Città-fortezza di Breslavia, Polonia,
4 maggio, ore 06.22
Il corpo galleggiava nella melma che si riversava nelle fognature. Era il cadavere di un ragazzo, gonfio e rosicchiato dai topi, spogliato degli stivali, dei pantaloni e della camicia. Nella città sotto assedio, nulla andava sprecato.
Jakob Sporrenberg, Obergruppenführer delle SS, scostò il cadavere, rimescolando quel sudiciume. Interiora ed escrementi. Sangue e bile. Il fazzoletto bagnato che gli copriva il naso e la bocca poteva ben poco contro il fetore. A quello si era ridotta la grande guerra. I potenti costretti a strisciare nelle fogne per fuggire. D’altro canto, lui aveva ordini da eseguire.
Sopra di loro, i colpi dell’artiglieria russa martellavano la città. A ogni esplosione, lui sentiva l’onda d’urto comprimergli le budella. I russi avevano sfondato le porte della città e bombardato l’aeroporto. Intanto i carri armati continuavano a macinare le strade e gli aerei da trasporto atterravano sulla Kaiserstrasse. La via era stata trasformata in una pista grazie a file parallele di fusti di olio combustibile in fiamme, che aggiungevano altro fumo ai cieli già asfittici di quella mattina, tenendo a bada l’alba. Gli scontri imperversavano in tutte le strade e in tutte le case, dalle soffitte alle cantine.
Fare di ogni casa una fortezza. Era l’ultimo ordine impartito alle masse dal Gauleiter Hanke. La città doveva resistere il più a lungo possibile. Il futuro del Terzo Reich dipendeva da quello.
E da Jakob Sporrenberg.
«Mach schnell», disse lui, esortando gli uomini alle sue spalle.
Era il suo reparto del Sicherheitsdienst, denominato Commando Speciale di Evacuazione. Quattordici uomini, immersi nella melma fino alle ginocchia: tutti armati, vestiti di nero e oberati da pesanti carichi. In mezzo al gruppo, quattro degli uomini più massicci, ex scaricatori di porto del mare del Nord, portavano in spalla lunghi bastoni sui quali erano poggiate casse enormi.
Se i russi avevano attaccato quella città isolata nel bel mezzo dei Sudeti, tra la Germania e la Polonia, un motivo c’era. Le fortificazioni di Breslavia difendevano l’accesso alle montagne circostanti. Nei due anni precedenti, i detenuti del campo di concentramento di Gross-Rosen erano stati costretti a scavare la sommità di un monte vicino: cento chilometri di gallerie, aperte a forza di esplosioni e picconate, il tutto al servizio di un progetto segreto, da tenere nascosto agli occhi indiscreti degli Alleati.
Der Riese. Il Gigante.
Eppure si era sparsa la voce. Forse un abitante del villaggio nei pressi della miniera di Wenceslas aveva spifferato qualcosa sulla malattia, sull’improvviso malessere che colpiva anche chi era ben distante dal complesso.
Se soltanto avessero avuto più tempo per completare la ricerca… Però Jakob Sporrenberg sentiva una certa resistenza dentro di sé. Non era al corrente di tutte le implicazioni del progetto segreto; in effetti ne conosceva soltanto il nome in codice: Chronos. Ma era già abbastanza. Aveva visto i corpi utilizzati negli esperimenti, aveva sentito le urla.
Abominio. Quella era l’unica parola che gli era venuta in mente. Gli si era gelato il sangue. Non aveva avuto difficoltà a eliminare gli scienziati, sessantadue tra uomini e donne. Portati all’aperto, si erano presi due colpi in testa per ciascuno. Nessuno doveva sapere che cosa era accaduto negli abissi della miniera di Wenceslas, né i risultati degli esperimenti. Soltanto una ricercatrice era stata risparmiata. Frau Doktorin Tola Hirszfeld. Jakob la sentiva avanzare nella melma, coi polsi legati dietro la schiena, quasi trascinata da uno dei suoi uomini. Era alta, per essere una donna. Tra i venticinque e i trent’anni, aveva il seno piccolo, la vita ampia, un bel paio di gambe, una chioma nera fluente e la pelle bianca come il latte per i mesi trascorsi sottoterra. Avrebbero dovuto ucciderla assieme agli altri, ma suo padre, l’Oberarbeitsleiter Hugo Hirszfeld, supervisore del progetto, alla fine aveva rivelato quanto fosse corrotto il suo sangue, le sue origini per metà ebree. Aveva tentato di distruggere i documenti delle sue ricerche, ma una delle guardie gli aveva sparato, uccidendolo prima che riuscisse a far esplodere l’ufficio sotterraneo con una bomba incendiaria. Fortunatamente per sua figlia, c’era bisogno di qualcuno che conoscesse bene die Glocke e proseguisse il lavoro. La giovane era un genio come il padre e ne conosceva le ricerche meglio di qualunque altro scienziato. Però bisognava blandirla. Ogni volta che Jakob la guardava, lei lo ricambiava con uno sguardo infuocato. L’odio della donna era palpabile, come il calore di un forno aperto. Ma avrebbe collaborato, proprio come suo padre prima di lei.
Jakob sapeva come trattare gli Juden, soprattutto quelli di sangue misto, i Mischlinge. Erano i peggiori. Ebrei a metà. Ce n’erano circa centomila che prestavano servizio militare per il Reich. Soldati ebrei. Deroghe eccezionali alle leggi razziali consentivano ai mezzosangue di prestare comunque servizio e avere così risparmiata la vita. Occorreva una dispensa speciale, ma quei Mischlinge solitamente si rivelavano soldati di grande ferocia, dovendo provare la loro fedeltà al Reich a dispetto della loro razza.
Comunque Jakob non si era mai davvero fidato di loro. E il padre di Tola aveva confermato la validità dei suoi sospetti. Il tentativo di sabotaggio messo in atto dal medico non aveva sorpreso Jakob. Gli Juden non erano degni di fiducia; erano degni soltanto di essere sterminati. La dispensa di Hugo Hirszfeld, però, era firmata dal Führer in persona e non solo risparmiava la vita a lui e alla figlia, ma anche a una coppia di anziani genitori, che vivevano da qualche parte nella Germania centrale. Anche se non si fidava dei Mischlinge, Jakob riponeva la massima fiducia nel Führer. Aveva ordini di una precisione letterale: evacuare dalla miniera le risorse necessarie per proseguire il lavoro e distruggere il resto. Ciò significava risparmiare la donna. E il bambino.
Il neonato era un fagotto di fasce, un bambino ebreo che non aveva più di un mese. Gli era stato somministrato un leggero sedativo, per farlo star quieto durante la fuga.
In quel bambino ardeva il cuore dell’abominio, la vera fonte della repulsione di Jakob. Tutte le speranze del Terzo Reich erano riposte in quelle manine: un neonato ebreo. Il solo pensiero gli faceva salire la bile. Sarebbe stato meglio impalare il bambino su una baionetta. Ma Jakob aveva degli ordini da eseguire. Inoltre aveva notato come Tola guardava il piccolo. Le brillava negli occhi un misto di ardore e di angoscia. Oltre ad assistere il padre nelle ricerche, Tola aveva fatto da madre adottiva al bambino, cullandolo e nutrendolo. Quel bimbo era l’unico motivo per cui la donna era disposta a collaborare. Proprio minacciando la vita del piccolo, Jakob era riuscito a piegare Tola alle sue richieste.
Una carica di mortaio esplose sopra di loro, facendoli cadere tutti in ginocchio e assordandoli. Si aprì una crepa nel cemento e una scia di polvere finì nell’acqua puzzolente. Jakob si rimise in piedi, imprecando sottovoce.
Il suo secondo in comando, Oskar Heinrichs, lo raggiunse e gli indicò un ramo laterale della fognatura. «Prendiamo quella galleria, Obergruppenführer. È un vecchio canale di scolo per la pioggia. Secondo la cartina del comune, il collettore principale s’immette nel fiume, non lontano dall’Isola della Cattedrale.»
Jakob annuì. Nascoste nei pressi dell’isola, c’erano ad attenderli un paio di cannoniere mimetizzate, il cui equipaggio era composto da un altro commando. Ormai non era molto distante. Continuò a fare strada con passo sostenuto, mentre i bombardamenti dei russi diventavano sempre più intensi. Il rinnovarsi degli attacchi non faceva che preannunciare l’offensiva finale. La resa della città era inevitabile.
Raggiunta la diramazione, Jakob emerse dal sudiciume e s’issò sul bordo di cemento. I suoi stivali emettevano un suono fradicio a ogni passo. Per un certo periodo il tanfo di budella e melma aumentò e peggiorò, come se la fogna cercasse di cacciarlo dagli abissi. Jakob fece luce con la torcia lungo il canale di cemento. Forse l’aria aveva un odore più fresco? Seguì il fascio di luce con rinnovato vigore. Con la via di fuga così prossima, la missione era quasi finita. Il reparto avrebbe potuto attraversare mezza Slesia, prima che i russi raggiungessero i cunicoli sotterranei della miniera di Wenceslas. Per accoglierli calorosamente, Jakob aveva seminato trappole in tutti i corridoi dei laboratori. I russi e i loro alleati non avrebbero trovato nient’altro che la morte su quelle montagne.
Con quel pensiero appagante, Jakob proseguì la fuga verso la promessa di aria fresca. La galleria di cemento scendeva con un’inclinazione graduale. Accelerarono il passo, allarmati dall’improvviso silenzio tra le salve di artiglieria. I russi stavano attaccando in massa.
Rimaneva poco tempo. Il fiume non sarebbe rimasto agibile a lungo. Come se intuisse l’urgenza, il neonato iniziò un pianto sommesso, un flebile lamento, mentre svaniva l’effetto del sedativo. Jakob aveva raccomandato al medico della squadra di andarci piano coi farmaci, perché non osava mettere a rischio la vita del bambino. Forse era stato un errore…
I lamenti del piccolo assunsero un timbro sempre più stridente. Da qualche parte, a nord, esplose un solo colpo di mortaio. I lamenti divennero sonori vagiti, che echeggiavano nella gola di pietra della galleria.
«Fai tacere il bambino!» ordinò Jakob al soldato che lo portava.
Con una certa goffaggine, l’uomo, cinereo e magro come uno stecco, cercò di togliersi il fagotto dalle spalle, perdendo il suo berretto nero. Si sforzò di liberare il piccolo, ma ne ricavò soltanto altri strilli infastiditi.
«Lasci fare a me…» intervenne Tola, cercando di divincolarsi dal soldato che la teneva per un braccio. «Ha bisogno di me.»
Il soldato che portava il bambino lanciò uno sguardo a Jakob. Il mondo sopra di loro era piombato in un inquietante silenzio. Sotto, gli strilli proseguivano. Con una smorfia, Jakob annuì. Tola fu liberata dai lacci che aveva ai polsi. Sfregandosi le mani per riattivare la circolazione, si avvicinò al bambino. Il soldato le cedette il fardello con piacere. La donna si sistemò il piccolo tra le braccia, tenendogli sollevata la testa e cullandolo gentilmente. Si chinò verso di lui, per essergli più vicina, e cominciò a emettere suoni dolci, senza parole, ma rassicuranti, sussurrati tra un vagito e l’altro. Avvolse il bambino con tutto il suo essere. Piano piano gli strilli scemarono, sostituiti da gemiti sommessi.
Soddisfatto, Jakob fece un cenno alla guardia della donna. L’uomo sollevò la sua Luger e la tenne premuta contro la schiena di Tola. In silenzio, proseguirono il viaggio attraverso i cunicoli sotterranei di Breslavia. Ben presto l’odore di bruciato rimpiazzò il tanfo delle fogne. La torcia di Jakob illuminò una cappa di fumo che contraddistingueva l’uscita dal canale di scolo. Il silenzio dell’artiglieria perdurava, ma, soprattutto a est, proseguiva uno scoppiettio quasi incessante di colpi d’arma da fuoco. Più vicino, si distingueva nettamente lo sciabordio dell’acqua.
Jakob fece cenno ai suoi uomini di mantenere la posizione nella galleria e indicò l’uscita al suo radiotelegrafista. «Manda un segnale alle barche.»
Il soldato fece un rapido cenno d’assenso e si avviò di gran lena, scomparendo nell’oscurità fumosa. Dopo qualche istante, pochi lampi di luce trasmisero un messaggio in codice all’isola vicina. Le barche avrebbero impiegato soltanto un minuto per attraversare il canale e raggiungerli.
Jakob si voltò verso Tola, che continuava a portare il bambino. Il piccolo si era acquietato e aveva gli occhi chiusi.
Tola incrociò il suo sguardo e lo fissò impassibile. «Lei sa che mio padre aveva ragione», disse, con pacata certezza. Lanciò un rapido sguardo alle casse sigillate, poi tornò a guardare lui. «Glielo vedo scritto in faccia. Quello che abbiamo fatto… Ci siamo spinti troppo in là.»
«Queste sono decisioni che non spettano né a lei né a me», rispose l’uomo.
«E a chi, allora?»
Jakob scosse la testa e fece per voltarsi. Heinrich Himmler in persona gli aveva dato quegli ordini, non spettava certo a lui metterli in dubbio. Ma sentiva ancora gli occhi della donna puntati su di sé.
«È una sfida a Dio e alla natura», bisbigliò Tola.
Una voce gli risparmiò di rispondere.
«Arrivano le barche», annunciò il radiotelegrafista, di ritorno dall’uscita del canale di scolo.
Jakob impartì gli ultimi ordini e fece mettere i suoi uomini in posizione. Li condusse alla fine della galleria, che dava sulla sponda scoscesa del fiume Oder. Stavano per perdere il vantaggio dell’oscurità. A est l’alba infiammava già il cielo, ma dall’altra parte l’acqua era coperta da un’unica grande nuvola di fumo, trascinata e addensata dalle correnti d’aria che percorrevano il fiume. Quella cappa avrebbe contribuito a proteggerli. Ma per quanto tempo? Intanto continuava il chiacchiericcio stranamente allegro dei fucili, come petardi a festeggiare la distruzione di Breslavia.
Ormai libero dal puzzo di fogna, Jakob si tolse la maschera bagnata e inspirò a fondo l’aria pulita. Scrutò le acque, grigie come il piombo. Due imbarcazioni di sei metri solcavano il fiume, accompagnate dal gorgoglio dell’acqua e dal ronzio costante dei motori. Sulla prua di ciascuna, nascoste a malapena da tele cerate verdi, era stata montata una coppia di mitragliatrici MG-42.
Oltre le barche, si distingueva appena la massa scura di un’isola. In realtà l’Isola della Cattedrale non era un’isola, poiché gli abbondanti depositi di limo accumulatisi nel XIX secolo l’avevano fusa con la riva opposta. Un ponte in ghisa color verde smeraldo, che risaliva allo stesso periodo, la collegava alla riva del fiume su cui si trovava il reparto di Jakob. Le due imbarcazioni armate costeggiarono i moli di pietra sotto il ponte, preparandosi all’attracco.
Jakob alzò lo sguardo, attratto da un pungente raggio di sole che investiva le due guglie svettanti della Cattedrale, alla quale l’isola doveva il suo nome. Era una delle cinque o sei chiese ammassate sull’isola. L’uomo aveva ancora nelle orecchie l’eco delle parole di Tola Hirszfeld: È una sfida a Dio e alla natura.
Il freddo mattutino gli s’insinuò nei vestiti bagnati, facendogli venire la pelle d’oca. Non vedeva l’ora di essere ben lontano da lì e di poter dimenticare completamente quei giorni.
La prima barca raggiunse la riva. Allietato dalla distrazione e ancora di più dalla possibilità di muoversi, Jakob esortò i suoi uomini a caricare i due natanti. Tola rimase in disparte, col bimbo in braccio e con una guardia al suo fianco. Anche lei aveva trovato con lo sguardo le guglie raggianti nel cielo fumoso. Il rumore degli spari continuava e si avvicinava sempre di più. Si sentivano anche i carri armati che avanzavano con le marce ridotte. Il tutto punteggiato da grida e urla. Dov’era quel Dio che lei temeva di sfidare? Certamente non lì.
Quando le barche furono caricate, Jakob affiancò Tola. «Salga sulla barca.» Avrebbe voluto suonare austero, ma qualcosa sul volto di lei aveva ammorbidito le sue parole.
La donna obbedì, con lo sguardo ancora rivolto alla Cattedrale e i pensieri diretti ancora più in alto. In quel momento, Jakob vide quanto poteva essere bella… sebbene fosse una Mischling. Poi lei urtò qualcosa con la punta dello stivale, inciampò e recuperò l’equilibrio, facendo attenzione al bambino. I suoi occhi si posarono nuovamente sulle acque grigie e sulla cappa di fumo. I suoi lineamenti tornarono a inasprirsi in un’espressione dura come la pietra. Anche lo sguardo si fece spietato, mentre cercava un posto per sé e il bambino. Si sedette su una panchina a dritta, e la guardia le rimase appiccicata.
Jakob si sedette di fronte a loro, poi fece cenno al pilota della barca di partire. «Non dobbiamo fare tardi.»
Scrutò il fiume. Erano diretti a ovest, lontano dal fronte orientale, lontano dal sole che sorgeva. Guardò l’orologio. A quell’ora ci doveva già essere un aereo da trasporto Junker Ju 52 pronto ad aspettarli, in un aeroporto abbandonato, a dieci chilometri da lì. Ci avevano dipinto sopra il logo della Croce Rossa tedesca, mimetizzandolo come trasporto medico: una piccola assicurazione aggiuntiva contro eventuali attacchi. Le barche navigarono in cerchio e s’immisero nel canale più profondo, coi motori che strillavano. Ormai i russi non potevano più fermarli. Era fatta.
Un movimento all’altra estremità della barca richiamò l’attenzione di Jakob. Tola si chinò sul bambino e lo baciò teneramente sulla testa. Poi sollevò il viso, incrociando lo sguardo del militare.
Jakob non vide né sfida né rabbia. Soltanto determinazione. Capì che cosa voleva fare. «No!»
Troppo tardi.
Sollevandosi, Tola si sporse oltre il basso parapetto dietro di lei. Stringendosi al petto il bambino, si lanciò all’indietro nell’acqua gelida. L’uomo che la sorvegliava, sorpreso dall’azione improvvisa, si voltò e sparò alla cieca nell’acqua.
Jakob gli si gettò addosso e gli sollevò il braccio con uno strattone. «Potresti colpire il bambino!»
Il comandante si sporse dalla barca e studiò l’acqua. Gli altri uomini si erano alzati in piedi.
Jakob vide soltanto il proprio riflesso nell’acqua. Fece cenno al pilota di girare lì attorno.
Nulla.
Cercò qualche bolla rivelatrice, ma la scia della pesante imbarcazione rimestava le acque e non rimaneva altro che oscurità. Batté un pugno sul parapetto.
Tale padre, tale figlia…
Soltanto i Mischlinge potevano agire in modo così drastico. L’aveva già visto succedere altre volte: madri ebree che soffocavano i loro stessi figli per risparmiargli ulteriori sofferenze. Pensava che Tola fosse più forte. Ma, dopotutto, forse non aveva scelta.
La perlustrazione proseguì. I suoi uomini cercarono su entrambe le rive. Era sparita. Il fischio di un colpo di mortaio sopra le loro teste li scoraggiò dall’indugiare oltre.
Jakob fece cenno ai suoi uomini di riprendere posto sulle barche. Puntò a ovest, verso l’aeroplano che li attendeva. Avevano ancora le casse e tutti i documenti. Era un imprevisto, ma vi si poteva rimediare. Dove c’era un bambino, poteva essercene anche un altro.
«Andiamo», ordinò.
Le due barche partirono nuovamente, i motori spinti al massimo. Dopo qualche istante svanirono nella cappa di fumo, mentre Breslavia continuava a bruciare.
Tola sentì il suono delle barche scemare in lontananza. Si teneva a galla dietro uno dei grossi piloni di pietra che sostenevano l’antico ponte di ghisa della Cattedrale. Teneva una mano sulla bocca del bambino, costringendolo al silenzio, pregando che riuscisse a incamerare abbastanza aria dal naso. Ma il piccolo era debole. Proprio come lei.
Il proiettile le aveva perforato il collo. Il sangue scorreva abbondante, macchiando l’acqua di rosso cremisi. Le si stava annebbiando la vista, ma lei continuava a lottare per tenere il bambino fuori dall’acqua.
Quando si era gettata nel fiume, l’aveva fatto con l’intenzione di affogare assieme a lui. Ma poi si era sentita gelare, mentre il collo le bruciava, e qualcosa aveva fatto breccia nella sua determinazione. Si era ricordata del sole che illuminava le guglie. Quella non era la sua religione e nemmeno la sua cultura d’origine, ma in qualche modo le ricordava che oltre l’oscurità di quel momento c’era la luce. Da qualche parte c’erano uomini che non dilaniavano i propri fratelli e madri che non annegavano i propri figli.
Si era spinta più in profondità nel canale, lasciandosi trasportare dalla corrente, verso il ponte. Sott’acqua, aveva tenuto in vita il bambino chiudendogli le narici e insufflandogli attraverso le labbra l’ossigeno che le rimaneva nei polmoni. Anche se aveva programmato di morire, una volta innescata, la lotta per la vita era diventata sempre più intensa, come un fuoco nel petto.
Il bambino non aveva ancora un nome.
Nessuno doveva morire senza nome.
Aveva soffiato delicatamente in bocca al bambino, respiri leggeri, mentre batteva i piedi assecondando la corrente, procedendo alla cieca. Era stato per pura fortuna che era riemersa dietro uno dei piloni di pietra, trovando così un rifugio.
Ma, dopo che le barche erano partite, non poteva più aspettare.
Il sangue sgorgava copioso. Aveva l’impressione che fosse soltanto il freddo a tenerla in vita. Ma lo stesso freddo stava congelando a morte la fragile creatura.
Nuotò verso la riva, battendo l’acqua in modo frenetico e scoordinato, debole e intorpidita com’era. Cominciò ad affondare, trascinando il neonato con sé.
No.
Lottò per riemergere, ma all’improvviso l’acqua si fece più pesante, più difficile da contrastare.
Si rifiutò di soccombere.
Poi sbatté con gli stivali contro il fondo di pietre scivolose. Gridò, dimenticando di essere ancora sott’acqua, rischiando di soffocare per quella bevuta di acqua di fiume. Affondò ancora un po’, poi diede un’ultima spinta coi piedi, contro le pietre fangose. La testa emerse dall’acqua e il corpo si scagliò verso la riva.
Sotto i piedi, la sponda risaliva scoscesa.
Carponi, la donna s’issò fuori dal fiume, stringendosi il bambino al collo. Giunta finalmente a riva, cadde a faccia in giù sulla ghiaia. Non aveva la forza di muovere un dito. Il bambino era intriso del suo sangue. Le ci volle uno sforzo estremo per concentrarsi sul piccolo.
Non si muoveva. Non respirava.
Chiuse gli occhi e pregò, mentre un’oscurità eterna la inghiottiva. Piangi, maledetto, piangi…
Padre Varick fu il primo a sentire i mugolii. Lui e i suoi confratelli si erano rifugiati nella cantina sotto la chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Erano fuggiti all’inizio dei bombardamenti, la sera precedente. In ginocchio, avevano pregato che la loro isola fosse risparmiata. La chiesa, costruita nel XV secolo, era sopravvissuta all’avvicendarsi continuo di signori e padroni di quella città di confine. Loro chiedevano una protezione dal cielo per poter sopravvivere ancora.
Fu in quel devoto silenzio che i gemiti lamentosi giunsero alle orecchie dei monaci. Padre Varick si alzò, cosa che richiese un grande sforzo alle sue gambe decrepite.
«Dove vai?» chiese Franz.
«Sento che il mio gregge mi chiama», rispose il frate. Negli ultimi due decenni aveva nutrito di avanzi i gatti che bazzicavano lì attorno e a volte anche qualche cane randagio che frequentava la chiesa lungo il fiume.
«Non è il momento, adesso», lo ammonì un altro confratello, con la voce pregna di paura.
Padre Varick aveva vissuto troppo a lungo per temere la morte con tale fervore giovanile. Attraversò la cantina e si chinò per entrare nel breve corridoio che terminava con una porta sul fiume. In passato quel corridoio era servito a trasportare carbone, che veniva immagazzinato dove ormai, tra la polvere e il legno di quercia, erano custodite soltanto bottiglie di vino pregiato.
Il frate raggiunse la vecchia porta della carbonaia, sollevò il paletto e aprì il chiavistello.
Diede una spallata e, cigolando, la porta si aprì. Dapprima fu investito dal fumo pungente, poi i mugolii gli fecero abbassare lo sguardo. «Mein Gott im Himmel…»
A pochi passi dalla porta, una donna era crollata nei pressi del contrafforte su cui poggiava la chiesa. Non si muoveva. Si precipitò verso di lei, gettandosi un’altra volta in ginocchio, con una nuova preghiera sulle labbra.
Le toccò il collo in cerca di segni di vita, ma trovò soltanto sangue e devastazione. Era fradicia dalla testa ai piedi e fredda come la pietra.
Morta.
Poi sentì ancora i gemiti, provenienti dall’altro fianco della donna.
La scostò, trovando un bambino, mezzo sepolto sotto di lei, coperto di sangue anche lui.
Sebbene fosse livido per il freddo e altrettanto fradicio, il piccolo era ancora vivo. Il frate liberò il neonato dal cadavere. Le fasce bagnate che lo avvolgevano caddero con tutto il carico d’acqua che le appesantiva.
Era un maschio.
Il frate sfregò alacremente il corpicino e constatò che il sangue non apparteneva al neonato, ma soltanto alla madre.
Lanciò uno sguardo triste alla donna. Ancora morte. Scrutò la sponda opposta del fiume. La città era in fiamme, il fumo intorbidiva l’alba. Gli spari continuavano. Quella donna aveva attraversato il canale a nuoto? Per salvare suo figlio?
«Riposa», le sussurrò. «Te lo sei meritato.»
Padre Varick tornò sui suoi passi, verso la porticina. Asciugò il bambino dall’acqua e dal sangue. Il piccolo aveva capelli morbidi e sottili, bianchi come la neve. Non poteva avere più di un mese.
Con le cure di Varick, i gemiti del bambino divennero più forti, il viso contratto dallo sforzo, ma rimaneva comunque debole e freddo, inerte.
«Piangi, piccolo, piangi.»
In risposta a quella voce, il neonato dischiuse le palpebre gonfie. Varick fu salutato da occhi di un blu brillante e puro. D’altra parte, quasi tutti i neonati avevano gli occhi blu. Tuttavia Varick aveva la sensazione che quegli occhi avrebbero mantenuto quel colore celeste così ricco.
Avvicinò il piccolo a sé per scaldarlo. Gli cadde l’occhio su una macchia di colore. Was ist das? Girò il piede del bambino. Sul calcagno, qualcuno aveva disegnato un simbolo.
Anzi non era disegnato. Lo sfregò per esserne sicuro.
Era tatuato con inchiostro cremisi. Lo studiò. Sembrava una zampa di corvo.
Ma padre Varick aveva trascorso buona parte della sua gioventù in Finlandia. Riconobbe il simbolo per ciò che era effettivamente: una runa norrena. Non aveva idea di quale runa fosse o di che cosa significasse. Scosse la testa. Chi aveva commesso una tale sciocchezza?
Lanciò uno sguardo alla madre, aggrottando le sopracciglia.
Non importava, i peccati dei genitori non devono gravare sui figli. Finì di asciugare il sangue sulla sommità della testolina e infilò il bambino sotto la sua veste calda.
«Povero piccolo, che brutta accoglienza ti ha riservato il mondo.»