2 Il cuore incantato

Mag aveva sette anni quando scoprì di essere umana. Fino ad allora lei era stata soltanto ciò che Faey chiamava «la mia figlia di cera». Che Faey potesse fabbricare una ragazzina con la cera per farsi aiutare in questo e in quello, era fuori discussione. Mag non sapeva cosa fosse stata la sua vita prima che Faey la costruisse. E quando Faey le aveva dato la memoria — la memoria e quei furbi occhi curiosi che andavano dappertutto nell’antica città di Ombria — farne uso era diventata la sua principale attività.

Faey viveva, per quelli che sapevano dove trovarla, dentro il passato di Ombria. Parte del passato della città si trovava sotto le strade, nei grandi tunnel di vecchia pietra arenaria, tra le baracche, i palazzi e i fiumi sotterranei che Ombria scrollava via come una pelle dimenticata, seppellendoli entro di sé nel corso dei secoli. Altre parti erano meno accessibili. Tutti conoscevano il passato, così come conoscevano l’odore delle rose selvatiche, dello sterco e delle salsicce fritte, la direzione del vento e il grido dei gabbiani intorno ai moli in rovina. Ma sebbene dessero importanza alle salsicce e all’aria, pochi prestavano attenzione al passato della città. Questo stava bene a Faey, che viveva sul confine tra il passato e il presente. Chi aveva bisogno di lei, seguiva l’odore del suo lavoro e la trovava. Altri invece potevano scambiarla per qualcosa di vago, come un’ombra imprecisa all’estremità di un vicolo, e conducevano le loro incessanti, complesse manovre sopra la sua testa, senza mai sapere in che modo le loro vite echeggiavano giù negli intricati percorsi del tempo, nei sotterranei della città.

Mag, che non si considerava umana, si muoveva con facilità dentro e fuori dai vari posti dove Ombria crollava nel suo passato. A sette anni d’età, conosceva porte in tutta la città. C’era la piccola porta mangiata dai tarli nel muro inclinato dietro la stalla, nel cortile della Locanda dell’Occhio del Corvo. C’era l’ombra in fondo al vicolo del Guantaio, che non cambiava mai posizione né al mattino né al pomeriggio, come gli occhi acuti di Mag avevano notato. C’erano i girasoli nel campo incolto fuori dal cancello occidentale del palazzo del principe di Ombria, che in tutto il giorno non facevano niente fuorché voltare le loro facce dorate dai mille occhi per seguire il sole.

Il principe di Ombria, che Faey chiamava il Reprobo, non si preoccupava di ciò che cresceva fuori della cancellata su gargantuelici steli e talvolta sbirciava entro i confini del palazzo. Se Faey voleva altri occhi, Mag sapeva come farli crescere. La porta che conduceva sotto la città si trovava in mezzo ai girasoli: un buco tra le radici che poteva sembrare la tana di qualche animale, ma in realtà era la cima di un antico camino. Gli scalini che dai moli scendevano in mare conducevano più lontano di quanto chiunque potesse immaginare. Gli scarichi delle fogne stradali, le cantine abbandonate, gli squarci nei muri dei sottoscala, erano porte che perfino i monelli della città avevano scoperto. A volte Mag li vedeva che fuggivano attraverso raggi di luce spioventi dalle grate degli scarichi stradali, finestre rotte e fori sopra le loro teste, o che esploravano le strade segrete, o che frugavano nelle stanze in cerca di tesori dimenticati appena oltre il limite dei loro sguardi, o un momento oltre la portata dei loro passi. Faey non mancava mai di accorgersi di loro, e non permetteva che restassero lì quando mostravano l’intenzione di prendere residenza stabile in quei tranquilli e caldi posti segreti, per riempire la città in rovina con una popolazione di rifiuti della società. Loro si sentivano a disagio se la luce proveniente dall’alto cominciava a svanire, lanciavano sguardi nervosi dietro le loro spalle magre, e si grattavano sentendosi addosso pulci inesistenti.

Faey faceva echeggiare come in vaste distanze le pietre che essi gettavano nei corsi d’acqua sotterranei; faceva sussurrare lugubremente i camini e cigolare le vecchie travi; mandava il gelido respiro di qualche invisibile animale sulle caviglie di quelli che si rifugiavano a dormire nelle cantine, finché costoro uscivano con sollievo dalla pericolosa semioscurità di Ombria.

Mag aveva imparato a muoversi nelle strade come un musicista si muove attraverso la musica, suonandola nota dopo nota con ogni suo respiro, ogni suo tocco. Una voce irosa che l’apostrofasse nel buio poteva renderla invisibile; il tocco di una mano poteva farla semplicemente sparire, giù per uno scarico, sul fondo di un barile o ancora più in basso, attraverso un’ombra o una porta. Non essendo umana, non si chiedeva mai perché gli umani facessero ciò che facevano. Li aveva visti derubarsi l’un l’altro, tagliarsi la gola, spezzarsi il cuore a vicenda. Aveva visto neonati gettati via con la spazzatura del giorno prima. Aveva scavalcato uomini che russavano ubriachi sul selciato; era passata accanto a donne con il volto insanguinato, donne vestite con abiti ricchi o stracciati, donne che piangevano e imprecavano nelle strade dei sobborghi. Poiché lei era di cera, niente di tutto ciò la preoccupava. Avrebbero potuto essere spettri o sogni, finché non cercavano di coinvolgerla nelle loro miserie. Allora lei si fondeva come se la fiamma l’avesse toccata e fluiva via, verso un sogno più sicuro.

Il giorno in cui Mag diventò umana, Faey l’aveva mandata su alla luce con un incarico. Mag aveva in mano un fazzoletto di seta, come le ricche dame che vedeva passeggiare con noncurante eleganza nelle strade. Ogni tanto, come loro, se lo portava al naso. Avvolto nella seta, chiuso tra le sue dita, c’era un talismano di Faey: un piccolo cuore che sembrava d’oro ma era fatto di molte cose. Faey aveva impiegato del tempo a costruirlo. Mag, guardandola e aiutandola, si era sentita più uguale che mai nella sua breve vita ai monelli che correvano avanti e indietro nelle strade affollate. Alla fine anche Faey era parsa esausta, con il viso pallido e la voce tremante di stanchezza. «Porta questo al palazzo», aveva sussurrato. «Al cancello occidentale troverai una persona.» Mag, che aveva una predisposizione per la luce non certo tipica delle cose di cera, si era avviata su lungo le strade che conducevano alla dimora del Reprobo.

Vestita con un abito di pizzo che lei aveva strappato per accorciarlo alla sua misura, con due lunghi guanti neri che qualche dama aveva gettato nel passato, a piedi nudi, portandosi la seta al naso, s’incamminò girando il viso al sole come i girasoli. Non prestava attenzione alle donne che la seguivano con sguardi stupiti, né ai ragazzi che facevano gli spiritosi, ridacchiando, nella sua ombra. Non erano più concreti del fumo, dei sogni abbandonati della deserta città sommersa. Così aveva sempre pensato lei. Ma quel giorno Gram Reed, che aveva fatto pascolare una vacca in un pezzo di terreno verde dietro la Taverna dell’Occhio del Corvo, portò l’animale in strada voltandosi a guardare un carro carico di birra che arrivava sulla sinistra, mentre Dama Barrow, anche lei voltata a guardare il carro, faceva finire il suo vecchio spaniel cieco proprio tra le zampe della vacca.

Lo spaniel guaì; il ruminante girò la testa verso di lui, e in qualche modo il suo grosso naso spugnoso finì tra i denti del cane indispettito. La vacca muggì; lo spaniel ringhiò istericamente, senza mollare la presa. Dama Barrow finì a sedere sui sassi, mettendo in mostra calze di lana, piene di rammendi, sotto una valanga di sottogonne.

Gram Reed, costernato, si chinò ad aiutarla. La vacca, indietreggiando e scrollando la testa, riuscì a liberarsi da quei feroci denti gialli e s’infilò dritta nella porta della Sartoria di Dama Amalee «Moda Intima e Abiti per Tutte le Occasioni». Un assortimento di quelli che sembravano versi di volatili impazziti emerse dal negozio: strida di pappagalli, chioccolii di pavoni, pigolii di fringuelli. La vacca muggì ancora. Ci fu un tonfo, poi la vacca uscì a marcia indietro, trascinando con sé molte braccia di pizzo per orli e due mutande lunghe ornate di nastri, infilate su un corno.

Gram Reed mugolò un’imprecazione. Dama Barrow svenne e perse la parrucca, che cadde in una pozzanghera. Mag rise. Non lo aveva mai fatto in vita sua: la cera non ride. Fu così sorpresa dal suono che emise che si portò il fazzoletto alla bocca con troppa energia. Qualcosa le mozzò il fiato; lei lo deglutì. Fu allora, a metà tra la risata e l’orrore — un posto folle dove, come lei aveva osservato, gli umani equilibravano la maggior parte della loro vita — che capì di essere una di loro.

Deglutì ancora, e sentì il piccolo cuore sciogliersi nella sua gola. Per un secondo ancora fu una bambina scalza dai capelli scarmigliati, vestita con un abito da donna mezzo strappato e un paio di guanti cinque volte più larghi delle sue mani, che guardava una vacca ornata di pizzi e mutande arrivare alla carica verso di lei. Poi l’abitudine la spinse a reagire e scivolò giù per uno scarico fognario, mentre la vacca entrava nella taverna della Rosa Nera.

Gram Reed, che stava facendo vento a Dama Barrow con la sua parrucca, imprecò seccamente e gettò di nuovo il peloso accessorio nella pozzanghera. Poi le donne sciamate fuori dalla sartoria corsero ad aiutare la dama, e Gram corse nella taverna all’inseguirnento della sua vacca.

Mag si fermò in fondo allo scarico e restò seduta lì, sbattendo le palpebre.

Qualcosa, oltre al fatto di essere umana, le stava accadendo. Tutto sembrava sussurrarle dei segreti: le pietre dell’acciottolato, la fogna gorgogliante, i battiti del suo cuore, i sottili muri della città attraverso cui voci e sogni filtravano come il sangue o la luce. Lei voleva toccare tutto, sentire il ruvido contatto del granito, la scivolosità satinata dell’acqua, il groviglio di capelli umani e setole di cavallo nella parrucca di Dama Barrow. Volle toccare le borse violacee sotto gli occhi chiusi di Dama Barrow, e sentire la vita che vi pulsava dentro. Poteva udire tutto, o così sembrava: Gram Reed che discuteva col gestore della taverna, un piccione che si frugava tra le piume in cerca di una pulce, mormorii d’amore attraverso il muro alle sue spalle, dei passi in una stanza silenziosa, una goccia d’acqua che scorreva in una tubatura, le indignate lamentele di Amalee sulla maleducazione delle vacche (in mezzo a un coro di chioccolii gallinacei e gemiti sconvolti) e i commenti ridanciani dei ragazzi di strada che stazionavano davanti alla taverna.

«… e poi la ragazza di Faey se l’è squagliata giù per uno scarico, muovendosi in fretta come un ragno che salta. Un momento prima era lì, con la mucca che le stava arrivando addosso, e un momento dopo era sparita, e la mucca si è infilata nella taverna trascinandosi dietro tutta quella stoffa. E il vecchio Bailey Nasoabecco non ha neanche tirato fuori il naso dal bicchiere: non appena ha visto quello che aspettava di vedere dal giorno della sua nascita, ha allungato una mano, togliendo via quelle mutande dal corno della vacca e se l’è infilate su per una manica…»

La ragazza di Faey! All’improvviso la strada fu troppo rumorosa. Cosa le stava succedendo? E se lei non era opera di Faey, allora di chi? Sentendosi male e a disagio si alzò in ginocchio, percorse carponi un breve tratto e uscì nel vicolo. Lì scivolò attraverso la finestra in una stanzetta, e poi in una cantina di cui nessuno ricordava più l’esistenza. Il piccolo locale era diventato un pozzo, perché qualche decennio addietro il pavimento era crollato nelle profondità della terra. Stordita, mentre le voci delle pietre e dei fantasmi mormoravano intorno a lei, s’incamminò lungo il silenzioso fiume sotterraneo dove i riflessi d’invisibili lampade lungo la riva luccicavano sull’acqua scura. Quando attraversò un ponte, attraversò anche il tempo. Le lampade divennero reali e le illuminarono la strada fino alla casa di Faey, sulla sponda del fiume. La porta si aprì. La padrona di casa, a malapena visibile e vestita in una foggia arcaica, la fece entrare. L’unico rumore che lei udì nella ricca e silenziosa dimora fu lo sbuffare irritato di Faey. Poi vacillò su per le scale, si gettò sul letto e dormì.

Più tardi, Faey, a cui sfuggivano poche cose, la vide barcollare fuori dalla sua stanza e seguire un percorso tortuoso ed errabondo fino al cesso. Era ancora lì quando Mag venne fuori. Lei si sentiva ancora stordita per i rumori caotici della città, e non vide Faey alzare la mano né arrivare il colpo. Vacillò, colta di sorpresa, cadde a sedere contro il muro e rimase lì come una bambola di stracci, con gli occhi vacui e spalancati.

Faey, pensando al lavoro che avrebbe dovuto rifare daccapo e senza l’aiuto della sua figlia di cera, la guardò tra impietosita ed esasperata. «Quello che ti sta succedendo durerà tre giorni», disse.

Ma certi effetti sarebbero durati anni.


Mag non disse mai a Faey che sapeva di essere diversa da com’era stata fatta. Essendo gli umani ciò che erano — rissosi, confusionari, crudeli, viziosi e stupidi — lei decise di restare cera. Se non avesse detto una parola, rifletté, nessuno ne avrebbe saputo niente. Dire «umana» l’avrebbe resa tale. A fare il suo corpo era stato forse qualcun altro, ma Faey aveva fatto la sua mente, e lei non aveva il minimo desiderio di cambiare la piega che essa aveva preso. Faey, che a suo modo era efficiente, decise di aumentare i modi in cui Mag poteva esserle utile dandole una maggior comprensione di ciò che vedeva in Ombria. Così la mandò da certi suoi affezionati clienti del mondo superiore, per farle avere un’educazione.

Mag imparò a leggere in una stanza sul retro di un elegante bordello, seguendo le parole sulla pagina con un dito ingioiellato e profumato. Imparò le lingue da un contrabbandiere in pensione, che ne parlava bene tre, e sette abbastanza da farsi capire, e aveva un pappagallo capace di dire parole sorprendenti, di cui l’uomo le spiegava il significato solo quando aveva in corpo qualche bicchierino di vecchio sherry. Creò fuochi stregati e puzze e gorgoglii sotterranei nelle stanze piene di libri di un birraio il quale, la sera, indossava una lunga toga con un’espressione solenne, e parlava della trasmutazione e del mondo fisico e spirituale. Mag, la cui idea del mondo spirituale era ciò che usciva dai fornelli di Faey, prestava scarsa attenzione a quella nebulosa filosofia attinta dalle botti di birra. E neppure fece caso, per anni, agli sguardi bovini del figlio minore del birraio. Ma amava i fuochi colorati, le essenze, i marchingegni, le occasionali esplosioni. Apprese un po’ d’aritmetica aiutando un fornaio con le sue ricette e la moglie di lui col libro dei conti.

La storia di Ombria, le complesse e intricate manovre delle famiglie che la governavano, e le ragnatele tessute dai ragni che vivevano nelle sue strade, erano cose che lei imparava respirando quell’aria o ascoltandone le risonanze. I fatti più diversi la trovavano e le si appiccicavano addosso; lei districava con mani esperte il mondo che aveva attorno, perché l’ignoranza era pericolosa, e il cuore che aveva mangiato era diventato la sua difesa.

Trascorsero sette anni prima che le accadesse d’incontrare la donna a cui avrebbe dovuto dare quel cuore. Faey aveva provveduto di persona a portare a palazzo il secondo da lei fatto, perché la sua piccola assistente era ancora confusa dalle impressioni sensoriali. Sette anni dopo, dall’interno della cancellata giunse un’altra richiesta. Per quale servizio, Faey non volle dirlo, ma Mag, sbirciandola mentre leggeva il biglietto che l’uomo senza lingua le aveva portato, la vide stringere le labbra.

«Quella donna…» Faey si voltò e prese a frugare tra scatole, anforette, pipistrelli secchi e barattoli d’insetti tritati. «Vecchia tarantola, avrebbe dovuto morire un secolo fa. È incredibile che le sue ossa non cadano a pezzi quando si muove.»

«Cosa vuole?» domandò Mag, che dalla descrizione aveva dedotto il nome.

«Non preoccuparti di quello che vuole, solo stavolta non inghiottirlo. Vieni qui e prendi questo.»

Mag si alzò dalla sedia dorata su cui sedeva. A quattordici anni era alta e snella, pallida come la cera, con disordinati capelli simili a paglia dorata e strani occhi obliqui il cui colore era quello del caffè con molta panna dentro. Indossava tutto ciò che trovava nelle vecchie cassapanche e negli armadi sfasciati delle case in rovina. Quel giorno si trattava di seta nera, perle nere e pizzo bianco, un insieme che le dava un’aria da studentessa tranquilla, ma stonava con la massa disordinata dei capelli.

Faey, che era nata a Ombria prima che la città avesse un passato, era sprofondata lentamente nel suolo insieme a quei posti. Poiché non ricordava più la sua faccia di un tempo, cambiava faccia come cambiava abito. Mag era abituata ad alzarsi dal letto sferzata dall’espressiva, rauca, imperiosa voce della sua padrona, capace di passare da un misterioso accento straniero all’altro.

Quel giorno Faey aveva capelli giallo-grigi e occhi viola, e indossava una specie di palandrana da alchimista con pezzi di specchio cuciti dappertutto. Fece reggere a Mag un gomitolo di cordoncino di seta e si allontanò, svolgendo il cordoncino per tutta la lunghezza della stanza. Un tempo quella era stata una sala da ballo. Artistici candelabri e quadri a olio pendevano ancora dalle pareti. Faey raccoglieva dai candelabri i prismi come fossero frutti, quando le servivano, e aveva indossato tutte le facce dei dipinti. Gli specchi, troppo usati, erano ombreggiati d’immagini.

Mag, che dalla lunghezza del cordoncino aveva capito ciò che Faey si preparava a fare, sentì una peculiare stretta in gola, come se il cuore d’oro fosse ancora fermo lì. Si domandò chi stesse per morire.

Nascondendo l’amarezza dietro il tono dolce, equivoco, che aveva imparato al bordello, mormorò: «Non può farseli da sola, i suoi incantesimi?»

«Domina Pearl? Alcuni può farli, sì. Ma non questo. Questo è antico, non getta ombra su chi lo fa e non lascia tracce.» Faey sbuffò, un po’ per la polvere, un po’ per Domina. «La sua incapacità è maggiore dei suoi talenti. E ha troppa immaginazione. Ma lassù può andar bene, la maggior parte delle volte.»

Ferma contro la parete opposta, misurò un pezzo di cordoncino di seta più corto e lo tagliò con precisione, usando i denti come cesoie. Mag la guardava con occhi inespressivi. Questo era ciò che gli umani si facevano a vicenda; prendevano la vita degli altri, e poi fingevano di non averlo fatto. Faey era onesta, a suo modo; era troppo potente per aver bisogno di mentire. Ma Mag, a cui sembrava di avere ancora il cuore d’oro in gola, sentiva che vendere morte agli umani l’avrebbe resa irrevocabilmente umana.

«Tienilo fermo», disse Faey.

«Lo sto tenendo.»

L’altra misurò un secondo pezzo di cordoncino e lo recise con un morso. Poi, stringendo tra i denti le tre estremità, intrecciò i due pezzi più corti a quello lungo che Mag aveva in mano. Quest’ultima vide le ombre tremare negli angoli della sala, e udì l’altra mormorare con chiarezza parole occulte. L’incantesimo parve scorrere lungo la seta fino a lei, facendole fischiare le orecchie. Faey si tolse di bocca i capi del cordoncino e li strinse. Tre gocce di sangue caddero sul pavimento. Poi allungò una mano dietro di sé, prese la fiammella di una candela tra le dita e la applicò al cordoncino. A mano a mano che questo bruciava, lei ne raccoglieva la cenere e il sangue sul palmo di una mano. Mag assisteva immobile e priva di espressione, come una cosa di cera. Sopra la fiamma fluttuava un uccello, un corvo mangiatore di carogne fatto di fumo, che guardava e aspettava. Anche Mag guardava. Ciò che vedeva era un sogno, un desiderio di Domina Pearl, nient’altro. La fiamma finì di divorare la tripla treccia e proseguì il suo lento viaggio lungo il cordoncino singolo, lasciandosi dietro una sottile e ininterrotta scia di cenere.

«Tienilo fermo», sussurrò Faey. «Fermo.»

«Sì», rispose Mag. Io sono cera, io sono una cosa costruita, io sono niente, pensò. La fiamma veniva lentamente verso di lei. Una goccia di sudore le scivolò sul viso come cera su una candela. Le parole seguivano la fiamma giù nella cenere; lei avrebbe voluto muovere la testa, scrollarsele fuori dalle orecchie. Infine la fiamma giunse a lei. Dall’altro capo della sala, la voce di Faey suonò rauca e senza tono.

«Soffiaci sopra.»

Lei si chinò sulla fiamma e la risucchiò tra le labbra.

Faey non se ne accorse, o non le importò. Cominciò a raccogliere su una mano la scia di cenere, mentre Mag giocava col sapore che aveva in bocca e si domandava di chi fosse quella vita. Infine Faey mise la cenere in una scatola d’avorio, e la incaricò di portarla al palazzo.

I girasoli languivano di fronte al cancello; i loro occhi erano stati beccati dagli uccelli. Era già sera quando Mag si fermò ad aspettare tra i grossi fiori, nel freddo vento autunnale. Nelle strade di Ombria non c’era un’anima, e i suoi occhi acuti non si perdevano neppure il silenzioso passaggio di un gatto nero nel buio.

Vide l’ombra che usciva dal palazzo prima che questa vedesse lei. La donna, piccola e tozza, si fermò tra le due torce fissate ai lati del cancello. Indossava un abito di seta nera avvolto addosso come un sudario, e lo stile della sua acconciatura era stupefacente: una specie di collinetta alta e severa dentro la quale avrebbe potuto nascondere un arsenale di armi. Mag sentì l’odore di età che emanava; non quello rancido della carne viva, ma un polveroso sentore di vecchie ossa. Rimase lì, rigida e tesa come una gatta tra i girasoli, celando il suo respiro nel mormorio delle foglie. Infine la donna si accorse di lei e fissò un lungo sguardo inespressivo tra gli steli frementi. Alzò un dito e lo piegò.

«Vieni qui.»

Mag uscì alla luce. Gli occhi della donna sembravano vedere di lei più cose di quante chiunque altro avesse visto in tutta la sua vita.

«Tu sei la creatura fatta da Faey.»

Mag non voleva offrire a quella vecchia cornacchia neppure il suono della sua voce, e non disse niente. Domina Pearl sorrise di un sorriso sottile come una grinza sul cuoio.

«Mi chiedo chi ti abbia fatto, in realtà. Ti ha trovato sulla soglia di una casa? O hai una storia più complicata? Possibile che lei sia così stupida da non sapere che tu sai di essere umana? Tu sei curiosa. A te piace conoscere le cose, vedere i segreti. Ti dirò una cosa: se ti sorprendo a spiarmi ancora, ti distruggerò così completamente, nel passato e nel futuro, che neppure Faey riuscirà a ricostruirti. Dammi la scatola.»

Quella notte il principe di Ombria, che per tutta la vita aveva sofferto di strane e improvvise indisposizioni, si ammalò gravemente. Mag restò seduta per buona parte del mattino successivo nel camino che si alzava tra le radici dei girasoli, ad ascoltare le chiacchiere che echeggiavano giù tra le pietre, mentre le carrozze di medici e farmacisti, e di parenti venuti da altre località passavano dal cancello. Si addormentò così, con la testa posata sui mattoni del camino. Nei suoi sogni udì le voci che scendevano dall’alto dire che la vita del principe era stata risparmiata per qualche miracolo; non sarebbe morto quella notte. L’ultima cosa che vide, un ricordo o un avvertimento, furono due occhi che la fissavano, neri e vuoti come quelli di un rospo.

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