10 La bottega della magia

Mentre lavorava per suo padre e aspettava con impazienza che i piedi guarissero, Lydea sentiva la preoccupazione per Kyel affilarsi sulla mola dei giorni che passavano. Il piccolo erede di Ombria era stato incoronato; da quel momento sarebbe potuto essere morto, per quanto si sapeva di lui. Lo stesso dubbio valeva anche per Mag, e desiderare ardentemente che si facesse viva non serviva a nulla.

Forse la misteriosa ragazza aveva pronunciato il nome della Perla Nera una volta di troppo e in presenza di orecchie sbagliate. E ciò che Lydea avrebbe voluto fare era di certo altrettanto pericoloso. In ogni modo, l’interesse di Mag era stato catturato dalle persone e dai fatti che governavano Ombria, al punto di portarla a interferire in modo sottile e contorto con chi giocava quella rischiosa partita, così Lydea supponeva di potersi servire di lei. Mag aveva già intralciato i piani di Domina Pearl una volta salvandole la vita. Ora, nel modo azzardato e incosciente dei giovani che ancora non capivano cosa potevano perdere, meditava d’intervenire nella sorte di Ducon Greve. Se Lydea fosse riuscita a persuaderla ad applicare il suo peculiare talento alle vicende di palazzo, forse avrebbe trovato il modo di farla tornare a contatto con Kyel senza attirare l’attenzione e i sospetti della reggente.

Ma dov’era finita Mag?

Pian piano le sue ferite guarirono, e lei poté muoversi senza più soffrire durante il lavoro nel salone di mescita, benché questo non la consolasse troppo. Le facce sudate, barbute e vocianti degli avventori erano un mare d’immagini confuse, che lei scrutava senza sapersi raccapezzare mentre portava qua e là vassoi di birra o di carne bollita, desiderando che l’aria s’illuminasse sopra quelle teste per dirle chi aveva ordinato questo e chi quello.

Suo padre non si lamentava troppo, anche se un paio di volte lei gli aveva letto negli occhi il desiderio di quegli zaffiri.

Un giorno si concentrò nello sforzo di ricordare il nome della maga con cui Mag viveva.

’Nel sottosuolo’, aveva detto la ragazza. Non si trattava di un posto facile da trovare. Quella sera sul tardi, mentre lavava pile di stoviglie, Lydea fece una pausa, accigliata, fissando le tavole umide della pavimentazione. Evidentemente la gente sapeva come trovarla, questa maga che poteva togliere la vita ai nemici di Domina Pearl con le sue fatture e tuttavia non la approvava. La sottile differenza tra le due cose sfuggiva a Lydea, anche se Mag non sembrava trovarci niente di strano. Comunque, se Mag continuava a non farsi vedere, lei avrebbe potuto andare a cercarla. La strada per il sottosuolo non doveva essere troppo difficile da scoprire. In ogni caso tutti finivano per andare laggiù, quando smettevano di respirare.

Sbatté le palpebre, ricacciando indietro le lacrime. Se il suo fato era quello, lei lo avrebbe accettato. Fato…

Faey, ecco il nome che Mag ha detto! le venne in mente.

«Io devo andare fuori per un po’», disse a suo padre, quando ebbe finito. Con una certa sorpresa si rese conto di non essere mai uscita in strada, dopo la notte in cui si era rifugiata lì per salvarsi la vita. Anche suo padre sembrava pensare qualcosa di simile, lo vide nello sguardo preoccupato dei suoi occhi.

Ma lui si limitò a dire, convinto che volesse andare a cercarsi un lavoro: «Forse è la cosa migliore». Si chinò a sollevare il coperchio di pietra della botola, dietro il bancone dove teneva i soldi. Le consegnò una moneta. «Nel caso che tu ne abbia bisogno», aggiunse burberamente, notando l’espressione di lei. «Se io assumessi qualcuno per fare quello che hai fatto tu, lo pagherei.»

«Se si presenterà qualcuno per farsi assumere, mostragli la porta», disse seccamente lei. «Sarò di ritorno prima che qui ci sia di nuovo da fare.»

«Sii prudente.»


Durante il giorno le viuzze di periferia erano sporche, rumorose e affollate come le ricordava. Dovette farsi da parte per lasciar passare vacche e pecore condotte al mercato o al macello, passò in mezzo a gruppetti di ragazzi di strada che giocavano accaniti e misteriosi giochi con un bastone o una palla di stracci. Resistette alla tentazione di afferrare una manciata di capelli unti o un orecchio mai lavato per domandare: Tu mi hai inseguito per picchiarmi e derubarmi, quella notte? Sei tu quello che ha inghiottito il mio anello? Alla luce del sole i loro sguardi la evitavano, la attraversavano. Lei esisteva in qualche altro mondo; se l’avevano inseguita, era successo solo in sogno. A ogni respiro sentiva odori diversi: formaggi di ogni forma sugli scaffali di una bottega, una zaffata d’orina, spazzatura ammucchiata tra l’erba di fronte a una locanda, profumo o sudore di esseri umani, la brezza marina che sapeva di alghe e salmastro.

Dopo un poco si accorse che inconsapevolmente stava cercando qualcosa. Non ricordava cosa, ma nel vederlo l’avrebbe riconosciuto. Era un ricordo d’infanzia: una vetrina polverosa, una porta che si apriva sull’interno vuoto di un edificio abbandonato da tanti anni che il pavimento stava marcendo. Un posto che conduceva nell’interno e poi giù in un’echeggiante penombra che puzzava d’acqua sporca. O se l’era sognato?

Quei ricordi del passato non portavano a niente, e li scacciò. Lei non aveva mai trovato una maga a quell’epoca, e non sembrava il modo migliore di trovarne una adesso. Guardò le insegne delle botteghe intorno a lei con sguardo più chiaro di quello della memoria. Un fornaio poteva sapere dove abitava una maga? Improbabile. Un farmacista? Possibile. Un venditore di penne d’oca e libri dalle pagine bianche su cui si poteva scrivere e far di conto? Su quella bottega lei non poteva riporre speranze; il fatto stesso che in quei quartieri poveri la maggior parte della gente non sapesse neanche scrivere il suo nome lasciava immaginare quanto fossero scarsi gli affari di quel bottegaio. La polvere incrostata sulla vetrina era così spessa che lei non riuscì a capire se dentro ci fosse qualcuno. I vetri che la componevano erano stati fusi mescolando rozzamente fondi di bicchiere e pezzi di bottiglie di ogni sfumatura di verde, azzurro e giallo. L’insegna sopra la porta, una penna d’oca da cui cadevano come in un racconto di fate tre gocce d’inchiostro rosso sangue, era così vecchia che il legno andava a pezzi.

Lei sbatté le palpebre e la ritrovò nei suoi ricordi.

Aveva già aperto quella porta ed era entrata, molto tempo addietro… ma l’interno non esisteva. Questo l’aveva spaventata, ed era subito corsa fuori alla luce del sole. Cos’era stato, esattamente, a farle paura? si domandò incuriosita. Spinse la porta scalcinata finché cedette e si aprì. Sentì alcune note metalliche suonare da qualche parte, benché sulla porta non ci fosse né un campanello né un cordone di collegamento. La chiuse e guardò con stupore il posto dove avrebbe dovuto esserci la parete posteriore della bottega.

Non c’era niente, laggiù. Le pareti laterali, il soffitto e il pavimento inquadravano un rettangolo di tenebra. Da quel buio emanava una corrente d’aria umida odorosa di humus. Si mosse con cautela da quella parte, augurandosi che il pavimento non cedesse, perché sembrava terminare sul bordo di un precipizio. Tuttavia sotto il suo peso era abbastanza solido. Si appoggiò al muro di destra e guardò nel baratro.

Con sua grande sorpresa vide un fiume oscuro che scorreva molto più in basso, illuminato da radi lampioni su tutte e due le rive. Sia i lampioni che il corso d’acqua sembravano allontanarsi all’infinito in entrambe le direzioni. Poi la porta si aprì dietro di lei e le note metalliche si udirono ancora, un tintinnio sordo come un campanaccio da vacche proveniente da un luogo imprecisabile giù nel buio.

Quando si voltò, con un sussulto, si aspettava chiunque fuorché la corpulenta matrona avvolta in un voluminoso abito nero, con capelli annodati in un concio sopra la testa e chiusi in una fascia di merletto fissata con due spilloni. La sconosciuta unì le mani davanti all’addome e studiò Lydea in silenzio.

Lydea si schiarì la voce. «Sto cercando una maga di nome Faey. È questa la… Voi sapete per caso dove…»

L’altra annuì. «È una delle mie porte.» Aveva una voce rauca, ironica, che non si adattava affatto al suo volto grassoccio e all’abito da serva che indossava. Come intuendo la perplessità di Lydea si portò una mano al viso, tastandolo come avrebbe potuto fare un cieco. All’improvviso latrò una risata. «Ho copiato l’aspetto della mia governante. La poveretta non è precisamente viva. Tu sei…?»

«Lyd…» La sua voce non voleva saperne di uscire. Tossicchiò. «Lydea. Io sono… io stavo… io…»

«Vieni, accomodati», la invitò cortesemente la maga.

E all’improvviso furono in un piccolo salotto civettuolo — da qualche parte di quel posto oscuro, suppose Lydea — con le pareti di piante, fitte come una tappezzeria verde trapunta di fiori viola. Era arredato con poltroncine molto imbottite, che sembravano aver vagato qua e là fino a fermarsi a caso tra palme che allungavano attorno foglie acuminate come spade. La maga si scusò con un sorrisetto e restituì il suo corpo alla governante: nel punto in cui si trovava vorticò un caos di colori e d’immagini in continuo mutamento, che Lydea osservò a bocca aperta e con occhi sbigottiti. Dopo un poco i pezzi si assemblarono in una donna completa, che con mossette vezzose si riassettò i capelli come se fosse stata esposta al vento.

«Siediti, prego», la invitò, con la stessa interessante voce rauca, che peraltro non si adattava neppure a quel viso: pelle d’avorio incipriata di rosa sulle guance paffute, bocca rossa a forma di cuore, e rigonfi capelli biondo-platino con riflessi d’argento. Gli occhi di lei presero criticamente nota dell’abito di Lydea, macchiato di birra e dalle maniche ancora arrotolate dopo aver lavato i boccali, il berretto informe, gli zoccoli di legno; ma invece di metterla alla porta domandò: «Una faccenda d’amore, non è così?»

«Amore?»

«Vuoi un filtro? Per far innamorare un uomo?»

«Oh, no. Il mio uomo è morto.» Lei esitò. Faey la guardava con una espressione tra cinica e divertita.

«Sono venuta a cercare Mag», si decise a dire, infine. «Vorrei che mi facesse un favore. So che forse non dovrei chiedere una cosa del genere.»

Le sottili sopracciglia dipinte s’inarcarono con sincero stupore. «Vuoi l’aiuto della mia figlia di cera?»

«Io non sapevo… cioè, a me non è sembrata affatto di cera. Mi ha già aiutato una volta con i suoi strani poteri, così ho pensato a lei per quello che mi serve.»

«E come ti ha aiutato?» la interrogò la maga con voce morbida e suadente. Gli occhi verdi la guardavano come quelli di un felino eccitato dalla preda. Non c’era modo di evitare la risposta, comprese Lydea; nessuna scelta fuorché quella di dire tutto.

«Mag mi ha salvato la vita. Quando il principe di Ombria è morto, Domina Pearl mi ha buttata fuori dal palazzo in piena notte, senza che io avessi altra colpa fuorché quella di esser stata la sua concubina.»

Sia la voce che le sopracciglia della maga palpitarono a quelle parole. «La sua concubina… tu!»

«Be’, non dovete giudicarmi dal vestito che porto. Adesso lavoro.»

Faey si appoggiò allo schienale con un tonfo che lo fece cigolare, poi i suoi occhi cercarono di vedere in Lydea il genere d’incantesimo che aveva gettato sul principe. Lydea si sentì in dovere di aiutarla levandosi il berretto, e i capelli le caddero giù, ancora un po’ umidi del vapore della vasca d’acqua bollente dove aveva lavato le stoviglie. Ma la maga stava già annuendo tra sé. «Ricordo. La ragazza dai capelli rossi, la figlia del taverniere. Ho saputo, sì. Ma cosa pensi che Mag possa fare per te? Se stai cercando vendetta contro Domina Pearl, non solo finiresti male ma mi faresti anche perdere la mia assistente.»

«No. Non sono così stupida.»

«Quanto a questo, la gente che arriva fin qui non lo fa perché vive una vita intelligente. Tu che genere di stupida sei?»

«Suppongo che sia una questione d’amore. Io voglio un travestimento per poter tornare nel palazzo. Per il bene di Kyel. Non posso sopportare di saperlo solo, in balia della Perla Nera. Lo conosco da quand’era in fasce e posso dire d’averlo cresciuto io.»

Faey emise un grugnito. Allungò una mano a strappare un mazzo di foglie lanceolate dalla palma più vicina e le usò come ventaglio per rinfrescarsi. I suoi occhi si strinsero. «E cosa vorresti che facesse Mag?»

«Che spiasse nel palazzo, e trovasse un travestimento adatto a me. Io non prestavo attenzione a queste cose, quando abitavo là. Guardavo il personale di servizio con distrazione; non facevo caso al modo in cui quelle persone vivono e lavorano insieme. Indossavo le mie scarpe senza badare a chi le puliva, e le mie vesti di seta senza pensare a chi le lavava. Mi sono detta che forse Mag potrebbe… So che è pericoloso… forse non ho pensato…»

Faey stava pensando, invece. Un filo di fumo o di vapore le uscì da una narice. Lydea si sentì la gola secca. «E tu credi che lei farebbe questo per te?»

«Be’, lei sembra… lei ha un occhio su quello che succede nel palazzo. Mi ha detto che Domina Pearl non le piace.»

Il ventaglio nella mano di Faey si chiuse, con un fruscio di foglie. Lydea afferrò nervosamente i braccioli della poltroncina. La maga si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, agitando le foglie come la coda di un gatto irritato. Lydea vide con stupore che sedie e divani si toglievano di mezzo al suo avvicinarsi. Gli occhi della maga erano diventati neri come carboni. «Sei certa che Mag farebbe questo per te?» domandò bruscamente.

«Io credo… credo di sì.» Lydea deglutì, cercando di avere una voce ferma. «Lei è così curiosa, e non ha paura di nulla. È venuta da me, alla taverna di mio padre, per domandarmi di Ducon Greve.»

«Cos’ha voluto sapere di lui?»

«A chi è fedele. Nel caso che voi…» Lydea esitò. «Se…»

Ma Faey spazzò via l’argomento Ducon con le foglie. «Ducon Greve ha già chi si occupa di lui», disse, con gelido disinteresse. Tra le sue sopracciglia c’era una piega dura. Il suo viso stava cambiando; l’elegante profilo del corpo si appesantiva, cedeva, le sopracciglia diventavano cespugliose. All’improvviso i capelli platinati persero la piega e ricaddero, lisci. Si scostò una ciocca e inchiodò su Lydea due pupille penetranti, arroventate.

«Quando è stata l’ultima volta che hai visto Mag?»

«Il giorno in cui hanno seppellito Royce», sussurrò lei.

«Da allora non più?»

«No.»

La maga sedette su una poltroncina e si toccò il viso, indurendo, aggiustando, rimodellando. Il cipiglio scomparve e fece ritorno, più leggero. «Io gliel’ho detto di stare alla larga dalla Perla Nera.»

Visto che era intrappolata lì e destinata a essere ridotta in cenere da quegli occhi, Lydea azzardò una domanda. «Chi è Domina Pearl? Chi è quella donna?»

La maga mordicchiò una foglia di palma tra i denti candidi e perfetti. Sembrava ascoltare qualcosa dentro di sé, o nel buio oltre l’accogliente illusione che le circondava. Dopo un poco Lydea osò fare un’altra domanda. «Voi sapete dov’è Mag?»

Faey si tolse un pezzetto di roba verde dai denti. «Non ne ho idea.» Guardò la giovane donna con occhi simili a pietre fuse. «Naturalmente tu puoi aspettarla qui, con me. Vuoi una tazza di tè?»

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