17 Sangue e rose

Mag trascorse quasi due giorni nelle strade di Ombria in cerca di Ducon, facendo domande con discrezione in tutti i luoghi pubblici che il giovane soleva frequentare. Nessuno lo aveva visto, ma tutti lo conoscevano e le davano qualche suggerimento: aveva provato al Canto del Cigno? E al Cuore Dipinto? E al Re degli Incapaci? Si era ormai aggirata in tutte le viuzze dei quartieri portuali, quando lo scoramento la fece fermare a metà strada tra un bordello e l’ennesima taverna. Nel frattempo il cielo si era riempito di nuvole. Un vento di mare freddo e insistente stava spingendo i mendicanti al riparo nei vicoli più stretti, e sollevava vortici di polvere e foglie che sibilavano in una breve vita rabbiosa prima di collassare. Una raffica le fece sbattere le palpebre, e stancamente pensò: Camas Erl lo ha trovato, oppure è morto.

Prese il più vicino ingresso per il sottomondo e s’incamminò nel buio verso il fiume lontano, dove i lampioni le illuminarono l’ultimo tratto del percorso fino a casa. Non riconobbe subito la donna che venne ad aprirle la porta. Una nuova governante, pensò; quella vecchia doveva esser scivolata del tutto fuori dalla vita. Questa era coperta da capo a piedi in un abito a maniche lunghe di taffettà nero. Sembrava una mezza scema. Aveva capelli neri che pendevano flosci e scarmigliati, il delicato volto ovale era coperto di cipria bianca, e il rimmel rosso intorno agli occhi le dava un’espressione febbrile. La fissò in silenzio, e lei le restituì lo sguardo. Poi un’improvvisa intuizione mozzò il fiato a Mag, che si portò una mano alla bocca.

«Dove diavolo sei stata?» La voce della maga sembrava uscire da mille punti diversi, dal fiume, dalle pietre, dal fango della riva e dalle cavernose profondità. «Ti avevo mandata a comprare le anguille! Al mercato del pesce, non fuori dai confini del principato! E perché indossi quel… quella specie di tenda?»

«Ti chiedo perdono», sussurrò Mag dietro la mano. Non sapeva che effetto avrebbe avuto la verità, ma mentire a quei furiosi occhi arrossati sembrava ancor più pericoloso. Era impossibile che Faey avesse pianto. Doveva essersi dimenticata da secoli cosa fossero le lacrime. «Io sono andata a… a cercare Ducon Greve.»

La maga non batté ciglio. «Perché?»

«Non volevo lasciarlo morire.»

Faey incrociò le braccia sul petto e tacque, fissando la sua bambola di cera con una strana espressione.

Mag, che si aspettava tuoni e fulmini, fu sorpresa quando l’altra infine disse: «Be’, anch’io non ho voluto lasciarlo morire, quando l’ho trovato. Ora l’ho rimandato a casa sua».

Mag riuscì a tirar fuori un filo di voce stupita. «Lui è stato qui?»

«Era caduto dentro un seminterrato. A prendersi cura di lui ci ha pensato Lydea, visto che tu eri introvabile.»

«Lei è stata qui?»

«Fai eco a te stessa. Finora sei stata per le strade?»

Mag, adesso con entrambe le mani sulla bocca, scosse il capo. «Non tutto il tempo. Non esattamente.»

«Ah.» Anguille di fuoco blu saettarono per un istante dagli occhi della maga. «E lei ti ha trovato?»

«Non…»

«Non esattamente.»

«Posso entrare?» la pregò Mag. «Sono così stanca.»

«Tu mi hai ingannata.»

«E tu hai ingannato me», replicò lei. «Mi hai detto che sono di cera, e che mi hai fatto tu. Mi sei stata maestra di bugie. Io non sono di cera, e non sei stata tu a farmi, l’ho saputo fin da quando ho inghiottito quel cuore. Ma tu non volevi che io lo sapessi. Allora, cos’altro potevo fare se non mentire?»

«Non credo di essere io la sola che hai ingannato», disse lentamente la maga.

Mag fu sul punto di rispondere, ma tacque. Chinò il capo, così esausta che le parve di non avere più neppure la forza di oltrepassare la soglia di casa. «Sembra», udì se stessa dire, «che io abbia cercato d’ingannare anche me. Per molto tempo mi sono rifiutata di essere umana.»

«Cosa ti ha fatto cambiare idea?»

«Tu», mormorò lei. «Con quel rospo e quel carboncino per dare la morte a Ducon Greve. Non ho più voluto essere come te.»

Faey tacque. Il suo volto incipriato era inespressivo come quello di una bambola di porcellana. Infine si scostò dalla soglia, lasciando entrare Mag. Ma quando ebbe richiuso la porta dietro di lei, le posò una mano su una spalla. Sulla porcellana apparvero due o tre crepe. «Io sono più vecchia di quello che tu possa immaginare», disse. «E credo di aver dimenticato certe cose che quand’ero giovane sapevo bene. Me ne sono accorta quando ho ricordato come si fa a piangere.»

Mag la guardò, sentendosi di nuovo un groppo in gola. «Tu hai pianto per me?»

«Non l’avrei fatto, se tu fossi di cera.»

La maga s’incamminò, e dopo un poco Mag le tenne dietro, troppo stupita per parlare. Ora che sapeva di essere irrevocabilmente umana, in lei riprendevano vita umane curiosità, cose che nel suo stato amorfo aveva ignorato per anni. Chi sono io? si domandò in silenzio. E con altrettanta intensità chiese alla schiena della maga: E tu chi sei? Non c’era più nulla di certo. Aveva l’impressione che se non si fosse concentrata sull’atto di camminare avrebbe dimenticato come si faceva.

Forse avrei dovuto restare cera, pensò, confusamente. Prima non avevo tutta questa paura.

«Non so dirti chi sei», la informò Faey, rispondendo alle sue curiosità inespresse. «Qualcuno ti abbandonò sulla soglia della mia casa.» Si voltò, costringendo Mag a fermarsi, meravigliata. «Mi svegliasti con i tuoi vagiti, letteralmente.»

«Qui?»

«Fuori, sugli scalini.»

«Dunque questo qualcuno sapeva come arrivare qui. Sono stata venduta. Hai pagato, per avermi?»

Di nuovo la maga udì ciò che non veniva detto. «Molte donne sapevano come arrivare a me; compravano filtri d’amore, talismani, fatture per vendicarsi, pozioni per abortire. Tu non sei stata il prodotto di un incantesimo che non aveva funzionato, bensì di uno che aveva funzionato fin troppo. L’amore può dare la vita a una bambina, ma non tenerla sana e ben nutrita nei quartieri poveri. Questo lo sai anche tu. Non ti portarono da me per denaro, ma per speranza. Di cosa, non saprei dirlo. Forse che ti trovassi una casa, o che ti tenessi io stessa, suppongo. Ed è quello che feci. Pensavo che mi saresti stata utile. Non ho mai creduto di…» Con un gesto Faey disperse altre possibilità nell’aria tra di loro. «Credevo che saresti stata per sempre la mia figlia di cera. Che finché tu avresti lasciato che a pensare fossi io, saresti stata al sicuro. Non prevedevo che dopo tutti questi anni saresti entrata nel mio cuore.»

Mag deglutì. Ma la voce le uscì tesa e rauca. «Come hai potuto pensare che io fossi stata desiderata, se… si sono disfatti di me appena nata?»

«Non ti abbandonarono, ti diedero a me», la corresse Faey. Pur senza essersi mossa parve d’un tratto più vicina.

Anche le sue ombre, gettate da numerose candele, sembrarono piegarsi verso Mag. «Tu sai che aspetto hanno i neonati non voluti? Ne hai mai visti? Non sono vestiti di lana e seta, non portano un misterioso medaglione appeso al collo, contenente tre gocce di sangue e il petalo di un fiore.»

Mag fece un passo verso di lei. «Un medaglione?» La voce le tremò. «Avevo al collo un medaglione?»

«Sì, appeso al collo con una catenina. Stavi per mangiartelo, quando ti trovai. Piangevi così forte che dovetti scendere. Non avevo mai visto tante finestre illuminate, in queste vecchie case lungo il fiume.»

Mag fece un altro passo. Tremava da capo a piedi, adesso. Alzò le mani verso di lei. «Ti prego. Posso vederlo?»

«Potrai tenertelo… Non appena riuscirò a ricordare dove l’ho messo», disse Faey. Aspettò che Mag attraversasse la distanza tra loro, un passo dopo l’altro. «Ricorda», la avvertì, quando le fu accanto. «Io non sono umana. Ti ho allevata come se non lo fossi neppure tu, perché questi fantasmi e il passato di Ombria sono tutto ciò che conosco. Dovrai trovare da sola la tua strada nel mondo umano. Se è questo che vuoi.»

«Io non so cosa voglio», disse Mag, confusa. «Questa è l’unica casa che conosco. Non costringermi a lasciarla.»

«Non sono sicura che tu vorrai restare. Tu sai cosa sono io.»

Mag storse la bocca. «E tu sai cosa sono io? Non so se voglio avere un posto nel mondo umano. Io non mi comporto come una persona umana.» Nei suoi pensieri apparve inatteso il volto di Ducon. Anche lui è diverso, si disse, ma il suo posto tra gli umani, benché eccentrico, rientra ancora nella normalità.

«Troverai la tua strada», pronosticò Faey. «E te ne andrai di qui.» Toccò ancora un braccio di Mag, esitante. «Vai a lavarti. E trova qualcosa di meno ripugnante da indossare. A cena mi dirai dove sei stata.»

Esaminarono insieme il programma di Lydea e di Ducon Greve mentre mangiavano la zuppa di tartaruga. Passarono al pesce, e Mag ascoltò con stupore il modo in cui Lydea aveva trovato la strada per la casa della maga. Quando arrivò in tavola la carne arrosto, molto speziata, lei riferì come aveva conosciuto Camas Erl nella biblioteca della Perla Nera.

Faey depose la forchetta; i suoi occhi non lasciavano un istante Mag. Sembravano fangosi, pensò la giovane, come se avessero assorbito un po’ del giallo di quelli di Camas Erl durante il racconto. Quando fu servita l’insalata, la maga le chiese: «Questo tutore… è al soldo della Perla Nera?»

«Penso che faccia quello che pare a lui», rispose Mag. «Mi ha lasciato andare. Se le avesse detto di avermi trovato lì, mi avrebbero tenuto prigioniera, o probabilmente uccisa. Quell’uomo ha i suoi piani personali. Non so immaginare quali.»

«E tuttavia Ducon Greve si fida di lui.»

Mag sentì un prurito dietro la nuca, come se una delle spettrali guardie di Domina Pearl la stesse guardando. «Te lo ha detto lui?»

«Ha proposto a Lydea di fingersi l’assistente di Camas Erl, per aiutarlo nell’istruzione del bambino. Io le ho dato un’aura che potrà ingannare la Perla Nera, a patto che non la guardi troppo da vicino, e l’ho mandata a palazzo con Ducon. Lei mi ha pagato con questo.»

Faey esibì le dita ingioiellate; Mag riconobbe il regalo del defunto principe. Nell’opale c’era una cosa strana. Lo guardò meglio e spalancò gli occhi. «Quello è il mio volto.»

«Proprio così.»

«Com’è finito in quella gemma?»

«Devi avercelo proiettato tu.»

Mag studiò l’immagine, meravigliata. Faey aveva dato a Lydea un incantesimo in cambio del volto della sua bambola di cera. E grazie a questo, Mag sentì un po’ meno la stranezza di essere diventata umana.

«Saresti venuta a cercarmi se Camas Erl non mi avesse liberata?» domandò, incerta.

Gli occhi della maga cambiarono ancora, duri come diamanti, neri come carboni. «Non ricordo come ci si comporta nel mondo di sopra», disse. «Sarei venuta, se la Perla Nera ti avesse preso, ma avrei potuto distruggere troppe cose. Nella Casa dei Greve c’è un mistero. Domina Pearl lo vede; Ducon Greve ne fa parte; io credo che questo Camas Erl, il quale mostra un volto alla Perla Nera e un altro a Ducon Greve, lo veda anche lui. Si direbbe uno sconsiderato, uno che scherza col fuoco…»

«Quale mistero?»

La maga scrollò una spalla d’avorio. «Se lo sapessi non sarebbe un mistero.»

Mag trasse un lungo respiro e disse, precipitosamente: «Camas Erl vuole conoscerti. È per questo che mi ha lasciato andare».

L’arrivo del caffè e della cioccolata ritardò il commento della maga. Sollevò la tazza alle labbra mentre la porta si chiudeva, poi la riabbassò sul piattino con un colpo che fece traboccare il caffè. «Perché?» domandò, secca. «Chi vuole chiedermi di uccidere?»

«Sembra più interessato a quelli che sono già morti.»

«Ah, sì?»

«Vuole sapere da dove vieni.»

«Già.» Faey alzò la tazza e la guardò senza vederla, come perduta nelle sue riflessioni. Bevve un sorso. «Anche a me piacerebbe sapere da dove viene costui. Sembra pericoloso e senza scrupoli, e io non ho salvato la vita a Ducon per vederlo tradito dal suo tutore.»

«Mi ha detto che lui e Domina Pearl non hanno niente contro Ducon…»

«Ma per quanto tempo ancora? E cosa mi dici di Lydea e del bambino? Camas Erl sarà davvero disposto a tenere segreta la presenza di Lydea? O la venderà a Domina Pearl, alla prima occasione?»

«Forse», suggerì Mag, «tu potresti venire a patti con lui, per avere il suo silenzio. Il passato lo affascina. Tu hai ciò che lui desidera. Hai abbastanza cose, quaggiù, da tenerlo occupato per anni.»

Faey ci pensò un poco, versando cioccolata nel suo caffè. «Perché non ti ho mai permesso di pensare?» si domandò. Rivolse un sorriso freddo all’invisibile tutore, mentre il caffè alla cioccolata spariva tra i suoi denti candidi. Mag provò un impulso di pietà per Camas Erl.

Più tardi, ferma qualche passo oltre la soglia, guardò Faey aggirarsi nel caos della sua camera da letto. «Ma dove diavolo…» mormorò la maga, frugando in un mare di scarpe spaiate, montagne di biancheria intima, sciarpe, mantelli, cappelli mangiati dalle tarme, piccoli tavoli ingombri di conchiglie, dentiere di legno, il carapace di un granchio, lunghissime collane d’ambra, di perle e d’oro avvolte intorno a gusci di tartaruga e bottiglie di profumo. «Dove posso averlo messo…» Sembrava una ricerca impossibile. Ma dopo aver cercato in varie scatole e coppe, mutande di seta e sotto il letto, la maga ebbe l’improvvisa ispirazione di guardare sulla mensola del camino. Fu lì che trovò un vaso di vetro rosso, e lo aprì. Una sottile catenina d’oro le scivolò in mano, con un medaglione d’avorio e d’oro.

Consegnò l’oggetto a Mag, quindi si rimise a posto uno zigomo che si era storto ed esibì uno sbadiglio da cortigiana annoiata.

«Io me ne vado a letto», annunciò. «Dev’essere già sorta la luna.»

Mag distolse lo sguardo dal medaglione e si volse a lei, con una domanda negli occhi. Faey scosse il capo, le diede una pacca su una spalla e la fece voltare verso la porta. «No, non ho bisogno del tuo aiuto. Ora devi riposare. Stai cominciando a somigliare a uno degli spettri di casa.»

Ma non sono uno di loro, pensò Mag con un cupo senso di trionfo, mentre si sedeva sul suo letto col medaglione tra le mani. Né spettro, né cera… le mie ossa appartengono a me.

Il medaglione, scolpito nell’avorio e chiuso in un telaio d’oro, era di forma rettangolare, spesso come una scatoletta. Si aprì subito, non appena lei premette la fibbia. Per qualche momento lo tenne sul palmo della mano, osservandolo quasi senza respirare per non disturbare il contenuto. Tre piccole gocce color rosso scuro come rose secche giacevano su un pezzo di pergamena sagomato come il fondo del medaglione. Sul lato del coperchio c’era invece un petalo di rosa bianca, protetto da un vetro sottile. Lei spostò lo sguardo da una metà all’altra, a bocca aperta.

Di chi era questo sangue? si chiese. Perché questo petalo di rosa? Il sangue era quello di lui, immaginò, e il petalo era della rosa che lui aveva donato a lei. Sembrava probabile come qualsiasi risposta, e più confortante di molte altre. Solo allora si accorse che il medaglione aveva un doppio scomparto, dietro quello del petalo, anch’esso incorniciato in oro. Premette la piccola fibbia, dolcemente, e anch’esso si aprì.

Mag guardò il sottile cilindro nero per molto tempo prima di decidersi a toccarlo. Ancora attiva, un po’ della sostanza le aderì al polpastrello. Pensosamente, lei appoggiò la fronte sulla mano, studiando il medaglione, e si lasciò una ditata scura lungo l’arco del sopracciglio.

Un carboncino da disegno.

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