve momento nella storia galattica. Ce n’erano voluti dieci volte tanti perché Darruu riuscisse a espandersi e a creare delle colonie. La fase attiva del conflitto darruu-medlinese si era protratta durante tutto il periodo in cui la civiltà della Terra era in corso di formazione. La fase attuale — ovvero inattiva — era iniziata quando i Terrestri usavano ancora veicoli a trazione animale per i trasporti.

Eppure solo tre secoli erano trascorsi da quando la prima nave terrestre aveva superato la barriera della luce, e già gli uomini avevano fondato colonie fino a metà galassia, spingendosi fino alle oscure propaggini dell’ammasso di stelle. I Corpi di Espansione Interstellare, a cui lui, sotto le spoglie di Abner Harris, fingeva di appartenere, avevano installato colonie della Terra, indiscriminatamente, su tutti i mondi deserti e abitabili della galassia che non fossero già stati rivendicati da Darruu e da Medlin… Compresi alcuni che questi due antichi pianeti avevano dichiarato inabitabili per le specie che respiravano ossigeno.

E i Medlinesi, gli antichi nemici del suo popolo, la razza che gli avevano sempre insegnato a considerare come l’incarnazione del male, aiutavano i Terrestri ad attuare un piano di sviluppo che li avrebbe portati assai più in là di dove erano mai giunti gli abitanti di Darruu o dello stesso Medlin.

Ridicolo pensò.

Nessuna razza, coscientemente, agevola, coltiva e incrementa con entusiasmo la propria distruzione, neppure una razza di stupidi. E i Medlinesi erano tutt’altro che stupidi.

Comunque, non certo stupidi al punto da lasciarmi libero fidandosi solo della mia promessa di trasformarmi in traditore e di collaborare con loro pensò.

E scosse la testa, sconcertato.

Dopo un poco si alzò, prese la preziosa fiaschetta di vino di Darruu, la stappò e versò una piccola quantità di quel nettare in un bicchiere. Lo tenne stretto nella mano per un momento interminabile, scaldandolo, per poterne sentire l’aroma.

Infine lo portò alle labbra e si concesse una sorsata, quasi con rimorso. In un primo momento, gustare il vino scuro e vellutato del suo mondo natale lo calmò un poco, ma poi la dolorosa nostalgia di casa divenne insopportabile.

Chiuse gli occhi e si raffigurò le vigne di Moruum Tiira, che maturavano lentamente nelle nebbie purpuree dell’estate. Era nato nel paese del vino. Ricordava le cantine della casa di suo nonno, con le botti vecchie di un secolo e più, allineate in lunghe file polverose. Solo in occasioni particolari da quelle botti si prelevava il vino. Il giorno in cui lui era diventato maggiorenne, gli avevano permesso di assaggiare un vino pigiato: in quel periodo i Terrestri erano ancora legati al loro pianeta. Nel giorno della potatura dell’albero piantato alla sua nascita, il nonno gli aveva fatto assaggiare l’acquavite purissima e bruciante che distillava lui stesso. E quando era stato ammesso nei ranghi dei Servi dello Spirito… solo allora il vino era fluito liberamente. Vino vecchio, vino nuovo. Una notte felice che non avrebbe scordato mai.

Ora, su Darruu, i grappoli pendevano, pesanti, dalle viti: gonfi di zucchero, maturi, quasi pronti a fermentare. Presto sarebbe stato il tempo della vendemmia. Qualche settimana dopo, le prime bottiglie di vino nuovo avrebbero raggiunto le botteghe, e a Moruum Tiira si sarebbero tenuti i riti del rendimento di grazie, col vino che scorreva come acqua in lode dello Spirito che aveva concesso il dono dell’estate, mentre le donne si sarebbero concesse a tutti senza restrizione e l’allegria avrebbe regnato dappertutto.

Per la prima volta lui non avrebbe gustato il vino nuovo quando aveva ancora l’aroma della giovinezza. Su Darruu certo stavano riunendosi per pronunciare il verdetto sulla produzione dell’annata. Ma l’’avrebbero fatto senza di lui. Lui non avrebbe preso parte all’allegria generale, quell’anno, e forse mai più avrebbe gustato le gioie della vendemmia. Altri ne avrebbero approfittato al posto suo. Mentre io mi trovo qui, su un pianeta straniero, vestito di una strana pelle e invischiato nelle trame dei perfidi Medlinesi pensò.

Aggrottò la fronte e mandò giù un altro sorso per calmare la pena che gli stringeva il cuore.

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