Il principe di Ombria e la sua governante sedevano sul letto, e osservavano i pupazzi sparsi sulla vasta distesa della coperta di seta. Il principe, reduce da un sostanzioso pasto pomeridiano, aveva le palpebre pesanti e un’aria insonnolita, ma scacciò uno sbadiglio e le sue mani si mossero alacremente tra i pupazzi, cercando e scartando, finché trovarono la Luna, con gli occhi di cristallo e mani a forma di stella.
«Io sarò la Luna», disse Kyel. «Tu devi esprimere un desiderio quando mi guardi.»
Lydea fece scivolare le dita nella testa della Volpe di pelliccia rossa, dal sorriso astuto. «Il mio desiderio è che tu faccia il tuo sonnellino.»
«No», replicò il principe. «Devi esprimere un vero desiderio. E io lo realizzerò, perché io sono la Luna.»
«Allora dovrò esprimere un desiderio da Volpe. Ebbene, io voglio che tutti i pollai abbiano la porta aperta, e inoltre chiedo la capacità d’arrampicarmi sugli alberi.»
La Luna si abbassò dietro la collina azzurra del ginocchio di Kyel. «Perché?»
«Per sfuggire ai cani del contadino che mi correranno dietro.»
«Allora dovresti chiedere la capacità d’arrampicarti fin sulla Luna», la corresse il principe.
«È un buon desiderio, ma sulla Luna non ci sono galline. E poi come tornerei a Ombria?»
La Luna sorse ancora, e alzò una mano. «Su una stella.»
La governante sorrise. La Volpe accarezzò i capelli del principe, mentre lui metteva via la Luna e la sostituiva con la Maga che aveva un occhio d’ametista e uno di smeraldo, e indossava un mantello nero arricchito con lunghi nastri di colore cangiante.
«Io sono la Maga che vive nel sottosuolo», dichiarò il principe. «C’è davvero una maga che abita laggiù?»
«Così…» Lydea s’interruppe, e lasciò che a rispondergli fosse la Volpe. «Così dicono, mio signore.»
«Dove sta? Ha una casa?»
Lei esitò ancora, pensando a una favola che rammentava a stento. «Credo di sì. Forse ha un’intera città, sotto Ombria. Alcuni dicono che abbia un’ancestrale nemica, la quale appare nei periodi duri della nostra storia. È allora, ma soltanto allora, che la maga sale dal mondo sotterraneo, per combattere il male e riportare la speranza a Ombria.»
«La mia tutrice conosce tutta la città. Forse sa dove abita la maga.»
«Non ne sarei sorpresa. La tua tutrice sa molte cose.»
La Maga abbassò il suo lungo naso sulla seta. Kyel prese un altro pupazzo e lo guardò in silenzio per un momento. La Regina dei Pirati, dalle unghie curve come scimitarre e con una cupola di capelli neri dentro cui teneva le sue armi, gli restituì lo sguardo con i crudeli occhi d’onice. Kyel mise giù anche lei, in silenzio, accigliandosi un poco. Si distese sui cuscini. Lydea allontanò i pupazzi da lui e cominciò ad alzarsi.
«No», mormorò il principe, insonnolito. «Resta ancora. Raccontami una favola.»
«Ma poi dovrai dormire.» Lydea sedette accanto a lui, e distrattamente raccolse la Pecora Nera, dagli occhi d’argento, la cui lunga bocca era curva in un sorriso.
«Raccontami la favola del medaglione.»
«C’era una volta, mio signore, nel migliore e nel peggiore di tutti i mondi possibili, una principessa che s’innamorò di un giovane, il quale amava disegnare.»
«Come Ducon.»
«Molto simile a tuo cugino, sì. E ogni giorno, per un anno intero, la principessa gli donò una rosa. Andava a coglierla all’alba nel giardino di suo padre, e poi la portava nel punto più alto del castello, un punto così alto che tutti l’avevano dimenticato, fuorché i piccioni che facevano il nido sotto il tetto sfondato. Lassù, lei aveva trovato una porta segreta tra il migliore e il peggiore dei mondi. Ogni giorno i due innamorati s’incontravano sulla soglia di quella porta. Lei gli dava la rosa, e lui le offriva un disegno della città in cui viveva. Ma sebbene si amassero molto, non potevano sposarsi, perché appartenevano a mondi diversi: lei era una principessa, e lui un artista che vendeva i suoi quadri nelle taverne per guadagnarsi da vivere.
«Trascorse così un anno, e un giorno la principessa insieme alla rosa gli portò anche una bambina. Ma quello che doveva essere il momento più bello della sua vita fu anche il più triste, perché lui le portò sulla carta il suo sangue, invece di un disegno. Qualcuno lo aveva visto insieme alla principessa, e lo aveva punito. Così, innamorata e disperata, lei attraversò la soglia per stare con lui mentre esalava gli ultimi…»
«Gli ultimi cosa?»
«Respiri. Nel suo dolore lei aprì il medaglione che portava al collo, e vi mise dentro un petalo della rosa, tre gocce del sangue di lui e un pezzo del suo carboncino da disegno. Ma dopo la morte del giovane, lei scoprì che non poteva tornare nel suo mondo con la bambina, perché questa apparteneva per metà al peggiore e metà al migliore dei mondi, e nessuno dei due voleva accettarla. Così la principessa, dopo aver pianto per molti giorni e molte notti, lasciò la neonata da una donna saggia e potente, che con le sue grandi conoscenze avrebbe saputo come allevare una figlia di entrambi i mondi. L’unica cosa che aveva da lasciare alla piccola era il medaglione, che conteneva tutti i ricordi del suo amore…»
Lydea sentì il respiro di Kyel farsi regolare, e tacque. Lo coprì con le coltri e si alzò dal letto con delicatezza. In quel momento si accorse che sulla porta c’era il reggente.
Non sapeva da quanto tempo lui fosse lì ad ascoltare. Gli rivolse un inchino, e vide ammorbidirsi l’espressione un po’ aggrondata del suo volto. Lui diede un ultimo sguardo al bambino addormentato e la seguì fuori. Le cameriere del principe scivolarono nella camera dietro di loro, ad aspettare il suo risveglio.
Ducon aveva ritrovato un po’ del suo umorismo, dopo che per settimane le difficoltà della sua carica gliel’avevano fatto smarrire. L’artista senza legami e responsabilità era stato costretto a imparare a governare una città, dopo la morte di suo zio. Sembrava invecchiato, preoccupato, e vestiva con maggiore sobrietà. Era come se dopo il funerale del principe, la città di Ombria gli fosse apparsa sotto un nuovo aspetto. I vecchi moli dove prima sedeva pigramente a disegnare, adesso gli sembravano opere portuali bisognose di riparazioni; le strade dei sobborghi piene di vita e di pericoli, erano diventati luoghi in cui portare l’ordine; i ragazzi di strada dovevano essere rastrellati come cani randagi, nutriti e istruiti. Aveva dichiarato guerra alle navi pirate che un tempo spadroneggiavano nel porto. Ogni giorno gli arrivava una lista di lamentele, proteste, ingiustizie, richieste di cambiamenti. Lydea si aspettava che prima o poi sparisse dal palazzo com’era stata sua abitudine, lasciando tutti a chiedersi dove fosse finito.
Fino ad allora non l’aveva fatto. La ragazza se lo trovava accanto alle ore più diverse, come se lui la usasse per sfuggire in qualche modo a tutti quei pensieri. Forse, si disse, perché sotto la contegnosa governante vedeva ancora in lei la cameriera di taverna con cui scambiare due chiacchiere. Lei era la cosa più vicina che potesse trovare alla sua vita di un tempo.
«Che eleganza», commentò, indicando i pizzi della sua uniforme.
«Il principe era stanco, così ha detto, di vedersi attorno gente vestita di nero.»
«Anch’io», sospirò lui. «Ho l’impressione di essere stato a lutto per anni.»
Un’improvvisa tristezza velò lo sguardo di Lydea, come spesso le accadeva; un bruciore che le chiudeva la gola. Deglutì, e disse soltanto: «È perché lavori troppo, mio signore».
«Non ci sono abituato.» Ducon prese tra le dita il pizzo di un polsino dell’abito di lei. Erano stati i colori a colpirlo: i nastri viola, il rosso dei capelli, i merletti e i gioielli dei pupazzi, l’azzurro del copriletto di seta. D’impulso, aggiunse: «Forse verrò a farti visita, oggi pomeriggio».
Quel pensiero la fece sorridere. «Nella taverna di mio padre? Non è il posto più adatto a te.»
«Io sono stato…»
«Lo so, mio signore: in ogni taverna di Ombria, fuorché nella Rosa e Spina. Mi chiedo come tu abbia potuto dimenticarla.» Poi, senza motivo apparente, un brivido di paura la scosse. Udì se stessa dire: «Non possiamo lasciare il principe. Non tutti e due insieme».
Lui ebbe una luce strana negli occhi, non di sorpresa ma un riflesso della sua stessa paura, cosa che la stupì un poco. Lasciò il polsino di pizzo, annuì, e il suo sguardo corse alla porta del principe. «Forse hai ragione. Lui sa dove stai andando?»
«Lo sa, mio signore. Ma sarò di ritorno prima che si accorga della mia assenza.»
«Sii prudente», le raccomandò lui. «Di’ a tuo padre che verrò a disegnare nella sua taverna, un giorno o l’altro.»
Ma Lydea sapeva che quello era un pio desiderio. Lui era già una leggenda in certe zone della città, e le leggende, dopo esser diventate tali, raramente tornavano a ripetersi nella realtà. Lui sembrò leggerle nei pensieri. I suoi occhi chiari indugiarono un poco nei suoi, con un vago sorriso.
«Non è un pio desiderio», mormorò.
È una promessa, le dissero gli occhi. Lei sbatté le palpebre, poi scacciò l’idea assurda che era emersa come una creatura marina alla superficie della sua mente, ed essa tornò a immergersi, così in profondità che l’aveva già dimenticata ancor prima di entrare nel suo alloggio.
Prima in alto, si ritrovò a pensare, poi in basso, e infine nel mezzo.
Dalla finestra aveva una buona vista dei pergolati, nei giardini, ma non del mare. Tuttavia non era mai stata in quella parte dell’edificio, fuorché una volta, col reggente, che l’aveva condotta lì per oscure ragioni… forse voleva soltanto mostrarle come vivevano quelli che non alzavano mai lo sguardo nei corridoi, che non parlavano mai ad alta voce.
«Questo palazzo», le aveva detto, «è una piccola città, dove il passato cammina accanto al presente come una scarpa accanto all’altra. Se le guardi allo specchio, la destra diventa la sinistra, il presente diventa il passato…»
Scarpe… la sua mente si fermò su quel pensiero, mentre finiva di vestirsi e indossava un mantello col cappuccio. Le giornate si erano accorciate; la direzione del vento era cambiata. Stava percorrendo un corridoio ben illuminato e sorvegliato, quando una piccola porta mimetizzata nel muro si aprì con un clic, e lei si immobilizzò, alzando le mani alla bocca per soffocare un grido di spavento.
Dall’apertura uscì Mag. La giovane donna restò senza fiato alla vista di Lydea, che si affrettò ad abbassare le mani, chiedendosi perché il cuore le batteva così forte.
«Scusami», disse la tutrice, con aria colpevole. «Davo un’occhiata in giro.»
«Non so perché mi sono spaventata tanto.»
«Ti capisco. Oh, lascia che ti aiuti.» Mag si chinò a raccogliere l’elegante scrigno in legno di rosa che Lydea aveva lasciato cadere.
«È per mio padre», spiegò lei. «Tiene i suoi soldi in un vecchio stivale.»
«L’hai visto spesso?»
«Soltanto una volta. Si starà chiedendo che fine abbia fatto. È che sono stata giù di morale, per un po’ di tempo.»
Mag annuì gravemente. Era molto giovane per essere la tutrice del principe, ma il reggente aveva scelto lei. Aveva preso il posto di Camas Erl, che era partito per studiare la flora e la fauna nelle isole più lontane dei mari del sud. L’uomo era partito dicendo che sarebbe stato assente per un periodo indefinito. Lydea trovava stupefacenti le conoscenze di Mag, e aveva preso l’abitudine di partecipare alle lezioni insieme al principe. Entrambe gli insegnavano qualcosa, talvolta con l’aiuto dei pupazzi.
Passata quella strana emozione oscura, Lydea si mostrò incuriosita. «Cosa c’è là dentro?»
«Un altro palazzo. Stanze che nessuno usa, corridoi polverosi, porte segrete dappertutto.» La ragazza stava osservando Lydea come se prendesse nota di ogni cambiamento nella sua espressione. Mag vedeva tutto, a quanto pareva, e ricordava tutto… All’improvviso aggiunse: «Ho visto tuo padre, due giorni fa».
«Sei stata in quella zona della città? Da sola?»
«Anche tu ci vai da sola.»
«Ma io sono cresciuta là.»
Mag annuì. Anche lei aveva movimentate esperienze di vita, tra postriboli e alchimisti ed esponenti della malavita di Ombria. Questo era il motivo, supponeva Lydea, per cui Ducon l’aveva assunta.
«Anch’io», disse Mag. «Sapevo che la Rosa e Spina è la taverna di tuo padre. C’era una vera folla di clienti. Immagino che il suo stivale sia pieno.»
«Che stavi facendo da quelle parti?» volle sapere Lydea, incuriosita, chiedendosi se per caso la seria e riflessiva Mag, dai capelli simili a paglia dorata, avesse un amante. Era abituata all’espressione vaga che assumevano gli occhi della ragazza quando le si facevano domande personali, ma talvolta nelle sue risposte le sfuggivano dettagli che Lydea poi metteva insieme.
«Avevo fatto visita a un’amica», rispose Mag. «Mi sta insegnando qualcosa del suo lavoro. Io sono come una sua apprendista, potremmo dire.»
«Che lavoro fa?»
«Oh, varie cose. È una specie di storica. Fa anche la guaritrice, e roba simile. La gente la consulta per avere aiuto.»
«Una farmacista.»
«In un certo senso.»
«E dove abita?»
Mag diventò alquanto vaga, poco ciarliera. «Sulla riva», rispose, e Lydea pensò che intendesse il lungomare. Poi l’altra aggiunse, come impaziente di cambiare argomento: «Io credo che un buon insegnante debba sempre cercare d’imparare qualcosa. Non sei d’accordo?»
Chi non lo sarebbe? pensò Lydea, mentre si avviava al cancello occidentale del palazzo, dove la aspettava una carrozza. Mag era piena di segreti come quell’antico edificio. Mentre la carrozza passava lungo il bordo del campo di girasoli, lei si trovò a ripensare a una vecchia favola che le sembrava di aver raccontato a Kyel un paio di volte, quando Royce era vivo. Di cosa si trattava? Una città nell’ombra… qualcosa circa un ventaglio…
Anche questo le uscì dalla mente quando intorno a lei scivolarono via le strade ben note, dove le insegne delle taverne si susseguivano come carte da gioco. Poi il veicolo si fermò davanti alla Rosa e Spina, e dalla porta aperta lei scorse il volto sorridente di suo padre.