TERZO

11. IL DEMONE DENTRO LA MACCHINA

In volo sull’oceano Indiano,

ore 12.33


«Il capitano Bryant e io faremo del nostro meglio per indagare sui Waalenberg qui a Washington», disse Logan Gregory al telefono.

Painter stava usando un auricolare, perché gli servivano le mani libere per vagliare la montagna di documenti che Logan aveva faxato a Katmandu. C’era di tutto sui Waalenberg: la storia della famiglia, i rendiconti finanziari, i legami internazionali, persino i pettegolezzi e le insinuazioni.

In cima alla pigna c’era una fotografia sgranata: un uomo e una donna che scendevano da una limousine. Gray Pierce l’aveva scattata dalla suite di un hotel dall’altra parte della strada, prima dell’inizio di un’asta. Il controllo digitale aveva confermato la valutazione di Logan. Il tatuaggio era legato al clan dei Waalenberg. I due nella foto erano i gemelli Isaak e Ischke Waalenberg, i due eredi più giovani della fortuna di famiglia, un patrimonio che poteva competere col prodotto interno lordo della maggior parte dei Paesi del mondo.

Cosa ancora più importante, Painter riconobbe l’incarnato pallido e i capelli bianchi. I due erano Sonnenkönige. Come Gunther, come l’assassina al castello.

Painter diede un’occhiata alla parte anteriore della cabina del Gulfstream: Gunther dormiva disteso su un divano, con le gambe penzoloni; Anna invece era seduta su una poltrona lì accanto, di fronte a una catasta di documenti. I due erano guardati a vista dal maggiore Brooks e da due ranger armati. I ruoli si erano rovesciati. I carcerieri erano diventati prigionieri. Tuttavia, nonostante i nuovi rapporti di potere, tra loro non era cambiato nulla. Anna aveva bisogno dei contatti e del supporto logistico di Painter, il quale aveva bisogno delle conoscenze di Anna sulla Campana e su tutti gli aspetti scientifici connessi.

«Quando tutto questo sarà finito, ci occuperemo delle questioni legali e di responsabilità», aveva detto Anna poco prima.

Logan interruppe i suoi pensieri. «Kat e io abbiamo fissato un appuntamento per domani mattina con l’ambasciata sudafricana. Vedremo se ci possono aiutare a fare un po’ di luce su questa famiglia molto discreta.»

Definirla discreta era un eufemismo. I Waalenberg erano i Kennedy del Sudafrica: ricchi, spietati, con una proprietà delle dimensioni di Rhode Island. Sebbene la famiglia possedesse grandi terreni anche altrove, i Waalenberg si allontanavano di rado dalla loro tenuta principale.

Painter prese la foto digitale sgranata. Una famiglia di Sonnenkönige.

Il tempo stringeva e l’unico luogo in cui potesse essere nascosta una seconda Campana era quella tenuta.

«Un agente britannico vi verrà incontro quando atterrerete a Johannesburg. L’MI5 tiene d’occhio i Waalenberg da anni, seguendo le loro transazioni insolite, ma non è riuscito a penetrare il muro di riserbo e segretezza che li protegge.»

Non era tanto difficile, dato che i Waalenberg erano praticamente i proprietari dell’intero Paese, pensò Painter.

«Vi offriranno supporto e informazioni sul territorio», concluse Logan. «Avrò altri dettagli quando atterrerete, fra tre ore.»

«Molto bene», rispose Painter, fissando la fotografia. «E che mi dice di Gray e Monk?»

«Sono scomparsi. Abbiamo trovato la loro auto parcheggiata all’aeroporto di Francoforte.»

Francoforte? Non aveva senso. Era un importante hub internazionale, ma Gray aveva accesso a un jet del governo, più efficiente di qualsiasi linea aerea commerciale. «Nemmeno una parola?»

«Nossignore. Siamo in ascolto su tutti i canali.»

Quella notizia era sconcertante.

Massaggiandosi la testa, perforata da un’emicrania che nemmeno la codeina riusciva a scalfire, Painter si concentrò sul rombo dell’aeroplano che solcava i cieli bui. Che cosa era successo a Gray? C’erano poche possibilità: si era nascosto, era stato catturato oppure era stato ucciso.

«Cerchi ovunque, Logan.»

«Lo stiamo facendo. Speriamo di avere altre notizie quando atterrerete a Johannesburg.»

«Ma lei ogni tanto dorme?»

«C’è un caffè Starbucks all’angolo, signore. Diciamo a ogni angolo.» Le sue parole erano stancamente divertite. «E lei, signore?»

Painter aveva fatto un sonnellino a Katmandu, mentre venivano fatti tutti i preparativi per il viaggio. «Me la cavo bene, Logan. Non si preoccupi.»

Come no.

Mentre riagganciava, Painter sfregò distrattamente il pollice sulla carne esangue e zigrinata su cui un tempo appoggiava l’unghia del mignolo. Tutte le altre dita gli formicolavano, anche quelle dei piedi. Logan aveva tentato di convincerlo a ritornare a Washington, a farsi visitare al Johns Hopkins, ma Painter era convinto che il gruppo di Anna avesse competenze molto più avanzate su quella particolare malattia. Danneggiato a livello dei quanti. Nessun trattamento convenzionale l’avrebbe aiutato. Per rallentare la malattia, avevano bisogno di un’altra Campana funzionante. Secondo Anna, il trattamento periodico con le radiazioni della Campana, in situazioni controllate, poteva garantire anni, anziché giorni, di sopravvivenza.

«E forse, più avanti, persino una guarigione completa», aveva concluso Anna.

Ma prima dovevano trovare un’altra Campana e maggiori informazioni.

Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare.

«Penso che dovremmo parlare con Anna», disse Lisa, come se gli avesse letto nel pensiero.

Painter si voltò. Pensava che Lisa stesse dormendo. Si era messa in ordine, aveva fatto una doccia e indossava ampi pantaloni kaki e una camicetta color crema. Appoggiata allo schienale del sedile di Painter, lo scrutò con occhio clinico, esaminandogli il viso. «Hai un aspetto di merda.»

«Che tono rassicurante per un paziente», ribatté lui, alzandosi e stiracchiandosi.

L’aereo vacillò e si oscurò. Lisa lo tenne per un braccio. Il mondo s’illuminò e si stabilizzò. Non era l’aereo, era solo la sua testa.

«Promettimi che dormirai ancora un po’, prima dell’atterraggio», disse lei, stringendogli il gomito in una morsa.

«Se c’è tempo…»

Lisa aveva una presa d’acciaio.

«Okay, lo prometto.»

Lei allentò la presa e indicò Anna con un cenno del capo. La donna era china su una pigna di fatture. Stava passando in rassegna le polizze di carico delle merci destinate alla tenuta Waalenberg. Cercava qualsiasi indizio utile a confermare che i Waalenberg avessero acquistato il materiale necessario al funzionamento di una Campana.

«Vorrei sapere qualcosa di più di come funziona questo aggeggio», disse Lisa. «Le teorie fondamentali su cui è basata. Se la malattia danneggia i quanti, dobbiamo capire come e perché. Lei e Gunther sono gli unici sopravvissuti del Granitschloß. Dubito che Gunther sia stato istruito sugli aspetti teorici più sofisticati della Campana.»

Painter annuì. «Più cane da guardia che scienziato.»

Come a confermare la sua descrizione, l’uomo si mise a russare sonoramente.

«Tutte le conoscenze rimanenti riguardo alla Campana sono nella testa di Anna. Se dovesse perdere il senno…»

Lo avrebbero perso tutti quanti.

«Dobbiamo ottenere quelle informazioni prima che ciò avvenga», convenne Painter.

Lisa lo guardò negli occhi. Non nascose i suoi pensieri, le si leggevano in viso. Painter ripensò a quando era salita sull’aereo, a Katmandu. Esausta, coi nervi a pezzi, non aveva esitato ad andare con loro. Aveva capito. Come in quel momento.

Non erano a rischio soltanto la mente e la memoria di Anna, anche Painter era in pericolo. Soltanto una persona aveva seguito l’intera faccenda fin dall’inizio, una persona con le conoscenze mediche e scientifiche necessarie, e non minacciata dall’incombere della demenza. Al castello, Lisa e Anna avevano conversato a lungo da sole. Per conto suo, Lisa aveva esplorato a fondo la biblioteca di Anna. Chi poteva sapere quale dettaglio si sarebbe rivelato critico, facendo la differenza tra il successo e il fallimento?

Lisa aveva capito.

Non c’era stato bisogno di dire nulla, a Katmandu. Era semplicemente salita a bordo.

Fece scivolare la mano su quella di Painter. Gli strizzò le dita e indicò Anna con un cenno del capo. «Andiamo a spremerle le meningi.»


«Per capire come funziona la Campana, dovete innanzitutto comprendere la teoria dei quanti», iniziò Anna.

Lisa osservò la donna. Aveva le pupille dilatate per la codeina. Parlava troppo e le tremavano le dita, così stringeva forte gli occhiali da lettura con entrambe le mani, come se fossero un’ancora. Si erano appartati in coda al jet. Gunther continuava a dormire, sotto gli occhi dei militari, nella parte anteriore.

«Non penso che abbiamo tempo per un corso universitario», replicò Painter.

«Certo. L’importante è capire tre principi.» Anna mollò gli occhiali abbastanza a lungo per sollevare un dito. «In primo luogo, dobbiamo capire che, una volta che la materia è scomposta al livello dei quanti, le leggi classiche dell’universo cominciano a erodersi. Max Planck scoprì che elettroni, protoni e neutroni si comportano sia come particelle sia come onde. Il che appare contraddittorio. Le particelle hanno orbite e tracciati distinti, mentre le onde sono più indefinite, mancano di coordinate specifiche.»

«E queste particelle subatomiche si comportano in tutti e due i modi?» chiese Lisa.

«Hanno il potenziale di essere o un’onda o una particella», specificò Anna. «E questo ci conduce al prossimo punto: il Principio di indeterminazione di Heisenberg.»

Lisa ne aveva già sentito parlare e aveva approfondito l’argomento nel laboratorio di Anna. «Heisenberg sostiene che nulla è certo finché non viene osservato. Ma non capisco cosa c’entri con elettroni, protoni e neutroni.»

«L’esempio migliore del principio di Heisenberg è il gatto di Schrödinger», rispose Anna. «Si mette un gatto in una scatola sigillata, collegata a un apparecchio che può avvelenare il gatto in qualsiasi momento oppure no, in modo del tutto casuale. Morto o vivo. Heisenberg ci dice che in quella situazione, con la scatola chiusa, il gatto è potenzialmente sia morto sia vivo. Soltanto quando qualcuno apre la scatola e ci guarda dentro, la realtà sceglie uno stato oppure l’altro. Morto o vivo.»

«Suona più filosofico che scientifico», ribatté Lisa.

«Forse finché si parla di un gatto. Ma è stato dimostrato che è vero, a livello subatomico.»

«Dimostrato? Come?» chiese Painter. Era rimasto seduto in silenzio fino a quel momento, lasciando che fosse Lisa a fare le domande. Lui sapeva già molte di quelle cose, ma voleva consentirle di procurarsi tutte le informazioni che le servivano.

«Col classico test della doppia fessura», rispose Anna. «Ed eccoci al punto numero tre.» Prese due pezzi di carta, disegnò due fessure su uno dei due e li appoggiò in verticale, l’uno dietro l’altro.



«Ciò che sto per dirvi sembrerà privo di senso… Immaginiamo che questo pezzo di carta sia una parete di cemento e le fessure siano due finestre. Se prendiamo un fucile e cominciamo a sparare alle fessure, sulla seconda parete otterremo un determinato schema. Come questo.»

Prese il secondo pezzo di carta e lo punzonò.



«Chiamiamo schema di diffrazione A il modo in cui i proiettili o le particelle passerebbero attraverso queste fessure.»

Lisa annuì. «Okay.»

«Poi, invece dei proiettili, puntiamo un grande riflettore sulla parete, facendo passare la luce attraverso le fessure. Poiché la luce viaggia sotto forma di onde, sulla seconda parete otterremo uno schema diverso.» Disegnò uno schema di fasci chiari e scuri su un altro pezzo di carta.



«Questo schema, che chiameremo B, deriva dal fatto che le onde di luce che attraversano la finestra di destra e quella di sinistra interferiscono l’una con l’altra.»

«Capito», disse Lisa, anche se non era sicura di dove stessero andando a parare.

Anna mostrò i due schemi. «Ora prendiamo una pistola a elettroni e spariamo un unico fascio di elettroni sulle due fessure. Quale schema otterremo?»

«Siccome spariamo elettroni come se fossero pallottole, direi lo schema di diffrazione A», rispose Lisa, indicando il primo disegno.

«In realtà, negli esperimenti di laboratorio si ottiene il secondo: lo schema di interferenza B.»

«Lo schema delle onde… Perciò gli elettroni escono dalla pistola non come pallottole, ma come la luce di una torcia, viaggiando sotto forma di onde e creando lo schema B?»

«Esatto.»

«Quindi gli elettroni si muovono come onde.»

«Sì, ma soltanto quando nessuno assiste effettivamente al passaggio degli elettroni attraverso le fessure.»

«Non capisco.»

«In un altro esperimento, gli scienziati hanno collocato un piccolo contatore presso una delle fessure. Emetteva un bip ogni volta che un elettrone attraversava la fessura, misurando — in altre parole osservando — il passaggio di un elettrone davanti al sensore. Qual era lo schema sull’altra parete quando l’apparecchio era in funzione?»

«Be’, non dovrebbe cambiare, giusto?»

«Non nel mondo subatomico: non appena veniva acceso l’apparecchio, si otteneva subito lo schema di diffrazione A.»

«Quindi il semplice atto di misurare modificava lo schema?»

«Proprio come aveva previsto Heisenberg. Per quanto sembri impossibile, è vero. Verificato e riverificato. Gli elettroni esistono in uno stato costante di onda e particella, finché qualcosa non li misura. La misurazione dell’elettrone ne forza la condensazione in una realtà o nell’altra.»

Lisa cercò di immaginare un mondo subatomico in cui tutto era in uno stato di costante potenziale. Non aveva senso. «Se le particelle subatomiche compongono gli atomi, e gli atomi compongono il mondo che conosciamo, tocchiamo e percepiamo, dov’è la linea di demarcazione tra il mondo fantomatico della meccanica quantistica e il nostro mondo fatto di oggetti reali?»

«Ancora una volta, l’unico modo per condensare il potenziale è farlo misurare da qualcosa. Strumenti di misurazione di questo genere sono una presenza costante nell’ambiente. Può essere lo scontro con un’altra particella, un fotone che colpisce qualcosa. L’ambiente misura costantemente il mondo subatomico, condensando il potenziale in una realtà solida. Guardi le sue mani, per esempio. Le particelle subatomiche che costituiscono i suoi atomi operano in base alle regole indistinte del mondo dei quanti, ma all’esterno si espandono nel mondo di miliardi di atomi che costituisce la sua unghia. Quegli atomi si scontrano, si spintonano e interagiscono, misurandosi reciprocamente, forzando il potenziale in una realtà fissa.»

«Okay…»

Anna percepì lo scetticismo nella voce di Lisa. «So che è bizzarro, ma ho soltanto sfiorato la superficie del mondo indistinto della teoria dei quanti. Sto sorvolando su concetti come nonlocalità, tunnel temporale e universi multipli.»

Painter annuì. «Ci sono un bel po’ di stramberie in questo campo.»

«Ma basta capire quei tre punti», disse Anna, contando con le dita. «Le particelle subatomiche esistono, a livello di quanti, sotto forma di potenziale. Ci vuole uno strumento di misurazione per condensare quel potenziale. Ed è l’ambiente che esegue costantemente quelle misurazioni per fissare la nostra realtà.»

«Ma che cosa c’entra questo con la Campana?» chiese Lisa «Quando eravamo nella biblioteca del castello, lei ha parlato di ‘evoluzione quantica’.»

«È vero. Che cos’è il DNA? Non è nient’altro che una macchina delle proteine, giusto? Produce tutti i mattoni basilari delle cellule.»

«Detto in parole povere, sì.»

«Allora semplifichiamo ancora di più. Il DNA non è fatto forse di codici genetici bloccati in legami chimici? E che cosa spezza questi legami, accendendo e spegnendo i geni?»

«Il movimento degli elettroni e dei protoni.»

«E queste particelle subatomiche, a quali regole obbediscono: quelle classiche o quelle dei quanti?»

«Quelle dei quanti.»

«Perciò, se un protone ha il potenziale di trovarsi in due posti, A o B, accendendo o spegnendo un gene, in quale di quei posti si troverà?»

«Se ha il potenziale di trovarsi in entrambi i posti, allora è in entrambi i posti. Il gene è sia acceso sia spento. Finché qualcosa non lo misura.»

«E che cosa lo misura?»

«L’ambiente.»

«E l’ambiente di un gene è…»

Lisa sgranò gli occhi. «La molecola di DNA stessa.»

Anna sorrise. «La cellula vivente funge da strumento di misurazione dei propri quanti. Ed è questa costante misurazione cellulare che rappresenta il vero motore dell’evoluzione. Ciò spiega perché le mutazioni non sono casuali e perché l’evoluzione avviene a un ritmo più veloce di quello che si potrebbe attribuire al caso.»

«Aspetti», replicò Lisa. «Questa affermazione la deve ancora provare.»

«Facciamo un esempio, allora. Ricorda quei batteri che non erano in grado di digerire il lattosio? Che quando erano privati di altro nutrimento e avevano a disposizione soltanto il lattosio mutavano a un ritmo miracoloso per sviluppare un enzima in grado di digerirlo?» Anna inarcò un sopracciglio. «Ora riesce a spiegarselo usando i tre principi della teoria dei quanti? Soprattutto se le dico che la mutazione benefica richiedeva soltanto lo spostamento di un protone da un punto a un altro?»

Lisa era disposta a provarci. «Okay, se il protone poteva essere in entrambi i posti, allora per la teoria dei quanti era in entrambi i posti. Perciò il gene era mutato e non mutato. Era in uno stato potenziale che comprendeva tutt’e due le cose.»

«Continui», la stimolò Anna.

«Quindi la cellula, fungendo da strumento di misurazione dei quanti, avrebbe forzato il DNA a condensarsi in un modo o nell’altro. A mutare o a non mutare. E, poiché la cellula è viva e influenzata dal suo ambiente, avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia da una parte, sconfiggendo il caso, per produrre la mutazione benefica.»

«Ciò che gli scienziati chiamano ‘mutazione adattiva’. L’ambiente influenza la cellula, la cellula influenza il DNA e così avviene la mutazione che reca beneficio alla cellula. Il tutto azionato dalla meccanica quantistica.»

Lisa cominciava ad avere un’idea vaga di dove sarebbero andati a finire. Anna aveva usato l’espressione disegno intelligente in una delle loro conversazioni. Quando lei le aveva chiesto chi c’era dietro quell’intelligenza, la donna le aveva risposto: Noi.

Lisa capì. Sono le nostre cellule che dirigono l’evoluzione, reagendo all’ambiente e condensando il potenziale in DNA, per adattarvisi meglio. Poi entra in gioco la selezione naturale darwiniana, per preservare le mutazioni.

«Ma la cosa ancora più importante», disse Anna, mentre la sua voce diventava un po’ rauca, «è che la meccanica quantistica spiega com’è nata la prima scintilla della vita. Ricorda quanto era improbabile che quella prima proteina in grado di replicarsi si formasse dal brodo primordiale? Nel mondo dei quanti, la casualità non fa parte dell’equazione. La prima proteina in grado di replicarsi si è formata perché era l’ordine che emergeva dal caos. La sua capacità di misurare e condensare il potenziale dei quanti ha superato la casualità degli scontri che erano in atto nel brodo primordiale. La vita è cominciata perché era un migliore strumento di misurazione dei quanti.»

«E Dio non ha nulla a che vedere con questo?» chiese Lisa, ripetendo una domanda che le aveva fatto Anna in precedenza… Ormai sembrava qualche decennio prima.

Anna si portò una mano alla fronte, con le dita tremanti. Strizzò gli occhi e guardò fuori dal finestrino con un’espressione dolorante. Parlò con una voce appena udibile. «Non ho detto questo… Lei guarda la faccenda nel modo sbagliato, nella direzione sbagliata.»

Lisa capì che Anna era troppo stanca per continuare. Avevano tutti bisogno di dormire un po’. Ma c’era un’ultima domanda in sospeso. «Che cosa fa la Campana?»

Anna abbassò la mano e guardò prima Painter, poi Lisa. «La Campana è il primo e ultimo strumento di misurazione dei quanti.»

Lisa trattenne il fiato, ponderando quella risposta.

«Il campo che essa produce, se si riuscisse a controllarlo, ha la capacità non soltanto di far evolvere il DNA in una forma perfetta, ma di condurre anche l’umanità alla perfezione.»

«E noi?» chiese Painter. Dalla sua espressione era evidente che non era impressionato dall’ardore della donna. «Lei e io? In che modo ciò che ci sta accadendo somiglia alla perfezione?»

La luce negli occhi di Anna si spense, smorzata dalla stanchezza e dalla sconfitta. «Per quanto la Campana detenga il potenziale dell’evoluzione, nelle sue onde quantiche si nasconde anche il contrario.»

«Il contrario?»

«La malattìa che ha colpito le nostre cellule…» Anna distolse lo sguardo. «Non è soltanto una degenerazione, è involuzione.»

Painter la fissò, esterrefatto.

La voce della donna divenne un roco sussurro. «I nostri corpi stanno regredendo al brodo primordiale dal quale siamo provenuti.»


Sudafrica,

ore 05.05


Fu svegliato dalle scimmie.

Scimmie?

Quella stranezza fu sufficiente a liberarlo dalla sonnolenza. Gray si sollevò e, mentre cercava di dare un senso a ciò che lo circondava, i ricordi cominciarono ad affiorare.

Era vivo. In una cella.

Ricordò il gas, il museo di Wewelsburg, il suo bluff. Aveva bruciato la Bibbia di Darwin, sostenendo che conteneva un segreto di cui soltanto lui era a conoscenza. Sperava che la prudenza avrebbe avuto la meglio sulla vendetta. Evidentemente era andata così. Era vivo. Ma dov’erano Monk, Fiona e Ryan?

Gray scandagliò la cella: una branda, un gabinetto, un box doccia aperto, niente finestre. La porta, composta di sbarre di ferro, dava su un corridoio illuminato da lampade al neon.

Qualcuno lo aveva spogliato completamente, ma c’era una pigna ordinata di vestiti su una sedia avvitata ai piedi del letto.

Scostò la coperta e si alzò. Aveva una vaga sensazione di nausea e si sentiva i polmoni pesanti, raschiati. Erano i postumi dell’avvelenamento. Si accorse anche di un dolore profondo alla coscia. Aveva un livido grande quanto un pugno sul fianco. Tastandolo, sentì le croste di alcune punture di ago. Aveva anche un cerotto sul dorso della mano. Gli avevano applicato una flebo? Evidentemente qualcuno lo aveva curato, salvandogli la vita.

In lontananza sentì ancora una serie di grida e richiami: scimmie.

Non erano suoni provenienti da una gabbia. Sembrava il risveglio del mondo naturale.

Ma quale mondo? L’aria era più asciutta, più calda, e aveva un odore muschiato, selvatico. Si trovava in un clima molto più temperato. Forse da qualche parte in Africa. Per quanto tempo era rimasto incosciente? Non gli avevano lasciato un orologio per vedere l’ora, e tantomeno poteva sapere che giorno era. Aveva l’impressione che non fossero trascorse più di ventiquattr’ore, ma, a giudicare dalla peluria ispida che gli stava crescendo sul mento, non era stato nemmeno soltanto un breve sonnellino.

Si diresse verso la porta e fece per prendere i vestiti. I suoi movimenti attirarono l’attenzione di qualcuno.

Dalla parte opposta del corridoio, Monk si avvicinò alle sbarre della sua cella.

Gray provò un moto di sollievo, vedendo che il suo compagno era vivo. «Grazie a Dio…»

«Stai bene?»

«Un po’ intontito, ma sta passando.»

Monk era già vestito. Indossava una tuta bianca, identica a quella che avevano lasciato per lui. Gray se la infilò.

Il suo amico alzò il braccio sinistro, mostrando il moncherino e i biocontatti di titanio che normalmente collegavano il braccio alla protesi. «I bastardi si sono presi anche la mia dannatissima mano.»

Ma la scomparsa della protesi di Monk era l’ultima delle loro preoccupazioni. Anzi poteva essere persino un vantaggio.

«Fiona e Ryan?»

«Non ne ho idea. Potrebbero essere qui, in un’altra cella, oppure in un posto completamente diverso.»

Oppure morti, aggiunse Gray, tra sé.

«E ora che si fa, capo?» chiese Monk.

«Non abbiamo molta scelta. Aspettiamo che i nostri carcerieri facciano la prima mossa. Vogliono le informazioni di cui siamo in possesso. Vedremo che cosa riusciremo a ottenere in cambio.»

Monk annuì. Sapeva che Gray aveva bluffato, al castello, e che dovevano continuare il gioco. Era probabile che le celle fossero sorvegliate.

Il sospetto fu confermato dal rumore metallico di una porta che si apriva, in fondo al corridoio.

Il suono dei passi che si avvicinavano faceva pensare a un folto gruppo di persone.

Ben presto videro che si trattava di guardie con uniformi mimetiche verdi e nere, guidate dall’uomo alto dai capelli biondo platino e dalla carnagione chiara: il compratore dell’asta. Azzimato come al solito, portava pantaloni neri di twill e una camicia di lino ben stirata, anch’essa nera, mocassini bianchi di pelle e un cardigan di cachemire bianco. Sembrava abbigliato per una festa in giardino.

Le dieci guardie che lo accompagnavano si divisero in due gruppi, ciascuno diretto a una delle celle. Gray e Monk furono scortati fuori, a piedi nudi, le braccia legate dietro la schiena con lacci di plastica. Il capo si parò davanti a loro, puntando gli occhi di ghiaccio su Gray.

«Buongiorno», disse con affettazione, come se fosse attento alle telecamere nei corridoi, consapevole di essere osservato. «Mio nonno desidera incontrarvi.»

Nonostante la cortesia con cui furono pronunciate, quelle parole erano scolpite in una rabbia estrema e celavano una promessa di sofferenza. L’uomo si era visto negare la sua preda e ora aspettava l’occasione propizia. Ma qual era la vera fonte della sua ira? La morte del fratello oppure il fatto che Gray fosse stato più furbo di lui, a Wewelsburg? In un modo o nell’altro, dietro i modi affettati e la cortesia si celava una furia selvaggia.

«Da questa parte.» Si voltò e fece strada lungo il corridoio, seguito dalla scorta, da Gray e da Monk. Mentre procedevano, Gray scrutava le celle: erano vuote, non c’era traccia di Fiona e Ryan. Erano ancora vivi?

Il corridoio terminava con tre gradini, che conducevano a una porta d’acciaio. Era aperta e sorvegliata.

Uscendo, Gray si ritrovò in una sorta di paese delle meraviglie, una giungla oscura e verdeggiante, con rampicanti spinose e orchidee in fiore. La fitta vegetazione nascondeva il cielo, ma Gray intuiva che non era ancora l’alba. Più avanti, lampioni neri in stile vittoriano incorniciavano i sentieri che s’inoltravano nella giungla selvaggia. I cinguettìi e i richiami degli uccelli si mescolavano al ronzio degli insetti. Una scimmia, nascosta in cima al tetto di foglie, annunciò il loro passaggio con un richiamo staccato, simile a una serie di colpi di tosse. L’allarme svegliò un uccello dalle piume rosso fuoco, che prese il volo tra i rami più bassi.

«Africa», mormorò Monk. «Subsahariana, come minimo. Forse equatoriale.»

Gray presumeva che fosse la mattina del giorno seguente. Aveva perso dalle diciotto alle venti ore. Perciò potevano essere in qualsiasi parte dell’Africa. Ma dove, esattamente?

Le guardie li scortarono lungo un sentiero di ghiaia. Gray sentiva i passi morbidi e misurati di qualcosa di grosso che si faceva strada nella boscaglia, a qualche metro da loro. Sebbene fosse così vicino, però, non se ne intravedeva nemmeno la forma. Se fossero riusciti a fuggire, la fitta vegetazione avrebbe rappresentato un ottimo nascondiglio.

Ma non ci fu nemmeno un’opportunità. Il sentiero terminava a soltanto cinquanta metri di distanza.

Ancora qualche passo e la foresta scomparve attorno a loro, lasciando il posto a un prato ben curato e illuminato, un giardino con laghetti, ruscelli e cascate. L’acqua scorreva, gocciolava, gorgogliava, danzava. Un’antilope dalle lunghe corna alzò la testa al loro passaggio, si bloccò per un istante, poi si mise in fuga, scomparendo a grandi balzi nella foresta.

Sopra le loro teste, il cielo era punteggiato di stelle, ma verso est un bagliore rosa pallido accennava l’arrivo del mattino, forse a un’ora di distanza.

Ma un’altra vista attirò lo sguardo di Gray e assorbì interamente la sua attenzione. Al di là del giardino si ergeva un palazzo di sei piani. Costruito in pietra e legname, gli ricordava la Ahwahnee Lodge di Yosemite, ma era molto più imponente, wagneriano, una sorta di Versailles della giungla. Doveva avere una superficie di quarantamila metri quadrati e abbondava di timpani, balconi e balaustrate. Sulla sinistra c’era una serra di vetro, illuminata dall’interno, che nell’oscurità brillava come un sole nascente.

L’opulenza di quel luogo era sbalorditiva.

Si diressero verso il maniero percorrendo un sentiero di pietra che attraversava il giardino, oltrepassando alcuni stagni e ruscelli. Un serpente lungo due metri strisciava su uno dei ponti di pietra: quando sollevò la testa, aprì a ventaglio la sua corona.

Un cobra reale.

Il serpente fece la guardia al ponte, finché l’uomo biondo platino non staccò una lunga canna dal letto del ruscello e lo scacciò via, come se fosse un gatto indisciplinato. Il serpente sibilò, mostrando i denti, ma poi batté in ritirata, scendendo dal ponte con movimenti sinuosi e scivolando nelle acque buie.

Proseguirono, per nulla turbati. Gray allungò lentamente il collo, mentre si avvicinavano al palazzo, notando un’altra stravaganza dell’edificio. Dai piani superiori si dipartivano ponti sospesi di legno, che conducevano alle cime degli alberi. Insomma, gli ospiti avevano un accesso diretto al tetto della giungla. Anch’essi muniti di lampade, quei sentieri sospesi creavano intere costellazioni nell’oscurità della giungla. Gray girò su se stesso mentre camminava. Le luci brillavano tutt’attorno.

«Attenzione», mormorò Monk, accennando col capo un punto a sinistra.

Su uno dei ponti sospesi, la figura di una guardia con un fucile si stagliò contro la luce dei lampioni. Gray lanciò uno sguardo a Monk. Dovevano essercene delle altre. Poteva esserci un intero esercito nascosto tra le fronde. Una fuga sembrava sempre meno probabile.

Infine raggiunsero una scalinata che conduceva a una grande veranda, costruita con legno di albero-zebra lucidato. Lì li attendeva una donna, la gemella del loro accompagnatore, abbigliata con pari eleganza. L’uomo si fece avanti e la baciò su entrambe le guance.

Le parlò in olandese. Gray non parlava correntemente quella lingua, ma la conosceva abbastanza per capire il senso delle loro parole.

«Sono pronti gli altri, Ischke?» chiese l’uomo.

«Aspettiamo soltanto le istruzioni di grootvader», rispose lei, indicando la serra illuminata, all’altra estremità della veranda. «Poi la caccia può cominciare.»

Gray si sforzò di dare un senso a quelle parole, ma non aveva neanche un indizio.

Con un pesante sospiro, l’uomo si voltò verso di loro, aggiustandosi una ciocca di capelli. «Mio nonno vi riceverà nella serra.» S’incamminò in quella direzione, attraverso la veranda. «Gli parlerete a modo e con rispetto, altrimenti mi occuperò personalmente di farvi pentire di ogni vostra irriverenza.»

«Isaak…» lo interpellò la donna.

Lui si fermò e si voltò. «Ja, Ischke?»

Lei gli parlò nuovamente in olandese. «De jongen en het meisje? Dobbiamo portarli fuori adesso?»

Per risposta ebbe un cenno d’assenso, seguito da un ordine in olandese.

Mentre Gray traduceva tra sé l’ultima frase, dovettero trascinarlo a forza per smuoverlo. Lanciò uno sguardo alla donna, che stava scomparendo dentro la casa, alle sue spalle.

De jongen en het meisje. Il ragazzo e la ragazza. Doveva trattarsi di Ryan e Fiona. Erano ancora vivi. Gray trovò confortante quella rivelazione, ma le ultime parole di Isaak lo avevano fatto raggelare.

Insanguinateli, prima.


In volo sull’Africa,

ore 05.18


Painter era seduto con una penna in mano. L’unico rumore nell’aeroplano era il russare di Gunther. L’uomo sembrava non curarsi dei pericoli cui stavano andando incontro. D’altra parte, Gunther non aveva il loro limite di tempo: sebbene tutti e tre stessero viaggiando verso l’involuzione, Anna e Painter erano nella corsia di sorpasso.

Non riuscendo a chiudere occhio, Painter ne aveva approfittato per esaminare la storia del clan dei Waalenberg, raccogliendo tutte le informazioni possibili su quella famiglia.

Conoscere il nemico.

I primi Waalenberg che si erano stabiliti in Africa vi erano giunti via Algeri nel 1617. Con orgoglio, la famiglia faceva risalire la propria storia ai crudeli pirati della Barberia, lungo la costa nordafricana. Il primo Waalenberg era secondo capo timoniere del famoso pirata Sleyman Reis De Veenboer, che comandava un’intera flotta olandese di navi corsare al largo di Algeri.

Arricchitisi col commercio di schiavi, i Waalenberg si erano poi trasferiti a sud, stabilendosi nella grande colonia al capo di Buona Speranza. Ma non smisero di praticare la pirateria: la trasferirono semplicemente sulla terraferma. Si assicurarono il controllo della popolazione d’immigrati olandesi, così, quando fu scoperto l’oro in quegli insediamenti, erano stati i Waalenberg a trarne i maggiori vantaggi. E l’oro non era poco. Il Witwatersrand, una bassa catena montuosa nei pressi di Johannesburg, rappresentava il quaranta percento della produzione mondiale d’oro. Sebbene non fosse famoso quanto le famose miniere di diamanti dei De Beers, l’oro del «Rand» era uno dei tesori più preziosi del mondo.

Era stato su quella ricchezza che la famiglia aveva fondato una dinastia capace di superare indenne la prima e la seconda guerra boera, e tutte le macchinazioni politiche che avevano portato alla nascita della repubblica sudafricana. La famiglia Waalenberg era una delle più ricche del pianeta, anche se negli ultimi decenni si era appartata sempre di più, soprattutto sotto la guida dell’ultimo patriarca, Baldric Waaleneberg. Mentre le loro apparizioni in pubblico diminuivano, erano cominciate a diffondersi voci di atrocità, perversioni, tossicodipendenza, matrimoni tra consanguinei. Tuttavia i Waalenberg avevano continuato ad arricchirsi, con interessi nel campo dei diamanti, del petrolio, della petrolchimica e della farmaceutica. Erano diventati una multinazionale.

Era possibile che ci fossero loro dietro gli eventi del Granitschloß?

Avevano sicuramente il potere e le risorse necessari. E il tatuaggio che Painter aveva notato sull’assassina bionda assomigliava alla «Croce» dello stemma dei Waalenberg. E poi c’erano i gemelli, Isaak e Ischke. Qual era lo scopo del loro viaggio in Europa?

Molte domande senza risposta.

Painter girò una pagina e picchiettò la penna sullo stemma di famiglia. C’era qualcosa in quel simbolo…

Logan non aveva fornito informazioni soltanto sulla storia dei Waalenberg, ma anche sul simbolo. Risaliva ai celti, altra tribù nordica. Il simbolo, un emblema del sole, ornava spesso gli scudi celtici e si era perciò conquistato l’appellativo di nodo dello scudo.

Painter fermò la mano.

Nodo dello scudo.

Gli sovvennero le parole pronunciate da Klaus in punto di morte, la maledizione che aveva lanciato contro tutti loro: Morirete tutti! Strangolati, quando il nodo sarà stretto!

Painter aveva creduto che Klaus si riferisse a un cappio metaforico. E se invece avesse fatto riferimento a quel simbolo?

Quando il nodo sarà stretto.

Guardando lo stemma dei Waalenberg, Painter si mise a scarabocchiare sul retro di un fax. Ridisegnò il simbolo come se qualcuno avesse stretto il nodo, avvicinando le asole, come quando si allacciano le scarpe.

«Che fai?» chiese Lisa, materializzandosi alle sue spalle.

Preso di soprassalto, Painter strisciò la penna sul foglio, che quasi si strappò. «Buon Dio, ragazza, la smetteresti di piombarmi addosso di soppiatto in questo modo, per favore?»

Sbadigliando, Lisa si appollaiò sul bracciolo del sedile di Painter e gli diede una pacca sulla spalla. «Che indole delicata.» Lasciò la mano dov’era, chinandosi verso di lui. «Sul serio, che cosa stai disegnando?»

Painter non poté fare a meno di notare che il seno della donna gli sfiorava la guancia. Si schiarì la voce e ritornò al suo schizzo. «Stavo soltanto giocando un po’ col simbolo che abbiamo trovato sulla mano dell’assassina. Un altro dei miei agenti l’ha visto su un paio di Sonnenkönige in Europa. Due gemelli, nipoti di Baldric Waalenberg. Dev’essere importante, forse è un indizio che abbiamo trascurato.»

«O forse al vecchio bastardo piace marchiare a fuoco la sua progenie, come si fa col bestiame. A quanto pare, per lui è solo un altro tipo di allevamento e selezione.»

Painter annuì. «Mi sono ricordato di ciò che ha detto Klaus: ha parlato di un nodo che si stringe, come un segreto mai svelato.»

Finì il disegno, poi mise il nodo originale e quello stretto l’uno accanto all’altro.



Studiò i disegni e si rese conto delle implicazioni.

Lisa evidentemente notò l’alterazione del suo respiro. «Che c’è?»

Lui indicò il secondo disegno con la penna. «Non mi stupisce il fatto che Klaus fosse passato dalla loro parte. E forse questo spiega anche perché i Waalenberg si sono isolati così tanto negli ultimi anni.»

«Non capisco.»

«Non abbiamo a che fare con un nuovo nemico. È sempre lo stesso.»

Painter ripassò il centro del nodo, rivelandone il cuore segreto.



Lisa trasalì. «Una svastica.»

Painter guardò il gigante assopito e sua sorella. Sospirò. «Altri nazisti.»


Sudafrica,

ore 06.04


La serra doveva essere antica quanto la casa. Aveva vetrate piombate deformate dal sole africano, con una cornice di ferro nera che ricordava una ragnatela. All’interno, la condensa offuscava la vista dell’impenetrabile giungla oscura che circondava la struttura.

Non appena entrato, Gray fu colpito dall’umidità, che probabilmente era prossima al cento percento. La tuta di cotone leggero gli si appiccicò addosso. D’altra parte la serra non era pensata per il suo comfort: dava riparo a una profusione sfrenata di piante di tutti i tipi. L’aria profumava di centinaia di fiori. Al centro, una piccola fontana di pietra e bambù gorgheggiava pacifica. Era un bel giardino, ma Gray si chiedeva chi, vivendo in Africa, potesse avere bisogno di una serra.

Ben presto si ritrovò di fronte la risposta.

In piedi su un livello rialzato, c’era un signore dai capelli bianchi, con un paio di forbici in una mano e una pinzetta in un’altra. Con l’abilità di un chirurgo, si chinò su un bonsai, un piccolo prugno in fiore, e recise un rametto. Poi si raddrizzò con un sospiro di soddisfazione.

L’albero sembrava molto vecchio, ed era legato col filo di rame. Era carico di fiori, tutti perfettamente simmetrici, in equilibrio e armonia.

«Ha duecentoventidue anni», disse il vecchio, ammirando il proprio operato. Aveva un accento molto forte, sembrava il nonno di Heidi, gli mancava solo il panciotto. «Era già vecchia quando l’imperatore Hirohito in persona me la donò, nel 1941.»

Posò i suoi attrezzi e si girò. Indossava un grembiule bianco sopra un abito blu marina, con una cravatta rossa. Tese una mano al nipote. «Isaak, tevreden…»

Il giovane si precipitò ad aiutare il vecchio a scendere, guadagnandosi una pacca sulla spalla. Il vecchio si tolse il grembiule, recuperò un bastone nero e vi si appoggiò. Gray notò lo stemma prominente sulla corona d’argento del bastone. Una W in filigrana sormontava il familiare simbolo a forma di quadrifoglio, la stessa icona che i gemelli, Ischke e Isaak, avevano tatuata sul polso.

«Sono Baldric Waalenberg», si presentò il patriarca, guardando Gray e Monk. «Se mi farete la cortesia di unirvi a me nel salone, avremo molto di cui parlare.»

Si girò e si diresse ticchettando verso il fondo della serra. Portava appeso al collo un paio d’occhiali con una catena d’argento e un monocolo da gioielliere applicato su una lente.

Mentre avanzavano sul pavimento d’ardesia, Gray notò che la flora della serra era organizzata per sezioni: alberi e arbusti bonsai, un giardino di felci e, infine, una zona dedicata alle orchidee.

Il vecchio si accorse dell’interessamento di Gray. «Coltivo Phalenopsis da sessant’anni.» Si fermò accanto a uno stelo molto alto, con fiori di una tonalità di viola simile a un livido.

«Carina», commentò Monk, con evidente sarcasmo.

Issak lo fulminò con lo sguardo.

Il vecchio lo ignorò. «Ma l’orchidea nera mi sfugge. È il Santo Graal di chi seleziona orchidee. Io ci sono andato molto vicino, ma sotto la lente d’ingrandimento si vede ancora qualche striscia viola, invece che un color ebano compatto.»

Toccando distrattamente il monocolo da gioielliere, l’uomo proseguì.

Gray capì finalmente quale fosse la differenza tra la giungla e il vivaio: lì la natura non era una bellezza da godere, ma qualcosa da dominare. Sotto la volta della serra era tutto un recidere, reprimere e selezionare; la crescita era controllata col filo di rame per bonsai, l’impollinazione era orchestrata dalla mano dell’uomo.

Arrivati in fondo alla serra, attraversarono una porta a vetri colorati e raggiunsero un piccolo salottino con mobili di rattan e mogano, una nicchia scavata in un fianco della casa. Da lì si poteva accedere al palazzo passando per una porta a due battenti, insonorizzata con fasce di materiale isolante.

Baldric Waalenberg si accomodò su una poltrona antica, con lo schienale avvolgente.

Isaak si avvicinò a una scrivania sulla quale c’era un computer HP: lo schermo a cristalli liquidi era appeso alla parete. Lì accanto c’era una lavagna, sulla quale era stata scritta col gesso una serie di simboli. Erano rune, constatò Gray, notando che l’ultima era la Menschrune della Bibbia di Darwin.



Senza darlo a vedere, Gray le contò e le memorizzò. Cinque rune, cinque libri: era la serie completa delle rune di Hugo Hirszfeld. Ma che cosa significavano? Quale segreta verità era troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata?

Il vecchio posò le mani in grembo e fece un cenno a Isaak, il quale premette un tasto del computer: sullo schermo comparve un’immagine ad alta definizione. Nella giungla c’era una grande gabbia sospesa, suddivisa in due parti, in ciascuna delle quali stava raggomitolata una minuscola figura.

Gray fece un passo avanti, ma una guardia lo fermò, puntandogli contro il fucile. Una delle figure alzò la testa, mostrando il volto sotto la luce di un riflettore.

Era Fiona.

Nell’altra metà della gabbia c’era Ryan.

Fiona aveva la mano sinistra bendata, avvolta nel bordo della camicia. Il tessuto era macchiato di un colore scuro. Ryan teneva la mano destra premuta sotto l’ascella. Insanguinateli, prima. Quella stronza doveva aver tagliato loro le mani. Gray pregò che si fossero fermati lì. Sentì una furia cieca scavargli il petto. Il cuore gli batteva forte e gli si acuì la vista.

«Ora parliamo, va bene?» disse il vecchio, con un caldo sorriso. «Da bravi gentiluomini.»

Gray lo guardò, continuando però a sbirciare lo schermo. Alla faccia della gentilezza. «Che cosa vuole sapere?»

«Cos’altro avete trovato nella Bibbia.»

«E li libererete?»

«E io voglio indietro la mia dannata mano!» sbottò Monk.

Gray guardò l’amico e poi ancora il vecchio.

Baldric si voltò verso Isaak, che a sua volta fece un cenno a una delle guardie e urlò un ordine in olandese. La guardia girò i tacchi ed entrò nel palazzo.

«Non c’è bisogno di ulteriori sgradevolezze. Sarete trattati tutti bene, se coopererete. Avete la mia parola.»

Gray non vedeva nessun vantaggio nel proseguire il braccio di ferro, soprattutto perché non aveva nulla di buono da offrire, se non menzogne. Accennò ai polsi legati. «Dovrò mostrarvi ciò che abbiamo trovato. Non sono in grado di descriverlo precisamente a parole. È un altro simbolo, come quelli lì.»

Un altro cenno del capo e, dopo un istante, Gray era libero. Si sfregò i polsi e si avvicinò alla lavagna. Gli furono puntati contro diversi fucili.

Doveva disegnare qualcosa di convincente, ma non conosceva più di tanto le rune. Si ricordò della teiera di Himmler che aveva visto al museo. Era decorata con un simbolo runico. Pensò che fosse abbastanza criptico e, sperava, convincente. Magari avrebbe anche messo il bastone tra le ruote a quella gente, ritardando la soluzione del mistero.

Prese un gessetto e disegnò il simbolo.



Baldric si sporse in avanti, strizzando gli occhi. «Una ruota solare, interessante.»

Gray era rimasto accanto alla lavagna, col gesso in mano, come uno studente in attesa del verdetto dell’insegnante su un problema matematico.

«E questo è quanto avete trovato nella Bibbia di Darwin?» chiese Baldric.

Con la coda dell’occhio, Gray notò un sorriso accennato sul volto di Isaak.

Non stava andando per il verso giusto.

Baldric aspettava che Gray gli rispondesse.

«Lasciateli andare, prima», pretese Gray, indicando il monitor con un cenno del capo.

Il vecchio lo fissò negli occhi. Nonostante l’atteggiamento dissimulatorio, Gray riconobbe un’intelligenza sfrenata e un senso di crudeltà.

Il vecchio si stava divertendo un mondo. Poi pose fine allo stallo, rivolgendosi al nipote con un cenno.

«Wie eerst?» chiese Isaak. Chi per primo?

Gray s’irrigidì. Decisamente non stava andando per il verso giusto.

Baldric rispose in inglese, fissando ancora Gray, per godersi appieno lo spettacolo. «Il ragazzo, penso. La ragazza la teniamo in serbo per dopo.»

Isaak digitò un comando sulla tastiera.

Sullo schermo si vide una botola aprirsi sotto i piedi di Ryan. Il ragazzo cadde agitando le braccia e urlando, anche se loro non lo sentirono. Atterrò pesantemente tra l’erba alta e si alzò in fretta, guardandosi attorno terrorizzato. Evidentemente era consapevole di un pericolo che Gray ignorava, forse qualcosa che era attirato dal sangue che colava dalla ferita.

Gray sentì riecheggiare nella mente le parole di Ischke: Aspettiamo soltanto le istruzioni di grootvader… Poi la caccia può cominciare.

Quale caccia?

Baldric fece un cenno a Isaak, mimando la rotazione di una manopola.

Isaak premette un tasto e dagli altoparlanti proruppero grida e urla.

Si sentì chiaramente la voce di Fiona. «Corri, Ryan! Sali su un albero!»

Il ragazzo girò in tondo un’altra volta, poi si mise a correre, zoppicando, uscendo dall’inquadratura.

Gray sentì qualcuno ridere, probabilmente guardie non riprese dalla telecamera. Poi dagli altoparlanti provenne un urlo diverso, selvaggio e assetato di sangue.

Baldric mimò un taglio netto all’altezza della gola e l’audio fu azzerato.

«Non alleviamo soltanto orchidee, qui, comandante Pierce», disse il vecchio, abbandonando ogni finta cortesia.

«Lei ci aveva dato la sua parola», disse Gray.

«Se aveste cooperato!» ribatté Baldric, alzandosi con disinvoltura. Indicando la lavagna, fece un gesto con la mano, come a cancellare il disegno. «Ci ha preso per degli idioti? Sapevamo già che non c’era nient’altro nella Bibbia di Darwin. Abbiamo già tutto ciò che ci serve. Questa era soltanto una prova, una dimostrazione. Vi abbiamo portato qui per altri motivi, altre domande che richiedono una risposta.»

Quella rivelazione lasciò sbalordito Gray, che finalmente capì. «Il gas…»

«Serviva solo per stordirvi, non per uccidervi. La sua piccola messa in scena è stata divertente, però, lo devo ammettere. Adesso è ora di proseguire.»

Baldric si avvicinò allo schermo montato sulla parete. «Lei è protettivo con questa piccolina, vero? Questo fiorellino tutto pepe. Zeer goed. Le mostrerò che cosa l’attende nella foresta.»

Un cenno del capo, un tasto premuto e sul monitor comparve un riquadro con un’altra immagine. Gray sgranò gli occhi per il terrore.

Baldric proseguì. «Vogliamo sapere qualcosa di più su un certo suo complice. Ma volevo essere sicuro che i giochetti fossero finiti. Oppure le serve un’altra dimostrazione?»

Gray continuava a fissare l’immagine sullo schermo, sconfitto. «Chi?»

Baldric gli si avvicinò. «Il suo capo: Painter Crowe.»

12. UKUFA

Richards Bay, Sudafrica,

ore 06.19


Lisa si accorse che a Painter tremavano le gambe, mentre saliva i gradini d’ingresso alla sede locale della British Telecom International. C’erano andati per incontrare un agente britannico, che li avrebbe aiutati dal punto di vista logistico in un eventuale attacco alla tenuta dei Waalenberg. Erano arrivati dopo un breve viaggio in taxi dall’aeroporto di Richards Bay, importante centro portuale lungo la costa sudafricana, a un’ora di automobile dalla tenuta dei Waalenberg.

Painter si aggrappò alla balaustra, lasciando un’impronta umida. Lisa lo tenne per un braccio e lo aiutò a salire l’ultimo gradino.

«Ce la faccio da me», disse lui, con tono seccato.

Lei non reagì a quell’espressione di rabbia, sapeva che era dovuta alla frustrazione. In più, Painter era in preda a dolori atroci e aveva continuato a ingoiare pastiglie di codeina come se fossero M M’s.

Lisa si era illusa che durante il viaggio in aereo Painter potesse recuperare in parte le forze, ma la mezza giornata di volo non aveva fatto altro che peggiorare la sua debilitazione, o involuzione, a dare retta ad Anna.

La donna tedesca e suo fratello erano rimasti all’aeroporto, sotto sorveglianza. Non che fosse davvero necessario. Anna aveva trascorso l’ultima ora del viaggio a vomitare nel bagno del jet. L’ultima volta che li avevano visti, la donna era distesa sul divano tra le braccia di Gunther, con un panno bagnato sulla fronte. Aveva l’occhio sinistro iniettato di sangue e un brutto livido sull’altro. Lisa le aveva dato un antiemetico per la nausea e le aveva fatto un’iniezione di morfina. Non l’aveva detto a nessuno, ma prevedeva che Anna e Painter avessero davanti al massimo un altro giorno, prima che svanisse ogni speranza di cura.

Il maggiore Brooks, che era il solo a scortarli, aprì loro la porta, tenendo sempre d’occhio la strada, ma c’era ben poco movimento a quell’ora del mattino.

Painter entrò, con movimenti rigidi e impacciati, sforzandosi di nascondere l’andatura claudicante. Lisa lo seguì. Dopo qualche minuto, furono accompagnati a una sala conferenze, passando per un grande labirinto grigio di cubicoli e uffici. La sala era vuota. Dalle finestre si vedeva la laguna di Richards Bay. A nord c’era un porto industriale, pieno di gru e navi mercantili. A sud, separata da una diga marittima, si estendeva una parte della laguna originaria, diventata una riserva naturale, che ospitava coccodrilli, squali, ippopotami, pellicani, cormorani e gli onnipresenti fenicotteri.

Lo specchio d’acqua si stava infiammando dei colori dell’alba.

Mentre aspettavano, furono serviti tè e scone, le classiche focaccine inglesi. Painter si era già messo a sedere, e Lisa fece altrettanto. Il maggiore Brooks rimase in piedi, non lontano dalla porta.

Painter lesse una domanda nell’espressione di Lisa. «Sto bene.»

«No, non stai bene», ribatté lei sottovoce.

Per qualche motivo, quella stanza vuota la intimidiva. Lui le sorrise, con uno scintillio negli occhi. Nonostante la degenerazione del suo organismo, era ancora in sé. Si era accorta che biascicava leggermente, ma poteva essere semplicemente l’effetto dei farmaci. Sarebbe rimasto lucido fino all’ultimo?

Con un gesto quasi automatico, la mano di lei cercò la sua. Lisa non voleva che se ne andasse. Si sorprese dell’intensità schiacciante di quell’emozione. Lo conosceva appena. Voleva sapere tutto di lui: qual era il suo cibo preferito, che cosa lo faceva sbellicare dalle risate, come ballava, che cosa le avrebbe sussurrato all’orecchio dandole la buonanotte. Non voleva che svanisse tutto quanto. Gli strinse forte la mano, come se la sua sola volontà bastasse a trattenerlo.

In quel momento, la porta della sala si aprì di nuovo. Finalmente era arrivato l’agente britannico.

Lisa si voltò a guardare e rimase sorpresa. Si aspettava una specie di clone di James Bond, una spia in piena regola, con tanto di abito Armani. Invece era una donna di mezza età. Era vestita con una tenuta da safari kaki stropicciata e aveva in mano un cappello spiegazzato. Il viso era leggermente impolverato di terra rossa, tranne che attorno agli occhi: probabilmente aveva indossato un paio d’occhiali da sole fino a poco prima. Ne risultava un’espressione allarmata, che però era in contrasto con le spalle cascanti e stanche e una certa tristezza nello sguardo…

«Sono la dottoressa Paula Kane», si presentò, salutando con un cenno del capo il maggiore Brooks e poi raggiungendo loro due al tavolo. «Non abbiamo molto tempo.»


Painter si era alzato in piedi per guardare la schiera di fotografie satellitari sparpagliate sul tavolo. «Quando sono state scattate?»

«Ieri sera, al crepuscolo», rispose Paula.

La donna aveva già spiegato quale fosse il suo ruolo. Dopo il dottorato in biologia, era stata reclutata dall’intelligence britannica e dislocata in Sudafrica. Lei e una collega gestivano una serie di progetti di ricerca, ma allo stesso tempo monitoravano in segreto la tenuta dei Waalenberg. Spiavano quella famiglia da circa un decennio, finché, un paio di giorni prima, non era avvenuta una tragedia. La sua collega era stata uccisa in circostanze poco chiare. Assalita da alcune leonesse, secondo la versione ufficiale. Ma lei non ne era per nulla convinta.

«Abbiamo fatto una ripresa agli infrarossi dopo mezzanotte», proseguì Paula, «ma c’è stato un malfunzionamento e abbiamo perso l’immagine.»

Painter fissava le foto, esterrefatto dall’enorme estensione della tenuta: oltre cinquantamila ettari. Si distingueva una piccola pista d’atterraggio, che apriva un varco nella giungla. Un paesaggio di altopiani boscosi, vaste savane e giungla fitta era cosparso di piccoli fabbricati. Al centro della parte più densa della foresta, si ergeva un castello di legno e pietra: la residenza dei Waalenberg.

«Non abbiamo una vista migliore dell’area attorno al palazzo?»

Paula scosse la testa. «È coperta da una densa vegetazione afromontana, una giungla secolare che ormai ha pochi equivalenti in Sudafrica. I Waalenberg hanno scelto questa posizione per la loro tenuta sia perché era isolata sia per accaparrarsi questa enorme foresta, formata da alberi alti quaranta metri, con chiome fitte e stratificate a diverse altezze. All’ombra di quelle fronde c’è una biodiversità maggiore che nella giungla congolese o in qualsiasi foresta pluviale.»

«Ed è una copertura perfetta», commentò Painter.

«Ciò che succede là sotto lo sanno soltanto i Waalenberg. Ma noi sappiamo che le tecnologie di cui pullula il palazzo sono soltanto la punta di un iceberg: sotto la tenuta c’è un vasto complesso sotterraneo.»

«A quale profondità?» chiese Painter, scambiando una breve occhiata con Lisa. Se facevano esperimenti con la Campana, sicuramente l’avevano sepolta nelle viscere della terra.

«Non lo sappiamo con certezza. Ma i Waalenberg hanno fatto fortuna con le miniere d’oro.»

«A Witwatersrand.»

«Esatto. Vedo che si è documentato. Le conoscenze in campo minerario sono tornate utili per costruire un complesso sotterraneo sotto il palazzo. Sappiamo che l’ingegnere minerario Bertrand Culbert venne consultato per la costruzione delle fondamenta dell’edificio, ma morì poco tempo dopo.»

«Vediamo se indovino: in circostanze misteriose.»

«Calpestato da un bufalo. Ma la sua non è stata né la prima né l’ultima morte associata ai Waalenberg.» Al ricordo della sua compagna, lo sguardo le si riempì di dolore. «Abbondano le voci di misteriose scomparse nell’area.»

«Eppure nessuno ha ancora emesso un mandato per perquisire la tenuta.»

«Deve capire quanto sono fragili le istituzioni sudafricane. I regimi cambiano, ma quello che ha sempre dominato, qui, è l’oro. I Waalenberg sono intoccabili. L’oro li protegge meglio di qualsiasi fossato o esercito privato.»

«E voi?» chiese Painter. «Che interessi ha l’MI5, qui?»

«I nostri interessi hanno una storia molto lunga, temo. L’intelligence britannica tiene d’occhio i Waalenberg già dalla fine della seconda guerra mondiale.»

Painter si rimise a sedere, stanco. Aveva difficoltà a mettere a fuoco da un occhio. Se lo sfregò, poi, consapevole dell’attenzione di Lisa, si rivolse di nuovo a Paula. Non le aveva ancora rivelato di aver scoperto il simbolo nazista nascosto al centro dello stemma dei Waalenberg, ma evidentemente l’MI5 conosceva già il collegamento.

«Sapevamo che i Waalenberg erano importanti sostenitori della Ahnenerbe Forschungss-und Lehrgemeinschaft, la società per la ricerca e la diffusione del patrimonio storico nazista. Ne ha mai sentito parlare?»

Painter scosse la testa, il che gli procurò una fitta di dolore. Ultimamente l’emicrania si era diffusa al collo e all’intera colonna vertebrale. Sopportò la sofferenza a denti stretti.

«La società per il patrimonio storico era un gruppo di ricerca guidato da Heinrich Himmler, che studiava le radici della razza ariana. È stato anche responsabile di alcune delle più efferate atrocità commesse nei campi di concentramento e in altre strutture segrete. Praticamente erano scienziati pazzi e armati.»

Painter trasalì, ma non era più una questione di dolore fisico. Aveva sentito descrivere la Sigma in termini analoghi. Scienziati armati. Era quello il loro vero nemico? Una versione nazista della Sigma?

«Che interesse avevano i Waalenberg in quel tipo di ricerca?» chiese Lisa.

«Non ne siamo del tutto sicuri, ma c’erano molti simpatizzanti nazisti in Sudafrica durante la guerra. Sappiamo che l’attuale patriarca, Baldric Waalenberg, s’interessava anche di eugenetica e che ha partecipato a conferenze scientifiche in Germania e Austria prima che scoppiassero le ostilità. Dopo la guerra, però, si è ritirato dalla scena, portando con sé l’intera famiglia.»

«È andato a leccarsi le ferite?» chiese Painter.

«Non è quello che pensiamo noi. Dopo la guerra, le forze alleate hanno setacciato la campagna tedesca, alla ricerca delle tecnologie segrete dei nazisti.» Paula scrollò le spalle. «C’erano anche forze britanniche.»

Painter annuì. Pure Anna aveva citato quei saccheggi.

«Ma i nazisti erano stati bravi a far sparire gran parte delle loro tecnologie, facendo terra bruciata: hanno giustiziato scienziati, bombardato impianti e strutture. I nostri sono arrivati in uno di quei siti in Baviera qualche minuto troppo tardi. Hanno trovato uno scienziato in un fosso, con una pallottola nel cranio, ma ancora vivo. Prima di morire ha rivelato qualche indizio utile. I nazisti stavano facendo ricerche su una nuova fonte di energia, scoperta tramite esperimenti quantistici, e avevano fatto importanti progressi: avevano un combustibile di straordinaria potenza.»

Painter e Lisa si scambiarono uno sguardo, ricordando la conversazione fatta con Anna sull’energia del punto zero.

«Qualsiasi cosa avessero scoperto, quella tecnologia è stata trafugata tramite i percorsi segreti creati dai nazisti. Si sa ben poco, tranne il nome della sostanza in questione e il luogo in cui se ne sono perse le tracce.»

«Alla tenuta dei Waalenberg?» tirò a indovinare Lisa.

Paula annuì.

«E il nome della sostanza?» chiese Painter, anche se già conosceva la risposta, avendo messo assieme gli elementi in suo possesso. «Si chiamava Xerum 525?»

Paula gli lanciò un’occhiata penetrante, aggrottando le sopracciglia. «Come fa a saperlo?»

«Il combustibile della Campana», mormorò Lisa, sorpresa.

Tutto tornava. Era il momento di parlare apertamente con la dottoressa Paula Kane.

Painter si alzò. «C’è qualcuno che lei deve conoscere.»


La reazione di Anna non fu meno intensa. «Perciò la formula segreta dello Xerum 525 non è andata perduta? Unglaublich!»

Si erano riuniti in un hangar dell’aeroporto di Richards Bay, mentre due Isuzu Trooper venivano caricati di armi e attrezzature.

Lisa controllava il suo kit medico, mentre ascoltava la discussione in corso tra Painter, Anna e Paula. Gunther era accanto a lei e guardava accigliato la sorella. Anna sembrava più stabile, dopo aver preso le medicine che Lisa le aveva dato. Ma per quanto tempo?

«Mentre la Campana veniva portata a nord da suo nonno, i segreti dello Xerum 525 devono essere stati trasferiti a sud», spiegò Painter ad Anna. «Così sono state divise le due parti dell’esperimento. A un certo punto, i Waalenberg devono essere venuti a sapere che la Campana non era stata distrutta. In quanto finanziatore della società per il patrimonio storico, Baldric Waalenberg doveva essere a conoscenza del Granitschloß.»

Paula era dello stesso parere. «La società era il gruppo che appoggiava le spedizioni di Himmler sull’Himalaya.»

«E, una volta che l’ebbe scoperto, per Baldric dev’essere stato facile infiltrare spie al Granitschloß.»

Anna era impallidita, ma non a causa della malattia. «Il bastardo ci ha usato! Per tutto questo tempo!»

Painter annuì. Baldric Waalenberg aveva orchestrato tutto quanto, manovrando le cose a distanza. Aveva lasciato che gli scienziati del Granitschloß, esperti della Campana, proseguissero le loro ricerche, ma allo stesso tempo le sue spie facevano filtrare le informazioni in Africa.

«In seguito, Baldric deve aver costruito la sua Campana», disse Painter, «sperimentando in segreto, producendo i suoi Sonnenkönige, affinandoli tramite le tecniche avanzate scoperte dai vostri scienziati. Era un’impostazione perfetta. Senza un’altra fonte di Xerum 525, il Granitschloß era vulnerabile, controllato da Baldric Waalenberg a vostra insaputa. In qualsiasi momento, poteva togliervi la terra sotto i piedi.»

«Ed è proprio quello che ha fatto», sbottò Anna.

«Ma perché?» chiese Paula. «Questa manovra segreta funzionava bene.»

Painter scrollò le spalle. «Forse perché il gruppo di Anna stava allontanandosi sempre più dall’ideale nazista di supremazia ariana.»

Anna si premette un palmo sulla fronte, come se così potesse proteggersi da ciò che stava scoprendo. «E alcuni nostri scienziati… davano a intendere di voler… uscire allo scoperto, unirsi alla comunità scientifica e divulgare le nostre ricerche.»

«Non penso che questo sia l’unico», replicò Painter. «C’è in ballo qualcosa di più grosso. Qualcosa che, d’un tratto, ha reso il Granitschloß obsoleto.»

«Credo che lei abbia ragione», convenne Paula. «Negli ultimi quattro mesi c’è stato un improvviso aumento delle attività alla tenuta. Qualcosa li ha messi in agitazione.»

«Devono aver fatto qualche importante progresso da soli», disse Anna, con un’espressione preoccupata.

Gunther intervenne, con la voce rauca, come se avesse un macigno in gola. «Genug!» Ne aveva avuto abbastanza e per la frustrazione faceva fatica a parlare inglese. «Il bastardo ha Campana… ha Xerum… noi troviamo, usiamo.» Fece un gesto alla sorella. «Basta parlare!»

Lisa si trovò pienamente d’accordo col bestione. «Dobbiamo trovare un modo per entrare.» E presto, aggiunse tra sé.

«Ci vorrebbe un esercito per assaltare la tenuta.» Painter si voltò verso Paula. «Possiamo aspettarci un aiuto dal governo sudafricano?»

«È escluso. I Waalenberg hanno corrotto troppe persone. Dovremo trovare un modo per infiltrarci in segreto.»

«Le foto satellitari non sono di grande aiuto», commentò Painter.

«Allora useremo tecnologie meno avanzate», replicò Paula, conducendoli alle Isuzu Trooper che li aspettavano. «Ho già qualcuno pronto sul campo.»


ore 06.28


Khamisi era disteso a terra. Sebbene fosse arrivata l’alba, i primi raggi del sole non facevano che gettare ombre ancora più profonde sul terreno della giungla. Indossava una mimetica e aveva in spalla la doppietta 465 Nitro Holland Holland Royal. In mano portava una tradizionale lancia corta zulù, una specie di zagaglia.

Dietro di lui c’erano altri due esploratori della tribù: Tau, il nipote dell’anziano che aveva salvato Khamisi dall’aggressione, e il suo migliore amico, Njongo. Anche loro portavano armi da fuoco e lance. Il loro abbigliamento era più tradizionale: fasce di pelliccia di lontra. Inoltre, avevano la pelle impiastricciata di vernice.

I tre avevano trascorso la notte setacciando la foresta attorno al palazzo, in cerca di una via che evitasse i sentieri sospesi tra le fronde. Avevano usato le piste degli animali selvatici, che s’inoltravano nel folto del sottobosco, e si erano spostati assieme a una piccola mandria di impala, nascondendosi nella loro ombra. Khamisi si era fermato in diversi punti per piazzare qualche sorpresa accanto ai cavi che, camuffati da piante rampicanti, collegavano al suolo i sentieri sospesi.

Una volta fatto il proprio dovere, si erano incamminati verso un punto in cui un ruscello scorreva sotto la recinzione della tenuta.

Un attimo prima, Khamisi aveva sentito quell’urlo selvaggio.

Uuh-iiii-uuuuu.

Il guardacaccia era rimasto pietrificato. Il ricordo di quel richiamo gli era rimasto impresso nelle ossa.

Ukufa.

Paula Kane aveva ragione. Secondo lei, le creature provenivano dalla tenuta dei Waalenberg. Non sapeva se fossero fuggite oppure se fossero lì apposta per aggredire Khamisi e la dottoressa Fairfield. In un caso o nell’altro, erano in libertà, a caccia.

Ma di chi?

Il richiamo proveniva da lontano, alla loro sinistra.

Non erano loro le prede. Quelle creature erano cacciatrici troppo abili, non avrebbero rivelato la loro presenza così presto. Qualcos’altro le aveva attirate, stuzzicando la loro sete di sangue.

Khamisi sentì un urlo in tedesco, un grido d’aiuto, tra i singhiozzi. Era più vicino.

Ancora terrorizzato dal richiamo bestiale, il guardacaccia avrebbe voluto scappare lontano, veloce. Era una reazione primordiale.

Alle sue spalle, Tua lo incitava a fare proprio quello, borbottando in zulù.

Khamisi, invece, si diresse verso il punto da cui proveniva il grido d’aiuto. Aveva già lasciato Marcia in preda a quelle creature. Ricordava il suo terrore, quando aveva aspettato l’alba immerso fino al collo nell’abbeveratoio. Non poteva ignorare quelle urla.

Khamisi rotolò sino a Tau e gli passò le mappe che aveva disegnato. «Torna all’accampamento e porta queste alla dottoressa Kane.»

«Fratello… no… vieni via.» Tau aveva gli occhi sgranati per il terrore. Suo nonno gli aveva raccontato dell’ukufa. Khamisi doveva riconoscere il coraggio di Tau e del suo amico: nessun altro si era offerto volontario per entrare nella tenuta. La superstizione era imperante.

Una volta di fronte alla realtà, Tau non aveva nessuna intenzione di rimanere e Khamisi non poteva biasimarlo. Ricordava il suo terrore, quando era con Marcia. Invece di resistere, era fuggito, era corso via, lasciando che la dottoressa fosse uccisa.

«Andate», ordinò Khamisi, indicando la recinzione con un cenno del capo. Le mappe dovevano essere consegnate.

I due giovani esitarono per un istante, poi si mossero, stando bassi, e scomparvero nella giungla. Khamisi non sentiva nemmeno i loro passi.

Calò un silenzio spaventoso, pesante e denso come la foresta stessa. Khamisi s’incamminò nella direzione da cui erano venute le urla, umane e non.

Dopo un minuto, proruppe un altro ululato, accompagnato da un volo di uccelli allarmati. Terminò in una serie di schiamazzi, simili a una risata stridula. Khamisi si fermò a riflettere, colpito da qualcosa di familiare in quell’ultimo, inquietante verso. Prima che potesse pensarci oltre, un singhiozzo sommesso lo fece trasalire. Khamisi usò la canna della doppietta per aprirsi un varco tra le fronde. Davanti a lui si apriva una piccola radura, dove un albero era caduto di recente, sgombrando una parte della foresta. Dallo spiraglio che si era aperto tra le chiome degli alberi, penetrava un raggio di sole, che faceva sembrare ancora più oscuro il resto della giungla.

All’altra estremità della radura, un movimento attirò la sua attenzione. Un ragazzo si stava sforzando di arrampicarsi da un ramo basso a uno più alto, ma non riusciva a trovare una buona presa con la mano destra. Anche da quella distanza, Khamisi vedeva la scia di sangue che colava lungo il braccio del ragazzo, inzuppandogli la manica, mentre tentava invano di aggrapparsi. D’un tratto, il giovane cadde in ginocchio, avvinghiandosi al tronco e cercando di nascondersi.

Poi anche il motivo dell’improvviso terrore del ragazzo divenne visibile.

Khamisi si paralizzò quando la creatura entrò furtivamente nella radura, sotto l’albero. A dispetto dei suoi movimenti silenziosi, era un essere imponente, più grande di un leone adulto, ma non era un leone. Il suo pelo irsuto era albino, gli occhi di un rosso iperriflettente. Le spalle erano alte e massicce, la parte terminale della schiena era più bassa. Il collo muscoloso sosteneva una testa enorme, col muso allungato e con un paio di grandi orecchie da pipistrello che si girarono verso l’albero. Sollevando la testa, l’animale annusò l’aria, attirato dal sangue. Le labbra si ritirarono, scoprendo fauci spaventose, con denti aguzzi. Ululò nuovamente e ancora una volta concluse il richiamo con una serie di agghiaccianti risate. Poi cominciò ad arrampicarsi.

Khamisi sapeva che cosa aveva di fronte.

Ukufa.

Morte.

Ma, per quanto avesse un aspetto mostruoso, Khamisi ne conosceva il vero nome.


ore 06.30


«Specie Crocuta crocuta», spiegò Baldric Waalenberg, avvicinandosi allo schermo del computer. Aveva notato che il suo prigioniero guardava la creatura nel riquadro accanto alle immagini di Fiona nella gabbia.

Gray studiò quella bestia massiccia come un orso, che, immobile davanti alla telecamera, ringhiava con la bocca aperta, scoprendo gengive bianche e zanne ingiallite. Doveva pesare centocinquanta chili. Stava sorvegliando i resti macerati di un’antilope.

«La iena maculata è il secondo più grande carnivoro dell’Africa», proseguì Baldric. «È capace di abbattere un maschio di gnu da sola.»

Gray era perplesso. La creatura sul monitor non era una normale iena. Era tre o quattro volte più grossa del solito, poi c’era il manto sbiadito… Una specie di combinazione di gigantismo e albinismo: una mostruosa mutazione.

«Cosa le avete fatto?» chiese, incapace di nascondere il disgusto nella sua voce. Voleva anche prendere tempo, facendo parlare il vecchio. Scambiò uno sguardo con Monk, poi tornò a fissare Baldric.

«Abbiamo reso quella creatura migliore, più forte. Non è vero, Isaak?»

«Ja, grootvader.»

«I graffiti preistorici di alcune caverne in Europa mostrano la grande antenata della iena moderna, la iena gigante. Noi abbiamo trovato un modo per riportare la Crocuta all’antica gloria.» Baldric parlava con lo stesso tono scientifico e spassionato di quando aveva descritto i suoi tentativi di selezionare orchidee nere. «Abbiamo persino migliorato l’intelligenza della specie, incorporando cellule staminali umane nella corteccia cerebrale, con risultati affascinanti.»

Gray aveva letto di esperimenti analoghi fatti coi topi. A Stanford, gli scienziati avevano generato alcuni topi con l’uno percento di cervello umano. Che diavolo stava succedendo?

Baldric si avvicinò alla lavagna coi cinque simboli runici. Li picchiettò con la bacchetta. «Abbiamo una serie di Supercomputer Cray XT3 che lavorano al codice di Hugo. Quando l’avremo risolto, saremo in grado di fare la stessa cosa con gli esseri umani, per avviare la prossima evoluzione dell’umanità. La specie umana risorgerà in Africa, mettendo fine al pantano della mescolanza razziale grazie a una nuova purezza, che aspetta soltanto di sganciarsi dal nostro codice genetico corrotto.»

Gray sentì echeggiare in quelle parole la filosofia nazista dell’Übermensch, il mito del superuomo. Il vecchio doveva essere pazzo. Ma notò anche la lucidità del suo sguardo. E sullo schermo c’erano le prove dei primi mostruosi successi dei suoi progetti.

Gray si voltò verso Isaak, il quale aveva premuto un tasto, facendo scomparire la iena mutante. D’un tratto capì il collegamento: l’albinismo della iena, Isaak e sua sorella gemella, gli altri assassini dai capelli biondo platino… Baldric non aveva fatto esperimenti soltanto con le orchidee e le iene.

«Ora ritorniamo alla questione di Painter Crowe», disse il vecchio, indicando lo schermo con un ampio gesto della mano. «Credo che abbia capito ciò che attende la giovane meisje nella gabbia se lei non risponderà sinceramente alle nostre domande. Basta coi giochetti.»

Gray fissava lo schermo e la ragazzina in gabbia. Non poteva lasciare che succedesse qualcosa a Fiona. Doveva quantomeno guadagnare tempo per lei. La ragazza era stata trascinata in tutta quella faccenda per via della sua goffaggine durante le indagini a Copenhagen: si sentiva responsabile. E in più quella ragazzina gli piaceva, la rispettava, anche quando faceva la rompiscatole.

Gray sapeva che cosa doveva fare. Si voltò verso Baldric. «Che cosa vuole sapere?»

«A differenza di lei, Painter Crowe si è dimostrato un avversario più capace del previsto. E sfuggito alla nostra imboscata ed è scomparso nel nulla. Lei ci aiuterà a scoprire dov’è finito.»

«Come?»

«Contattando il comando della Sigma. Abbiamo una linea codificata, impossibile da rintracciare. Lei interromperà il silenzio e scoprirà fino a che punto la Sigma conosce il progetto Sole Nero e dove si è nascosto Painter Crowe. Ma se solo tenta qualche trucco…» Baldric indicò lo schermo con un cenno del capo.

Gray capì il senso dell’aspra lezione che gli era stata impartita: volevano che capisse appieno che cosa c’era in gioco, stroncando qualsiasi tentativo di sotterfugio. Salvare Fiona o tradire la Sigma?

La decisione fu momentaneamente accantonata, quando una delle guardie ritornò con un’altra delle richieste di Gray.

«La mia mano!» esclamò Monk. Con le braccia ancora legate dietro la schiena, cominciò a dibattersi.

Baldric fece cenno alla guardia di proseguire. «Dai la protesi a mio nipote.»

Isaak intervenne, in olandese. «Il laboratorio ha tolto eventuali armi nascoste?»

«Ja, signore. È pulita.»

Isaak la esaminò comunque. Era una meraviglia tecnologica della DARPA, con un controllo diretto dei nervi periferici incorporato nei contatti al titanio, all’altezza del polso. Era dotata di meccanica avanzata e attuatori che consentivano movimenti e input sensoriali precisi.

Monk guardò con insistenza Gray, il quale notò che, con le dita della mano sinistra, l’amico aveva appena finito di digitare un codice sui contatti del moncherino del polso destro. Gray annuì e gli si avvicinò.

La protesi elettronica aveva un’altra caratteristica: la tecnologia wireless. Dal braccio di Monk partì un segnale radio diretto alla protesi. La protesi artificiale rispose contraendosi tra le mani di Isaak. Le dita si chiusero a pugno, tranne il medio, che restò sollevato.

«Vaffanculo», mormorò Monk.

Gray lo prese per un braccio e lo spinse verso la porta che conduceva all’interno del palazzo.

L’esplosione non fu molto forte: era soltanto una granata accecante, un po’ più brillante e rumorosa del solito. La carica era incorporata direttamente nell’involucro plastico esterno della mano, impossibile da individuare. Pur non essendo una grossa carica, fu una distrazione sufficiente. Le guardie proruppero in grida di sorpresa e di dolore.

Gray e Monk fecero irruzione nel palazzo, girarono un angolo e continuarono a correre sul pavimento in parquet lucido. Subito scattarono gli allarmi, assordanti. Dovevano trovare una via d’uscita al più presto.

Gray notò una scalinata che saliva a un livello superiore e guidò Monk in quella direzione.

«Dove stiamo andando?»

«Su…» rispose Gray, salendo due gradini alla volta. Probabilmente le guardie si aspettavano che cercassero di fuggire dalla prima porta o finestra disponibile, ma lui conosceva un’altra via d’uscita. Cercò di visualizzare la pianta del palazzo. Si era guardato attorno con attenzione, quando le guardie li avevano scortati fino alla serra. Si concentrò, confidando nel proprio senso dell’orientamento. «Da questa parte.»

Trascinò Monk da un pianerottolo a un altro corridoio. Erano al sesto piano.

«Dove…» fece per chiedere di nuovo Monk.

«In quota», rispose Gray, indicando la fine del corridoio, dove li aspettava una porta. «Al ponte sospeso tra gli alberi.»

Ma non sarebbe stato così facile. Come se qualcuno avesse origliato i loro piani, una saracinesca metallica interna cominciò a scendere davanti all’uscita. Una chiusura automatica.

«Presto!» gridò Gray.

La saracinesca era già chiusa per tre quarti. Gray accelerò, lasciando indietro Monk, poi prese al volo una sedia e la lanciò in avanti. La sedia atterrò sul parquet e cominciò a scivolare sulla superficie levigata. Gray la seguiva a breve distanza. La sedia andò a sbattere contro la porta e la discesa della saracinesca fu interrotta. Ci fu uno stridore di ingranaggi. Sopra la porta si accese una luce rossa. Gray era sicuro che da qualche parte nel palazzo, alla postazione della sicurezza, si era accesa una spia d’allarme.

Quando raggiunsero la porta, le gambe della sedia cominciavano a incrinarsi e scheggiarsi, schiacciate dal peso della saracinesca.

Monk arrivò ansimando, con le braccia ancora legate dietro la schiena.

Gray si chinò e, infilandosi sotto la sedia, cercò di raggiungere la maniglia della porta. Alla fine riuscì ad afferrare il pomo e lo girò.

La porta era chiusa a chiave.

«Dannazione!»

La sedia continuava a incrinarsi. Dietro di loro si sentiva l’eco degli scarponi che battevano pesantemente sui gradini delle scale.

Gray si voltò. «Tienimi!»

Doveva aprire la porta a calci. Appoggiato schiena contro schiena all’amico, raccolse le gambe al petto, pronto a colpire. Poi la porta gli si aprì semplicemente davanti, mostrando un paio di gambe avvolte da pantaloni mimetici kaki. Uno degli uomini di sentinella ai ponti doveva aver notato il guasto ed era andato a indagare. Gray puntò agli stinchi della guardia e scalciò.

Colto di sorpresa, l’uomo perse l’equilibrio e sbatté fragorosamente la testa contro la saracinesca, cadendo pesantemente sull’assito. Gray si tuffò fuori e sferrò un altro colpo col tallone. La sentinella si afflosciò.

Monk rotolò fuori, seguendo l’amico, ma non prima di aver dato un calcio alla sedia, liberando la saracinesca, che proseguì la sua discesa e si chiuse rumorosamente.

Gray alleggerì la guardia delle sue armi. Usò un coltello per slegare Monk e gli passò una pistola semiautomatica HK Mark 23, tenendo per sé il fucile.

Armi alla mano, fuggirono lungo il ponte sospeso. Nel punto in cui s’inoltrava nella giungla, c’era il primo bivio. Per il momento entrambe le direzioni erano sgombre.

«Dividiamoci, avremo più possibilità», disse Gray. «Devi cercare aiuto, trova un telefono e contatta Logan.»

«E tu?»

Gray non rispose. Non ce n’era bisogno.

«Rifletti, potrebbe essere già morta.»

«Questo non lo sappiamo.»

Monk scrutò l’espressione dell’amico. Aveva visto il mostro sullo schermo del computer e sapeva che Gray non aveva scelta.

Senza proferire parola, corsero in due direzioni opposte.


ore 06.34


Khamisi raggiunse il ponte sospeso, salendo su un albero all’altra estremità della radura, con movimenti rapidi e silenziosi.

Più giù, l’ukufa continuava a girare attorno all’albero, sorvegliando la sua preda in trappola. Il rumore violento e improvviso di qualche istante prima aveva messo in allarme la bestia, che era scesa dall’albero, cauta e diffidente, e aveva ripreso a fare la ronda, con le orecchie dritte. Dal palazzo proveniva l’eco di allarmi e clacson.

Quel trambusto preoccupava anche Khamisi. Tau e Njongo erano stati scoperti? O forse era stato individuato il loro accampamento, appena fuori dalla tenuta? Avevano camuffato il loro punto di raccolta come se fosse uno dei numerosi accampamenti di cacciatori nomadi zulù. Qualcuno si era accorto che nascondeva qualcos’altro?

Qualunque fosse la causa dell’allarme, perlomeno il trambusto aveva reso più guardinga la mostruosa iena gigante, l’ukufa, e Khamisi aveva sfruttato la sua distrazione per raggiungere uno dei ponti sospesi. Rotolò sull’assito, tenendo pronto il fucile. L’ansia gli acuiva i sensi, ma il terrore l’aveva abbandonato. Khamisi aveva notato l’andatura della bestia, il ringhio sommesso e gracchiante, il crescendo di risate stridule e nervose, che diventavano ululati. Normale comportamento da iena. Nonostante le dimensioni mostruose, non era qualcosa di mitico o soprannaturale.

Khamisi percorse rapidamente il ponte, finché non arrivò in prossimità dell’albero del ragazzo, quindi prese una corda dallo zaino. Sporgendosi oltre il cavo d’acciaio che sosteneva la struttura, vide il giovane. Emise un fischio acuto, simile al richiamo di un uccello. Sebbene il ragazzo fosse concentrato sui movimenti della bestia sotto di lui, sentendo l’improvviso rumore trasalì, guardò in alto e vide Khamisi.

«Ti porterò fuori di qui», disse lui a bassa voce, in inglese, sperando che l’altro capisse.

Ma il ragazzo non fu l’unico a sentire Khamisi. L’ukufa puntò i suoi occhi rossi su quelli dello zulù. Mentre studiava l’uomo sul ponte, socchiuse le palpebre e scoprì i denti. Khamisi scorse un’intelligenza calcolatrice in quello sguardo. Era quella la creatura che aveva aggredito Marcia?

Gli sarebbe piaciuto svuotare le canne del fucile su quel muso sorridente, ma il rumore di quell’arma di grosso calibro avrebbe attirato troppa attenzione. Alla tenuta erano già tutti in piena allerta. Perciò appoggiò il fucile accanto ai piedi: gli sarebbero servite entrambe le braccia.

«Ragazzo! Adesso ti getto una corda: avvolgitela attorno alla vita.» Mimò il movimento. «Ti tirerò su.»

Il giovane annuì, con gli occhi sgranati, il volto gonfio per le lacrime e la paura.

Sporgendosi oltre il bordo del ponte, Khamisi srotolò verso di lui un po’ di corda, che si fermò tra i rami più alti. «Dovrai arrampicarti fin lì!»

Il ragazzo non ebbe bisogno di essere spronato ulteriormente. Data la nuova possibilità di fuga, i suoi sforzi divennero molto più determinati. Scalciando e inerpicandosi, raggiunse il ramo sopra di lui e si legò la corda in vita, liberandola dalle fronde.

Khamisi tese la corda, fissandola attorno a uno dei cavi d’acciaio del ponte. «Adesso comincio a tirarti su, oscillerai un po’.»

«Presto!» gridò il ragazzo, troppo forte.

Khamisi si girò su un fianco e notò che l’ukufa si era accorto dei movimenti del giovane e ne era attirato, come un gatto appresso a un topo. La bestia si stava arrampicando sull’albero, affondando gli artigli.

Non avendo tempo da perdere, Khamisi cominciò a tirare la corda, bracciata dopo bracciata. Sentì tutto il peso del ragazzo. Chinandosi, lo vide oscillare avanti e indietro come un pendolo.

Anche gli occhi dell’ukufa facevano altrettanto, mentre continuava ad arrampicarsi. Khamisi capì le sue intenzioni: avrebbe spiccato un salto e preso al volo la sua preda, come un’esca sulla lenza.

Il guardacaccia issò più velocemente.

«Wie zijn u?» abbaiò all’improvviso qualcuno alle sue spalle.

Colto di sorpresa, Khamisi lasciò quasi andare la corda. Allungò il collo per guardare indietro.

Sul ponte c’era una donna alta e snella, vestita di nero, coi capelli biondi rasati e con lo sguardo ferino: una Waalenberg. Doveva averlo scoperto per caso. Aveva già in mano un coltello.

Khamisi non osava lasciar andare la corda.

Più giù, il ragazzo gridò.

Khamisi e la donna guardarono di sotto.

L’ukufa aveva raggiunto la postazione precedente del ragazzo e si preparava a saltare. La donna fece una risata non tanto diversa da quella della bestia. Le assi scricchiolarono mentre si avvicinava alla schiena di Khamisi, col coltello in mano.

Erano in trappola.


ore 06.38


Gray s’inginocchiò. Il ponte si dipartiva in tre diverse direzioni: il ramo di sinistra conduceva al palazzo, quello centrale costeggiava il margine della foresta sovrastando i giardini della tenuta, quello di destra s’inoltrava nel cuore della giungla.

Da che parte?

Accovacciato, Gray studiò l’inclinazione delle ombre, confrontandola alle immagini che aveva osservato attentamente sul monitor del computer. La lunghezza e la direzione delle ombre gli avevano dato un’idea della posizione della gabbia di Fiona rispetto al sole che sorgeva. Ma rimaneva comunque un’ampia area di tenuta da percorrere.

Il ponte oscillò leggermente, scosso da un pesante calpestio.

Altre guardie.

Gray si era già imbattuto in altre due squadre. Mise in spalla il fucile, rotolò sino al bordo del ponte e si lasciò ciondolare. Appeso al cavo d’acciaio, si spostò fino al ramo di un albero per ripararsi. Un attimo dopo, tre guardie marciarono rumorosamente sul ponte, facendolo dondolare. Gray si tenne forte, poi, quando gli uomini furono passati oltre, usò il ramo come appoggio per ritornare sul ponte. Mentre si dava lo slancio e sollevava una gamba, notò la vibrazione ritmica del cavo tra le sue mani. Altre guardie?

Disteso sull’assito, appoggiò un orecchio al cavo d’acciaio, restando in ascolto, come un cacciatore indiano sulla pista di un animale. La vibrazione aveva un ritmo ben distinto e percepibile, come la corda metallica di una chitarra. Tre colpi veloci, tre lenti, ancora tre veloci. E si ripeteva.

Codice morse.

SOS.

Qualcuno stava mandando un segnale tramite il cavo.

Con movimenti cauti e furtivi, Gray ritornò al bivio. Toccò gli altri cavi: soltanto uno vibrava, quello che sosteneva la diramazione che s’inoltrava nella giungla. Era possibile che…

Non avendo altri indizi, Gray s’incamminò in quella direzione, cercando di non far oscillare il ponte.

Le diramazioni si susseguivano. Gray si fermava a ogni bivio per trovare il cavo che vibrava e seguirne la traccia. Era così concentrato sul percorso che, quando si abbassò per schivare le fronde di una palma, si trovò improvvisamente davanti una guardia, a soli quattro metri di distanza. Capelli castani, sui venticinque, sembrava un membro della gioventù hitleriana. Era appoggiato al corrimano d’acciaio, voltato verso di lui. Stava già sollevando il fucile, messo in allerta dal fruscio delle foglie.

Gray non aveva abbastanza tempo per usare il suo fucile. Mentre era ancora in movimento, si gettò di lato. Non era un tentativo di schivare la pallottola in arrivo, perché l’altro non poteva mancarlo a quella distanza.

Ma, andando a sbattere sul cavo d’acciaio che fungeva da corrimano, Gray lo fece vibrare.

La guardia, che vi era appoggiata, perse l’equilibrio e la canna del suo fucile finì puntata verso il cielo. L’agente Sigma gli fu addosso in un istante, pugnale alla mano.

Gray gli impedì di urlare, infilzandogli la lama nella trachea e lacerandogli la laringe. Bastò una torsione per far zampillare il sangue dalla carotide. Sarebbe morto in pochi secondi. Gray lo prese e lo gettò oltre il corrimano. Non provò nessun rimorso, ricordando le guardie che ridevano quando Ryan era caduto nella tana del mostro. Quanti altri erano morti in quel modo? Il corpo cadde in un sussurro di foglie fruscianti, poi si schiantò nell’erba.

Accovacciato, Gray rimase in ascolto. Qualcuno aveva sentito la guardia cadere?

A sinistra, sorprendentemente vicino, una donna gridò in inglese, con accento straniero. «Smettila di dare calci alle sbarre o ti buttiamo giù subito!»

Gray riconobbe quella voce: Ischke, la gemella di Isaak.

Una voce più familiare rispose alla donna. «Vaffanculo, brutta stronza!»

Fiona.

Nonostante il pericolo, Gray sorrise, orgoglioso di quella ragazzina.

Stando basso, raggiunse la fine del ponte, che sfociava in un anello sospeso, a incoronare una radura. L’aveva già visto sul monitor. La gabbia era appesa al passaggio sopraelevato.

Fiona continuava a prendere a calci le sbarre: tre colpi veloci, tre lenti, tre veloci. Il suo volto era il ritratto della determinazione. La vibrazione, trasmessa lungo i cavi di sostegno della gabbia, arrivava fino ai piedi di Gray.

Brava ragazza.

Doveva aver sentito gli allarmi del palazzo, e forse aveva immaginato che ci fosse di mezzo lui e aveva cercato di trasmettergli un segnale; oppure era solo infuriata e il messaggio in codice non era altro che una coincidenza.

Gray individuò tre guardie, posizionate a ore due, ore tre e ore nove. Ischke, sempre abbagliante nel suo completo bianco e nero, era dall’altra parte, a ore dodici: con entrambe le mani appoggiate sul corrimano interno, guardava in basso, verso Fiona.

«Forse una pallottola nel ginocchio ti calmerà», gridò, appoggiando la mano sulla fondina della pistola.

Fiona fermò il piede a mezz’aria, borbottò qualcosa e poi lo appoggiò.

Gray calcolò le proprie possibilità. Era solo, con un fucile, contro tre guardie, tutte armate, e Ischke, con la pistola.

Una scarica di disturbi elettrostatici risuonò nella radura, seguita da parole confuse. Ischke sganciò la radio e l’avvicinò alle labbra. «Ja?» Ascoltò per mezzo minuto, fece una domanda che Gray non riuscì a sentire, poi chiuse la comunicazione. Riponendo l’apparecchio, si rivolse alle guardie: «Abbiamo nuovi ordini. Uccidiamo la ragazza, subito!»


ore 06.40


L’ukufa emise una serie di guaiti striduli, pronto a saltare addosso al ragazzo ciondolante. Khamisi sentiva la donna avvicinarsi alle sue spalle. Avendo le mani impegnate a tenere la corda, non poteva usare le sue armi.

«Chi sei?» chiese di nuovo la donna, minacciandolo col pugnale.

Khamisi fece l’unica cosa possibile. Piegando le ginocchia, si gettò oltre il corrimano d’acciaio. Mentre ruzzolava giù, si tenne forte alla corda, che fischiava attorno al palo d’acciaio. Mentre Khamisi cadeva, intravide il ragazzo che veniva proiettato verso l’alto, agitando le braccia e gridando per la sorpresa.

L’ukufa saltò verso la preda in fuga, ma il peso di Khamisi catapultò il ragazzo verso il ponte, finché non vi andò a sbattere.

L’improvvisa battuta d’arresto fece perdere la presa al guardacaccia, il quale cadde di schiena nell’erba. Più su, il ragazzo si era aggrappato ai cavi del ponte, mentre la donna fissava Khamisi con gli occhi sgranati.

A pochi metri da lui, qualcosa di grosso atterrò pesantemente.

L’ukufa balzò in piedi, ringhiando furiosamente e lanciando filamenti di saliva. Il suo sguardo rosso si posò sull’unica preda disponibile.

Khamisi non aveva il fucile, che era rimasto sul ponte. La creatura ululò, infuriata e assetata di sangue, poi gli saltò addosso, con l’intenzione di squarciargli la gola.

Khamisi afferrò la sua unica arma: la zagaglia zulù, che portava ancora legata alla coscia. Mentre l’ukufa cadeva su di lui, Khamisi sollevò la lama. Suo padre gli aveva insegnato come usarla, prima che partissero per l’Australia. Come tutti i ragazzi zulù.

Con un istinto che affondava le radici nel passato dei suoi antenati, Khamisi infilò la lama sotto le costole della creatura — un animale in carne e ossa, non mitica — e la spinse a fondo, mentre il peso della iena si abbatteva su di lui.

L’ukufa urlò. Il dolore e lo slancio lo trasportarono oltre Khamisi, che si vide strappare di mano la lancia. L’uomo rotolò via, libero e disarmato. L’ukufa si dimenava nell’erba e così la lama gli si avvitava sempre più in profondità nella carne. Gridò un’ultima volta, con un sussulto violento, poi si afflosciò.

Morto.

Lo sguardo di Khamisi fu attirato da un urlo furioso sopra la sua testa. La donna sul ponte aveva trovato il suo fucile e glielo stava puntando contro. Il colpo suonò come la detonazione di una granata. Un cespuglio esplose ai piedi dell’uomo e schizzi di terra si propagarono tutt’attorno. Khamisi arretrò. La donna aggiustò la mira, centrando meglio il bersaglio nel mirino.

Stranamente, il secondo colpo suonò più acuto.

Khamisi girò su se stesso, ma si accorse di essere illeso.

Guardò in alto appena in tempo per vedere la donna cadere dal ponte, il petto devastato e insanguinato.

Una nuova sagoma comparve sul ponte.

Un uomo muscoloso con la testa rasata. Teneva puntata una pistola, con un braccio teso appoggiato sul moncherino dell’altro. Si sporse oltre il cavo d’acciaio e vide il ragazzo, ancora appeso sotto il ponte.

«Ryan…»

Il giovane singhiozzò di sollievo. «Mi porti via di qui.»

«È proprio quello che vorrei fare…» replicò l’uomo, che guardò Khamisi. «Sempre che il nostro amico laggiù conosca una via d’uscita. Io mi sono perso.»


ore 06.44


I due colpi d’arma da fuoco echeggiarono nella foresta.

Un piccolo stormo di pappagalli verdi si sollevò in volo, attraversando la radura con un gran fragore di ali e schiamazzi di protesta.

Gray si acquattò. Avevano trovato Monk?

Ischke doveva aver pensato la stessa cosa, perché si girò nella direzione da cui provenivano i colpi e fece un cenno alle guardie. «Andate a vedere.»

Fucili alla mano, le guardie si lanciarono lungo il percorso circolare verso il punto in cui si trovava Gray, che, colto di sorpresa, si lasciò cadere dal ponte. Di lì a pochi secondi sarebbe stato nella visuale della prima guardia. Tentò di aggrapparsi al cavo d’acciaio, come aveva già fatto prima, ma nella fretta perse l’equilibrio e riuscì a malapena ad afferrarlo con una mano. Dondolò e il fucile gli scivolò dalla spalla. Contorcendosi e allungandosi, riuscì ad arpionare la cinghia di cuoio con un dito. Fece un silenzioso sospiro di sollievo.

Subito dopo le guardie passarono sopra di lui, facendo dondolare e sobbalzare il ponte.

La cinghia del fucile gli sfuggì dalle dita e l’arma cadde, infilandosi tra gli arbusti. Gray afferrò il cavo anche con l’altra mano e rimase lì appeso. Per fortuna il fucile non aveva sparato, cadendo a terra.

L’eco dei passi delle guardie si disperse in lontananza.

Gray sentì Ischke parlare alla radio.

Che fare?

Aveva solo un coltello, mentre la donna aveva una pistola.

Aveva soltanto il vantaggio della sorpresa, che era quasi sempre sopravvalutato.

Muovendo una mano dopo l’altra, Gray raggiunse il percorso circolare. Continuò a spostarsi lungo il bordo esterno, sempre aggrappato al cavo di sostegno, fuori dalla visuale della Waalenberg. Doveva muoversi lentamente, per evitare di far oscillare il ponte e allertare Ischke. Coordinò i movimenti alle occasionali folate di vento che arruffavano le chiome degli alberi.

Ma la sua presenza non passò inosservata.

Fiona si accovacciò nella gabbia, mettendo tutte le sbarre possibili tra sé e Ischke. Evidentemente aveva capito ciò che la donna aveva detto in olandese: Uccidiamo la ragazza, subito! Anche se gli spari l’avevano momentaneamente distratta, prima o poi Ischke sarebbe tornata a occuparsi di lei.

Dalla posizione avvantaggiata in cui si trovava, Fiona vide Gray, un gorilla con la tuta bianca che dondolava sotto il ponte, seminascosto dalle fronde. Sobbalzò per la sorpresa e quasi si alzò, poi si costrinse a rimanere accovacciata. Lo seguì con lo sguardo e si scambiarono un’occhiata.

Nonostante la spavalderia che aveva dimostrato, Gray le lesse il terrore in volto. Sembrava molto più piccola, nella gabbia, con le braccia avvolte attorno al petto, come per proteggersi. Temprata dalla strada, la sua unica difesa contro il panico più completo era urlare insulti. Solo così era riuscita a non crollare, ma ci mancava poco.

Gli fece alcuni segnali, usando i movimenti del corpo. Spostò lo sguardo verso il basso e scosse leggermente il capo, gli occhi sgranati e pieni di paura, avvertendolo che lì sotto non sarebbe stato al sicuro.

Lui scrutò l’erba folta e gli arbusti nella radura. Non vide nulla tra le ombre fitte, ma si fidò del monito di Fiona: Non cadere.

In quel momento era più o meno a ore otto lungo la circonferenza. Ischke si trovava a ore dodici. Gray aveva ancora una certa distanza da percorrere, ma aveva le braccia stanche e le dita doloranti. Doveva accelerare. Le continue soste e ripartenze erano sfiancanti. Tuttavia, muovendosi più rapido temeva di attirare l’attenzione di Ischke.

Evidentemente se ne rese conto anche Fiona. Si alzò e cominciò a prendere a calci le sbarre un’altra volta, scuotendo la gabbia e facendola ondeggiare.

Quell’oscillazione consentì a Gray di aumentare il ritmo. Purtroppo, però, fece anche infuriare Ischke.

La donna mise via la radio e gridò a Fiona: «Basta con le tue stupidaggini, bambina!»

Aggrappata alle sbarre, Fiona continuò a sferrare calci.

Gray passò rapidamente a ore nove.

Ischke si spostò verso il corrimano interno, da dove avrebbe potuto vederlo. Per fortuna era concentrata su Fiona.

La donna estrasse un apparecchio dalla tasca del maglione, allungò l’antenna coi denti e lo indirizzò verso Fiona. «È ora che tu conosca Skuld, che prende il nome dalla dea norrena del destino.»

Premette un bottone.

Quasi direttamente sotto i piedi di Gray, qualcosa ululò di rabbia e di dolore, uscì dimenandosi dalle ombre della giungla ed entrò con passo furtivo nella radura. Era una delle iene mutanti. Doveva pesare almeno centocinquanta chili, tutti muscoli e denti. Emetteva un ringhio sommesso e aveva il pelo irto sulla schiena. Abbaiò e morse l’aria, annusando la gabbia e scoprendo i denti.

Gray si rese conto che per tutto quel tempo il mostro doveva averlo tenuto d’occhio da laggiù. Sospettava già che cosa sarebbe successo.

Accelerò, superando le ore dieci.

Godendosi il terrore della ragazzina e prolungando la crudeltà, Ischke gridò: «Skuld ha un chip nel cervello che ci consente di stimolare la sua sete di sangue».

Premette il bottone un’altra volta. La iena ululò e saltò verso la gabbia, scagliando in aria filamenti di bava, in preda a un’incontrollabile furia assassina.

Era così, dunque, che i Waalenberg controllavano i propri mostri: innesti radiocomandati.

Ancora una volta, avevano soggiogato la natura per i propri scopi.

«È tempo di saziare l’appetito della povera Skuld», ironizzò Ischke.

Gray non sarebbe mai arrivato in tempo, ma fece più presto che poté.

Ore undici.

Mancava così poco…

Ma era troppo tardi.

Ischke premette un altro bottone. Gray sentì un secco rumore metallico: guardò la botola che si apriva sotto i piedi di Fiona e la ragazza che cadeva verso la bestia famelica.

L’uomo stava per lasciarsi andare, per raggiungerla e proteggerla.

Ma Fiona aveva imparato dall’errore di Ryan. Era pronta. Mentre cadeva si aggrappò alle sbarre e rimase appesa. Skuld saltò, cercando di morderle le gambe. Fiona le sollevò e si tirò su con le braccia, così la bestia la mancò e ricadde tra gli arbusti, ululando per la frustrazione.

Arrampicandosi, Fiona si aggrappò all’esterno della gabbia come una scimmia ragno.

Ischke rideva, godendosi il macabro spettacolo. «Zeer goed, meisje. Che intraprendenza! Grootvader avrebbe potuto prendere in considerazione i tuoi geni per il suo repertorio. Ma purtroppo dovrai soddisfare Skuld.»

Ischke sollevò la pistola.

Gray si spostò sotto di lei, guardando attraverso le assi di legno.

«E ora finiamola…» borbottò la donna, in olandese.

Già, finiamola.

Gray si sollevò con le braccia e slanciò le gambe all’indietro, poi oscillò in avanti sino a portare le gambe sopra il ponte, come un ginnasta alla sbarra. Colpì Ischke al ventre, mentre la donna si sporgeva e puntava la pistola verso Fiona.

Mentre i talloni dell’uomo la colpivano, la pistola esplose un colpo.

Gray sentì il proiettile rimbalzare sul ferro.

Mancata.

Ischke cadde all’indietro, mentre Gray atterrava sull’assito e si alzava con una piroetta, pugnale alla mano. La donna era appoggiata su un ginocchio. La sua pistola era tra loro due.

Entrambi si avventarono sull’arma.

Nonostante il colpo subito, Ischke si rivelò estremamente veloce, come un serpente all’attacco. Fu lei a raggiungere la pistola per prima e ad afferrarla.

Gray le trapassò il polso con la lama del pugnale, che si piantò nell’assito. Lei urlò per la sorpresa, mentre le cadeva la pistola. Gray cercò di afferrarla, ma l’impugnatura rimbalzò sul legno mentre Ischke si dimenava, e l’arma volò giù.

La momentanea distrazione bastò alla donna per liberarsi il polso. Fece perno sull’altra mano e sferrò un calcio alla testa di Gray.

Lui tentò di schivare il colpo, ma lo stinco della donna lo colpì forte sulla spalla, come il paraurti di un’auto lanciata a tutta velocità. Gray si lasciò rotolare. Aveva preso una brutta botta. Quella donna era sorprendentemente forte.

Prima che potesse rialzarsi, lei gli si scagliò addosso, tentando di colpirlo e accecarlo con la punta della lama ancora infilata nel polso. Gray riuscì giusto in tempo a prenderle il braccio e torcerglielo; poi la trascinò verso il bordo del ponte e, senza fermarsi, rotolò giù assieme a lei.

Ma Gray aveva agganciato il ginocchio sinistro attorno a uno dei pali di sostegno. Il suo corpo si fermò di colpo, appeso per la gamba. Ischke si staccò da lui e continuò a cadere.

Appeso a testa in giù, Gray la vide precipitare, spezzando una serie di rami, per poi schiantarsi a terra.

Lui s’issò nuovamente sul ponte e rimase disteso. Incredulo, vide Ischke rimettersi in piedi, zoppicando, con una caviglia slogata e dolorante.

Un rumore accanto a lui lo fece trasalire.

Fiona aveva raggiunto il ponte, arrampicandosi su uno dei cavi cui era appesa la gabbia. Aveva approfittato della lotta per salire fino a lassù. Corse verso di lui, scuotendo la mano sinistra: dalla ferita che le aveva procurato Ischke scorreva ancora il sangue.

Gray guardò di nuovo in basso.

La donna lo fissava con uno sguardo assassino.

Ma non era sola nella radura.

Skuld si avventò su di lei da dietro, col muso basso nell’erba, come uno squalo, seguendo l’odore del sangue.

Le stava bene, pensò Gray.

Ma Ischke non fece altro che protendere il braccio sano verso la bestia. L’enorme iena si fermò di colpo, sollevò il muso grondante di bava e lo sfregò contro la mano della donna, come un pit bull feroce che salutava il suo violento padrone. Con gemiti e guaiti, si distese pancia a terra.

Ischke non aveva mai distolto lo sguardo da Gray.

Avanzò claudicante.

A qualche passo dalla donna, c’era la sua pistola in bella vista.

Gray prese Fiona per una spalla e la spinse in avanti. «Corri!»

La ragazzina non ebbe bisogno di essere incitata oltre: volava, spinta dalla paura e dall’adrenalina.

Fiona girò l’angolo tenendosi a uno dei piloni di sostegno, per non perdere l’equilibrio. Gray seguì il suo esempio. Mentre si metteva in salvo, una scintilla e un rimbalzo metallico accompagnarono un colpo d’arma da fuoco.

Ischke aveva trovato la sua pistola.

Ulteriormente spronati, corsero più veloci lungo il ponte diritto, distanziando la loro inseguitrice zoppa. Gray sperava che sarebbero stati al sicuro entro pochi istanti, mentre si avvicinavano a un bivio. La cautela vinse il panico.

Fece rallentare Fiona nei pressi dello stesso incrocio al quale si era fermato prima. I sentieri si dipartivano in ogni direzione. Da che parte? A quel punto era più che probabile che Ischke avesse dato l’allarme, a meno che la caduta non avesse distrutto la radio, ma non si poteva far affidamento su quello. Bisognava presumere che le guardie stessero già confluendo lì.

E Monk? Che cosa lasciava presagire la sparatoria che aveva attirato le guardie di Ischke? Era vivo o morto? Era stato catturato? C’erano troppe incognite. Gray aveva bisogno di un posto in cui nascondersi, per far raffreddare la sua pista.

Ma dove?

Guardò il sentiero che conduceva al palazzo.

Nessuno li avrebbe cercati lì. Forse poteva raggiungere una linea telefonica esterna e magari scoprire anche qualcosa di utile…

Ma era una vana speranza. Il palazzo era chiuso, come una fortezza.

Fiona capì cosa stava pensando. Lo tirò per un braccio ed estrasse qualcosa da una tasca. Sembravano due carte da gioco appese a una catenella. Gliele mostrò.

Non erano carte da gioco. Erano chiavi magnetiche.

«Le ho fregate a quella stronza glaciale», spiegò Fiona. «Così impara a farmi a fette.»

Gray prese le carte magnetiche e le esaminò. Ricordò che Monk aveva sgridato Fiona per non aver rubato le chiavi al direttore del museo, quando erano intrappolati nella cripta di Flimmler. Sembrava che la ragazza avesse imparato la lezione.

Esaminò ancora una volta il palazzo, scrutandolo con gli occhi semichiusi.

Grazie alla sua piccola borseggiatrice, aveva le chiavi del castello.

Ma che cosa doveva fare?

13. XERUM 525

Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,

ore 10.34


Painter era seduto a gambe incrociate nella capanna di mattoni di fango ed erba intrecciata, con una serie di mappe e schemi tutt’attorno. L’aria odorava di concime e polvere, ma il piccolo accampamento zulù era un perfetto punto di raccolta, ad appena dieci minuti dalla tenuta dei Waalenberg.

Di quando in quando gli elicotteri della sicurezza si levavano in volo dalla tenuta e sorvolavano l’accampamento, sorvegliando i confini, ma Paula Kane aveva orchestrato tutto quanto per bene. Dall’alto, il piccolo villaggio sembrava soltanto una stazione di sosta per le tribù nomadi di zulù. Nessuno avrebbe potuto sospettare che in una di quelle capanne primitive fosse in corso una riunione.

Si erano radunati per mettere assieme le proprie risorse e decidere una strategia.

Gunther e Anna erano seduti di fronte a Painter, mentre Lisa era al suo fianco, come sempre, dal loro arrivo in Africa, con un’espressione decisa, ma lo sguardo preoccupato. Il maggiore Brooks era in piedi accanto all’uscita, nell’ombra, sempre vigile, con la mano sulla fondina della pistola.

Ascoltavano tutti attentamente il resoconto di Khamisi. Con lui c’era un nuovo arrivato: Monk Kokkalis.

Con grande sorpresa di Painter, Monk era giunto all’accampamento con un giovane esausto e scioccato. L’agente aveva trascorso l’ultima ora a raccontare l’accaduto, rispondere alle domande e colmare i vuoti.

Anna fissava con occhi iniettati di sangue la serie di rune che Monk aveva appena disegnato. Allungò una mano tremante verso il foglio. «Queste sono tutte le rune contenute nei libri di Hugo Hirszfeld?»

Monk annuì. «E quel vecchio schifoso era convinto che fossero determinanti per una fase successiva del suo piano.»

Lo sguardo di Anna si spostò su Painter. «Il dottor Hirszfeld era il supervisore del progetto Sole Nero. Come le ho già detto, era convinto di aver risolto l’enigma della Campana e aveva completato un ultimo esperimento in segreto, da solo, che, a suo dire, aveva generato un bambino perfetto, non corrotto da tare o involuzioni. Un Cavaliere del Sole sano. Ma il suo metodo… come abbia fatto… nessuno lo sa.»

«E poi c’è la lettera che ha scritto a sua figlia», aggiunse Painter. «Qualsiasi cosa abbia scoperto lo ha spaventato: Una verità troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata. Perciò ha nascosto il suo segreto in questo codice di rune.»

Anna sospirò, stanca. «E Baldric Waalenberg era talmente sicuro di poter risolvere l’enigma e impadronirsi delle conoscenze perdute, che ha distrutto il Granitschloß.»

«Credo che ci sia qualcos’altro, oltre al fatto che non servivate più», commentò Painter. «Penso che lei avesse ragione, prima. Il vostro gruppo era una minaccia crescente, perché parlavate di uscire allo scoperto. Lui era a un passo dalla perfezione, dalla realizzazione del sogno ariano, e non poteva rischiare che voi rovinaste tutto.»

Anna avvicinò a sé il foglio con le rune. «Se Hugo aveva ragione, decifrare questo codice potrebbe rivelarsi essenziale per curare la nostra involuzione. La Campana ha già la capacità di rallentare la nostra malattia, ma, se riuscissimo a risolvere questo enigma, potrebbe darci una guarigione completa.»

«Prima di tutto dobbiamo accedere alla Campana dei Waalenberg», intervenne Lisa. «Poi potremo preoccuparci delle cure.»

«E Gray?» chiese Monk. «E la ragazza?»

Painter mantenne un’espressione impassibile. «Non sappiamo se è nascosto, se è stato catturato o se è morto. Per il momento, il comandante Pierce deve contare soltanto su se stesso.»

Il viso di Monk s’inasprì. «Posso intrufolarmi di nuovo là dentro, usando la mappa di Khamisi.»

«No, adesso dobbiamo rimanere uniti.» Painter si sfregò la testa, dietro l’orecchio destro, in preda a un dolore lancinante. I suoni divennero echi lontani e sentì montare la nausea.

Monk lo fissava. Lui fece un gesto, come a cancellare la preoccupazione del collega. Ma qualcosa nello sguardo di Monk suggeriva che non fosse preoccupato soltanto dei disturbi fisici del suo capo.

Painter stava prendendo le giuste decisioni? Le sue facoltà mentali erano intatte? La mano di Lisa si appoggiò sul suo ginocchio, come se intuisse la sua costernazione.

«Sto bene», borbottò lui, rivolto sia a se stesso sia a lei.

A prevenire qualsiasi ulteriore indagine, il tappeto appeso alla porta fu scostato, facendo penetrare la luce e il calore del sole. Chinandosi, Paula Kane entrò nella capanna buia, seguita da un anziano zulù in tenuta cerimoniale: penne, piume e una pelle di leopardo decorata con perline colorate. Anche se aveva circa sessantacinque anni, il suo viso era privo di rughe e sembrava scolpito nella pietra. Aveva la testa rasata e portava un bastone di legno guarnito di piume, ma anche un fucile antico, che sembrava più un paramento che un’arma funzionante.

Mentre si alzava, Painter lo riconobbe: era un vecchio fucile inglese a pietra focaia e anima liscia, un Brown Bess che risaliva alle guerre napoleoniche.

Paula presentò l’ospite: «Mosi D’Gana, capo zulù».

L’anziano parlava un inglese chiarissimo. «È tutto pronto.»

«Grazie per la sua assistenza», disse Painter, in tono formale.

Mosi annuì appena. «Ma non è per voi che prendiamo le lance. Abbiamo un credito coi voortrekker per Blood River.»

Paula spiegò di cosa si trattava. «Quando gli inglesi hanno scacciato i boeri olandesi da Città del Capo, questi si sono insediati nell’entroterra e sono entrati in contatto con le tribù indigene, xhosa, pondo, swazi e zulù. Nel 1838, lungo un affluente del Buffalo River, gli zulù furono traditi: fu un massacro. Il corso d’acqua è stato ribattezzato Blood River, fiume di sangue. Il voortrekker responsabile dell’assalto era Piet Waalenberg.»

Mosi sollevò la sua vecchia arma e la porse a Painter. «Noi non dimentichiamo.»

Painter non dubitava che quel fucile fosse stato usato in quella infame battaglia. Accettò l’arma, sapendo che il passaggio del vecchio fucile a pietra focaia suggellava un patto.

Con grande scioltezza, Mosi si mise a sedere a gambe incrociate. «Abbiamo molto da pianificare.»

Paula fece un cenno a Khamisi e tenne scostato il tappeto alla porta. «Il tuo furgone è pronto. Tau e Njongo stanno già aspettando.» Guardò l’orologio. «Dovrai sbrigarti.»

Il guardacaccia si alzò. Ognuno aveva un compito da svolgere prima che calasse la notte.

Painter incrociò lo sguardo di Monk. Ancora una volta, lesse la preoccupazione negli occhi del collega, ma non era per lui, era per Gray. Mancavano otto ore al tramonto, e non c’era nulla che potessero fare sino ad allora.

Gray era solo.


ore 12.05


«Tieni giù la testa», bisbigliò Gray a Fiona.

Avanzarono rapidamente verso la guardia in fondo al corridoio. Gray indossava un’uniforme mimetica, con tanto di stivali alla scudiera e berretto nero, con la visiera abbassata sugli occhi. La guardia che gli aveva prestato quella tenuta era priva di sensi, imbavagliata e legata, in un armadio delle camere da letto dei piani superiori.

Gray aveva preso anche la radio e l’auricolare. Le comunicazioni erano interamente in olandese, difficile da comprendere, ma quantomeno si facevano un’idea degli eventi.

Fiona era vestita da cameriera. L’uniforme era un po’ larga, ma era meglio nascondere la sua sagoma e la sua età. La maggior parte del personale della tenuta era costituita da indigeni, con la pelle più o meno scura, come era tipico nelle case degli afrikander. Le origini pakistane di Fiona e la sua carnagione si adattavano bene al contesto. Coi capelli nascosti in una cuffia, poteva essere scambiata per un’indigena. Per completare la messa in scena, camminava a passi piccoli, con atteggiamento remissivo, le spalle cascanti e la testa bassa.

Fino a quel momento i loro travestimenti non erano stati messi alla prova.

Si era diffusa la voce che Gray e Fiona erano stati avvistati nella giungla. Tutte le uscite del palazzo erano bloccate e la pattuglia era ridotta all’osso. Quasi tutte le forze di sicurezza erano impegnate a setacciare la foresta e i confini della tenuta.

Purtroppo, però, la sicurezza non era così esigua da lasciare accessibile una linea telefonica esterna. Poco dopo aver utilizzato la chiave di Ischke per rientrare nel palazzo, Gray aveva provato alcuni telefoni, ma per accedere alla linea bisognava passare attraverso una rete codificata. Qualsiasi tentativo di telefonare li avrebbe smascherati.

Perciò avevano poche opzioni. Potevano nascondersi, ma a che scopo? Chi sapeva quando o se Monk avrebbe raggiunto il mondo civile? Quindi dovevano essere più intraprendenti. Il piano era procurarsi innanzitutto una piantina del palazzo, ma per farlo dovevano infiltrarsi nella postazione principale della sicurezza. Le loro uniche armi erano la pistola che portava Gray e un Taser che Fiona aveva in tasca.

Davanti a loro, alla fine del corridoio, una sentinella era appostata sulla balconata, di guardia all’entrata principale, con un fucile automatico. Gray si avvicinò all’uomo alto e corpulento, con palpebre pesanti che lo facevano apparire viscido e meschino. Gli fece un cenno e proseguì verso le scale, tallonato da Fiona.

Andò tutto bene.

Poi l’uomo disse qualcosa in olandese. Era oltre le capacità di comprensione di Gray, ma quelle parole suonavano sconce e terminarono in una bassa risata gutturale.

Girandosi per metà, Gray vide la guardia dare un pizzicotto sul sedere a Fiona, mentre con l’altra mano la prendeva per un braccio.

Mossa sbagliata.

Fiona si voltò verso l’uomo. «Vaffanculo, segaiolo.»

La gonna della ragazza gli sfiorò il ginocchio. Un lampo blu le attraversò la tasca e colpì la coscia dell’uomo. Il suo corpo s’inarcò, mentre emetteva un gorgoglio smorzato.

Gray lo afferrò prima che cadesse. Mentre era ancora in preda alle convulsioni tra le sue braccia, Gray lo trascinò dal pianerottolo a una delle stanze laterali. Lo lasciò cadere a terra, lo colpì in testa col calcio della pistola e cominciò a imbavagliarlo e legarlo. «Perché l’hai fatto?»

Fiona gli girò attorno e gli pizzicò il sedere, forte.

«Ehi!» esclamò lui, alzandosi e girandosi di scatto.

«Ti è piaciuto?» chiese Fiona.

Messaggio ricevuto. Comunque Gray l’avvertì: «Non posso continuare a legare questi bastardi».

Fiona si alzò con le braccia conserte. Lo sguardo, per quanto furente, era anche impaurito.

Lui non poteva biasimarla per il suo nervosismo. Si asciugò il sudore dalla fronte. Forse era meglio che si nascondessero, sperando che qualcuno li venisse a salvare.

La radio di Gray gracchiò. Qualcuno aveva notato la loro aggressione vicino alle scale? Cercò di dare un senso a quel garbuglio di suoni. «… ge’vangene… portare all’ingresso principale…»

Di quello che seguì, Gray capì ben poco, a parte la parola ge’vangene, prigioniero.

Poteva significare soltanto una cosa.

«Hanno catturato Monk…» bisbigliò, sentendosi raggelare. «Andiamo.» Dopo aver alleggerito la guardia del Taser, uscì dalla stanza.

Ritornarono verso le scale. Gray sussurrò il suo piano a Fiona mentre scendevano di corsa fino all’ingresso principale. L’atrio davanti a loro era sgombro.

Attraversarono il pavimento lucido, con l’eco dei loro passi che risuonava tutt’attorno. Le pareti erano ornate da trofei imbalsamati: la testa di un rinoceronte nero, specie in via d’estinzione, un imponente leone, con la criniera mangiata dalle falene, una fila di antilopi con corna di diverso tipo.

Quando raggiunsero l’ingresso, Fiona estrasse dalla tasca del grembiule uno spolverino di piume, che faceva parte del suo travestimento, e si portò a un lato della porta. Fucile alla mano, Gray si appostò dall’altra parte.

Non dovettero aspettare a lungo: fecero appena in tempo a mettersi in posizione.

Quante guardie avrebbero accompagnato Monk?

Almeno era vivo.

La saracinesca di metallo dell’entrata principale cominciò a sollevarsi rumorosamente. Gray si chinò per contare le gambe. Due guardie accompagnavano un prigioniero con la tuta bianca.

Gray si fece vedere, mentre la saracinesca finiva la sua corsa.

Le guardie lo scambiarono per una sentinella che sorvegliava la porta. Entrarono col prigioniero al seguito. Nessuno dei due notò che Gray aveva in mano un Taser, né che Fiona si avvicinava dall’altro lato.

L’attacco si concluse in un attimo.

Le due guardie si contorcevano sul tappeto, coi talloni che battevano a terra. Gray diede un calcio in testa a ciascuno, forse più forte di quanto avrebbe dovuto, ma la rabbia aveva preso il sopravvento.

Il prigioniero non era Monk.

«Chi è lei?» chiese Gray, mentre trascinava rapidamente la prima guardia verso un ripostiglio lì vicino.

La donna canuta usò il braccio libero per aiutare Fiona con la seconda guardia. Era più forte di quanto non sembrasse. Aveva il braccio sinistro bendato e appeso al collo con una fascia. Il suo profilo sinistro era devastato da brutti graffi, suturati e non ancora cicatrizzati.

Nonostante le recenti ferite, si rivolse a Gray con uno sguardo intenso e determinato. «Sono la dottoressa Marcia Fairfield.»


ore 12.25


La Jeep procedeva lentamente lungo il sentiero.

Al volante, il sovrintendente Gerald Kellog si asciugava la fronte sudata. Teneva tra le gambe una bottiglia di Birkenhead Premium Lager.

Nonostante la mattinata frenetica, Kellog non voleva rinunciare alle sue abitudini. D’altro canto, non c’era molto che potesse fare. Gli addetti alla sicurezza della tenuta dei Waalenberg l’avevano informato sommariamente degli eventi: una fuga. Il sovrintendente aveva già avvisato i ranger del parco e appostato uomini a tutti i cancelli. Aveva distribuito fotografie, faxate dalla tenuta Waalenberg. Bracconieri, armati e pericolosi. Quella era la copertura.

Finché non veniva comunicato un avvistamento, Kellog non aveva motivo per astenersi dalla sua consueta pausa pranzo di due ore, a casa. Il martedì era il giorno dell’arrosto di pernice con patate dolci. La Jeep attraversò la griglia di contenimento del bestiame ed entrò nel viale, fiancheggiato da basse siepi. In fondo c’era una casa a due piani, con modanature in stile coloniale, circondata da un terreno di proprietà di mezzo ettaro, una delle prerogative della posizione di sovrintendente. Uno staff di dieci persone si occupava della proprietà e del suo unico occupante. Il sovrintendente non aveva fretta di sposarsi.

Perché comprare una vacca quando si può avere il latte gratis?

In più, lui preferiva i frutti non ancora maturi.

Aveva una nuova ragazza in casa, la piccola Aina, un’undicenne nigeriana, nera come la pece, giusto come piacevano a lui, perché nascondevano meglio le botte. Non che dovesse rendere conto a qualcuno. Aveva un servitore swazi, Mxali, un bruto reclutato in prigione, che gestiva la casa con disciplina e terrore. Tutti i problemi venivano risolti rapidamente, quando era necessario. E i Waalenberg erano ben felici di aiutarlo a far scomparire eventuali seccatori. Che cosa ne fosse di loro dopo che venivano scaricati dall’elicottero alla tenuta Waalenberg, Gerald preferiva non saperlo. Ma aveva sentito qualche voce in proposito.

Sebbene fosse un caldo mezzogiorno, rabbrividì.

Meglio non fare troppe domande.

Parcheggiò l’auto all’ombra di un’acacia, scese e percorse a grandi passi il sentiero inghiaiato che conduceva alla porta laterale, da cui si accedeva alla cucina. Un paio di giardinieri stavano zappando un’aiuola. Quando Gerald passò, tennero gli occhi bassi, come era stato loro insegnato.

Il profumo dell’arrosto e dell’aglio gli stuzzicarono l’appetito, guidandolo su per i tre gradini di legno, fino alla porta a zanzariera aperta. Quando entrò in cucina, gli brontolava già lo stomaco.

Sulla sinistra, vide il cuoco inginocchiato sul pavimento, con la testa infilata nel forno. Kellog guardò perplesso quel quadretto.

Gli ci volle qualche istante per rendersi conto che non era il cuoco. «Mxali…»

Kellog si accorse finalmente dell’odore di carne bruciata nascosto dal profumo dell’aglio. Qualcosa sporgeva dal braccio dell’uomo: una freccetta piumata. L’arma preferita di Mxali.

Qualcosa era andato terribilmente storto.

Kellog fece un passo indietro, voltandosi verso la porta.

I due giardinieri avevano lasciato cadere le zappe e tenevano ciascuno un fucile puntato al suo pancione enorme. Non era insolito che piccole bande di predoni, immondizia delle township nere, saccheggiassero le fattorie e le case più isolate. Kellog alzò le mani, mentre gli si accapponava la pelle dal terrore.

Lo scricchiolio di una tavola lo fece girare dall’altra parte.

Un’ombra emerse dall’oscurità della stanza accanto.

Kellog rimase senza fiato quando riconobbe l’intruso.

Non era un predone, ma molto peggio: un fantasma.

«Khamisi…»


ore 12.30


«Allora, che cos’ha esattamente?» chiese Monk, indicando col pollice una delle capanne vicine. Painter vi si era appartato col telefono satellitare della dottoressa Kane, per conferire con Logan Gregory.

Monk era seduto su un tronco assieme alla dottoressa Lisa Cummings, sotto la veranda di un’altra capanna. Per quanto fosse coperta di polvere e avesse un accenno di occhiaie, la dottoressa era una bella donna.

«Le sue cellule si stanno snaturando: si dissolvono dall’interno. Così dice Anna Sporrenberg, che ha studiato a lungo gli effetti deleteri delle radiazioni della Campana. Causa un arresto delle funzioni di molteplici organi. Anche suo fratello Gunther soffre di una patologia cronica di questo tipo, ma nel suo caso il tasso di degenerazione è rallentato da un sistema immunitario più potente. Anna e Painter, esposti da adulti a un’overdose di radiazioni, non hanno una simile protezione.» Entrò nei dettagli, sapendo che Monk aveva alle spalle una formazione medica. Riduzione delle piastrine, aumento dei livelli di bilirubina, edema, dolori muscolari con contratture del collo e delle spalle, infarti ossei, epatosplenomegalia, soffio al cuore e strane calcificazioni delle estremità distali e dell’umor vitreo degli occhi.

Quel che contava, però, era una sola domanda. «Quanto tempo gli rimane?»

Lisa sospirò, guardando la capanna in cui Painter era svanito. «Non più di un giorno. Anche se si trovasse una cura oggi, temo che ci potrebbero essere danni permanenti.»

«Ha notato come biascicava… come si mangiava le parole? Sono i farmaci, oppure…»

Lisa si voltò brevemente verso di lui, con uno sguardo più sofferente. «Non sono soltanto i farmaci.»

Monk intuì che era la prima volta che la donna lo ammetteva, anche a se stessa. Lo disse con terrore e disperazione. Notò anche come ne soffriva. Non era soltanto la reazione di una dottoressa o di un’amica preoccupata. Quella donna amava Painter ed era evidente che si sforzava di tenere a bada le proprie emozioni.

Painter emerse dalla capanna. «Ho in linea Kat.»

Monk si alzò rapidamente, controllò che non ci fossero elicotteri in cielo, e raggiunse Painter. Prese il telefono satellitare, coprì il microfono con la mano, e indicò Lisa con un cenno del capo. «Capo, penso che alla dottoressa non dispiacerebbe un po’ di compagnia.»

Riparandosi gli occhi doloranti, Painter raggiunse la donna.

Monk lo guardò allontanarsi e si portò il telefono all’orecchio. «Ehi, piccola.»

«Non mi chiamare piccola. Che diavolo ci fai in Africa?»

Monk sorrise. Il rimprovero di Kat era una benedizione, come una limonata nel deserto. In più, era una domanda retorica, sicuramente era già informata di tutto.

«Pensavo che fossi andato a fare il babysitter», proseguì lei. «Quando torni, ti chiudo a chiave…» Continuò per un intero, concitato minuto.

Alla fine, Monk riuscì a infilare di traverso qualche parola nella conversazione. «Mi manchi anche tu.»

Il tono infuriato si trasformò in un sussurro. «Ho sentito che Gray è ancora disperso.»

«Se la caverà», la rassicurò lui, sperando che andasse davvero così.

«Trovalo.»

Era proprio ciò che intendeva fare. Lei non gli chiese di prometterle di essere cauto, lo conosceva troppo bene. Ma Monk sentì le lacrime nelle parole che seguirono.

«Ti amo.»

Era abbastanza per rendere prudente chiunque.

«Anch’io.» Abbassò la voce e si voltò dall’altra parte. «Amo te e il nostro bambino.»

«Torna a casa.»

«Prova a fermarmi.»

Kat sospirò di nuovo. «Logan mi sta chiamando al cercapersone, devo andare. Abbiamo un appuntamento alle sette con un diplomatico dell’ambasciata sudafricana. Faremo tutto il possibile per esercitare pressioni da qui.»

«Sistemali per bene, piccola.»

«Lo faremo. Ciao, Monk.»

«Kat, ti…» ma era già caduta la linea. Dannazione.

Monk guardò Lisa e Painter. I due stavano parlando, ma lui intuiva che era più il bisogno di stare vicini che una vera e propria comunicazione. Almeno Kat era al sicuro.


ore 12.37


«Mi stavano portando in una cella sotterranea per altri interrogatori», spiegò la dottoressa Fairfield. «Ci dev’essere qualcosa che li preoccupa.»

Erano ritornati tutti e tre nella stanza al primo piano. L’uomo che aveva palpeggiato Fiona era ancora a terra, privo di coscienza, col sangue che gli colava dalle narici.

Marcia Fairfield aveva raccontato in breve la sua storia: l’imboscata che le era stata tesa durante l’uscita nella riserva, l’attacco delle bestie dei Waalenberg, la sua cattura. I Waalenberg avevano appreso di un suo possibile ruolo nei servizi segreti britannici, perciò l’avevano rapita, mettendo in scena un attacco fatale a opera di una leonessa. Aveva ancora ferite gonfie e non cicatrizzate.

«Sono riuscita a convincerli che il mio accompagnatore, il guardacaccia, era rimasto ucciso. Non ho potuto fare altro. Spero che sia riuscito a salvarsi.»

«Ma cosa nascondono i Waalenberg?» chiese Gray. «Cosa stanno facendo?»

La donna scosse la testa. «Una specie di programma genetico. Sono in grado di dire soltanto questo, ma penso che ci sia in ballo anche qualche altro intrigo. Forse persino un attentato. Ho sentito una delle mie guardie parlare di un siero di qualche tipo. Siero 525. E nello stesso contesto hanno citato anche Washington.»

Gray aggrottò le sopracciglia. «Ha sentito qualcosa sui tempi?»

«Non esattamente. A giudicare dalle loro risate, però, ho avuto l’impressione che, qualsiasi cosa debba succedere, succederà presto. Molto presto.»

Gray fece qualche passo, massaggiandosi il mento. Questo siero forse è un agente per la guerra biologica… un patogeno… un virus. Scosse la testa. Gli servivano altre informazioni, alla svelta. «Dobbiamo entrare in quei laboratori sotterranei e scoprire che cosa stanno combinando.»

«Mi stavano portando proprio lì», suggerì Marcia.

«Se fingo di essere una delle sue guardie, forse riusciamo a entrare.»

«Dobbiamo sbrigarci. Probabilmente si stanno già chiedendo dove sia finita.»

Gray si voltò verso Fiona, pronto a una discussione. La soluzione più sicura sarebbe stata che lei rimanesse nascosta in quella stanza. Sarebbe stato difficile giustificare la sua presenza accanto a una prigioniera e a una guardia. Avrebbe soltanto attirato l’attenzione e provocato sospetti.

«Lo so, non è un posto adatto a una cameriera», affermò Fiona, sorprendendolo un’altra volta. Spinse la guardia con un piede. «Terrò compagnia al nostro Casanova, finché non ritornate.»

Nonostante le parole coraggiose, aveva lo sguardo pieno di paura.

«Non staremo via molto», promise lui.

«Meglio di no.»

Risolta la questione, Gray prese il fucile, indicò la porta alla dottoressa Fairfield e disse: «Andiamo».

Puntandole contro il fucile, la scortò all’ascensore centrale. Nessuno li avvicinò. Per accedere ai livelli inferiori bisognava infilare una tessera in un lettore magnetico. Gray usò la seconda chiave di Ischke. I bottoni luminosi che indicavano i sotterranei passarono dal rosso al verde.

«Qualche idea su dove cominciare?» chiese Gray.

«Più grande è il tesoro, più è sepolto in profondità.» Marcia premette il numero più in basso. Sette livelli sottoterra. L’ascensore cominciò la discesa.

Mentre Gray guardava il conto alla rovescia dei piani, le parole di Marcia lo tormentavano.

Un attentato… Washington…

Ma che tipo di attentato?


Washington, D.C.,

ore 06.41


Embassy Row era soltanto a tre chilometri da National Mall. L’autista svoltò sulla Massachusetts Avenue. Kat viaggiava sul sedile posteriore con Logan, confrontando gli appunti. Il sole era appena sorto e davanti a loro comparve l’ambasciata sudafricana.

I quattro piani di pietra calcarea dell’Indiana brillavano sotto il primo sole che illuminava i frontoni e le finestre dell’abbaino in tipico stile coloniale olandese. L’autista si fermò presso l’ala residenziale dell’edificio. L’ambasciatore aveva acconsentito a incontrarli nel suo studio privato, a quell’ora del mattino. Evidentemente, era meglio che le questioni riguardanti i Waalenberg fossero sbrigate con discrezione.

A Kat andava benissimo così. Aveva una pistola nascosta in una fondina alla caviglia. Scese dall’auto e aspettò Logan.

Quattro colonne scanalate sostenevano un parapetto con lo stemma del Sudafrica. Lì sotto c’era una porta a vetri, già aperta dall’usciere, che aveva notato il loro arrivo.

In quanto secondo in comando, Logan fece strada. Kat lo seguiva, qualche passo più indietro, controllando la strada, diffidente. Considerando le enormi ricchezze dei Waalenberg, non si fidava di nessuno che potesse essere al soldo di quella famiglia, compreso l’ambasciatore, John Hourigan.

Il grande atrio si estendeva attorno a loro. Un segretario, con un abito blu impeccabile, li raggiunse e li accompagnò. «L’ambasciatore Hourigan scenderà a momenti. Mi ha incaricato di portarvi al suo studio. Posso offrirvi del tè o del caffè?»

Logan e Kat rifiutarono.

Furono fatti accomodare in una sala rivestita di pannelli di legno pregiato. L’arredamento — scrivanie, scaffali e comodini — era fabbricato con lo stesso legno. Era stinkwood, originario del Sudafrica, un legname così raro che non era più disponibile in commercio.

Logan si sedette accanto alla scrivania. Kat rimase in piedi.

Non dovettero attendere a lungo.

Le porte si aprirono nuovamente ed entrò un uomo alto e magro, dai capelli biondo-rossicci. Anche lui indossava un abito blu, ma portava la giacca appoggiata su un braccio. Kat sospettava che l’approccio informale fosse un puro artificio per apparire più amabile e disposto a collaborare. Come l’idea di incontrarsi nella sua residenza privata.

Mentre Logan si presentava, Kat esaminò la stanza. Avendo un passato nei servizi segreti, presumeva che la conversazione sarebbe stata registrata. Studiò il locale, immaginando dove potevano essere nascoste le apparecchiature di sorveglianza.

Finalmente l’ambasciatore Hourigan si mise a sedere. «Mi hanno detto che siete venuti per avere informazioni sulla tenuta dei Waalenberg… In cosa posso esservi utile?»

«Riteniamo che qualcuno alle dipendenze dei Waalenberg possa essere coinvolto in un rapimento in Germania.»

Hourigan sgranò gli occhi. Un gesto troppo perfetto. «Sono scioccato. Ma non ho saputo nulla in merito dalla BKA tedesca, dall’Interpol o dall’Europol.»

«Le nostre fonti sono affidabili», insistette Logan. «Chiediamo soltanto la cooperazione dei vostri Scorpions per indagare sul posto.»

Kat guardò l’ambasciatore, che assumeva un’espressione artefatta, simulando un’intensa riflessione. Gli Scorpions erano l’equivalente sudafricano dell’FBI. Un aiuto sembrava improbabile, il massimo che Logan sperava di ottenere era che quelle organizzazioni non ostacolassero la Sigma. Non potevano negoziare una cooperazione contro un potere politico forte come quello dei Waalenberg, ma forse potevano esercitare una pressione sufficiente per impedire alle autorità di polizia di aiutare la potente famiglia sudafricana. Una piccola, ma significativa concessione.

Kat rimase in piedi e osservò la lenta danza messa in atto dai due uomini, ognuno dei quali cercava di ottenere il proprio scopo.

«Le assicuro che i Waalenberg portano il massimo rispetto alla comunità internazionale e agli enti di governo. È una famiglia che ha sostenuto interventi umanitari, organizzazioni internazionali di beneficenza e fondazioni senza fini di lucro in tutto il mondo. Il loro più recente atto di generosità è la donazione fatta alle ambasciate e alle cancellerie sudafricane di tutto il mondo di una campana d’oro, per celebrare il centenario della prima moneta d’oro coniata in Sudafrica.»

«Tutto ciò è encomiabile, ma non…»

Kat interruppe Logan, intervenendo per la prima volta. «Ha detto ‘campana d’oro’?»

«Esatto, un dono di Baldric Waalenberg in persona. Cento campane placcate in oro, recanti lo stemma del Sudafrica. La nostra la stanno installando nella sala residenziale, al quarto piano.»

«È possibile vederla?» chiese Kat.

Quella strana piega della conversazione sconcertò l’ambasciatore, ma non gli venne in mente una buona ragione per rifiutare. Kat immaginò che l’uomo sperasse anche di sfruttare quell’occasione per prendere il sopravvento nel silenzioso scontro diplomatico in corso.

«Sarà un grande piacere mostrarvela.» Si alzò e guardò l’orologio. «Temo che dovremo accelerare i tempi. Ho un impegno a colazione al quale non posso tardare.»

Come Kat aveva immaginato, Hourigan stava usando il tour come scusa per porre termine alla conversazione, sottraendosi a qualsiasi impegno esplicito. Logan la fissava intensamente. Sperò di avere ragione.

Furono accompagnati a un ascensore che li portò all’ultimo piano. Attraversarono corridoi ornati con oggetti d’arte e d’artigianato indigeno sudafricano. Al termine si apriva un salone che somigliava più a un museo che a una stanza. Era arredato con vetrine, tavoli e cassettiere con finiture d’ottone lavorate a mano. Una parete di vetrate dava sui giardini, sul retro dell’edificio. In un angolo era appesa una gigantesca campana d’oro. A giudicare dai filamenti di paglia ancora sparsi sul pavimento, sembrava che fosse stata appena tolta dall’imballaggio. La campana, sulla quale era impresso lo stemma del Sudafrica, era alta un metro e larga un metro e mezzo alla base.

Kat si avvicinò. Uno spesso cavo elettrico passava dalla cima della campana ed era arrotolato a terra.

L’ambasciatore notò lo sguardo della donna. «È dotata di un congegno automatico per suonare a determinati orari del giorno. Davvero una meraviglia. Se guarda all’interno, vedrà degli stupendi ingranaggi, molto raffinati.»

Kat lanciò un’occhiata a Logan: era impallidito. Come Kat, anche lui aveva studiato i disegni della Campana originale, fatti da Anna Sporrenberg. Ne avevano davanti un esatto duplicato in oro. Entrambi avevano anche letto degli effetti deleteri provocati dalle radiazioni emesse dall’apparecchio. Follia e morte. Kat guardò fuori dalla finestra. Da quell’altezza, riusciva a intravedere il profilo della cupola del Campidoglio.

Le parole pronunciate qualche minuto prima dall’ambasciatore avevano un’eco terrificante: Cento campane… in tutto il mondo.

«È venuto un tecnico specializzato a installarla», proseguì Hourigan, assumendo un tono leggermente annoiato, mentre l’incontro si avvicinava alla conclusione. «Credo che sia qui, da qualche parte.»

La porta della sala si aprì sonoramente alle loro spalle.

Tutti e tre si voltarono.

«Ah, eccolo», disse Hourigan. La sua voce si spense quando notò il mitragliatore in mano al nuovo arrivato. L’uomo aveva i capelli color biondo platino. Sebbene fosse all’altro capo della sala, Kat notò il tatuaggio scuro sulla mano che teneva l’arma.

Cercò in fretta la fondina agganciata alla caviglia.

Senza proferir parola, l’assassino aprì il fuoco, irrorando la sala di proiettili. Schegge di vetro e di legno esplosero ovunque.

Alle spalle di Kat, sotto i proiettili che rimbalzavano, la campana dorata non smetteva di suonare.


Sudafrica,

ore 12.44


Le porte dell’ascensore si aprirono al settimo livello sotterraneo. Gray uscì, fucile alla mano, e scrutò il corridoio grigio in entrambe le direzioni. A differenza del palazzo, che aveva finiture artigianali in legno pregiato, il piano sotterraneo era illuminato da lampade al neon e caratterizzato da una sterilità inflessibile: pavimenti di linoleum bianco, pareti grigie e soffitti bassi. Su un lato del corridoio si susseguivano porte lisce d’acciaio, con serrature elettroniche scintillanti. Le altre porte sembravano più ordinarie.

Gray appoggiò il palmo della mano su una di quelle.

Il pannello vibrava. Sentì un ronzio ritmico.

Una centrale elettrica? Doveva essere enorme.

Marcia lo affiancò. «Penso che siamo scesi troppo in basso. Sembra più un’area di magazzini e impianti.»

Gray era d’accordo, ma…

Passò sull’altro lato, avvicinandosi a una delle porte d’acciaio. «Ma cosa immagazzinano?»

L’insegna sulla porta diceva: EMBRYONAAL.

«Laboratorio embrionale», tradusse Marcia.

Gray prese ancora una volta la tessera di Ischke e la infilò nel lettore magnetico. Si accese una luce verde e la serratura si sbloccò. Gray si era messo in spalla il fucile e aveva in mano la pistola.

Le lampade al neon al soffitto si accesero, sfarfallando brevemente.

La stanza era in realtà un lungo corridoio, che si estendeva almeno quaranta metri. Gray notò che l’aria era fredda, più frizzante, filtrata. Su un lato c’era una fila ininterrotta di congelatori d’acciaio inossidabile, alti dal pavimento al soffitto. I compressori ronzavano. Sull’altro lato c’erano carrelli d’acciaio, serbatoi d’azoto liquido e un grande tavolo con un microscopio, collegato a un banco per la microdissezione.

Sembrava una specie di laboratorio per ibernare cadaveri.

A una postazione di lavoro centrale c’era un computer con lo screensaver che girava sul monitor a cristalli liquidi: un simbolo argentato ruotava su uno sfondo nero.Gray l’aveva già visto sul pavimento del castello di Wewelsburg.



«Il Sole Nero… Il simbolo dell’Ordine Nero di Himmler, un gruppo di occultisti e scienziati della società di Thule, ossessionati dal mito del superuomo. Probabilmente anche Baldric ne è stato membro.» Gray intuiva che il cerchio si stava chiudendo. Dal bisnonno di Ryan a lì. Indicò il computer. «Cerchi una directory principale e veda cosa riesce a scoprire.»

Mentre Marcia si dirigeva alla postazione di lavoro, Gray raggiunse uno dei freezer e lo aprì. Ne uscì una ventata d’aria gelida. All’interno c’erano cassetti, contrassegnati e numerati. Dietro di lui, Marcia batteva sui tasti del computer. Gray aprì un cassetto. C’era una serie di piccole provette di vetro piene di un liquido giallo, ben ordinate in appositi raccoglitori.

«Embrioni congelati», spiegò Marcia.

Lui chiuse il cassetto e diede un’occhiata alla fila di enormi freezer. Se Marcia aveva ragione, ci dovevano essere migliaia di embrioni immagazzinati lì dentro.

«Il computer contiene un database con genomi e genealogie», proseguì la donna. «Sia umani sia animali, in particolare mammiferi. Guardi qui.»

Lo schermo era pieno di strane notazioni.


NUCLEOTIDE VERANDERING (DNA)

[Crocuta crocuta]

6 Nov 14.56.25 GMT


Schema V.1.16


VERANDERING CODE RANGSCHIKKEN

Loci A.0. Transversie

A.0.2. Dipyrimidine to Dithymidine ATGGTTACGCGCTCATG

(c[CT]>TT) GAATTCTCGCTCATGGA

ATTCTCGCTCGTCAACT

Loci A.3. Gedeeltelijk

A.3.3.4. Dinucleotide (transcriptie) CTAGAAATTACGCTCTTA

CGCTTCTCGCTTGTTAC

GCGCTCA

Loci B.5.

B.5.1.3. Cryptische plaatsactivering GTTACGCGCTCGCGCTCA

TGGAATTCTCGC TCATG

Loci B.7.

B.7.5.1. Pentanucleotide (g[TACAGATTC] ATGGTTACGCGCTCCGC

verminderde stabiliteit) TGGAATTCTCGCTC ATG

GAATTCTCGCTC


«Sembra una lista di mutazioni», spiegò Marcia. «Definite a livello di polinucleotidi.»

Gray indicò il nome in cima alla lista. «Crocuta crocuta, la iena maculata. Ho visto il risultato finale di quella ricerca. Baldric Waalenberg ha accennato a come stava perfezionando la specie, incorporando anche cellule staminali umane nel cervello degli animali.»

Marcia s’illuminò e, premendo un tasto, ritornò alla directory principale. «Ciò spiega il nome dell’intero database: Hersenschim. Significa ‘chimera’, un termine che si riferisce a un organismo con materiali genetici provenienti da più di una specie, che vengono innestati, come nelle piante, oppure inseriti in un embrione, tramite cellule estranee.» Continuò a digitare sulla tastiera con una mano, concentrata. «Ma a quale scopo?»

Gray diede un’occhiata all’estensione del laboratorio embrionale. Era forse diverso dalla manipolazione delle orchidee e dei bonsai che Baldric praticava nella serra? Era soltanto un altro modo di controllare la natura, di manipolarla e progettarla secondo la sua idea di perfezione.

«Strano…» mormorò Marcia.

Gray si voltò di nuovo verso di lei. «Che cosa?»

«Secondo la genealogia a riferimenti incrociati, tutti questi embrioni sono geneticamente legati ai Waalenberg.»

Non era una sorpresa. Gray aveva notato le somiglianze nella discendenza dei Waalenberg. Il patriarca cercava di perfezionare il lignaggio familiare da generazioni. Ma evidentemente non era quello l’aspetto più strano.

Marcia proseguì: «Ognuno degli embrioni dei Waalenberg, a sua volta, fa riferimento a linee di cellule staminali che poi sono collegate al Crocuta crocuta».

«Le iene?»

Marcia annuì.

«Sta dicendo che ha impiantato le cellule staminali dei suoi figli in quei mostri?» Non riuscì a nascondere lo shock. Sembrava che le atrocità e la presunzione di quell’uomo non avessero limite.

«Non finisce qui», disse Marcia.

Gray ebbe un colpo allo stomaco, sapendo che cosa stava per dire.

Marcia indicò una complicata tabella sullo schermo. «Secondo questo schema, le cellule staminali delle iene sono collegate alla generazione successiva di embrioni umani.»

«Oh, Dio…» Gray ripensò a Ischke che allungava la mano e fermava la iena inferocita. Non era soltanto il rapporto di una padrona col suo cane. Erano membri della stessa famiglia. Baldric aveva impiantato le cellule delle iene mutanti nei suoi figli, creando incroci, come con le orchidee.

«Ma c’è di peggio…» Marcia ricominciò, pallida e profondamente scossa. «I Waalenberg hanno…»

«Dobbiamo muoverci», la interruppe Gray. Aveva sentito abbastanza e dovevano proseguire le ricerche.

Marcia guardò il computer, riluttante, ma annuì e si alzò. Lasciarono il mostruoso laboratorio e proseguirono lungo il corridoio. La porta successiva diceva FOETUSSEN. Un laboratorio fetale. Gray proseguì senza fermarsi. Non aveva nessuna voglia di scoprire gli orrori contenuti lì dentro.

«Come fanno a ottenere questi risultati?» chiese Marcia. «Le mutazioni, il successo con le chimere… Devono avere un qualche sistema per controllare le manipolazioni genetiche.»

«Può darsi», borbottò lui. «Ma non è perfezionato, non ancora.»

Gray ricordò il lavoro di Hugo Hirszfeld e il codice nascosto nelle rune. Capiva perché Baldric ne fosse ossessionato: era una promessa di perfezione.

Troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata.

Certamente la mostruosità non spaventava Baldric. Anzi aveva inglobato i mostri nella sua stessa famiglia. Dopo essersi impadronito del codice di Hirszfeld, quale sarebbe stato il passo successivo? Soprattutto con la Sigma che gli soffiava sul collo… Non c’era da stupirsi che Baldric volesse disperatamente sapere di più su Painter Crowe.

Raggiunsero un’altra porta. La scritta identificativa era: XERUM 525.

Gray e Marcia si guardarono.

«Non siero…» sussurrò lui.

«Xerum», lesse Marcia, scuotendo la testa, senza capire.

Gray usò la chiave magnetica rubata. La luce verde si accese, la serratura si sbloccò e lui aprì la porta. Nella stanza si accesero le luci. L’aria aveva un odore leggermente corrosivo, con una punta di ozono. Il pavimento e le pareti erano scuri.

«Piombo», disse Marcia, toccando le pareti.

A Gray non piaceva l’idea, ma doveva scoprire qualcosa di più. Quello sembrava un sito di stoccaggio per rifiuti pericolosi. La stanza era piena di scaffali, sui quali erano impilati fusti gialli da quaranta litri, con sopra il numero 525.

Gray ripensò all’ipotesi di un agente per la guerra biologica. Oppure quei fusti contenevano qualche tipo di materiale fissile? Scorie nucleari, forse? Era per quello che il locale aveva le pareti di piombo?

Marcia non sembrava granché preoccupata. Si avvicinò agli scaffali. In ogni postazione c’era un’etichetta, che contrassegnava uno dei fusti. «Albania… Argentina…»

C’erano altri Paesi, tutti in ordine alfabetico. Ci dovevano essere almeno cento fusti.

Gray percorse rapidamente la stanza, fermandosi di quando in quando a leggere un’etichetta: Belgio… Finlandia… Grecia…

Continuò a correre e, alla fine, raggiunse il punto che cercava.

Stati Uniti.

Marcia aveva sentito di un possibile attentato a Washington. A giudicare da tutti i Paesi citati dalle etichette, non era soltanto l’America a essere minacciata. Non ancora, almeno. Gray ripensò alla preoccupazione di Baldric per Painter e la Sigma, la minaccia più immediata per i suoi piani. Per rimediare, il vecchio doveva aver cambiato il suo calendario.

Lo scaffale era vuoto.

Il fusto di Xerum 525 destinato agli Stati Uniti non c’era più.


Clinica universitaria di Georgetown,

Washington, D.C.,

ore 07.45


«Tempo d’arrivo stimato di MedSTAR?» chiese il centralinista, seduto davanti a uno schermo a sensibilità tattile, con la cuffia senza fili.

Dalla radio dell’elicottero risposero: «In viaggio, a due minuti».

«Il pronto soccorso chiede un aggiornamento.» Tutti avevano sentito della sparatoria sulla Embassy Row. Erano scattati i protocolli della Homeland Security, con chiamate e allarmi in tutta la città.

«Secondo il personale medico dell’ambasciata, due morti sul colpo. Nazionalità sudafricana, tra cui l’ambasciatore. Ma anche due americani a terra.»

«Condizioni?»

«Uno deceduto, l’altro in condizioni critiche.»

14. IL SERRAGLIO

Sudafrica,

ore 13.55


Fiona era in ascolto sulla soglia, Taser alla mano. Sentì avvicinarsi delle voci, dal pianerottolo del primo piano. Il terrore l’attanagliò. Le riserve di adrenalina che l’avevano sostenuta nelle ultime ventiquattr’ore si stavano ormai esaurendo. Le tremavano le mani, il respiro era accelerato.

Il soldato legato e imbavagliato, quello che l’aveva importunata, era disteso dietro di lei. Aveva dovuto dargli un’altra scossa quando aveva cominciato a gemere.

Le voci erano sempre più vicine al suo nascondiglio.

Dov’era finito Gray? Era via da quasi un’ora.

Due persone si avvicinarono alla porta. Riconobbe una delle voci. Era quella stronza bionda che le aveva tagliato il palmo della mano: Ischke Waalenberg. Lei e il suo compagno parlavano in olandese, ma Fiona conosceva molto bene quella lingua.

«Le mie chiavi», stava dicendo Ischke. «Devo averle perse quando sono caduta.»

«Be’, cara zuster, adesso sei a casa e sei al sicuro.»

Zuster. Sorella. Quindi il suo compagno era il fratello.

«Cambieremo i codici, per precauzione», aggiunse l’uomo.

«E nessuno ha ancora trovato i due americani o la ragazzina?»

«I confini della tenuta sono sotto stretta sorveglianza. Siamo sicuri che siano ancora qui. Li troveremo. E grootvader ha una sorpresa.»

«Che tipo di sorpresa?»

«Una specie di assicurazione: nessuno lascerà la tenuta vivo. Non dimenticare che ha prelevato campioni di DNA a tutti, quando sono arrivati.»

Ischke rise, facendo gelare il sangue nelle vene a Fiona. Poi le voci si allontanarono.

«Vieni.» La voce del fratello andava scemando, mentre scendevano le scale verso il piano terra. «Grootvader ci vuole vedere.»

Le voci si fermarono in fondo alla scalinata. Pur premendo l’orecchio sulla porta, Fiona non riuscì a distinguere neanche una parola, ma sembrava che discutessero animatamente di qualche faccenda. In ogni caso, aveva sentito abbastanza.

Nessuno lascerà la tenuta vivo.

Che cosa avevano in mente? Le echeggiava ancora in testa la risata glaciale di Ischke, cupa e soddisfatta. Qualsiasi cosa stessero tramando, sembravano certi del risultato. Ma che cosa c’entravano i campioni di DNA?

Fiona sapeva che c’era soltanto un modo per scoprirlo. Non aveva idea di quando Gray sarebbe ritornato e temeva che il tempo stringesse. Doveva scoprire qual era il pericolo per poterlo evitare.

Mise in tasca il Taser e tirò fuori lo spolverino di piuma. Per quella impresa, avrebbe dovuto ricorrere a tutta la destrezza acquisita sulla strada. Aprì la porta e scivolò fuori dalla stanza. Non si era mai sentita tanto sola e in preda a una paura così assoluta. Ripensandoci, poggiò la mano sulla manopola della porta. Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi, con una preghiera, non rivolta a Dio, ma a qualcuno che le aveva insegnato che il coraggio può assumere molte forme, compreso il sacrificio.

«Mutti…» implorò.

Le mancava la nonna adottiva, Grette Neal. I segreti del passato avevano ucciso la donna e nuovi segreti minacciavano lei e gli altri. Per avere anche la minima speranza di sopravvivere, doveva essere coraggiosa e altruista come Mutti.

Le voci al piano inferiore si allontanavano dalla scala.

Fiona camminò quel tanto che bastava per vedere le teste biondo platino dei gemelli. Ritornò a sentire le loro parole.

«Non far aspettare grootvader», disse il fratello.

«Scenderò tra un attimo. Voglio soltanto dare un’occhiata a Skuld, assicurarmi che sia tornata nella sua tana. Era piuttosto eccitata e temo che possa farsi del male da sola, per la frustrazione.»

«Si potrebbe dire la stessa cosa di te, mia dolce zuster.»

Fiona fece un altro passo. Il fratello accarezzò la sorella sulla guancia, con un’intimità che faceva rabbrividire.

Ischke si arrese a quel tocco, poi si ritrasse. «Non ci metterò molto.»

L’uomo annuì e si diresse verso l’ascensore. «Avviso io grootvader.»

Ischke prese un’altra direzione, verso il retro del palazzo.

Fiona la seguì, tenendo stretto il Taser, nella tasca. Se fosse riuscita a sorprendere quella stronza da sola, a farla parlare…

Scese i gradini di volata, poi, giunta quasi in fondo alla scala, rallentò, riprendendo un passo più controllato. Ischke stava percorrendo un corridoio centrale, che s’inoltrava nel cuore del palazzo.

Fiona la seguiva a distanza, con la testa bassa, tenendo lo spolverino di piuma tra le braccia, come una monaca avrebbe portato una Bibbia. Camminava a passi piccoli, come una qualunque domestica ritrosa. Ischke scese cinque gradini, passando davanti a un paio di sentinelle, poi prese un corridoio sulla sinistra.

Fiona raggiunse le sentinelle. Accelerò il passo, come una domestica in ritardo per qualche ignota mansione. Ma rimase comunque china, semisepolta dall’uniforme troppo larga.

Raggiunse la breve scalinata.

Le guardie la ignorarono, sfoggiando un comportamento impeccabile subito dopo il passaggio della signora. Fiona scese salterellando i cinque gradini. Una volta raggiunto il corridoio inferiore, lo trovò vuoto.

Si fermò.

Ischke era scomparsa.

Fu pervasa da una miscela di sollievo e terrore.

Forse sarebbe stato più saggio ritornare nel nascondiglio e aspettare…

Ricordò la risata glaciale di Ischke, poi sentì risuonare la voce della donna, acuta e vicina. Proveniva da una doppia porta ornamentale, in vetro e ferro, sulla destra.

Qualcosa aveva fatto arrabbiare Ischke.

Fiona si precipitò verso la porta e si mise in ascolto.

«La carne deve essere sanguinante! Fresca!» gridò Ischke. «Altrimenti ti metto là dentro con lei.»

Seguirono scuse biascicate e passi che si allontanavano di fretta.

Fiona appoggiò l’orecchio al vetro.

Un errore.

La porta si aprì di colpo, sbattendole sulla testa. Ischke si precipitò fuori, andando a cozzare contro Fiona. Imprecò, spingendola via con una gomitata.

Fiona reagì d’istinto, affidandosi alle capacità acquisite un tempo. Si districò e si chiuse a palla, appoggiandosi su un ginocchio e facendosi piccina. Non ebbe nemmeno bisogno di recitare molto.

«E guarda dove vai!» sbottò Ischke.

«Ja, maitresse», la adulò lei, chinandosi ancora di più.

«Fuori dai piedi!»

Fiona fu presa dal panico. Dove doveva andare? Ischke si sarebbe chiesta che ci facesse lì. I battenti erano ancora aperti, appoggiati al corpo della donna. Fiona si fece strada, avanzando china attraverso la soglia, per allontanarsi da Ischke.

Cercò con la mano il Taser nascosto in tasca, ma le ci volle un istante per lasciar andare ciò che aveva appena rubato dalla tasca della giacca di Ischke. Non l’aveva fatto di proposito, era stato soltanto un riflesso condizionato. Quel ritardo le costò caro. Prima che potesse liberare il Taser, Ischke imprecò e si allontanò a grandi passi. I pesanti battenti di ferro e vetro si chiusero, con un rumore metallico.

Fiona si rannicchiò, maledicendosi. E adesso? Avrebbe dovuto aspettare qualche istante prima di andarsene. Avrebbe destato troppi sospetti se si fosse fatta beccare alle costole di Ischke un’altra volta. In più, sapeva dove era diretta la donna: tornava all’ascensore. Purtroppo, Fiona non conosceva la casa abbastanza bene per raggiungere l’atrio tramite un percorso alternativo e tentare un’imboscata.

Aveva le lacrime agli occhi, per un misto di paura e frustrazione. Aveva fatto un gran casino.

Disperata, finalmente notò la sala che le stava di fronte. Era ben illuminata, irrorata dalla luce naturale del sole attraverso una cupola geodesica di vetro. Era una specie di cortile interno circolare. Dal centro del pavimento si ergevano palme giganti, con le chiome sotto la volta di vetro. Tutt’attorno, massicci colonnati sostenevano il soffitto e creavano una serie di chiostri profondi. Tre vestiboli col soffitto a volta, alti quanto il cortile centrale, si diramavano come cappelle dalla navata centrale di una chiesa, formando una croce.

Ma quello non era un luogo di culto.

La prima cosa che la colpì fu l’odore. Muschiato, fetido, come il puzzo di un ossario. Nello spazio cavernoso echeggiavano urla e ululati. La curiosità la spinse a fare un passo avanti. Tre gradini portavano alla sala principale. Non c’era nessuno del personale. L’uomo che aveva sentito correr via dopo i rimproveri di Ischke era svanito nel nulla.

Fiona esaminò la sala. In ciascuno dei chiostri a margine del gigantesco cortile c’erano gabbie imponenti, sigillate da grate di ferro e vetro, simili alla porta d’ingresso. Dietro le sbarre vide forme gigantesche, alcune raggomitolate a dormire, altre che camminavano avanti e indietro, una accovacciata e intenta a rosicchiare un pezzo di femore. Erano le mostruose iene.

Ma non era tutto.

Un gorilla era seduto imbronciato vicino all’ingresso di una delle gabbie e guardava fisso Fiona, con un’intelligenza inquietante. E c’era di peggio: una mutazione aveva privato del pelo quella bestia, dal cui corpo penzolava una pelle rugosa simile a quella di un elefante.

In un’altra gabbia, un leone camminava avanti e indietro. Aveva il pelo, ma gli cresceva a chiazze, sbiadito, e al momento era imbrattato di feci e sangue rappreso. Aveva gli occhi orlati di rosso e ansimava, mostrando i denti a sciabola.

Tutt’attorno c’erano altre forme mostruose: un’antilope zebrata con corna a spirale, un paio di sciacalli alti e scheletrici, un facocero albino corazzato come un armadillo. Uno spettacolo macabro e triste allo stesso tempo. Gli sciacalli rinchiusi nella medesima gabbia guaivano e uggiolavano, impacciati nei movimenti, storpi.

Ma la pietà non bastava a frenare il terrore suscitato dalle gigantesche iene. Fiona fissò lo sguardo su quella che stava rosicchiando il femore di qualche grosso animale, bufalo o gnu. C’era ancora un po’ di carne da staccare dall’osso. Fiona non poteva fare a meno di immaginare che sarebbe potuta essere lei al suo posto. Se Gray non l’avesse salvata…

Rabbrividì.

Serrando le massicce mandibole, la gigantesca iena addentò l’osso, che si spezzò col fragore di un colpo di fucile.

Fiona sussultò, di nuovo all’erta.

Ritornò alla porta. Aveva aspettato abbastanza. La missione era fallita, perciò sarebbe ritornata al suo nascondiglio con la coda tra le gambe.

Spinse con forza la porta.

Era chiusa a chiave.


ore 14.30


Gray fissava la fila di massicce leve d’acciaio, col cuore in gola. Gli ci era voluto un bel po’ per trovare gli interruttori principali della centralina elettrica. Percepiva l’energia che scorreva attraverso i giganteschi cavi del locale, una forza elettromagnetica che lo colpiva alla base del collo.

Aveva già sprecato troppo tempo.

Dopo aver scoperto che mancava uno dei fusti di Xerum 525, quello destinato agli Stati Uniti, sentiva l’ansia dell’urgenza. Aveva abbandonato ogni tentativo di perlustrare il resto del sotterraneo. La cosa più importante era mettere in allerta Washington.

Marcia aveva riferito di aver visto una radio d’emergenza a onde corte nella zona di sicurezza, quando era stata prelevata dalla sua cella. Sapeva chi chiamare: una sua collega, la dottoressa Paula Kane, che avrebbe potuto trasmettere l’allarme. Tuttavia entrambi sapevano che, con tutta probabilità, cercare di impadronirsi della radio sarebbe stato una missione suicida. Ma che altro potevano fare?

Almeno Fiona era nascosta, al sicuro.

«Che aspetta?» chiese Marcia, che stava alle sue spalle, reggendo una torcia. Non aveva più il braccio legato al collo e indossava un camice da laboratorio, preso da uno degli armadietti. Al buio, poteva essere scambiata per una delle ricercatrici del laboratorio.

Gray sollevò una mano verso la prima leva.

Avevano già individuato le scale di emergenza, che portavano verso il palazzo. Ma, per uscire e raggiungere la zona di sicurezza, avevano bisogno di un diversivo.

La soluzione l’avevano trovata qualche istante prima. Appoggiato a una delle porte nel corridoio, Gray aveva notato la vibrazione e il ronzio dell’impianto elettrico che alimentava quel livello. Se fossero riusciti a far saltare la centralina principale, creando altro caos, forse accecando i loro carcerieri per un po’, avrebbero avuto una possibilità in più di arrivare a quella radio.

«Pronta?» chiese Gray.

Marcia accese la torcia. Lo guardò negli occhi, fece un respiro profondo e annuì. «Procediamo.»

«Buio», disse Gray, tirando la prima leva.

Poi un’altra, e un’altra ancora.


ore 14.35


Fiona vide le luci sfarfallare e spegnersi.

Era in piedi in mezzo al cortile, accanto a una piccola fontana. Qualche istante prima, era scivolata via dalla porta chiusa e aveva attraversato furtivamente il cortile in cerca di un’altra uscita. Doveva essercene un’altra per forzasi bloccò di colpo.

Nella sala calò un silenzio irreale, come se gli animali avessero percepito un cambiamento fondamentale, la scomparsa del ronzio subsonico perpetuo dell’elettricità. O forse intuivano semplicemente che ciò dava loro un nuovo potere. Una porta cigolò alle spalle di Fiona. Lei si voltò lentamente. Una delle gabbie di vetro e ferro in cui era chiusa una iena si era aperta. Il blackout aveva smagnetizzato le serrature. La bestia strisciò fuori dalla gabbia, grondando sangue dal muso. Era quella che stava rosicchiando l’osso. Emise un ringhio cupo.

Fiona sentì una risata sguaiata proveniente da qualche punto alle sue spalle. I predatori del serraglio si erano scambiati un messaggio silenzioso. Altre porte si aprirono cigolando sui cardini di ferro.

La ragazza rimase immobile accanto alla fontana. Anche la pompa idraulica si era fermata, mettendo a tacere l’acqua, come se temesse di attirare l’attenzione su di sé.

Da qualche parte, in una delle cappelle laterali, echeggiò un urlo acuto. Umano. Fiona immaginò che fosse l’inserviente rimproverato da Ischke. A quanto pareva, le bestie che gli erano state affidate avrebbero avuto la loro carne fresca. Sentì dei passi avvicinarsi, poi un nuovo urlo di dolore, mescolato a ululati, guaiti e latrati.

Fiona si tappò le orecchie dopo quell’ultimo urlo, seguito dal suono delle creature che si nutrivano.

Era concentrata interamente sulla prima belva che era fuggita.

La iena col muso insanguinato si stava avvicinando. Fiona riconobbe la creatura dalle screziature appena accennate sul fianco, macchie di bianco su bianco. Era la stessa della giungla.

La preferita di Ischke.

Skuld.

Prima quello zuccherino chiuso in gabbia le era stato negato.

Stavolta nessuno l’avrebbe disturbata.


ore 14.40


«Aiuto… bitte!» Gunther si precipitò nella capanna, seguito dal maggiore Brooks.

Lisa si alzò, sollevando lo stetoscopio dal petto di Painter. Stava tenendo sotto controllo un soffio sistolico. Nell’arco di una sola mezza giornata, il picco era passato da precoce a ritardato, il che suggeriva una rapida degenerazione della stenosi della valvola aortica. Quella che prima era una modesta angina si era ormai trasformata in sincopi e mancamenti, ogni volta che l’uomo si sforzava troppo. Lisa non aveva mai visto una degenerazione così rapida. Sospettava una calcificazione della valvola cardiaca. Quegli strani depositi mineralizzati avevano cominciato a comparire in tutto il corpo di Painter, anche negli umori degli occhi.

Disteso supino, il direttore della Sigma si sollevò sui gomiti, trasalendo.

«Che succede?» chiese a Gunther.

Gli rispose il maggiore Brooks, col suo pesante accento strascicato del Sud. «È sua sorella, signore. Ha una specie di attacco… Convulsioni.»

Lisa prese il suo kit medico. Painter cercò di alzarsi, ma al secondo tentativo dovette essere assistito da Lisa. «Resta qui», lo ammonì lei.

«Ce la faccio», replicò lui, palesemente irritato.

Lisa non aveva tempo di discutere e gli lasciò andare il braccio, poi si precipitò da Gunther. «Andiamo.»

Brooks aspettò, incerto se seguirli oppure se aiutare Painter. Questi lo allontanò con un cenno e si mise a zoppicare dietro di loro.

Lisa corse fuori dalla capanna e si diresse verso quella vicina. Fu investita dal caldo, come se fosse entrata in un forno. L’aria era immobile, incandescente, impossibile da respirare. Il sole era accecante. Ma, dopo un attimo, Lisa si stava già chinando per entrare nella più fresca oscurità dell’altra capanna.

Anna era distesa su una stuoia d’erba, appoggiata per metà su un fianco, il corpo inarcato, i muscoli contratti. Lisa corse da lei. Le aveva già collocato un catetere intravenoso nell’avambraccio. Anche Painter ne aveva uno. Così era più facile somministrare a entrambi farmaci e flebo.

Lisa si appoggiò su un ginocchio e le somministrò una dose già misurata di diazepam. Nel giro di qualche secondo, Anna si rilassò, ricadendo a terra. Sbatté le palpebre e aprì gli occhi, riprendendo coscienza, stordita, ma vigile.

Arrivò Painter, seguito da Monk. «Come sta?»

«Secondo te?» chiese Lisa, esasperata.

Gunther aiutò la sorella a mettersi seduta.

Aveva il viso cinereo, coperto da un velo di sudore. Painter era destinato a fare la stessa fine nel giro di un’ora. Sebbene fossero stati esposti in ugual misura alle radiazioni, la maggiore stazza e il maggior vigore fisico di Painter lo sostenevano un po’ meglio. Ma a entrambi non rimaneva che qualche ora di vita.

Lisa guardò lo spiraglio di luce che entrava nella capanna da una finestra a fessura. Il crepuscolo era troppo lontano.

Monk interruppe quel silenzio gravoso. «Ho parlato con Khamisi. Dice che si sono appena spente tutte le luci in quel dannato palazzo.» Accennò un sorriso, come se dubitasse che eventuali buone notizie fossero ben accette. «Immagino che sia opera di Gray.»

Painter aggrottò le sopracciglia. Era l’unica espressione di cui sembrava capace da qualche tempo. «Questo non lo sappiamo.»

«E non sappiamo neanche il contrario.» Monk si passò una mano sulla testa rasata. «Signore, penso che dobbiamo considerare la possibilità di anticipare l’intervento. Khamisi dice…»

«Khamisi non comanda questa operazione», lo interruppe Painter, tossendo forte.

Monk guardò Lisa. I due avevano parlato in privato venti minuti prima. Era uno dei motivi per cui l’agente aveva chiamato Khamisi. Bisognava verificare alcune opportunità.

Monk fece un cenno col capo.

Lisa tirò fuori dalla tasca una seconda siringa e affiancò Painter. «Lascia che ti sciacqui il catetere. C’è rimasto del sangue.»

Painter sollevò il braccio tremante.

Lisa gli sostenne il polso e iniettò la dose. Monk si portò accanto a Painter e lo afferrò, mentre gli cedevano le gambe.

«Che…» La testa di Painter ciondolò all’indietro.

Monk lo sostenne con una spalla sotto l’ascella. «È per il suo bene, signore.»

Painter guardò di traverso Lisa e allungò l’altro braccio verso di lei. Se fosse per colpirla o per esprimere lo shock perché lei l’aveva tradito probabilmente non lo sapeva nemmeno lui. Il sedativo gli fece perdere conoscenza.

Il maggiore Brooks rimase a guardare, con la bocca spalancata per lo stupore.

Monk alzò le spalle, rivolgendosi al militare dell’Air Force: «Mai visto un ammutinamento prima d’ora?»

Brooks si riprese. «Posso dire solo una cosa, signore: era ora!»

«Khamisi sta arrivando col pacchetto. Tempo d’arrivo previsto: tre minuti. Lui e la dottoressa Kane rileveranno il supporto logistico qui all’accampamento.»

Lisa si rivolse a Gunther: «Riesci a portare tua sorella?»

Come per dimostrarlo, la prese tra le braccia e la sollevò.

«Che state facendo?» chiese Anna, debole.

«Voi due non durerete fino a questa notte», disse Lisa. «Proveremo a raggiungere la Campana.»

«Come?»

«Non si arrovelli quella bella testolina», rispose Monk, e uscì arrancando, sostenendo Painter assieme al maggiore Brooks. «Ci pensiamo noi.»

Monk e Lisa si guardarono un’altra volta. Lei capì la sua espressione.

Forse era già troppo tardi.


ore 14.41


Gray fece strada su per le scale, pistola alla mano. Lui e Marcia si muovevano il più silenziosamente possibile. Lei teneva la mano sulla torcia, riducendo l’illuminazione al minimo indispensabile, quanto bastava per vedere dove stavano andando. Con gli ascensori fuori uso, Gray temeva di imbattersi in qualche sentinella sulle scale. Sebbene fosse travestito da guardia a sua volta e fingesse di accompagnare una ricercatrice fuori dal seminterrato, preferiva evitare incontri superflui.

Passarono al sesto livello sotterraneo, buio come il precedente.

Gray proseguì, accelerando il passo, compensando la cautela col timore che a un certo punto scattassero dei generatori secondari. Passato il pianerottolo successivo, videro una luce.

Sollevando una mano, Gray intimò a Marcia di fermarsi.

La luce non si muoveva. Era stazionaria.

Non era una guardia: probabilmente una lampada d’emergenza.

Eppure…

«Resti qui», sussurrò a Marcia. Gray proseguì, la pistola sollevata e pronta all’uso. Al pianerottolo successivo, la luce filtrava da una porta semichiusa. Avvicinandosi, sentì delle voci. Più su, le scale erano buie. Come mai c’erano luce e corrente, lì? Quel livello doveva essere servito da un circuito separato.

Le voci echeggiavano lungo il corridoio.

Erano voci familiari: Isaak e Baldric.

Non li vedeva, erano dentro la stanza. Guardò giù e vide il volto di Marcia stagliarsi nella luce che si riversava dalle scale. Le fece cenno di raggiungerlo.

Anche lei sentì le voci.

Isaak e Baldric non sembravano preoccupati del blackout. Si erano accorti che nel resto del palazzo mancava l’elettricità? Gray tenne a bada la sua curiosità. Doveva avvisare Washington.

«La Campana li ucciderà tutti», disse Baldric.

Gray si fermò. Stavano parlando di Washington? In tal caso, quali erano i loro piani? Se avesse scoperto qualcosa di più…

Fece un altro cenno a Marcia, sollevando due dita. Due minuti. Se non fosse stato di ritorno, lei sarebbe dovuta andare avanti da sola. Le aveva lasciato la sua seconda pistola. Forse vedere quella Campana poteva fare la differenza tra salvare delle vite e perderle.

Sollevò le due dita un’altra volta.

Marcia annuì. Se lui fosse stato catturato, sarebbe dipeso tutto da lei.

Gray s’infilò nella fessura, senza nemmeno toccare la porta, temendo che anche il minimo cigolio dei cardini potesse allarmare i due all’interno. Davanti a lui si estendeva un corridoio grigio illuminato da lampade al neon, come quello del piano inferiore. Ma terminava a breve distanza, con una doppia porta d’acciaio, di fronte all’ascensore buio.

Uno dei due battenti d’acciaio era aperto.

Gray si mosse rapidamente, raggiunse la porta e si appiattì contro la parete. Appoggiò un ginocchio a terra e sbirciò oltre lo stipite.

La sala aveva il soffitto basso e abbracciava quell’intero livello. Era il cuore del laboratorio. Lungo una parete era allineata una serie di computer. Sui monitor scorrevano cifre e codici. I computer probabilmente giustificavano il circuito separato, una fonte di alimentazione autonoma.

Gli occupanti della sala, concentrati com’erano sull’attività in corso, non avevano notato che era saltata la corrente nel resto del palazzo. Ma sicuramente sarebbero stati avvertiti da un momento all’altro.

Baldric e Isaak, nonno e nipote, erano chini su una stazione di lavoro. Su uno schermo piatto da trenta pollici appeso alla parete scorreva rapidamente una serie di rune, l’una dopo l’altra. Erano le cinque rune dei libri di Hugo.

«Il codice non è ancora decifrato», disse Isaak. «È saggio avviare la fase globale del programma con la Campana, mentre l’enigma rimane irrisolto?»

«Sarà risolto!» Baldric batté un pugno sul tavolo. «È soltanto questione di tempo. In più, siamo abbastanza vicini alla perfezione. Pensa a te e tua sorella, voi due vivrete a lungo. Cinquant’anni. La debilitazione non sopraggiungerà fino al vostro ultimo decennio di vita. È tempo di procedere.»

Isaak sembrava poco convinto.

Baldric si alzò, sollevò un braccio e fece un gesto ampio verso il soffitto. «Guarda che cosa hanno fatto i ritardi. Il nostro tentativo di dirottare l’attenzione internazionale sull’Himalaya ci si è rivoltato contro.»

«Perché abbiamo sottovalutato Anna Sporrenberg.»

«E la Sigma», aggiunse Baldric. «Ma non importa. Ora abbiamo i governi che ci soffiano sul collo. Con l’oro potremo comprarci soltanto un po’ di protezione. Dobbiamo agire subito. Prima Washington, poi il mondo intero. E, in quel caos, ci sarà tutto il tempo necessario per decifrare il codice. La perfezione ci apparterrà.»

«E dall’Africa sorgerà un nuovo mondo», recitò Isaak a memoria, come se fosse una preghiera che gli era stata inculcata in giovane età, cementata nel suo codice genetico.

«Puro e ripulito dalla corruzione», aggiunse Baldric, concludendo la litania. Ma le sue parole erano altrettanto prive di passione. Era come se non fosse altro che l’ennesima fase del suo programma di riproduzione, un esercizio scientifico.

Baldric si drizzò, appoggiandosi al bastone. Senza altro pubblico all’infuori del nipote, Gray notò quanto sembrava debole. Si chiese se l’accelerazione dei tempi non fosse motivata soprattutto dall’incombente morte del vecchio, più che da una vera necessità. Erano tutti quanti pedine inconsapevoli del desiderio di Baldric di attuare il suo piano? Forse aveva orchestrato l’intero scenario di proposito, consapevolmente o inconsapevolmente, per giustificare un’azione in quel momento, fintanto che era ancora in vita?

Isaak si era spostato a un’altra postazione di lavoro. «Abbiamo luce verde su tutta la linea. La Campana è accesa e pronta per l’attivazione. Ora potremo ripulire la tenuta dai fuggitivi.»

Gray s’irrigidì. Che diavolo stavano per fare?

Baldric voltò le spalle al codice runico e diresse la sua attenzione al centro della stanza. «Preparati all’attivazione.»

Gray si spostò per vedere una porzione più ampia del locale.

Al centro c’era un grosso contenitore, fatto di qualche tipo di composto ceramico o metallico. Aveva la forma di una campana rovesciata, alta quanto Gray. Dubitava di poterne abbracciare anche soltanto metà della circonferenza.

Si sentì uno scoppiettio e un’eco di motori e dal soffitto scese una camicia di metallo interna, rivestita di una serie di meccanismi. Calò nel contenitore esterno. Allo stesso tempo, si aprì la guarnizione di un vicino serbatoio giallo, dal quale un liquido metallico violaceo defluì nel cuore della Campana.

Lubrificante? Combustibile?

Gray non ne aveva idea, ma notò i numeri stampati sul lato del serbatoio: 525. Era il misterioso Xerum.

«Solleva lo schermo protettivo», ordinò Baldric. Dovette gridare per sovrastare i rumori metallici del gruppo motore. Indicò il pavimento col bastone.

Anche quel piano era pavimentato con le stesse mattonelle grigie, a eccezione di una sezione circolare di un nero opaco, con un diametro di trenta metri, attorno alla Campana. L’intera circonferenza aveva un bordo alto una trentina di centimetri, come la pista di un circo. La parte di soffitto sovrastante rispecchiava il pavimento, ma invece del bordo c’era un solco circolare.

Era tutto quanto fatto di piombo.

Gray capì che probabilmente l’anello esterno del pavimento si sollevava, spinto dai pistoni, e s’inseriva nel soffitto, formando un grande cilindro che avrebbe racchiuso la Campana.

«Che succede?» gridò Baldric, voltandosi verso il nipote.

Isaak premeva inutilmente un interruttore. «I motori dello schermo non hanno corrente!»

I motori dovevano essere al piano inferiore. Il livello oscurato. Squillò un telefono, un trillo stridente, che competeva col rumore dei motori. Gray immaginava chi fosse a chiamare: la sicurezza aveva finalmente scoperto dov’erano i padroni di casa.

Era ora di andare.

Gray si alzò e si voltò.

Un tubo gli colpì il polso, facendogli cadere di mano la pistola. Poi partì un altro fendente, diretto alla testa. Lo schivò giusto in tempo.

Ischke gli si avvicinò. Dietro di lei, le porte dell’ascensore buio erano aperte, forzate con una leva. Evidentemente la donna era rimasta bloccata quando era mancata la corrente, poi era scesa fino a lì. Nel frastuono dei motori della Campana, Gray non l’aveva sentita forzare le porte dietro di lui.

Ischke sollevò il tubo.

Gray arretrò verso l’interno della sala della Campana, tenendo gli occhi fissi su di lei. Evitò di guardare le scale d’emergenza. Pregò che Marcia se ne fosse già andata, che fosse già diretta alla radio a onde corte, pronta a dare l’allarme a Washington.

Ischke, coi vestiti macchiati di grasso e col viso imbrattato, seguì Gray dentro il locale.

Gray sentì la voce di Baldric alle sue spalle. «Wat is dit? Sembra che la piccola Ischke abbia catturato il topolino che ha rosicchiato i fili.»

Gray era disarmato. Senza nessuna possibilità.

«I generatori stanno ritornando in linea», disse Isaak, con tono annoiato, per nulla colpito dall’intrusione.

Sotto i piedi di Gray ci furono un rombo e uno stridore di motori. Lo schermo cominciò a salire dal pavimento.

«E ora sterminiamo gli altri ratti», disse Baldric.


ore 14.45


Monk gridò per farsi sentire nel frastuono dell’elicottero. Il vortice creato dai rotori faceva turbinare sabbia e polvere tutt’attorno. «Sai far volare questo uccellino?»

Gunther annuì, impugnando la leva dei comandi.

Monk gli diede una pacca sulla spalla. Doveva fidarsi del nazista. Non poteva pilotare con una mano sola. Comunque, dato che l’obiettivo del gigante in quel momento era la sopravvivenza della sorella, Monk ritenne di poter fare quella scommessa.

Anna era seduta dietro con Lisa. Painter era accasciato tra di loro, con la testa ciondoloni. Il sedativo era leggero. Ogni tanto borbottava qualcosa di insensato, a proposito di un’incombente tempesta di sabbia, perso in paure del passato.

Chinando la testa sotto le pale, Monk girò attorno all’elicottero.

Dall’altra parte c’erano Khamisi e Mosi D’Gana, il capo zulù. Si strinsero reciprocamente gli avambracci. Mosi si era spogliato degli abiti cerimoniali: indossava una tuta kaki e un berretto, e portava in spalla un fucile automatico. A un cinturone nero era appesa una fondina, con una pistola. Inoltre, legata sulla schiena, portava una lancia corta con una lama spaventosa.

«Ora sei tu al comando», disse a Khamisi in tono formale, mentre Monk si avvicinava.

«Ne sono onorato, signore.»

Mosi annuì e lasciò andare il braccio di Khamisi. «Ho sentito dire bene di te, Fat Boy.»

Monk li raggiunse. Fat Boy?

Khamisi sgranò gli occhi, nello sguardo una miscela di vergogna e onore. Annuì e si allontanò. Mosi salì sull’elicottero. Avrebbe fatto parte della prima ondata d’attacco. Monk non aveva scelta, era in debito con lui.

Khamisi si avvicinò a Paula Kane. I due avrebbero coordinato l’attacco via terra.

Monk si guardò attorno, oltre il turbine di sabbia e polvere. Le forze si erano radunate in fretta, arrivando a piedi, a cavallo, su motociclette arrugginite e camioncini sconquassati. Mosi aveva fatto circolare la voce e, come il suo grande antenato Shaka Zulu, aveva radunato un esercito di uomini e donne, con indosso pelli tradizionali, tute mimetiche consunte, jeans Levi’s. E ne stavano arrivando ancora.

Sarebbe toccato a loro tenere occupate le guardie dei Waalenberg, per conquistare la tenuta, se possibile. Come se la sarebbero cavata gli zulù contro le forze di sicurezza, dotate di armi ed esperienza superiori? Sarebbe stata un’altra Blood River?

C’era soltanto un modo per scoprirlo.

Monk s’infilò nell’affollato scompartimento posteriore. Mosi si accomodò accanto al maggiore Brooks. Erano seduti di fronte ad Anna, Lisa e Painter. Sul sedile posteriore c’era anche un altro nuovo arrivato, un guerriero zulù mezzo nudo, di nome Tau, con la cintura allacciata. Era mezzo girato per tenere una lancia corta puntata in gola al copilota dell’elicottero: il sovrintendente capo Gerald Kellog era seduto accanto a Gunther, legato e imbavagliato. Aveva un occhio gonfio, che stava diventando viola.

Monk toccò Gunther su una spalla e gli fece cenno col dito di far decollare il velivolo. Gunther rispose con un cenno del capo e azionò il collettivo. L’elicottero si sollevò con un gran rombo di motori.

Il suolo si allontanava sempre di più e davanti a loro si estendeva la tenuta. Monk era stato informato dei missili terra-aria di cui erano dotati i Waalenberg. Disarmato com’era, il lento elicottero commerciale sarebbe stato un facile bersaglio.

Non era una bella situazione.

Monk si sporse in avanti. «È ora di guadagnarsi la pelle, sovrintendente.»

Kellog sbiancò.

Soddisfatto, Monk prese il microfono della radio e lo accostò alle labbra del sovrintendente. «Colleghiamoci alla frequenza della sicurezza.»

Khamisi aveva già ottenuto i codici. Era quello il motivo dell’occhio nero di Kellog.

«Si attenga al copione», lo ammonì Monk, facendogli un sorriso maligno.

Kellog si scostò ancora un po’.

Il suo sorriso era davvero così terribile?

Per ribadire la minaccia, Tau premette la punta della lancia nel collo morbido dell’uomo.

La radio emise qualche scarica elettrostatica e Kellog trasmise il messaggio secondo le istruzioni. «Abbiamo ricatturato uno dei vostri prigionieri. Monk Kokkalis. Lo abbiamo a bordo, atterreremo all’eliporto sul tetto.»

Gunther controllava la risposta della sicurezza tramite le cuffie.

«Ricevuto. Passo e chiudo», disse ancora Kellog.

Gunther quasi gridò: «Ci hanno dato il via libera».

Puntò verso il basso il muso del velivolo, accelerando verso la tenuta. Dall’alto, il palazzo sembrava ancora più imponente.

Monk si girò, rimettendosi comodo sul sedile, di fronte a Lisa. Accanto a lei, Anna era appoggiata al finestrino, gli occhi strizzati per il dolore. Painter dondolava, tenuto dalle cinture, e gemeva. L’effetto del sedativo stava per finire.

Lisa lo fece appoggiare di nuovo allo schienale.

Monk notò che gli teneva la mano. Da tutto il viaggio.

Lisa e Monk si guardarono in faccia.

Lo sguardo di lei era pieno di paura, ma non per se stessa.


ore 14.56


«L’asta di trasmissione è sollevata?» chiese Baldric.

Isaak annuì, senza distogliere lo sguardo dalla console.

«Prepara la Campana per l’attivazione.» Baldric si rivolse a Gray: «Abbiamo inserito i codici del DNA dei suoi compagni nella Campana. Modificherà le emissioni per snaturare e distruggere selettivamente i DNA corrispondenti, rimanendo innocua per tutti gli altri. È la nostra versione della soluzione finale».

Gray pensò a Fiona nascosta nella stanza e a Monk che stava arrivando proprio in quel momento. «Non c’è bisogno di ucciderli. Avete ricatturato il mio compagno. Lasciate stare il ragazzo e la ragazza.»

«Se c’è una cosa che ho imparato in questi ultimi giorni, è che è meglio non lasciare nulla in sospeso.» Baldric fece un cenno a Isaak. «Attiva la Campana.»

«Aspettate!» gridò Gray, facendosi avanti.

Ischke aveva raccolto la sua pistola e gliela puntò contro.

Baldric si diede una breve occhiata alle spalle, annoiato e impaziente.

Gray aveva soltanto una carta da giocare. «So come decodificare il codice di Hugo.»

La sorpresa ammorbidì l’espressione severa di Baldric. Sollevò una mano, facendo cenno a Isaak di aspettare. «Davvero? Lei è in grado di fare ciò che una serie di computer non è riuscita a fare?»

Gray sapeva di dover offrire qualcosa a Baldric, qualsiasi cosa, per impedirgli di attivare la Campana e irradiare i suoi amici. Indicò il monitor che mostrava ciclicamente le rune. Il computer le rimescolava, in cerca di una combinazione logica.

«Da soli fallirete», affermò Gray.

«E perché?»

Gray si leccò le labbra secche. Aveva paura, ma doveva restare concentrato. Sapeva con certezza che il computer avrebbe fallito, perché lui aveva già risolto l’enigma delle rune. Non capiva la risposta, ma sapeva che era quella giusta, soprattutto considerando le origini ebree di Hugo Hirszfeld.

Ma quanto poteva rivelare? Doveva contrattare al meglio delle sue capacità, cercando un equilibrio tra la verità e la risposta.

«Avete preso la runa sbagliata dalla Bibbia di Darwin», disse Gray. Era la verità. «E ci sono sei rune, non solo cinque.»

Baldric sospirò. Le rughe attorno alla bocca gli si fecero ancora più profonde per lo scetticismo. «Come la ruota del sole che ha disegnato l’altra volta, immagino.» Si voltò di nuovo verso Isaak.

«No! Lasci che glielo dimostri!»

Si guardò attorno e individuò un pennarello vicino a uno dei computer. «Passatemi quello.»

Con la fronte corrugata, Baldric fece un cenno a Isaak, che lanciò il pennarello verso Gray. Lui s’inginocchiò e fece un disegno sul linoleum grigio. «Questa è la runa della Bibbia di Darwin.»



«La Menschrune», disse Baldric.

Gray la picchiettò con un dito. «Rappresenta lo stato superiore dell’essere umano, il piano divino che si nasconde in tutti noi.»

«E allora?»

«Questo era l’obiettivo di Hugo Hirszfeld, il risultato finale cui mirava, giusto?»

Baldric annuì lentamente.

«Hirszfeld non avrebbe incorporato il risultato nel suo codice. Il codice conduce a questo.» Picchiettò più forte la runa. «Questo non può rientrare nel codice.»

A poco a poco si fece strada la comprensione e il vecchio cominciò a credergli. «Le altre rune nella Bibbia di Darwin…»

Gray fece altri disegni sul pavimento, per illustrare la sua argomentazione.



«Queste due rune costituiscono la terza.» Disegnò un cerchio attorno alle due rune biforcute. «Rappresentano l’umanità al suo livello più basilare, quello che conduce allo stato superiore. Perciò sono queste due che devono essere inserite nel codice.» Gray scrisse la serie originale di rune. «Questa è la sequenza sbagliata.»



Poi la cancellò e scrisse la serie corretta, dividendo l’ultima runa.



Baldric si avvicinò. «E questa è la serie corretta? Quella da decifrare?»

Gray disse la verità. «Sì.»

Baldric annuì, mentre rifletteva su quella rivelazione. «Credo che lei abbia ragione, comandante Pierce.»

Gray si alzò.

«Dank u», disse Baldric, poi si rivolse a Isaak: «Attiva la Campana e fai fuori i suoi amici».


ore 15.07


Lisa e Tau, il guerriero zulù, aiutarono Painter a scendere dall’elicottero. Il sedativo che gli avevano somministrato era di breve durata e l’effetto sarebbe finito di lì a qualche minuto.

Gunther sosteneva Anna, che aveva gli occhi velati. Si era iniettata un’altra dose di morfina contro il dolore, ma aveva cominciato a sputare sangue.

Davanti a loro c’erano Monk e Mosi D’Gana e ai loro piedi i cadaveri di tre sentinelle dell’eliporto. Gli agenti di sicurezza erano stati colti di sorpresa. Si aspettavano di ricevere un prigioniero. Era bastato qualche colpo esploso da un paio di pistole col silenziatore per assumere il controllo dell’area.

Monk fece cambio di posizione con Tau. «Resta qui, sorveglia l’elicottero e tieni d’occhio il prigioniero.»

Kellog era stato tirato fuori dal velivolo, ma era imbavagliato, aveva le mani ammanettate dietro la schiena e le caviglie legate. Non sarebbe andato da nessuna parte.

Monk fece cenno al maggiore Brooks e a Mosi D’Gana di fare strada. Avevano studiato tutti la mappa disegnata da Paula Kane e calcolato il percorso migliore per raggiungere il sotterraneo. Era piuttosto lontano.

Brooks e Mosi li guidarono fino all’accesso al palazzo, imbracciando i fucili d’assalto. I due si muovevano come se avessero già lavorato assieme, sincronizzati, efficienti. Anche Gunther aveva una pistola in mano e portava a tracolla un fucile a canne mozze. Armati fino ai denti, raggiunsero la porta.

Brooks scattò in avanti. Le chiavi magnetiche sottratte alle guardie aprirono loro la strada. Il maggiore e Mosi scomparvero all’interno, in avanscoperta. Gli altri rimasero indietro ad aspettare.

Monk guardò l’orologio. Il tempismo era essenziale.

Un breve fischio li raggiunse da sotto.

«Andiamo!» ordinò Monk.

Entrarono rapidamente e trovarono una breve rampa di scale che conduceva al sesto piano. Brooks era sul pianerottolo. Un’altra guardia era distesa sulle scale, col collo squarciato. Mosi era accovacciato al pianerottolo successivo, col coltello insanguinato in mano.

Continuarono a scendere per la spirale di gradini. Non incontrarono altre guardie. Come speravano, molte sentinelle erano concentrate all’esterno. L’ammassarsi dei guerrieri zulù aveva inevitabilmente attirato la loro attenzione.

Monk guardò l’orologio un’altra volta.

Raggiunto il secondo piano, lasciarono la tromba delle scale ed entrarono in un corridoio di legno lucido. Era ombroso e scuro. La luce delle lampade a muro era intermittente, come se l’impianto elettrico fosse ancora in panne dopo il blackout… Oppure qualcosa stava assorbendo un sacco di energia.

Lisa notò anche un odore di rancido.

Il corridoio terminava in un passaggio trasversale. Brooks andò in avanscoperta sulla destra, la direzione in cui dovevano andare. Ricomparve di colpo, e si appiattì contro la parete. «Indietro…»

Da oltre l’angolo provenne un ringhio feroce, di sfida, seguito da una serie di risate e guaiti eccitati. Poi un unico urlo stridente sovrastò tutto quanto.

«Ukufa», sussurrò Mosi, facendo cenno agli altri di tornare indietro.

«Via!» esortò Brooks. «Noi cercheremo di spaventarle, poi vi raggiungeremo.»

Monk trascinò via Lisa e Painter.

«Che cosa…» stava per chiedere Lisa, ma le parole le si spensero in gola.

«Qualcuno ci ha sguinzagliato dietro i cani», rispose Monk.

Gunther incespicava, trasportando di peso la sorella, che strisciava i piedi sul pavimento.

Dietro di loro ci fu un’esplosione di colpi.

I guaiti e gli ululati si trasformarono in urla di dolore e rabbia.

Corsero più forte.

Altri colpi echeggiarono, suonando quasi frenetici.

«Dannazione!» imprecò Brooks.

Lisa si guardò brevemente alle spalle.

Brooks e Mosi avevano abbandonato le loro posizioni e si affrettavano lungo il corridoio, continuando a sparare verso le bestie.

«Via, via, via!» gridava Brooks. «Sono troppe!»

Tre massicce creature dal pelo bianco comparvero da dietro l’angolo, con la bava alla bocca e il pelo ritto sul collo. Artigliavano il pavimento di legno mentre correvano a zigzag, quasi anticipando i proiettili, schivando i colpi mortali. Tutt’e tre avevano ferite sanguinanti, ma sembravano spronate, più che indebolite.

Lisa tornò a guardare avanti giusto in tempo per vedere una coppia di bestie della stessa razza uscire da direzioni opposte, alla fine del corridoio, bloccando la via di fuga.

Un’imboscata.

La possente pistola di Gunther esplose come un cannone assordante. Mancò la prima delle creature, che schivò il colpo con le movenze leggere di un’ombra.

Monk sollevò la sua arma, fermandosi.

Lisa proseguì, trasportata dallo slancio. Finì con un ginocchio a terra, trascinando con sé il corpo inerte di Painter.

Questi crollò al suolo, svegliandosi per l’impatto. «Dove…»

Lisa lo spinse a terra, mentre nel corridoio imperversava la sparatoria.

Alle sue spalle ci fu un urlo acuto. Si voltò di scatto. Una sagoma pesante e muscolosa si lanciò fuori da una porta vicina e sbatté Brooks contro il muro.

Lisa fuggì carponi, lanciando un grido.

Mosi intervenne, tuffandosi sulla bestia con la lancia in pugno e un ululato sulle labbra.

Lisa abbracciò Painter.

Quelle creature erano ovunque.

Un movimento attirò l’attenzione della donna. Un’altra bestia emerse da dietro una porta, sulla sinistra, facendo cigolare i cardini. Aveva il muso insanguinato. Gli occhi rossi brillavano nella stanza buia. Lisa ricordò l’immagine del primo monaco buddista che aveva visto, pazzo, famelico, ma ancora in grado di agire con astuzia e intelligenza.

Era la stessa cosa.

Mentre il mostro si avvicinava furtivo, scoprì i denti con un ringhio trionfante.

15. LE CORNA DEL TORO

Sudafrica,

ore 15.10


Khamisi era disteso in un fosso, coperto da un telo mimetico.

«Tre minuti», disse Paula, accanto a lui.

I due studiavano la recinzione nera col binocolo.

Khamisi aveva distribuito le forze lungo i confini del parco. Alcuni dei suoi compagni zulù camminavano in bella vista, sorvegliando le vacche lungo vecchi sentieri. C’era un gruppo di anziani con coperte sulle spalle e ornamenti tradizionali. L’assembramento era mascherato da cerimonia nuziale.

Motociclette, ATV e furgoni erano stati parcheggiati a casaccio nella zona. Alcuni dei guerrieri più giovani, tra cui anche donne, si aggiravano attorno ai veicoli; c’erano coppie strette in abbracci amorosi, altri che sollevavano coppe di legno intagliato, gridando e fingendo di essere brilli. C’era un gruppo di uomini a torso nudo, dipinti per i festeggiamenti, intenti a saltare brandendo mazze, in una danza tradizionale. E, a parte le mazze, non c’erano altre armi in vista.

Khamisi mise a fuoco l’immagine nel binocolo. Si spostò leggermente, elevando il campo visivo sopra l’alta recinzione e i rotoli di filo spinato che la sovrastavano. Vide qualche movimento nel fogliame della giungla. Le forze dei Waalenberg si erano radunate sui sentieri sospesi per sorvegliare i confini.

«Un minuto», intonò Paula. Aveva un fucile da cecchino posato su un treppiede sotto il telo mimetico, che era nascosto all’ombra di un albero di stinkwood.

Con sua grande sorpresa, Khamisi aveva scoperto che la donna aveva vinto diverse medaglie d’oro nel tiro a segno olimpico. Abbassò il binocolo. La tradizionale strategia d’attacco zulù si chiamava il Bufalo. Il corpo principale, detto petto, avrebbe condotto un attacco frontale, mentre le corna del toro avrebbero colpito i fianchi, accerchiando il nemico e impedendo la ritirata. Ma Khamisi aveva previsto una leggera modifica, per compensare gli armamenti moderni. Era il motivo per cui aveva perlustrato il terreno tutta la notte, seminando le sue sorprese.

«Dieci secondi», avvisò Paula, cominciando un conto alla rovescia a bassa voce. Appoggiò la guancia al fianco del fucile.

Khamisi sollevò la trasmittente, girò la chiave e tenne il pollice sospeso sopra la fila di bottoni.

«Zero.»

Khamisi premette il primo bottone.

Oltre la recinzione, le cariche che aveva piazzato durante la notte esplosero con detonazioni fragorose, devastando le chiome degli alberi: scoppiavano in sequenza, in modo da creare il massimo caos. Pezzi di tavole e rami in fiamme si sollevarono in cielo, mentre uno stormo di uccelli prendeva il volo in preda al terrore, come un’esplosione di coriandoli di tutti i colori dell’arcobaleno.

Khamisi aveva piazzato pacchetti esplosivi C4, ottenuti tramite canali britannici, nei principali punti di supporto e di collegamento dei sentieri sospesi. Le esplosioni si diffusero, accerchiando il palazzo e facendo crollare i ponti, privando così le forze Waalenberg del vantaggio dell’altezza e suscitando panico e confusione.

Davanti a Khamisi, alcuni guerrieri zulù lasciarono cadere le coperte, rivelando i fucili che nascondevano, oppure s’inginocchiarono e, tirandoli per un lembo, dissotterrarono teli che celavano armi. Era il petto del Bufalo. Tutt’attorno, i motori rombavano e i guerrieri montavano sui veicoli, trasformando le motociclette e i camioncini nelle corna del toro.

«Adesso», disse Paula.

Khamisi premette gli altri bottoni, l’uno dopo l’altro.

Quasi un chilometro di recinzione esplose, con metallo e filo spinato che si contorceva tra le fiamme. Grossi frammenti caddero al suolo, scoprendo il ventre del nemico.

Khamisi si liberò del telo mimetico e si alzò. Una motocicletta arrivò a tutta velocità da dietro, sollevando sabbia e polvere, mentre si fermava con una sgommata accanto a lui. Njongo gli fece cenno di montare in sella, ma Khamisi aveva un ultimo compito. Sollevò una sirena sopra la testa e premette il grilletto. Lo squillo di tromba echeggiò nella terra degli zulù, suonando ancora una volta la carica del Bufalo.


ore 15.13


L’eco delle detonazioni arrivò fin nel sotterraneo, facendo tremolare le luci nella stanza della Campana. Si fermarono di colpo: Baldric era accanto al nipote Isaak, presso la console, mentre Ischke sorvegliava Gray, a un passo di distanza, puntandogli la pistola al petto. Tutti guardarono il soffitto.

Tutti tranne Gray.

Lui mantenne lo sguardo fisso sul misuratore di potenza della console. Gli indicatori aumentavano lentamente, apprestandosi a raggiungere l’impulso massimo. Indifferente alle suppliche di Gray, Baldric aveva attivato la Campana. Un crescente ronzio pervadeva il cilindro di piombo attorno all’apparecchio. L’involucro esterno della Campana, mostrato in un monitor, emanava una luce blu chiara.

Una volta raggiunto il picco di potenza, un poderoso impulso sarebbe stato trasmesso nel raggio di otto chilometri, uccidendo Monk, Fiona e Ryan, ovunque fossero nascosti. Soltanto Gray era al sicuro, in quella stanza, sotto lo schermo.

«Scopri che sta succedendo», ordinò Baldric al nipote, quando le esplosioni cessarono.

Isaak stava già prendendo il telefono rosso.

Il colpo di pistola li fece sobbalzare tutti. Subito dopo le esplosioni smorzate suonò fragoroso e vicino.

Gray si voltò e vide il pavimento macchiarsi di sangue.

Dalla spalla sinistra di Ischke sgorgava uno zampillo cremisi, mentre la donna, colpita da dietro, girava su se stessa per l’impatto. Purtroppo teneva la pistola con la mano destra. Mirò alla persona che le aveva sparato, accanto alla porta.

La dottoressa Marcia Fairfield era appoggiata su un ginocchio, in posizione di tiro, ma, avendo il braccio destro inservibile, aveva sparato con la sinistra, fallendo il colpo mortale.

Per quanto colta di sorpresa, Ischke non poteva sbagliare mira.

Finché Gray non le si tuffò addosso.

Entrambe le pistole spararono con un fragore assordante. Nessuno dei colpi andò a segno.

Gray placcò Ischke da dietro, allontanandola da Marcia, ma la donna era forte e lottò selvaggiamente. Gray però riuscì ad afferrarle la mano con cui impugnava la pistola.

Suo fratello corse verso di loro, con un lungo pugnale nella mano.

Marcia sparò, ma non aveva una linea di tiro sgombra neanche per colpire Isaak, perché si frapponevano i corpi di Gray e Ischke, avvinghiati nella lotta.

Gray piantò il mento nella spalla sanguinante di Ischke. Forte. Lei boccheggiò, leggermente indebolita. Gray le sollevò il braccio e le strizzò le dita. La pistola sparò e lui sentì il rinculo nella propria spalla. Ma il colpo era troppo basso e finì sul pavimento, ai piedi di Isaak. Rimbalzando, però, il proiettile graffiò il polpaccio dell’uomo, facendolo incespicare.

Ischke, vedendo il gemello ferito, liberò furiosa il braccio e assestò una gomitata nelle costole a Gray. Gli mancò il fiato e sentì il dolore salirgli fino agli occhi.

Ischke si liberò. Dietro di lei, Isaak riprese a camminare regolarmente, in preda a una rabbia omicida. Gray non rimase ad aspettare. Lanciandosi in avanti, diede una spallata a Ischke da dietro. La donna, che non aveva ancora riguadagnato del tutto l’equilibrio dopo essersi liberata dalla presa di Gray, volò addosso al fratello.

Sul suo pugnale.

La lama dentellata le affondò nel petto.

Dalle labbra di Ischke proruppe un grido di sorpresa e di dolore, al quale fece eco quello di suo fratello. Le cadde la pistola di mano, mentre si aggrappava al gemello, incredula.

Gray si tuffò e prese la pistola prima che toccasse terra. Scivolando sulla schiena, prese di mira Isaak.

L’uomo si sarebbe potuto muovere — si sarebbe dovuto muovere —, ma si limitò a tenere la sorella tra le braccia, il volto una maschera d’agonia.

Gray lo centrò in testa e pose fine alla sua pena.

I due gemelli crollarono al suolo assieme, abbracciati, mentre il loro sangue si mescolava.

Marcia corse nella stanza, puntando la pistola contro Baldric. Il vecchio fissava i nipoti morti. Ma non c’era dolore nei suoi occhi. Appoggiato al bastone, mostrava soltanto un certo distacco clinico, come una costernazione per risultati di laboratorio deludenti.

La colluttazione era durata meno di venti secondi.

Gray notò che il misuratore di potenza della Campana era nella zona rossa. Forse gli rimanevano due minuti, prima dell’impulso.

Premette la canna bollente della pistola sulla guancia del vecchio. «La spenga.»

Baldric lo guardò negli occhi. «No.»


ore 15.13


Mentre l’eco delle esplosioni si disperdeva, ai piani alti del palazzo il corridoio cominciò a rianimarsi. Quando avevano cominciato a tuonare le bombe, le mostruose iene si erano appiattite sul pavimento. Alcune se l’erano svignata, ma la maggior parte era rimasta accanto alle prede.

Quegli ammassi di ferocia e muscoli si stavano rimettendo in piedi.

«Non sparate…» intimò Monk, sussurrando. «Tutti dentro quella stanza.»

Indicò una porta laterale, dove potevano resistere meglio, limitando la loro esposizione. Gunther trascinò Anna. Mosi D’Gana si allontanò dalla bestia che aveva impalato con la lancia e aiutò il maggiore Brooks a rialzarsi. Il sangue gli colava a fiotti da un profondo morso sulla coscia.

Prima che potessero fare un altro passo, qualche metro più in là si levò un ringhio selvaggio d’avvertimento.

Qualcuno sussurrò: «Monk…»

Lisa era accovacciata sulla sagoma di Painter, accasciato al suolo, accanto a un’altra porta. Una creatura imponente, di gran lunga più grande delle altre, comparve alle loro spalle, seminascosta dalla porta e riparata dietro Lisa e Painter.

Drizzò le spalle e assunse una postura decisa, sorvegliando la sua preda, poi scoprì i denti affilati come rasoi, ringhiando, il muso grondante di sangue e saliva. Negli occhi aveva un luccichio rosso vivo. Un avvertimento.

Monk intuiva che, se qualcuno avesse sollevato un’arma, la bestia si sarebbe scaraventata sulla coppia distesa a terra. Doveva correre il rischio, ma, prima ancora che si muovesse, un grido di comando risuonò nel corridoio.

«Skuld, no!»

Monk si voltò.

In fondo al corridoio comparve Fiona. Con incedere deciso, passò davanti a due creature, ignorandole mentre si lasciavano cadere su un fianco, miagolando.

In una mano portava un Taser, che emanava lampi blu. Nell’altra aveva un altro apparecchio: l’antenna era puntata sulla bestia che minacciava Lisa e Painter. «Brutto cagnaccio!»

Con grande meraviglia di Monk, la creatura fece un passo indietro e smise di ringhiare. Come in preda a un incantesimo, ciondolò per un po’ sulla soglia. Il fuoco le si spense negli occhi, mentre si lasciava cadere sul pavimento. Emise un mugghio sommesso, quasi estatico.

Monk guardava attonito in tutte le direzioni. Gli altri mostri erano caduti sotto lo stesso incantesimo.

«I Waalenberg hanno impiantato dei chip a queste bastarde», spiegò Fiona, soppesando il dispositivo che aveva in mano. «Per controllare dolore e piacere.»

L’imponente mostro sulla porta miagolò di soddisfazione.

Monk guardò perplesso la trasmittente. «Come ti sei procurata…»

Fiona lo fissò e agitò l’apparecchio, facendo cenno di seguirla.

«L’hai rubato», capì Monk.

Lei scrollò le spalle e s’incamminò lungo il corridoio. «Diciamo che mi sono imbattuta in una vecchia amica e in qualche modo mi è finito in tasca. Lei non lo stava usando.»

Ischke, pensò Monk, mentre radunava gli altri. Aiutò Lisa a sollevare Painter. Gunther portava Anna sottobraccio, mentre Mosi e Brooks si sostenevano a vicenda. Nel complesso, erano una squadra d’assalto alquanto mal messa.

Ma erano arrivati i rinforzi.

Il branco li seguiva: una dozzina di esemplari, ma altre bestie si stavano unendo a loro, attratte dall’aura di piacere che emanava dalla ragazza, una specie di pifferaia magica dei mostri.

«Non riesco a sbarazzarmene», spiegò Fiona, balbettando un po’. Monk notò che le tremavano le mani. Era terrorizzata. «Dopo che ho trovato il bottone giusto, hanno cominciato a seguirmi dalle loro gabbie. Mi sono nascosta nella stanza dove Gray mi aveva detto di aspettare, ma devono essere rimaste nei corridoi e nelle stanze qui attorno. Vi ho sentito gridare, poi le esplosioni e…»

«Va bene», la interruppe Monk. «Ma che mi dici di Gray? Dov’è?»

«È sceso in ascensore più di un’ora fa.» Indicò un punto più avanti, dove il corridoio terminava in una balconata. «Vi faccio vedere.»

Accelerò il passo. Gli altri cercarono di starle dietro, incespicando e controllando di quando in quando il branco alle loro spalle. Fiona li condusse giù per una rampa di scale, dove trovarono l’ascensore.

Zoppicando, il maggiore Brooks raggiunse la serratura elettronica e ci infilò diverse tessere magnetiche, prima di trovare quella che facesse accendere la luce verde. Si sentì un suono di motori. La cabina stava risalendo da qualche livello più basso.

Mentre aspettavano, le iene si beavano nel piacere emanato dal dispositivo di Fiona. Alcune camminavano a passi felpati nell’atrio, tra cui quella che Fiona aveva chiamato Skuld.

Nessuno parlava, tutti tenevano d’occhio i mostri.

In lontananza, attutiti dalla porta d’ingresso, arrivavano grida e colpi d’arma da fuoco. Khamisi era nel pieno della battaglia. Quanto tempo ci avrebbe messo per raggiungerli?

Come se qualcuno avesse letto nel pensiero di Monk, i due battenti si aprirono di colpo. Spari, scoppi ed esplosioni risuonarono acuti. Le urla si fecero più intense. Gli uomini si riversarono nel palazzo: le forze dei Waalenberg battevano in ritirata. Tra loro, Monk riconobbe le sagome vestite di nero dell’élite, i fratelli di un biondo glaciale. Una dozzina, ben poco turbati, come se fossero rientrati da una giornata rinfrescante sui campi da tennis.

Mentre all’esterno infuriava ancora la guerra, le due forze si fronteggiarono nell’atrio.

La squadra di Monk arretrò, costretta contro la parete, in svantaggio numerico.

Il rapporto era cinque contro uno.


ore 15.15


Gray si allontanò da Baldric Waalenberg. «Lo tenga d’occhio», ordinò a Marcia.

Lui andò alla postazione di lavoro di Isaak, continuando a guardare il misuratore di potenza della Campana. Allungò la mano verso un interruttore che Isaak aveva usato poco prima: controllava lo schermo protettivo che circondava il dispositivo attivato.

«Che sta facendo?» chiese Baldric, il tono della voce improvvisamente preoccupato.

Allora c’era qualcosa che faceva più paura al vecchio di un proiettile. Buono a sapersi. Gray spinse indietro l’interruttore. Si udì un rombo di motori da sotto il pavimento e lo schermo cominciò ad abbassarsi. Una luce blu penetrante filtrò dal bordo superiore, mentre il cilindro di piombo si allontanava dal soffitto.

«Lo fermi! Ci ucciderà tutti!»

«E allora spenga quella dannata cosa.»

Baldric aveva lo sguardo fisso, tra lo schermo che scendeva e la console. «Non posso spegnerla, ezel! La Campana ormai è innescata. Deve scaricarsi.»

Gray alzò le spalle. «Allora la staremo a guardare mentre si scarica.»

L’anello di luce blu s’ispessiva.

Baldric imprecò e si diresse verso la console. «Ma posso neutralizzare la soluzione letale. Non recherà danno ai suoi amici.»

«Lo faccia.»

Baldric digitò rapidamente qualcosa sulla tastiera, con movimenti agili delle dita nodose. «Alzi quello schermo, però!»

«Quando lei avrà finito.» Gray sbirciava oltre la spalla dell’uomo. Vide tutti i loro nomi comparire sul monitor, assieme a un codice alfanumerico contrassegnato come Genetisch profiel. L’uomo premette il tasto DELETE quattro volte e i profili genetici furono cancellati.

«Fatto!» esclamò Baldric, voltandosi verso Gray. «Ora chiuda lo schermo!»

Gray fece scattare l’interuttore.

Si udì un cigolio dal basso, poi qualcosa si spaccò, facendo tremare il pavimento. Lo schermo di piombo si bloccò di colpo, ancora parzialmente abbassato.

Oltre il margine superiore, dal cuore della camera d’irradiazione, splendeva un sole blu. Attorno alla Campana l’aria s’increspava, mentre l’involucro esterno e quello interno giravano in direzioni opposte.

«Faccia qualcosa!» implorò Baldric.

«Il meccanismo idraulico si è inceppato», replicò Gray.

Baldric si allontanò, gli occhi sempre più spaventati a ogni passo. «Ci ha condannato tutti! Quando raggiungerà il picco di potenza, l’impulso della Campana ucciderà tutti nel raggio di otto chilometri, o peggio.»

Gray aveva paura di chiedere che cosa potesse essere peggio.


ore 15.16


Monk guardò i fucili sollevarsi contro di loro.

Inferiorità numerica.

L’ascensore non era ancora arrivato e, anche se le porte si fossero aperte in quel momento, ci sarebbe voluto troppo tempo per salire. Non c’era modo di evitare una sparatoria.

A meno che…

Monk si accostò a Fiona. «Che ne dici di un po’ di dolore…» E indicò con un cenno del capo le iene che si erano ritirate sulle scale.

Fiona non esitò e premette un bottone.

L’effetto fu istantaneo. Fu come se qualcuno avesse appiccato il fuoco alle code delle iene. Un urlo possente proruppe da una ventina di gole. Alcune creature si gettarono dalla balconata, cadendo fragorosamente al suolo. Altre rotolarono giù dalle scale, assalendo gli uomini. Artigli e denti attaccarono qualsiasi cosa che si muovesse, in preda a una furia cieca. Gli uomini urlavano e i fucili sparavano.

Alle spalle di Monk, finalmente si aprirono le porte dell’ascensore. Entrò nella cabina, trascinando con sé Fiona e guidando Lisa e Painter.

Ci fu una raffica di colpi nella loro direzione, ma per la maggior parte le forze dei Waalenberg erano concentrate sulle iene. Mosi e Brooks rispondevano al fuoco, battendo in ritirata verso l’ascensore.

Potevano farcela, ma poi? Allertate, le guardie dei Waalenberg avrebbero dato loro la caccia.

Monk premette a casaccio i bottoni dei piani sotterranei. Ci sarebbe stato abbastanza tempo per preoccuparsene in seguito.

Ma uno dei loro non era il tipo da procrastinare.

Gunther spinse Anna tra le braccia di Monk. «La prenda! Io li terrò a bada.»

Anna si protese verso il fratello, mentre le porte si chiudevano. Gunther si allontanò e si voltò dall’altra parte, pistola in una mano, fucile nell’altra, ma non prima di aver fissato Monk, suggellando un patto silenzioso.

Proteggi Anna.

Infine l’ascensore si chiuse.


ore 15.16


Khamisi attraversava la giungla a tutta velocità, curvo sulla motocicletta. Paula Kane era seduta dietro di lui, col fucile in spalla. Un guerriero zulù e un’agente britannica. Strani compagni di lotta: gli episodi più sanguinosi della storia del Paese si erano verificati durante le guerre tra inglesi e zulù del XIX secolo.

In quel momento, però, erano una squadra ben affiatata.

«Sinistra!» gridò Paula.

Khamisi sterzò di colpo. La canna del fucile della donna passò dall’altro lato. Quando sparò, una sentinella Waalenberg cadde a terra.

Sparatorie ed esplosioni echeggiavano tutt’attorno.

D’un tratto, senza preavviso, la moto sbucò in un giardino ben curato. Khamisi frenò bruscamente, fermandosi con una sgommata sotto i rami di un salice.

Davanti a loro, il palazzo occupava l’intera visuale.

Khamisi sollevò il binocolo che portava appeso al collo e scrutò il tetto. Individuò l’eliporto dove era atterrato l’elicottero del parco. Un movimento attirò la sua attenzione. Regolò il binocolo, mettendo a fuoco una sagoma familiare: Tau. Il suo amico zulù era vicino al bordo del tetto e osservava la battaglia in atto sotto di lui.

Poi, da sinistra, dietro Tau, un’altra sagoma entrò nel suo campo visivo, con una spranga sollevata sopra la sua testa: Gerald Kellog.

«Non ti muovere», disse Paula. Poggiò il calcio del fucile sulla spalla di Khamisi e inquadrò l’uomo nel mirino di precisione. «Lo vedo.»

Khamisi aveva paura, ma restò immobile, fissando l’immagine nel binocolo.

Paula premette il grilletto e il fucile esplose un colpo assordante, che gli riecheggiò nelle orecchie.

La testa del sovrintendente Kellog si piegò all’indietro, di scatto. Tau rischiò di volare giù per lo spavento, ma finì disteso sul tetto, inconsapevole di avere appena avuto salva la vita.

Ma come se la stavano cavando gli altri, là dentro?


ore 15.17


«Ci ha condannato!» ripeté Baldric.

Gray si rifiutava di arrendersi. «Può rallentare la Campana, abbastanza per darmi il tempo di scendere a riparare lo schermo?»

Il vecchio fissava lo schermo bloccato, con la corona di luce blu. Sul suo viso era dipinta la paura. «Forse c’è un modo, ma…»

«Ma cosa?»

«Qualcuno deve entrare là dentro.» Indicò la camera d’irradiazione col bastone tremante e scosse la testa, rifiutandosi di offrirsi volontario.

Una voce li raggiunse, mentre la porta si apriva. «Ci vado io.»

Gray e Marcia si girarono, sollevando le pistole.

Il malandato gruppetto che si presentò ai loro occhi aveva dell’incredibile. Monk entrò per primo, sostenendo la donna dai capelli scuri che aveva appena parlato. Gli altri erano in gran parte estranei. Un uomo anziano di colore entrò zoppicando, con un giovane ben rasato, dal taglio di capelli militare. Erano seguiti da Fiona e da una donna bionda, alta e atletica, che dava l’impressione di avere appena finito una maratona. I due sostenevano un uomo più anziano, un peso morto, che si reggeva a fatica. Sembrava che fosse solo l’inerzia a tenerlo in piedi. Non appena la donna si fermò, lui si afflosciò. Sollevò il viso, che fino a quel momento era rimasto abbassato, e guardò Gray con occhi blu familiari.

Lui lo riconobbe e rimase scioccato. «Direttore Crowe?»

Lo raggiunse di corsa.

«Non c’è tempo», l’ammonì la donna dai capelli scuri, ancora sostenuta da Monk. Sembrava che stesse un po’ meglio di Painter. I suoi occhi studiavano lo schermo e la Campana, come se fossero oggetti familiari. «Avrò bisogno d’aiuto per entrare. E lui verrà con me.» Sollevò un braccio tremante verso Baldric Waalenberg.

«No…» gemette il vecchio.

La donna lo fulminò con lo sguardo. «Avremo bisogno di quattro mani sui condotti delle polarità. E lei conosce la macchina.»

Monk fece un cenno all’uomo di colore. «Mosi, aiuta Anna a entrare. Avremo bisogno di una scala.» Quindi si voltò verso Gray e gli strinse brevemente la mano, poi gli sfiorò la spalla, in un gesto più familiare.

«Non abbiamo molto tempo», disse Gray all’orecchio di Monk, sorpreso di quanto fosse sollevato per il suo arrivo. Era pervaso da una nuova speranza.

«Non me ne parlare.» Monk si sganciò una radio e la passò a Gray. «Fai muovere quell’affare. Io resto qui a occuparmi del resto.»

Gray prese la radio e uscì. Aveva mille domande, ma doveva rimandare a più tardi. Tenne aperto il canale radio. Udiva rumori e voci, discussioni e qualche urlo. Sentì dei passi veloci dietro di sé e diede un’occhiata alle sue spalle.

Era Fiona. «Vengo con te!» Fu al suo fianco ancora prima che raggiungesse le scale antincendio, poi sollevò una trasmittente. «In caso ti imbattessi in uno di quei mostri.»

«Pensa a starmi dietro», rispose lui.

«Ma piantala!»

Corsero fino a raggiungere il corridoio e il locale macchine del livello inferiore.

Monk parlò alla radio. «Anna e il vecchio sono dentro la camera. Naturalmente lui non ne è entusiasta. Che peccato, stavamo diventando buoni amici.»

«Monk…» lo ammonì Gray, perché si concentrasse sul compito da svolgere.

«Sto per passare la radio ad Anna, si coordinerà con te. Ah, a proposito, hai meno di un minuto. Ciao.»

Gray scosse la testa e fece per aprire con uno strattone la porta del locale.

Chiusa a chiave.

Fiona lo vide fare un secondo tentativo e sospirò. «Niente chiave?»

Gray aggrottò le sopracciglia, estrasse la pistola dalla cintura e mirò alla serratura. Il colpo echeggiò nel corridoio, aprendo un buco fumante nella porta. L’aprì con una spinta.

Fiona lo seguì. «Va bene lo stesso, immagino.»

Adesso Gray aveva davanti il gruppo motore che serviva a sollevare e abbassare lo schermo protettivo.

La radio emetteva strane scariche elettrostatiche, che andavano su e giù come le onde su una spiaggia. Dovevano essere interferenze causate dalla Campana, pensò Gray. Evidentemente Monk aveva passato la radio ad Anna.

A conferma della sua supposizione, sentì la voce concitata della donna, fra un disturbo e l’altro. Era una discussione tecnica, in una furente miscela di tedesco e olandese. Gray la ignorò quasi del tutto, mentre girava attorno al gruppo motore.

Poi la voce della donna si fece più chiara, in inglese. «Comandante Pierce?»

«La sento.»

Lei aveva la voce rauca, estenuata. «Stiamo tamponando la falla, ma non terrà a lungo.»

«Tenete duro.» Gray individuò il problema. Era saltato il fusibile di uno dei pistoni. Con un lembo della camicia, lo tirò fuori. «Ci serve un altro di questi, Fiona. Cerca qua attorno.»

«Faccia presto, comandante.»

I disturbi elettrostatici divennero sempre più forti, ma non abbastanza da coprire le parole che Baldric sussurrò ad Anna, in tono insistente: «… si unisca a noi. Ci farebbe comodo un’altra esperta della Campana».

Per quanto spaventato, Baldric le provava tutte.

Gray ascoltò con maggiore attenzione. La donna li avrebbe traditi? Fece un cenno a Fiona. «Gettami quella trasmittente.»

Lei gliela tirò e lui staccò l’antenna di metallo. Non c’era tempo per trovare un fusibile di ricambio, ci voleva una soluzione di fortuna. Infilò l’antenna tra i contatti e si portò a una centralina di comando con una enorme leva manuale. Il funzionamento era intuitivo. In alto c’era scritto OP e in basso ONDER’AAN.

Su e giù. Non ci voleva uno scienziato.

Gray parlò nella radio. «Anna, lei e Baldric potete uscire di lì.»

«No, comandante. Uno di noi deve continuare a tamponare la falla. Se entrambi molliamo la presa, la Campana partirà all’istante.»

Gray chiuse gli occhi. Non potevano fidarsi della cooperazione di Baldric.

I disturbi elettrostatici erano diventati un frastuono costante nell’orecchio.

«Sa ciò che deve fare, comandante.»

E lo fece.

Spinse la leva.

Sentì le ultime parole della donna, lontane: «Dica a mio fratello, che gli voglio bene…»

Ma, mentre abbassava la radio, la donna aggiunse un’ultima affermazione. Poteva essere la risposta all’offerta di Baldric o un’ultima dichiarazione rivolta al mondo, oppure semplicemente una soddisfazione personale.

«Non sono una nazista.»


ore 15.19


Lisa s’inginocchiò, cullando Painter. Poi sentì il rombo di macchinari sotto le ginocchia. Il gigantesco schermo si sollevò verso il soffitto, imprigionando i raggi di luce blu.

Un urlo di terrore proruppe dall’interno. Era il vecchio.

Lisa vide le sue dita che arrancavano sul bordo dello schermo protettivo, cercando freneticamente di aggrapparsi. Troppo tardi. Lo schermo superò la sua portata e s’innestò perfettamente nella guarnizione ad anello sul soffitto.

Le urla dell’uomo si sentivano ancora, attutite, ma frenetiche.

Poi Lisa la sentì nello stomaco: una scarica potente di energia. Era indescrivibile. Come un terremoto senza movimento. Poi nulla. Silenzio assoluto.

Painter gemette, come se l’effetto fosse doloroso per lui. Gli occhi gli si erano rovesciati nelle orbite. Rantolava, come se avesse le vie respiratorie piene di liquidi.

Lisa lo scosse delicatamente. Nessuna reazione. Era in stato semicomatoso.

«Monk!»


ore 15.23


«Presto!» gridò Monk alla radio.

Gray risalì di corsa le scale, seguito da Fiona. Si era trattenuto di sotto soltanto per il tempo necessario a trovare un fusibile di ricambio e riparare lo schermo protettivo. Non capiva tutto ciò che Monk aveva riferito, ma colmò i vuoti con le conoscenze di cui era in possesso: Painter era affetto da una forma di avvelenamento da radiazioni e la Campana era l’unica possibilità di guarigione.

Mentre si avvicinava al pianerottolo del quinto piano, sentì dei passi pesanti scendere verso di loro. Estrasse la pistola. E adesso?

Una sagoma imponente, le sopracciglia folte e la carnagione chiara, comparve sopra di loro, quasi cadendo giù dalle scale. Aveva la camicia zuppa di sangue e un brutto graffio gli solcava il viso, dalla fronte alla gola. Si teneva un polso rotto contro il petto.

Gray sollevò l’arma.

Fiona lo superò. «No, è con noi.» E, a voce più bassa, aggiunse: «Il fratello di Anna…»

Il gigante li raggiunse incespicando. Anche lui riconobbe Fiona. Guardò di traverso Gray, con stanca diffidenza, ma indicò le scale col fucile. «Blockiert.»

Bloccate.

Quindi quel bestione aveva guadagnato tempo per loro, pagando col sangue.

Corsero lungo il corridoio verso la stanza della Campana. Ma Gray sapeva che doveva preparare Gunther. Dopo il sacrificio di Anna, aveva quantomeno quel debito con suo fratello.

Gli posò una mano sul braccio. «A proposito di Anna…»

Gunther si voltò, irrigidendosi, un’espressione di dolore negli occhi, come se si aspettasse il peggio.

Gray affrontò quella paura e spiegò tutto con parole chiare, senza risparmiare nulla, concludendo con la verità fondamentale. «Ci ha salvato tutti quanti.»

Mentre ascoltava, il gigante aveva rallentato il passo. Ciò che non avevano potuto le ferite lo fece il dolore. Crollò in ginocchio nel corridoio.

Gray si fermò. «Le sue ultime parole sono state un messaggio d’amore per te.»

L’uomo si coprì il viso e si accasciò al suolo.

«Mi spiace…» disse Gray.

Monk comparve sulla soglia. «Che diavolo stai…» Poi vide Gunther e la voce gli si spense in gola.

Ma, per loro, non era ancora finita.


ore 15.23


«Abbassa lo schermo!» ordinò Gray, entrando con Monk.

Lisa era di fronte alla console. Aveva passato gli ultimi minuti a prendere familiarità col dispositivo. Durante il viaggio fino alla tenuta, Anna aveva spiegato in dettaglio come funzionava la Campana. La donna temeva di essere troppo debilitata per poterne supervisionare l’utilizzo, perciò qualcun altro doveva imparare. Il compito era ricaduto su di lei.

«Lo schermo!» gridò di nuovo Gray.

Lei annuì debolmente e fece scattare l’interruttore.

Ci fu un gran fracasso di ingranaggi sotto il pavimento. La Campana era tornata quiescente, perciò non fuoriusciva più nessuna luce dall’interno. Un passo più in là, Painter era disteso sul pavimento, sopra un telo, assistito dalla dottoressa Fairfield. Sulla destra, Mosi e Brooks stavano coprendo con un altro telo i corpi dei gemelli.

Lo schermo continuava a scendere, era a un metro da terra. Al centro si ergeva la Campana, in attesa di essere riattivata. Lisa ricordò come l’aveva descritta Anna: il primo e ultimo strumento di misurazione dei quanti. Le faceva una paura tremenda.

Sulla sinistra, gridando per sovrastare il suono dei motori, Monk riferì il messaggio ricevuto via radio da Khamisi. Le forze zulù avevano preso la tenuta, spingendo tutti gli uomini dei Waalenberg sopravvissuti nel palazzo, dove era in corso un assedio. Sopra le loro teste, proseguiva la sparatoria.

«Gunther ha bloccato le scale antincendio», li informò Gray. «Anche le porte dell’ascensore sono bloccate, aperte. Questo dovrebbe darci un po’ di tempo.» Fece un cenno a Brooks e Mosi. «Tenete d’occhio il corridoio!»

I due presero le armi e uscirono.

Mentre lasciavano la stanza, Gunther entrò, claudicante. Dall’espressione del suo viso, Lisa capì che aveva saputo di Anna. Si era sbarazzato di tutte le armi. Si diresse verso lo schermo che scendeva, con passi pesanti come piombo. Doveva essere testimone della conclusione: l’assoluzione finale per tutto il sangue di cui si era macchiato.

Lo schermo si fermò.

Lisa temeva la vista dei danni, ma aveva un dovere da compiere. Si diresse verso la Campana.

Anna era distesa su un fianco, all’ombra del dispositivo, raggomitolata come una bambina. Aveva la pelle di un bianco cinereo, i capelli erano diventati bianchi come la neve, come se si fosse tramutata in una statua di marmo. Gunther scavalcò il bordo dello schermo protettivo e s’inginocchiò accanto alla sorella. Senza una parola, privo di espressione, la raccolse tra le braccia. La morta ciondolò inerte, poi il capo si posò sulla spalla del fratello.

Gunther si alzò, voltò le spalle alla Campana e se ne andò.

Nessuno cercò di fermarlo.

Svanì fuori dalla porta.

Lo sguardo di Lisa si posò sull’altra sagoma, ancora distesa sul pavimento di piombo della camera d’irradiazione: Baldric Waalenberg. Come Anna, aveva la pelle di un bianco innaturale, quasi traslucido. Ma le radiazioni gli avevano bruciato anche tutti i capelli, lasciandolo calvo, senza nemmeno le sopracciglia o le ciglia. In più, la carne gli si era condensata sulle ossa, conferendogli l’aspetto di una mummia. E la sua struttura ossea aveva qualcosa di sbagliato…

Lisa si bloccò, troppo atterrita per procedere oltre.

Senza capelli e con la carne afflosciata, il teschio appariva chiaramente deforme, come se si fosse in parte sciolto e poi di nuovo indurito. Le mani erano contorte, le dita stranamente allungate, come quelle di una scimmia. Lisa non riusciva a pensare ad altro che alla parola involuzione.

«Tiratelo fuori da lì», disse Gray, disgustato; poi si rivolse a Lisa. «Ti aiuterò a portare Painter lì dentro.»

Lisa scosse lentamente il capo, facendo un passo indietro. «Non possiamo…» Non riusciva a togliere gli occhi di dosso da quella sagoma deforme che un tempo era il patriarca dei Waalenberg. Non poteva permettere che succedesse anche a Painter.

«Che intendi dire?»

Lei deglutì, continuando a fissare quel mostro, mentre Monk, che evidentemente aveva paura di toccarlo, lo sollevava dalla manica della camicia. «Painter è andato troppo oltre. Con la Campana speravamo soltanto di differire o rallentare la debilitazione, non di invertirla. Vuoi che il tuo direttore rimanga sospeso per sempre nel suo stato attuale?»

«Finché c’è vita c’è speranza.» Gray aveva pronunciato quelle parole con un tono dolce, gentile. Era quasi riuscito a distrarre la donna, mentre Monk trascinava la forma involuta del vecchio fuori dalla Campana.

Lisa aprì la bocca, preparandosi ad argomentare contro le false speranze.

Poi gli occhi di Baldric Waalenberg si aprirono, lattiginosi e ciechi, più simili a pietra che a carne. La bocca si spalancò in un urlo prolungato e silenzioso. Le corde vocali erano scomparse. Non aveva lingua. Non c’era nulla dentro di lui, tranne che orrore e dolore.

Lisa diede voce all’uomo, gridando, retrocedendo fino a sbattere contro la console. Anche Monk riconobbe il vero orrore della situazione. Si allontanò con un balzo, lasciando cadere Baldric appena fuori dalla camera d’irradiazione.

La sagoma deforme crollò. Gli arti rimasero inerti, privi di muscoli. Ma la bocca si apriva e chiudeva, come quella di un pesce fuor d’acqua. Lo sguardo era vacuo, fisso.

Gray si frappose tra Lisa e quell’orrore. «Dottoressa Cummings… Lisa.» Lo sguardo di lei, che vagava in preda al panico, si posò finalmente sui suoi occhi. «Il direttore Crowe ha bisogno di te.»

«Non c’è nulla che io possa fare.»

«Sì, invece. Possiamo usare la Campana.»

«Non posso fare questo a Painter.» La sua voce divenne più acuta. «Non una cosa del genere

«Non succederà nulla del genere. Monk mi ha raccontato delle istruzioni che Anna ti ha dato. Tu sai come impostare la Campana su un’emissione minima, su una radiazione palliativa. Ciò che è appena successo qui è diverso. Baldric aveva impostato la Campana al massimo della potenza, per uccidere. E alla fine… chi semina vento raccoglie tempesta.»

Lisa si coprì il viso con le mani, cercando di escludere tutto ciò che la circondava. «E noi, che cosa cerchiamo di raccogliere? Painter è in punto di morte, perché farlo soffrire ancora?»

Gray le tolse le mani dal viso. Si chinò, per intercettare il suo sguardo. «Conosco Painter, e penso che lo conosca anche tu. Lotterebbe fino all’ultimo.»

Come medico, aveva già sentito argomentazioni simili in passato, ma era anche realista. Quando non c’era speranza, non si poteva offrire che una giusta dose di dignità. «Se ci fosse una possibilità di guarigione, anche minima, correrei il rischio. Se sapessimo che cosa Hugo Hirszfeld cercava di comunicare a sua figlia, il suo codice perfezionato…» Scosse la testa di nuovo.

Gray le prese il mento tra le dita. Lei cercò di liberarsi, irritata, ma la presa era salda e irremovibile. «Io so che cosa ha nascosto Hugo in quei libri.»

Lei lo guardò perplessa, ma intuì la verità nei suoi occhi.

«Io ce l’ho, la risposta», aggiunse Gray.

16. L’ENIGMA DELLE RUNE

Sudafrica,

ore 15.25


«Non è un codice», spiegò Gray. «Non è mai stato un codice.» S’inginocchiò con un pennarello in mano. Cerchiò la serie di rune che aveva disegnato per Baldric Waalenberg.



Gli altri gli si erano radunati attorno, ma lui mantenne l’attenzione su Lisa Cummings. La risposta cui era giunto non aveva senso, ma intuiva che era la serratura, e quella donna, che conosceva il dispositivo più di chiunque altro in quella stanza, forse aveva la chiave. Dovevano lavorare assieme.

«Ancora rune», disse Lisa.

Gray la guardò perplesso, in attesa di una spiegazione.

Lei annuì, guardando il pavimento. «Ho visto un’altra serie di rune, una serie diversa, disegnata col sangue. Voleva dire Schwarze Sonne.»

«Sole Nero», tradusse Gray.

«Era il nome del progetto di Anna in Nepal.»

Gray rifletté sull’importanza di quell’informazione. Ripensò al simbolo del Sole Nero al livello inferiore. Evidentemente, la setta originaria di Himmler era stata divisa dopo la guerra. Il gruppo di Anna a nord e quello di Baldric a sud. Una volta separate, le due fazioni avevano preso strade sempre più divergenti, finché da alleate non erano diventate avversarie.

Lisa tamburellò con le dita sul pavimento, per indurre Gray a concentrarsi. «Le rune che ho decifrato io erano una semplice trasposizione di lettere al posto di simboli. È la stessa cosa anche in questo caso?»

Gray scosse il capo. «Baldric ha fatto la medesima supposizione, per questo aveva così tante difficoltà a decifrare le rune. Ma Hugo non avrebbe nascosto il suo segreto così in superficie.»

«Se non è un codice, allora che cos’è?» chiese Monk.

«È un puzzle», rispose Gray.

«Che cosa?»

«Ricordi la nostra conversazione col padre di Ryan?»

Monk annuì.

Gray ripensò all’incontro con Johann Hirszfel, e al piccolo, sporco segreto nazista della famiglia. «Ha raccontato di come fosse curioso suo nonno Hugo. Sempre alla ricerca di cose strane e impegnato a indagare sui misteri della storia.»

«È così che si è avvicinato ai nazisti», aggiunse Fiona.

«E, nel tempo libero, Hugo teneva in allenamento la sua mente.» Le parole di Johann echeggiarono nella frase di Gray: Esercizi di memorizzazione e puzzle. I suoi puzzle. Indicò la serie di rune. «Questo era soltanto l’ennesimo esercizio mentale. Ma non era un codice: era un puzzle. Le rune erano forme da manipolare, riordinare, ricreando l’ordine dal caos.»

Gray aveva risolto mentalmente il puzzle il giorno precedente, rovesciando e ruotando le rune nella sua immaginazione, finché non si era costituita una forma. Sapeva che era la risposta giusta, soprattutto conoscendo l’angoscia provata da Hugo in fin di vita: il rimpianto che aveva espresso per aver collaborato coi nazisti. Ma che cosa significava? Posò lo sguardo su Lisa.

Disegnò nuovamente le sei rune sul pavimento, l’una dopo l’altra, riassemblandole nella sequenza corretta.

L’ordine dal caos.

L’assoluzione dalla collaborazione.

Il sacro dal profano.

Tramite le rune pagane, Hugo mostrava le sue vere origini.



«È una stella», disse Monk.

Lisa sollevò lo sguardo. «Non una stella qualsiasi… È la stella di David.»

Gray annuì.

Fiona fece la domanda più importante. «Ma che significa?»

Gray sospirò. «Non lo so. Non ho idea di che cosa c’entri con la Campana, col perfezionamento del dispositivo. Forse era semplicemente un’ultima dichiarazione d’identità, un messaggio segreto alla sua famiglia.» Ricordò le ultime parole di Anna: Non sono una nazista.

Il codice runico di Hugo era soltanto un altro modo per dire la stessa cosa?

«No», replicò Lisa, secca. «Se vogliamo risolvere l’enigma, dobbiamo comportarci come se questa fosse la risposta.»

Gray notò qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che mancava un istante prima.

La speranza.

«Secondo Anna», proseguì Lisa, «Hugo entrò nella camera d’irradiazione della Campana con un neonato. Senza strumenti speciali: c’erano soltanto lui e il bambino. E, quando l’esperimento fu concluso, i test dimostrarono che aveva prodotto il primo vero e puro Cavaliere del Sole.»

«Che ha fatto là dentro?» chiese Fiona.

Lisa indicò la stella di David. «Questa in qualche modo è collegata. Ma non conosco il significato del simbolo.»

Gray, invece, sì. «La stella ha molteplici significati. È un simbolo di preghiera e fede, e forse altro. Vedete che la stella a sei punte è in realtà la sovrapposizione di due triangoli, l’uno rivolto verso il basso e l’altro verso l’alto? Nella Cabala ebraica, i due triangoli sono l’equivalente dello yin e dello yang, della luce e dell’oscurità, del corpo e dell’anima. Un triangolo rappresenta la materia e il corpo, l’altro la nostra anima, la nostra essenza spirituale, la nostra mente cosciente.»

«E, uniti, rappresentano entrambi», osservò Lisa. «Non soltanto una particella o un’onda, ma entrambi.»

Gray intravide una possibilità di comprensione. «Che cosa?»

Lisa guardò la camera d’irradiazione. «Anna ha detto che la Campana di fatto è uno strumento per misurare i quanti, che manipola l’evoluzione. L’evoluzione quantica. Tutto si ricollega alla meccanica quantistica, dev’essere questa la chiave.»

Gray aggrottò le sopracciglia. «Che cosa intendi dire?»

Lisa spiegò ciò che Anna le aveva insegnato.

Gray, che aveva studiato in modo approfondito biologia e fisica alla Sigma, non ebbe bisogno di molte spiegazioni. Chiuse gli occhi e si mise a sedere, cercando di trovare un punto d’incontro fra la stella di David e la meccanica quantistica. C’era una risposta, nel mezzo? «Hai detto che Hugo è entrato nella camera d’irradiazione da solo?»

«Esatto», rispose Lisa sottovoce, come se intuisse che doveva lasciarlo riflettere in pace.

Gray si concentrò. Hugo gli aveva dato la serratura, Lisa la chiave: ora toccava a lui. Senza lasciarsi distrarre dai limiti di tempo, consentì alla sua mente di lavorare con gli indizi e gli elementi a disposizione, provando e scartando le varie possibilità.

Era un altro puzzle.

Come era avvenuto con la stella di David, la combinazione giusta si formò nella sua mente, pulita, perfetta. Avrebbe dovuto pensarci prima.

Gray aprì gli occhi.

«Che c’è?» chiese Lisa.

«Attiva la Campana», disse Gray, dirigendosi verso la console. «Adesso!»

Lisa lo seguì e cominciò la procedura. «Ci vorranno quattro minuti per raggiungere un impulso palliativo.» Lanciò un’occhiata a Gray mentre lavorava, con uno sguardo interrogativo. «Che cosa stiamo facendo?»

Lui si voltò verso la Campana. «Hugo non è entrato nella camera senza strumenti.»

«Ma Anna ha…» obiettò Lisa.

«No», la interruppe lui. «È entrato con la stella di David. È entrato con la preghiera e la fede. Ma soprattutto è entrato col suo computer quantistico.»

«Cosa?»

Gray parlava velocemente, sicuro di avere ragione. «Da secoli la coscienza è un interrogativo che sconcerta gli scienziati, Darwin compreso. Che cos’è la coscienza? È soltanto il nostro cervello? Sono gli impulsi nervosi? Qual è il confine tra cervello e mente? Tra materia e spirito? Tra corpo e anima?» Indicò il simbolo. «La ricerca attuale dice che siamo entrambe le cose. Siamo l’onda e la particella. Il corpo e l’anima. La vita stessa è un fenomeno quantistico.»

«Adesso stai farfugliando, aspetta», intervenne Monk, unendosi a lui e trascinando con sé Fiona.

Gray fece un respiro profondo, eccitato. «Gli scienziati rifiutano la spiritualità, definendo il cervello un complesso computer. La coscienza insorge soltanto come sottoprodotto dell’attivazione di una rete di neuroni interconnessi, di fatto una rete neurale, che agisce al livello dei quanti.»

«Un computer quantistico…» disse Lisa. «Ma che diavolo è?»

«Hai visto i codici informatici scomposti al livello basilare, no? Sono pagine intere di zero e di uno. È così che pensa il computer moderno: lo zero o l’uno. Un teorico computer quantistico, se potesse essere costruito, offrirebbe una terza opzione. Ancora zero o uno, ma anche una terza possibilità: zero e uno.»

«Come gli elettroni nel mondo dei quanti. Possono essere onde o particelle, oppure tutt’e due le cose allo stesso tempo.»

«Una terza possibilità», ribadì Gray, annuendo. «Non sembra granché, ma, aggiungendo questa opzione alle possibilità di un computer, l’apparecchio sarebbe in grado di eseguire simultaneamente compiti algoritmici multipli.»

«Come camminare e masticare la gomma», borbottò Monk.

«Compiti che richiederebbero anni per i computer attuali potrebbero essere svolti in poche frazioni di secondo.»

«E i nostri cervelli fanno tutto ciò?» chiese Lisa. «Funzionano come computer quantistici?»

«Secondo le teorie più recenti, sì. Il nostro cervello propaga un campo elettromagnetico misurabile, generato dalle complesse interconnessioni tra i neuroni. Alcuni scienziati ipotizzano che la coscienza risieda in questo campo, facendo da ponte tra la materia del cervello e il mondo dei quanti.»

«E la Campana è ipersensibile ai fenomeni quantistici», aggiunse Lisa. «Perciò, entrando col bambino nella camera della Campana, Hugo ha influenzato il risultato.»

«Ciò che viene osservato è modificato dall’atto dell’osservazione. Ma penso che ci sia qualcosa di più.» Gray indicò la stella di David. «Perché un simbolo di preghiera?»

Lisa scosse la testa.

«Che cos’è la preghiera se non la concentrazione della mente, la concentrazione della coscienza? E, se la coscienza è un fenomeno quantistico, allora anche la preghiera lo è.»

«E, come tutti i fenomeni quantistici, misura e influenza il risultato…» mormorò Lisa.

«In altre parole…» cominciò Gray, poi aspettò.

Lisa si alzò. «La preghiera funziona.»

«È ciò che ha scoperto Hugo, è questo che ha nascosto nei suoi libri. Una cosa inquietante e spaventosa, ma troppo bella per lasciarla morire.»

Monk si appoggiò alla console, accanto a Lisa. «Stai dicendo che ha fatto diventare perfetto quel bambino con la forza di volontà?»

Gray annuì. «Quando Hugo è entrato nella camera d’irradiazione col neonato, ha pregato per la perfezione. Un pensiero concentrato, altruista e puro. La coscienza umana, sotto forma di preghiera, funge da strumento di misurazione dei quanti. Sotto la Campana, il potenziale quantico puro del bambino è stato misurato, influenzato dalla concentrazione e dalla volontà di Hugo e, di conseguenza, tutte le variabili si sono ordinate: come un perfetto lancio dei dadi genetici.»

Lisa si voltò. «Allora forse possiamo fare la stessa cosa per invertire il danno quantico subito da Painter, per salvarlo prima che sia troppo tardi.»

S’intromise un’altra voce, quella di Marcia, che stava ancora assistendo Painter, riverso sul pavimento. «È meglio che vi sbrighiate.»


ore 15.32


Monk e Gray trasportarono velocemente Painter nella camera d’irradiazione, usando un telo.

«Posatelo accanto alla Campana», ordinò Lisa.

La Campana era già in azione: i due involucri ruotavano in direzioni opposte. Lisa ricordò come l’aveva descritta Gunther: una specie di impastatrice. Corrispondeva più o meno alla realtà. L’involucro di ceramica emetteva una lieve luminescenza.

Lisa s’inginocchiò accanto a Painter, controllando le funzioni vitali.

«Posso restare con voi», disse Gray, accanto a lei.

«No, penso che la presenza di un altro computer quantistico potrebbe interferire.»

«Troppi cuochi in cucina», convenne Monk.

«Allora ci sto io, con lui», affermò Gray.

Lisa scosse la testa. «Avremo soltanto una possibilità. Se ci vuole concentrazione e volontà di far guarire Painter, forse è meglio che sia la mente di un medico a farlo.»

Gray sospirò, non molto convinto.

«Hai già fatto il tuo lavoro: ci hai dato una speranza.» Lo fissò. «Ora lasciami fare il mio.»

«Fa’ attenzione ai desideri che esprimi», le sussurrò Monk nell’orecchio, poi le diede un bacio sulla guancia.

Lui e Gray si allontanarono.

«Un minuto all’impulso», disse Marcia dalla console.

«Sollevate lo schermo.»

Mentre gli ingranaggi si mettevano in moto, Lisa si chinò su Painter. La sua pelle aveva una tinta bluastra, ma forse era soltanto la luce della Campana. Stava per morire: aveva il respiro troppo leggero e il battito cardiaco ridotto a un soffio. E poi i capelli: le radici erano diventate bianche come la neve. Stava degenerando a un ritmo esponenziale.

Lo schermo protettivo si sollevò attorno a loro, separandoli dal resto del gruppo. Le voci degli altri, già sommesse, furono attutite e poi completamente tagliate fuori, quando lo schermo s’innestò nel soffitto.

Da sola, senza nessuno che la vedesse, Lisa si appoggiò a Painter, la fronte sul petto di lui. Non aveva bisogno di concentrare la sua volontà con una sorta di energia meditativa. Si diceva che non ci fossero atei in trincea: di certo era vero per lei, in quel momento. Non sapeva a quale Dio chiedere aiuto.

Lisa ricordò la discussione avuta con Anna sull’evoluzione e sul disegno intelligente. La donna insisteva che erano le misurazioni quantistiche a far condensare il potenziale in realtà. Gli aminoacidi avevano formato le prime proteine in grado di replicarsi perché la vita era il migliore strumento di misurazione dei quanti. Estrapolando ulteriormente il concetto, la coscienza, che era uno strumento di misurazione dei quanti ancora più grande della vita di per sé, si era evoluta per lo stesso motivo. Un altro anello della catena evolutiva. Immaginò la sequenza.


AMINOACIDI -› PRIMA PROTEINA -› PRIMA FORMA DI VITA -COSCIENZA


Ma che cosa c’era oltre la coscienza? Se il futuro determinava il passato tramite le misurazioni dei quanti, quale entità aveva desiderato che si formasse la coscienza? Quale strumento di misurazione dei quanti ancora migliore c’era nel futuro, a determinare il presente? Fino a che punto, nel futuro, si estendeva quella catena? E che cosa c’era alla fine?


AMINOACIDI -› PRIMA PROTEINA -› PRIMA FORMA DI VITA -› COSCIENZA -› ???


Lisa ripensò a un’altra frase criptica pronunciata da Anna, quando lei le aveva chiesto quale fosse il ruolo di Dio in tutto ciò. Se, da una parte, sembrava che l’evoluzione quantica escludesse l’intervento divino dalle mutazioni benefiche improvvise, le ultime parole di Anna sulla questione erano state: Lei guarda la faccenda nel modo sbagliato, nella direzione sbagliata. Lisa aveva attribuito quell’affermazione criptica allo sfinimento della donna. Ma forse Anna aveva riflettuto a lungo su quella questione. Che cosa c’era alla fine dell’evoluzione? Soltanto uno strumento perfetto e incorruttibile per misurare i quanti?

E, in tal caso, era Dio?

Appoggiata sul corpo di Painter, non aveva risposta. Sapeva soltanto che voleva che lui vivesse. Forse era riuscita a nascondere agli altri quanto fossero profondi i suoi sentimenti per lui, probabilmente l’aveva nascosto anche a se stessa, ma non poteva più ignorarlo.

Aprì il cuore e lasciò brillare la sua vulnerabilità.

Forse era quello che le era mancato per tutta la vita, il motivo per cui gli uomini sembravano svanire attorno a lei e per cui lei fuggiva sempre: perché nessuno vedesse ciò che poteva essere ferito così facilmente. Nascondeva la sua vulnerabilità dietro un’armatura di professionalità e relazioni occasionali. Nascondeva il cuore. Non c’era da meravigliarsi che fosse da sola in cima a una montagna quando Painter era piombato nella sua vita.

Basta.

Sollevò la testa e baciò Painter sulle labbra, delicatamente, mettendo in atto ciò che aveva cercato di nascondere.

Chiuse gli occhi mentre il conto alla rovescia proseguiva. Aprì il cuore, desiderando un futuro per quell’uomo, desiderando che stesse bene, che ne uscisse incolume, ritornando in salute, e, soprattutto, pregando di poter trascorrere ancora del tempo con lui.

Era quella la vera funzione della Campana? Aprire un condotto quantico verso quel grande strumento di misurazione dei quanti che stava in fondo alla catena evolutiva, la volontà?

Lisa sapeva che cosa doveva fare. Il suo obiettivo era al di là della coscienza, al di là della preghiera.

Era semplicemente fede.

Nella purezza di quel momento, la Campana esplose di una luce accecante, unendoli, trasformando la realtà in puro potenziale.


ore 15.36


Gray azionò l’interruttore e lo schermo protettivo cominciò a scendere. Che cosa avrebbero trovato? Si radunarono tutti attorno alla parete dello schermo.

Monk gli lanciò uno sguardo preoccupato.

Nel silenzio, si sentì un bip, sulla sinistra.

Poco alla volta, la camera d’irradiazione divenne visibile. La Campana, silenziosa e scura, era inerte, al centro. Poi comparve Lisa, accovacciata su Painter, la schiena rivolta verso di loro.

Nessuno parlava.

Lisa si girò lentamente, alzandosi. Le lacrime che erano rimaste sospese sulle ciglia le colarono lungo le guance. Tenne Painter sottobraccio mentre si alzava. L’aspetto dell’uomo non era migliorato: pallido, debole, debilitato. Ma sollevò la testa.

Aveva uno sguardo acuto e vigile.

Gray si sentì pervadere dal sollievo.

Poi si udì ancora quel bip.

Gli occhi di Painter si mossero in quella direzione, quindi si posarono su Gray. Painter mosse le labbra, ma non ne uscì nemmeno una parola. Lui si avvicinò, per sentirlo.

Painter strizzò le palpebre e provò di nuovo. La parola era appena percettibile. «Bomba…»

Anche Lisa lo sentì. Seguì lo sguardo di Painter, che era puntato sul cadavere di Baldric Waalenberg. Spinse Painter verso Monk. «Prendilo.»

Lei si diresse verso la sagoma contorta del vecchio. Senza che nessuno lo notasse, senza nessuno a compiangerlo, a un certo punto Baldric era finalmente spirato.

Gray si unì a lei.

Lisa s’inginocchiò e sollevò la manica dell’uomo. Indossava un grosso orologio da polso. Lo voltò. Una lancetta girava velocemente su un display digitale.

«Come al castello», disse Lisa. «Un rilevatore del battito cardiaco collegato a una microtrasmittente. Quando il suo cuore ha smesso di battere, è cominciato il conto alla rovescia.» Poi girò il braccio dell’uomo, in modo che Gray potesse leggere il numero.

02:01

«Abbiamo due minuti per levarci di torno», concluse Lisa.

«Tutti fuori! Monk, avvisa Khamisi per radio! Digli di allontanare i suoi uomini dal palazzo.»

Il suo compagno obbedì.

«Abbiamo un elicottero sul tetto», disse Lisa.

Nel giro di pochi secondi, stavano tutti correndo. Gray sosteneva Painter, mentre Mosi aiutava Brooks. Lisa, Fiona e Marcia li seguivano.

«Dov’è Gunther?» chiese Fiona.

Le rispose Brooks: «Se n’è andato con sua sorella. Non voleva essere seguito da nessuno».

Non c’era tempo di cercarlo. Gray indicò l’ascensore. Il gruppo di Monk aveva incastrato le porte con una sedia trovata in corridoio, per evitare che qualcuno potesse usarlo per seguirli.

Si accalcarono nella cabina.

Lisa premette il bottone del sesto piano. L’ascensore cominciò a salire lentamente.

«Ho avvisato il nostro uomo all’eliporto», disse Monk. «Non sa pilotare, ma sa come girare una chiave. Scalderà i motori».

«La bomba», disse Gray, rivolgendosi a Lisa. «Che cosa ci dobbiamo aspettare?»

«Se è come quella dell’Himalaya, sarà una bella esplosione. Hanno sviluppato una specie di bomba quantica utilizzando lo Xerum 525.»

Gray ripensò ai fusti immagazzinati al piano inferiore…

L’ascensore continuò a salire, passando il piano terra, che era mortalmente silenzioso.

Painter si mosse. Non era ancora in grado di sostenersi da sé, ma guardò negli occhi Gray. «La prossima volta… ci vai tu, in Nepal… da solo.»

Gray sorrise: sì, Painter era tornato.

Ma per quanto tempo?

L’ascensore raggiunse il sesto piano e si aprì.

«Un minuto», li informò Marcia. Aveva la presenza mentale per tenere conto del tempo.

Salirono di corsa le scale del tetto e trovarono l’elicottero ad aspettarli, con le pale in movimento.

Una volta sotto i rotori, Gray passò Painter a Monk. «Fai salire tutti a bordo.»

Lui corse dall’altro lato e si mise al posto di pilotaggio.

«Quindici secondi!» gridò Marcia.

Gray accelerò i motori. Le pale stridevano. Tirò il collettivo e il velivolo staccò i pattini dal tetto.

A che quota dovevano portarsi?

Regolò l’inclinazione delle pale e spinse ancora di più i motori.

Mentre salivano rapidamente, Gray fece una leggera imbardata e studiò l’area circostante il palazzo. Vide Jeep e motociclette che si allontanavano a tutta velocità, in ogni direzione.

Marcia cominciò un conto alla rovescia: «Cinque, quattro…»

Non era del tutto preciso.

D’un tratto, una luce accecante esplose sotto di loro, come se si stessero sollevando dal sole. Ma l’effetto più fastidioso era il silenzio assoluto. Incapace di vedere, Gray si sforzò di mantenere in volo l’elicottero. Però era come se l’aria fosse svanita. Sentiva che il velivolo stava perdendo quota.

Poi la luce scomparve, con un colpo fragoroso, cascando come un getto d’acqua.

All’improvviso, i rotori ritrovarono l’aria e l’elicottero sobbalzò per un lungo momento. Gray lo stabilizzò e si allontanò, virando, poi lanciò un’occhiata al punto in cui prima sorgeva il palazzo. C’era un gigantesco cratere, dalle pareti lisce, scavato di netto nella roccia e nel terreno. Era come se un possente Titano avesse sollevato il palazzo e gran parte dei giardini circostanti con un gigantesco cucchiaio da gelato.

Era scomparso tutto quanto. Non c’erano macerie, soltanto il vuoto.

I laghi e i ruscelli, tagliati a metà, riversavano cascate d’acqua oltre il bordo del cratere.

Più in là, Gray notò i veicoli che si fermavano e persone che si guardavano indietro. L’esercito di Khamisi era al sicuro. Il popolo zulù si era radunato ai confini, per riprendersi ciò che aveva perso molto tempo prima.

Gray li sorvolò con l’elicottero, girando attorno al cratere. Si ricordò del fusto di Xerum 525 mancante, quello destinato agli Stati Uniti. Accese la radio e cominciò ad attraversare una lunga catena di codici di sicurezza per contattare il comando della Sigma.

Fu sorpreso di sentirsi rispondere da Sean McKnight, l’ex direttore della Sigma. Gray si sentì raggelare per la paura. Che cosa ci faceva lì? C’era qualcosa che non andava.

McKnight lo informò brevemente di ciò che era accaduto. L’ultima notizia fu come un pugno nello stomaco.

Poi Gray chiuse la comunicazione, intontito e scioccato.

Monk si era sporto in avanti, notando la sua costernazione. «Che c’è?»

Si voltò. Doveva guardare in faccia il suo compagno per dirglielo. «Monk… si tratta di Kat.»


Washington, D.C.,

ore 18.47


C’erano voluti tre giorni, tre lunghi giorni per sistemare tutto quanto in Sudafrica.

Finalmente, erano atterrati al Dulles International, dopo un volo da Johannesburg. Monk aveva piantato Gray e gli altri all’aeroporto. Aveva preso al volo un taxi e se n’era andato. Poi il taxi si era ritrovato bloccato nel traffico, nei pressi del parco. Monk si era dovuto trattenere dall’aprire la portiera e mettersi a correre, ma alla fine l’ingorgo si era risolto e si erano nuovamente messi in moto.

Monk si sporse in avanti. «Cinquanta dollari se mi ci porti in meno di cinque minuti.»

L’accelerazione lo appiattì al sedile. Si cominciava a ragionare.

Entro due minuti comparve una serie di edifici di mattoni marroni. Sfrecciarono accanto a un cartello che segnalava il Georgetown University Hospital. Con grande stridore di pneumatici, entrarono nel parcheggio, rischiando di strisciare contro un’ambulanza.

Monk lanciò una manciata di banconote al tassista e saltò giù.

S’infilò di traverso nella porta automatica, impaziente perché ci metteva troppo ad aprirsi. Corse a capofitto lungo il corridoio, schivando pazienti e personale. Sapeva il numero della stanza nel reparto di terapia intensiva.

Passò di corsa davanti a una postazione di infermieri, ignorando una voce che gli strillava di rallentare.

Non oggi, dolcezza.

Monk girò l’angolo di volata e vide il letto. Continuò a correre, cadde mentre si avvicinava e scivolò sulle ginocchia fino alla fiancata del letto. Infine andò a sbattere piuttosto forte contro la sponda abbassata.

Kat lo fissò, con una cucchiaiata di gelatina verdognola tremolante sospesa davanti alla bocca.

«Sono venuto il prima possibile…»

«Ma neanche un’ora e mezzo fa abbiamo parlato al telefono satellitare.»

«Quello è solo parlare.»

Si alzò, si chinò sul letto e la baciò in bocca. Le bende erano avvolte attorno alla spalla sinistra e alla parte superiore del tronco, nascoste per metà da un camice blu da ospedale. Tre colpi d’arma da fuoco, un’emorragia copiosa, un polmone collassato, frattura della clavicola e milza lacerata.

Ma era viva.

E dannatamente fortunata.

Il funerale di Logan Gregory si sarebbe tenuto tre giorni dopo.

Comunque, i due avevano salvato Washington da un attentato terroristico, uccidendo il sicario dei Waalenberg e bloccando il piano prima che fosse messo in atto. La Campana dorata era sepolta nei laboratori di ricerca della Sigma. La partita di Xerum 525 era stata ritrovata presso uno spedizioniere nel New Jersey. Ma quando le agenzie di intelligence statunitensi l’avevano rintracciata — compito non facile, data la vasta rete di aziende, società fasulle e affiliate di proprietà dei Waalenberg — quell’ultima partita di Xerum era ormai deteriorata. Rimasta troppo a lungo al sole, la sostanza era diventata inerte, per mancanza di una refrigerazione adeguata. E, senza quel combustibile, le Campane, anche quelle recuperate presso le altre ambasciate, non avrebbero mai più suonato.

Per fortuna.

Monk preferiva l’evoluzione all’antica. Lasciò scivolare la mano sulla pancia di Kat. Aveva paura di chiedere.

Non ce ne fu bisogno. La mano di lei coprì la sua. «Il bambino sta bene. I medici dicono che non ci dovrebbero essere complicazioni.»

Monk cadde di nuovo in ginocchio, appoggiando la testa sul ventre di Kat. Chiuse gli occhi, la cinse attorno alla vita, delicatamente, facendo attenzione alle ferite, e la strinse forte. «Grazie a Dio.»

Kat gli accarezzò la guancia.

Ancora in ginocchio, Monk mise una mano in tasca e tirò fuori l’astuccio nero dell’anello. Glielo porse, gli occhi ancora chiusi, una preghiera sulle labbra. «Sposami.»

«Okay.»

Monk aprì gli occhi, guardando in faccia la donna che amava. «Cosa?»

«Ho detto ‘okay’.»

«Sei sicura?»

«Stai cercando di farmi cambiare idea?»

«Be’, sei sotto l’effetto dei farmaci. Forse te lo dovrei chiedere…»

«Dammi l’anello e basta.» Prese l’astuccio e l’aprì. Lo fissò in silenzio per un istante. «È vuoto.»

Monk controllò: l’anello era scomparso.

«Che è successo?» chiese Kat.

«Fiona», grugnì Monk.


ore 10.32


Il mattino successivo, Painter era disteso supino in un’altra ala del Georgetown University Hospital. Il lettino riemerse dal cilindro della macchina per la TAC. L’esame era durato più di un’ora e lui si era quasi addormentato, visto che negli ultimi giorni aveva riposato ben poco. Ogni notte era tormentato dall’ansia.

Un’infermiera aprì la porta e Lisa entrò nella stanza.

Painter si mise a sedere. Faceva freddo e lui non indossava altro che un camice d’ospedale leggerissimo. Si sforzò di recuperare un minimo di dignità, piegando e rimboccando quel velo, ma alla fine rinunciò.

Lisa gli si sedette accanto e, con un cenno del capo, indicò la sala di monitoraggio. C’era un gruppo di ricercatori del Johns Hopkins e della Sigma, intenti a discutere sulle sue condizioni di salute.

«I risultati sono buoni», lo informò la donna. «Tutti i segni di calcificazione interna sono in calo e i valori stanno ritornando nella norma. Potrebbe rimanere un residuo di cicatrizzazione della valvola aortica, ma forse nemmeno quello. Il tasso di recupero è straordinario. Miracoloso, oserei dire.»

«Puoi dirlo forte», replicò Painter. «Ma che ne dici di questo?»

Fece scorrere le dita tra una ciocca di capelli bianchi, sopra un orecchio.

Lei ci mise anche le sue, di dita. «Mi piace. E tu starai bene.»

Lui le credette. Per la prima volta, era convinto che sarebbe guarito completamente. Gli sfuggì un sospiro. Aveva ancora una vita davanti.

Prese la mano di Lisa e le baciò il palmo, poi la posò.

Lei arrossì e diede un’occhiata al vetro della stanza di monitoraggio, ma non spostò la mano, mentre discuteva alcuni dettagli tecnici con l’infermiera.

Painter la osservò. Era andato in Nepal per indagare sulle malattie riferite da Ang Gelu, ma anche per ritagliarsi un periodo di riflessione. Si era aspettato incensi, ore di meditazione, canti e preghiere, invece si era ritrovato coinvolto in un viaggio infernale per mezzo mondo. Alla fine, però, ne era valsa la pena.

Strinse le dita attorno alla mano di Lisa.

Aveva trovato lei.

Tuttavia, anche se ne avevano passate così tante assieme in quei giorni, si conoscevano a malapena. Chi era, veramente? Qual era il suo cibo preferito, che cosa la faceva sbellicare dalle risate, come ballava, che cosa gli avrebbe sussurrato all’orecchio dandogli la buonanotte?

Painter sapeva soltanto una cosa con certezza, seduto quasi nudo accanto a lei, in un camice d’ospedale, esposto fino al DNA.

Voleva sapere tutto di lei.


ore 14.22


Due giorni dopo, i fucili esplosero gli ultimi colpi nel cielo blu, riecheggiando secchi tra i verdi pendii dell’Arlington National Cemetery. Era una giornata troppo assolata per un funerale.

Gray si fece da parte, mentre la cerimonia terminava. In lontananza, a sovrastare il gruppo dei partecipanti al lutto, sorgeva la tomba del milite ignoto: ottanta tonnellate di marmo Yule, estratto da una cava del Colorado. Rappresentava i caduti senza nome, le vite donate per servire la patria.

Logan Gregory era uno di loro, un altro sconosciuto. Pochi avrebbero saputo del suo eroismo, del sangue versato per proteggere gli Stati Uniti.

Ma qualcuno ne era a conoscenza.

Gray guardò il vicepresidente consegnare una bandiera piegata alla madre di Logan, sostenuta dal marito. Logan non aveva moglie né figli. La Sigma era la sua vita… e la sua morte.

Un po’ alla volta, dopo il viavai per le condoglianze e i commiati, la funzione terminò. Tutti si diressero verso le limousine nere e le Town Car.

Gray fece un cenno a Painter, che, convalescente, si appoggiava a un bastone, ancora zoppicante, ma sempre più in forze, giorno dopo giorno. Al suo fianco, la dottoressa Lisa Cummings lo teneva a braccetto, non per sostenerlo, ma soltanto per stargli vicino.

Monk li seguiva e tutti assieme si diressero verso la fila delle auto in attesa.

Kat era ancora in ospedale. E comunque il funerale sarebbe stato insostenibile per lei. Era ancora troppo presto.

Quando raggiunsero le auto, Gray si avvicinò a Painter. Avevano alcune questioni da discutere.

Lisa baciò il direttore sulla guancia. «Ci vediamo là.» Poi fece un passo indietro, affiancandosi a Monk. Avrebbero preso un’altra macchina per raggiungere la casa dei Gregory, dove era previsto un piccolo rinfresco.

Gray aveva scoperto che i genitori di Logan vivevano soltanto a qualche isolato dai suoi genitori, a Takoma Park. Un’ulteriore dimostrazione di quanto poco conoscesse quell’uomo.

Painter raggiunse una Lincoln e salì sul sedile posteriore. L’autista alzò il vetro divisorio, mentre faceva partire l’auto.

«Gray, ho letto il tuo rapporto», disse finalmente il direttore. «È una prospettiva interessante. Continua pure a fare ricerche in merito. Ma dovrai andare nuovamente in Europa.»

«Ho già altre questioni personali da risolvere laggiù. E proprio di questo che le volevo parlare: volevo chiedere qualche giorno in più.»

Painter inarcò un sopracciglio, con un’espressione di stanca facezia. «Non so se il mondo è pronto per un’altra delle tue vacanze di lavoro.»

Gray dovette ammettere che il suo capo non aveva tutti i torti.

Painter si riassestò sul sedile, chiaramente dolorante. «E che mi dici del rapporto della dottoressa Fairfield? Credi che la stirpe dei Waalenberg…» Scosse la testa.

Anche Gray aveva letto quel rapporto. Ripensò a quando con la dottoressa inglese si era intrufolato nel laboratorio degli embrioni, sepolto ai livelli inferiori del palazzo. La dottoressa Fairfield aveva affermato che, più grande era un tesoro, più in profondità era nascosto. Lo stesso valeva per i segreti, soprattutto quelli dei Waalenberg. Come i loro esperimenti chimerici, in cui mescolavano cellule staminali umane e animali nei cervelli delle creature.

Ma c’era anche di peggio.

«Abbiamo controllato gli archivi medici dell’azienda a partire dagli anni ’50», disse Gray. «È confermato: Baldric Waalenberg era sterile.»

«Non c’è da meravigliarsi che quel bastardo fosse così ossessionato dalla genetica e che combattesse la natura per piegarla al suo volere. Ma i suoi nuovi bambini… quelli che ha usato negli esperimenti? È vero?»

Gray scrollò le spalle. «Baldric era coinvolto nel programma nazista Lebensborn, il programma di riproduzione ariana, oltre che in altri progetti di eugenetica e nei primi tentativi di conservare ovuli e sperma. Alla fine della guerra, sembra che il programma Xerum 525 non fosse l’unico progetto segreto finito nelle mani di Baldric. Ce n’era anche un altro, di cui erano rimaste alcune provette congelate. Baldric ha scongelato quei campioni e li ha usati per inseminare la sua giovane moglie.»

«Ne sei sicuro?»

Gray annuì. Nel laboratorio sotterraneo, la dottoressa Fairfield aveva esaminato il vero albero genealogico del nuovo, perfezionato clan dei Waalenberg. Aveva visto il nome scritto accanto a quello della moglie di Baldric: Heinrich Himmler, il capo dell’Ordine Nero. Il gerarca nazista si era ucciso alla fine della guerra, ma aveva un piano per continuare a vivere dopo la morte, per dare i natali ai nuovi superuomini ariani, una nuova stirpe di re germanici, tramite il suo seme corrotto.

«E ora che il clan dei Waalenberg è stato sterminato», riferì Gray, «anche quel mostro è finalmente sepolto.»

«O almeno si spera», replicò Painter.

«Sono in contatto con Khamisi, che ci tiene informati sulla pulizia della tenuta. Finora hanno preso alcune guardie. Teme che parte degli animali del serraglio sia fuggita nel folto della foresta, ma probabilmente sono in gran parte morti nell’esplosione. Le ricerche continuano, comunque.»

Khamisi era stato nominato sovrintendente capo ad interim della riserva di Hluhluwe-Umfolozi. Il governo sudafricano gli aveva attribuito poteri di polizia per l’emergenza e l’incarico di coordinare l’aiuto delle tribù locali col capo Mosi D’Gana. Anche la dottoressa Paula Kane e Marcia Fairfield gli fornivano supporto tecnico nella gestione delle reazioni dell’intelligence internazionale alla guerriglia e alla devastante esplosione.

Le due donne si erano reinsediate nella loro abitazione nella riserva, felici di essersi ritrovate entrambe vive e vegete, ma avevano anche accolto in casa loro Fiona. Le due spie avevano persino aiutato la ragazza ad accedere a un programma di studi preliminari a Oxford.

Gray aveva lo sguardo fisso sul paesaggio che sfrecciava oltre il finestrino. Sperava che a Oxford vigesse la massima sicurezza. Sospettava che il tasso di microcriminalità attorno all’università stesse per subire un improvviso e significativo aumento.

Pensando a Fiona, Gray si ricordò che doveva sentire Ryan. Dopo l’assassinio del padre, il giovane aveva messo all’asta la tenuta di famiglia, deciso a sfuggire finalmente all’ombra di Wewelsburg.

Meglio così.

«Monk e Kat?» chiese Painter, richiamando la sua attenzione. Il tono di voce era più sereno. Aveva quantomeno messo da parte il dolore per la perdita dell’amico. «Ho sentito che ieri si sono fidanzati ufficialmente.»

Gray si rese conto di sorridere, per la prima volta, quel giorno. «Infatti.»

«Che il cielo ci aiuti.»

Condivisero quel breve lampo di felicità: la vita continuava. Discussero qualche altro dettaglio, poi l’autista infilò l’auto nei viali alberati di Takoma Park, fermandosi davanti a una piccola casa vittoriana verde.

Painter scese.

Lisa era già lì.

«Abbiamo finito?» chiese Painter a Gray.

«Sissignore.»

«Fammi sapere che cosa scopri in Europa. E prenditi pure qualche giorno in più.»

«Grazie, signore.»

Painter porse il braccio a Lisa e la coppia si diresse verso la casa.

Mentre Gray scendeva dall’auto, Monk lo raggiunse e indicò la donna e il direttore con un cenno del capo. «Scommettiamo?»

Gray li guardò salire le scale della veranda. I due erano stati quasi inseparabili da quando avevano lasciato la tenuta dei Waalenberg. Morta Anna e scomparso Gunther, Lisa era l’unica persona che conoscesse il funzionamento della Campana. Era stata interrogata a lungo alla Sigma. Ma Gray sospettava che Painter e Lisa avessero usato quei colloqui come scusa per trascorrere altro tempo assieme.

Sembrava che la Campana non avesse soltanto guarito il corpo.

Gray soffermò lo sguardo per un istante sulle loro mani intrecciate e rifletté sulla proposta di Monk. Ma era ancora troppo presto per fare previsioni. Se la vita e la coscienza erano un fenomeno quantistico, forse lo era anche l’amore.

Amare o non amare.

L’onda o la particella.

Forse per Painter e Lisa erano ancora entrambe le cose, un potenziale sospeso che soltanto il tempo avrebbe stabilizzato.

«Non so», borbottò Gray.

Si avviò verso la casa, pensando al proprio futuro.

Come tutti, anche lui aveva una sua realtà da misurare.

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