18 Ciò che disse la manticora

Il ritorno di Ducon, dopo tutti quei giorni di misteriosa assenza, provocò negli ambienti di corte un tale groviglio d’ipotesi da fargli pensare che avrebbe destato meno emozione resuscitando da morte.

Il Nobile Marin Sozon, che aveva speso una piccola fortuna nel tentativo di ucciderlo, lo salutò con voce ferma, ma era diventato così pallido da far temere a Ducon che gli sarebbe venuto un infarto; la Perla Nera, che secondo lui sarebbe stata del tutto indifferente, rivelò invece un’espressione interessata sotto lo strato di vernice che le teneva insieme il volto. Il giovane spiegò di essersi ammalato e di aver trascorso la convalescenza in casa di amici.

«Vi ho cercato», disse la donna, perplessa e insospettita. «Io ho i miei sistemi, ma stavolta con voi non hanno funzionato. Dovete dirmi chi sono questi vostri amici, affinché io possa adeguatamente ringraziarli.»

«Siete molto gentile. Provvederò io a esprimere loro la vostra gratitudine, non appena li vedrò», rispose lui, esibendo un sorrisetto melenso.

Lei non aveva abbastanza sangue per arrossire, ma perfino i suoi capelli parvero irrigidirsi. «Avrebbero potuto mandarci un messaggio», si lamentò. «Eravamo molto preoccupati.»

«Avrei dovuto pensarci io. E ora credo di dover rassicurare mio cugino, sulle mie condizioni di salute.»

L’esitazione di lei, durata un batter d’occhio, fu così impercettibile che se l’avesse fatta qualcun altro Ducon non l’avrebbe notata.

«Sì. Lui ha chiesto di voi. Lo troverete per qualche verso più docile. Malinconico. I medici assicurano che è una reazione naturale alle conseguenze per i cambiamenti intervenuti nella sua vita.»

Ducon sentì ancora una volta l’ormai noto impeto di paura e di rabbia; per un momento non poté parlare. Domina Pearl non attese la risposta; mentre si allontanava, aggiunse: «Ha cominciato i suoi studi con Camas Erl. Al mattino sono molto indaffarati. Potrete vedere il principe solo quando avranno finito».

Ma lui non aveva intenzione di aspettare tanto.

Trovò Camas Erl e Kyel in biblioteca. Il principe stava osservando una carta che Camas aveva appeso a una lavagna. Era un albero genealogico della Casa dei Greve, fitto di nomi come mele appese ai rami. Quello di Kyel era in basso sul tronco, ancora troppo fragile per pendere da un nuovo ramo. Il principe si voltò nel sentire la porta aprirsi. Per un attimo il suo sguardo indifferente oltrepassò anche Ducon, comprendendolo nella sua apatia. Poi il principe si alzò, senza dir nulla, e corse da lui.

Ducon s’inginocchiò e lo strinse a sé con forza. Sentì le piccole braccia di lui rispondere debolmente, esitanti, come se avesse dimenticato il senso quel gesto. Il bambino alzò lo sguardo oltre la spalla di lui verso Camas Erl, che stava ancora puntando un righello su un significativo frammento di storia: gli eredi gemelli nati da Kasia Greve un paio di secoli prima. Camas gli restituì lo sguardo senza dir niente, e infine abbassò il righello.

«Bentornato a casa.»

Ducon annuì, e scostò Kyel da sé per osservarlo meglio. Era pallido e aveva un alone scuro intorno agli occhi. Sotto il suo sguardo scrutatore sbatté le palpebre, come se si fosse appena alzato.

«Ducon…» La sua voce era debole, priva di vitalità. «Dove sei stato?»

«Ero ammalato. Non ho potuto tornare a casa per qualche tempo. Mi spiace non averti potuto avvertire.»

«Credevo che fossi morto», mormorò il bambino con calma raggelante. Poi la sua espressione cambiò; ritrovò il passato, rammentò cos’era la morte. Guardando Ducon sembrò quasi accusarlo di averlo ingannato, per il semplice fatto di essere ancora vivo. Sul volto gli tornò un po’ di colore. «Credevo che tu fossi andato dove sono andati Lydea, e Jacinth, e mio padre…»

«No.»

«Credevo che Domina Pearl…» All’improvviso il principe tacque, a occhi spalancati. Ducon si voltò lentamente, aspettandosi di vedere la donna sulla soglia della biblioteca, convocata lì dai loro timori. Strinse i denti. Si alzò, in modo che il principe non potesse vederlo in faccia, poi lo prese per mano e lo riportò al tavolo.

«Sentiamo un po’. Cosa ti ha insegnato di bello Camas Erl?»

«Mi ha insegnato la storia della Casa dei Greve», rispose Kyel con tono privo d’interesse. Tornò a sedersi e riportò la sua doverosa attenzione su Camas Erl. Ma continuò, senza rendersene conto, a stringere la mano di Ducon, il quale gliela lasciò, gentilmente. Kyel parve non accorgersene. Camas Erl venne a mettergli davanti carta e penna. «Facciamo pratica di calligrafia, mio signore.»

Ubbidiente, il bambino intinse la penna nel calamaio, senza rispondere, e cominciò il suo lavoro. Ducon rimase lì un poco a osservarlo. Poi prese il tutore per un braccio, con tale forza che l’uomo fece una smorfia, e lo portò con sé all’altro capo della stanza.

«Cosa gli ha fatto, quella donna?»

Camas si strinse nelle spalle. «Una pozione di qualche genere, per renderlo passivo», rispose sottovoce. «Non so come o quando gliel’abbia somministrata. Ducon, dove diavolo sei stato? Ti ho cercato dappertutto…»

«Avete saltato un posto. Ascoltatemi. Ho trovato una assistente per voi.»

«A che scopo?»

«Per darvi una mano, mentre istruite Kyel.»

Il tutore ebbe un gesto d’incredulità. «Ma guardalo! Si accorge a stento della mia presenza. La sola cosa che ottiene la sua attenzione è l’esercizio di calligrafia, e credo che sia solo perché gli ricorda i disegni fatti per te. Non ho bisogno di un assistente. Ho bisogno di un allievo.»

«Ne avete bisogno, più di quanto crediate.»

«Ducon, tu dici sciocchezze. Io non ho mai avuto…» Tacque, notando qualcosa nell’insistenza dell’altro. «Perché? Chi sarebbe costui?»

«Costei.»

«Chi è?»

«Non importa chi è. Se non l’accettate, andrò da Domina Pearl e le chiederò perché sta avvelenando Kyel con…»

«E va bene.» Camas Erl sospirò, battendogli una pacca su una spalla. «D’accordo. Tu rischi di sparire dalla circolazione, e nessuno saprà mai che fine hai fatto.»

«Se non lo saprete neppure voi, nessuno vi incolperà.»

«È un sollievo sentirtelo dire», rispose secco il tutore. «Ma in un posto come questo, c’è da dubitarne. In ogni modo, dimmi cosa vuoi.»

«Voglio che la vostra assistente protegga Kyel. Domina Pearl non permetterebbe a me di farlo; voi non siete in condizioni di occuparvene, mentre questa persona… è una di cui Kyel si fida.»

Gli occhi di gufo del cortigiano, attenti e sagaci, sembravano capaci di vedere le intenzioni altrui e considerare le cose non dette. Si passò una mano tra i capelli, con un sospiro. «E se lei…»

«Voi non la riconoscerete. Nessuno, a parte Kyel, potrà riconoscerla.»

«Ma come lo spiegherò a…»

«Pensate a qualche scusa.»

«E quella donna, come potrà… Ducon, tu dove sei stato?»

«Nel sottomondo», rispose lui. Nel sentire queste parole, Camas sembrò all’improvviso, stranamente, privo di altre domande.

Ducon uscì per parlare con Lydea, lasciata alle discrete cure della graziosa cameriera del principe, in un locale appartato e senza sorveglianza nel seminterrato del palazzo. La cameriera, che disponeva di un’altra stanza, aveva offerto a Lydea il suo letto per la notte.

Ducon bussò leggermente a una delle molte porte chiuse del corridoio, indistinguibili una dall’altra, augurandosi che fosse quella giusta. Gli fu aperto da un’elegante sconosciuta dai modi affettati, e lui chiese scusa, con un passo indietro.

«Ducon», disse lei. Il giovane la guardò meglio e si accorse che quello era il volto che aveva scorto sotto il voluminoso cappuccio di seta che la maga aveva recuperato da qualche secolo dimenticato per proteggere meglio il suo incantesimo.

«Non è tanto il cambiamento del tuo viso», le disse, girandole intorno, «quanto l’espressione e il modo di comportarti. Sembri proprio una sofisticata creatura ben consapevole del suo posto privilegiato, calma e padrona di sé. Qualunque cosa ti abbia fatto la maga, vale il compenso che le hai dato.»

«Questo non mi rassicura affatto», mormorò Lydea, innervosita.

«Ma è l’impressione che dai.»

«Non posso neanche mangiarmi le unghie.» La ragazza gli mostrò le dita ornate da ovali di opalescente opulenza. «Non so da dove le abbia tirate fuori, queste. Suole di vecchie scarpe, magari.»

La sua figura alta e snella, notò lui, non era cambiata. Aveva i capelli riuniti in una treccia, annodata sopra la testa, e il loro colore non aveva il brillante rosso di prima, che attirava lo sguardo. Niente di lei appariva notevole, salvo l’impressione di calma intelligenza che lì a palazzo era una dote assai poco apprezzata. L’abito scuro a gonna, disadorno a parte la cintura e il colletto, le conferiva un’aria autorevole che lei non aveva mai posseduto nei cinque anni trascorsi come concubina di suo zio.

«Hai l’aspetto di una vera istitutrice.»

«È una fortuna», borbottò cupamente lei, «visto che so a malapena leggere e scrivere.»

«È più di quanto sappia fare Kyel.»

«Hai parlato a Camas Erl?»

«Sì.»

«Cos’ha detto?»

«Cosa poteva dire? Non gli ho lasciato scelta.» Ducon si massaggiò gli occhi, che gli dolevano un poco. «La Perla Nera sta somministrando a Kyel una pozione, o così suppone Camas, che lo rende passivo. Senz’anima.» In quel momento poté vedere la vecchia faccia di lei, rossa di rabbia. «Non fare così», la avvertì. «Non devi avere quell’espressione.»

«Quale espressione?»

«Rabbiosa. L’emozione è un solvente per l’incantesimo della maga, a quanto pare. Fai per il bambino quello che puoi. Pensa al suo bene. Al bene di tutti noi.»

Lei lo scrutò da vicino, dandogli l’impressione strana di essere ben conosciuto da una sconosciuta. «Ducon, ti senti bene?»

Lui annuì distrattamente. «Sono solo un po’ stanco… Domani ti porterò da Camas, e lui troverà il modo di spiegare la tua presenza a Domina Pearl.» Si guardò attorno nell’umile stanzetta priva di finestre, ammobiliata soltanto con un letto a una piazza, una cassapanca, un catino e una brocca d’acqua. «Ti hanno dato tutto ciò di cui hai bisogno?»

«Se sarò assunta come assistente del tutore del principe, mi hanno detto che il mio rango mi consentirà di avere una stanza solo per me.» Anche la sua voce era quella di un’istitutrice, pensò lui, precisa e riservata. «Qui negli alloggi della servitù è un altro mondo, con le sue regole. Nulla di simile all’ambiente dei cortigiani ai piani superiori, col suo lusso e i cibi sopraffini. Ma non sarò costretta a dividere il letto con una serva, e potrò portarmi un vassoio in camera, proprio come un’ospite o una governante.» Sedette sul letto, mentre Ducon la osservava tra stupito e affascinato.

«Non sapevo che queste camerette fossero così piccole.» Il giovane tornò alla porta. «Ora vado a vedere se Kyel mi ha lasciato qualche disegno. Poi comincerò a cercare Mag.» Esitò, con una mano sulla maniglia. «Hai detto che ha i capelli color paglia?»

«Una gran massa di capelli biondi, sì.»

«E gli occhi?»

«Un’insolita sfumatura castano chiaro. Il colore delle nocciole.»

Lui grugnì, perplesso. «Mi chiedo perché non li ho mai dipinti.»

«Non li hai mai visti puntati su di te. Sii prudente, Ducon», lo pregò lei, mentre il giovane usciva.

«La troverò», disse lui. «Poi ti farò sapere.» Il viso pacato che la ragazza aveva ricevuto non sembrava aver bisogno di rassicurazioni, ma lui le sorrise ugualmente. «Verrò a prenderti domani.»

Ducon stava percorrendo gli eleganti e ariosi corridoi del piano superiore, quando si accorse che nella diramazione che portava al suo alloggio non c’erano soldati di guardia. Subito si fermò, accigliato. Kyel. C’è qualcosa che non va. Un coltello da lancio che avrebbe dovuto colpirlo al collo il passo successivo gli sfiorò il viso e andò a piantarsi nell’occhio sinistro di suo nonno, nel quadro a grandezza naturale appeso al muro.

L’imprecazione dell’aggressore lo fece voltare di scatto, ma era troppo tardi. L’uomo gli arrivò addosso con tutto il suo peso, mandandolo a rotolare sul pavimento. Prima che potesse tirare il fiato, stordito, un pesante stivale lo colpì a una tempia. Cercò di alzarsi e un calcio al ginocchio gli tolse la forza dalla gamba. Vacillò, accecato dal dolore. Due mani robuste gli torsero le braccia dietro la schiena. Qualcun altro lo afferrò per i capelli, rovesciandogli la testa all’insù. Fu allora che lui vide la manticora, il feroce volto umanoide sul corpo di leone, e le due spade d’oro in campo bianco. Dietro di lui c’era il Nobile Marin Sozon, affiancato dal Nobile Greye Kestevan.

Con la coda dell’occhio Ducon vide un lampo metallico. Il freddo taglio di una lama affilata si posò sulla sua gola.

La manticora sussurrò: «Avresti dovuto morire la prima volta». Senza distogliere gli occhi da lui, rivolse un cenno del capo a un altro uomo. «Finiscilo.»

La mano che gli afferrava i capelli lo lasciò prima che la lama colpisse; lui cadde con la faccia sul pavimento e sentì in bocca il sapore del sangue. Poi una massa pesante gli piombò sulla testa, impedendogli di vedere cosa stava succedendo. Le sue braccia restarono libere, e qualcuno gli camminò addosso come se lui fosse parte del tappeto. Intorno a lui c’era un caos di gente in lotta che cercava di fare meno rumore possibile: grugniti, tonfi, ordini appena sibilati. Lui cercò di scrollare via il peso morto che gli gravava sulla testa. Poi qualcuno lo prese per un braccio e lo tirò a sedere, e il suo viso fu immerso per qualche istante in una tunica di seta. Fu fatto girare senza troppi complimenti, e vide di nuovo la manticora, stavolta con un pugnale piantato sull’incrocio zuppo di sangue delle due spade.

Sozon e Kestevan erano spariti. Suo nonno, ora guercio, osservava allegramente un secondo sicario in livrea che rantolava ai piedi del dipinto. Ducon fu aiutato a tirarsi in piedi, e infine poté guardare in faccia i suoi salvatori.

L’ultima volta che li aveva visti era stato sul vecchio molo: i suoi cugini, e i figli dei pericolosi cortigiani alleati di Sozon. Da quella sera l’espressione delle loro giovani facce era diventata più dura, decisa e disperata. Quattro stavano sorvegliando le scale, a ogni estremità del corridoio; gli altri si riunirono in circolo attorno a lui. Nessuno aveva riportato ferite; si erano imposti a Sozon col numero e con la sorpresa.

«Vi ringrazio», disse lui, scosso. «Cosa… dove sono le guardie della Perla Nera? È stata lei a programmare l’agguato?»

Il cugino che lui ricordava meglio, quello con gli occhi brucianti da visionario, spiegò brevemente: «Sozon ha organizzato una diversione in un’altra ala del palazzo. Non appena le guardie hanno abbandonato questo piano, abbiamo capito che preparava qualcosa davanti al tuo alloggio». Prese Ducon per le spalle e lo scosse un poco. «Questo non avrebbe dovuto succedere. Il nostro dovere è di eliminare la Perla Nera, non di batterci tra noi.»

«Vi ho già detto…»

«Tu non ci hai detto niente. Ci hai detto: aspettate. Ci hai detto: vi farò sapere quando avrò bisogno di voi. E per fare cosa? Per andare a ubriacarti in compagnia? Ci hai detto che avresti deciso da che parte stare.»

Lui cercò di rispondere. Dietro i suoi occhi esplose un lampo, e vacillò. Gli altri lo afferrarono prima che cadesse, non senza qualche imprecazione, frustrati.

«È ferito a una tempia.»

«Sembra che abbia dormito ubriaco in un fossato», aggiunse qualcun altro, disgustato. «Portiamolo nel suo appartamento, prima che tornino le guardie.»

«E che ne facciamo dei cadaveri?»

«Cosa vorresti farne? Sono uomini di Sozon… lasciamo che sia lui a dare spiegazioni alla Perla Nera.»

«Voi non avete bisogno di me», borbottò stordito Ducon, mentre lo portavano di peso lungo il corridoio. «State già facendo da soli quello che dovete fare.»

«Tu ci servi per distruggere la Perla Nera. Tu le parli, la vedi spesso, la conosci meglio di chiunque altro.» Lo contraddisse il visionario, a denti stretti.

Lo portarono nel suo alloggio e lo scaricarono sul letto. Qualcuno, con una premura che lui non si sarebbe aspettato, gli tolse le scarpe. Poi lo guardarono, con facce che ai suoi occhi annebbiati sembravano tutte uguali, un circolo di gemelli.

«Sarà il caso di chiamare un medico? Non possiamo lasciarlo così, a perdere sangue sulle lenzuola.»

«Perché no? Dev’esserci abituato, con la vita che fa. Lascia che ci dorma sopra. E poi…» Ducon sentì una mano che lo prendeva per il mento, scuotendolo per ottenere la sua vacua attenzione. Gli occhi azzurri che lo fissavano erano come quelli di suo zio, ma più duri e accesi d’impazienza. «Pensa a quello che è successo. Noi torneremo. Tu ci devi la vita.»

Molto più tardi lui aprì gli occhi, svegliato da qualcuno che lo stava toccando con gentilezza, e vide la luce di alcune candele. I cospiratori, per magia, come accadeva nei sogni, si erano trasformati in un medico e in Domina Pearl. La donna stava parlando in tono brusco, e con le fiammelle che si riflettevano nella gelida notte dei suoi occhi sembrava più furiosa di quanto lui l’avesse mai vista. Si chiese quanti dei cospiratori avrebbero incontrato una lama nell’ombra, prima che sorgesse il sole.

Bevve ciò che il medico gli diede e dormì ancora. All’alba si svegliò, e nell’opaco grigiore che si spandeva lento sul mondo si accorse che qualcuno aveva infilato un pezzo di carta sotto la porta.

Si alzò con qualche sforzo, pieno di dolori dappertutto. Zoppicò fino alla porta per raccogliere il foglio, mentre in lui si rincorrevano le ipotesi più diverse, e provò un moto d’affetto e di paura quando gli sovvenne la più probabile: Kyel.

Ma non poteva esser stato Kyel a scrivergli qualcosa, neppure quelle tre brevi parole, anche perché erano state composte con la cera sgocciolata da una candela. Le guardò finché assunsero un significato. Poi aprì la porta d’impulso, sperando di vedere quegli occhi color nocciola, ma lì fuori c’erano soltanto le guardie che in qualche modo lei aveva aggirato.

Io sono salva, diceva la cera.

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