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La Saarga non assomigliava all’astronave a bordo della quale Trehearne era giunto dalla Terra. Era più goffa e male in arnese, una vecchia carcassa di nave con una enorme capacità di carico e niente spazio per i passeggeri. Gli ufficiali e l’equipaggio erano ammassati in locali funzionalmente ridotti al minimo indispensabile, e non vi erano lussi come saloni e osservatori a cupola. Ma per Trehearne essa era qualcosa di bello, di miracoloso, di meraviglioso. Ogni traccia, ogni segno sulle sue vecchie pareti, ricordava un viaggio a un astro senza nome. Le stipate e odorose volte della stiva erano magazzini di esotiche ricchezze. La Saarga era diretta a Ercole ed egli ne faceva parte. Non era più semplicemente un avido spettatore. Le apparteneva. La venerava.

La vide dapprima ormeggiata in tutta la sua massa nel dock, la lamiera dello scafo corrosa e bucherellata rifletteva l’opaco splendore del sole. Alzò lo sguardo su di essa e poi lo volse intorno all’assordante fragore del porto, infine scese a grandi passi lungo il passaggio, orgoglioso e felice come un ragazzo a carnevale. Si presentò a bordo, fu notificato secondo le regole e gli venne assegnata una cabina piccolissima con quattro anguste cuccette, dove egli di buon grado si lasciò relegare nella cuccetta superiore, la meno desiderabile. I suoi compagni di cabina erano tutti più giovani di lui, ma veterani ed egli fu costretto ad ammettere che quello era il suo primo viaggio professionale.

«Trehearne» disse il giovanotto dai capelli neri della cuccetta inferiore numero due, storpiando il nome nella sua lingua e aggrottando la fronte «Che nome comico, l’ho sentito da qualche parte.»

Il giovanotto dai capelli color rame — il più giovane — nella cuccetta superiore numero uno, disse: «Lo so io. Mio zio parlava di lui. È quello che hanno trovato sulla Terra. Non è vero, Trehearne?»

Il giovanotto dai capelli neri emise un fischio. «Hai avuto una bella fortuna! C’era un milione di probabilità su una che incontrassi un Vardda. Com’è sulla Terra? Non ci sono mai stato?»

«Meraviglioso» rispose Trehearne «per i Terrestri.»

Risuonò il primo dei segnali di partenza. Si sistemarono nelle cuccette imbottite e il lungo ragazzo smilzo dall’aspetto allegro della cuccetta inferiore numero uno, la cui giovinezza era già stata provata da molte esperienze, gettò un’occhiata a Trehearne e osservò: «Non ci sei abituato, vero?»

«No.» Lo stomaco di Trehearne si era improvvisamente contratto in un duro nodo e la pelle era fredda di sudore rappreso. L’angoscia del suo primo volo lo riassalì con violenza. Sapeva che questa volta non sarebbe stato così terribile. Una volta che ci si abituava, tutto andava bene. Tutti lo dicevano. Ma non cambiava niente. Aveva paura.

Il giovane della cuccetta inferiore numero uno disse tranquillamente: «Non prendertela. A proposito, il mio nome è Yann. Personale addetto al radar.»

«Piacere.»

Suonò il secondo segnale. I denti di Trehearne si serrarono di scatto e i muscoli delle mascelle si tesero.

Testa-rossa della cuccetta superiore numero uno disse: «Sono Perri. Personale ausiliario nella camera generatori.»

La voce dell’uomo della cuccetta inferiore numero due proprio di sotto a lui, disse: «Se cadi giù, ti prendo. Sono il tecnico calcolatore dell’astronavigazione, di seconda classe. Un nome grosso che riempie la bocca, però tutto quello che faccio è premere bottoni. Il mio nome è Rohan.»

Trehearne disse penosamente: «Sulla Terra vi era un cardinale…»

Terzo segnale. Silenzio. Uno strappo, un sussulto, un balzo…

«Trehearne, Trehearne, sei ancora lì?»

«Sì…» "Schiacciato, oppresso, sbalordito, ma non è così terribile, nient’affatto così terribile, non molto peggio che riemergere dopo un tuffo. E l’astronave si alza, oh Dio, si alza!"

Le vibrazioni dell’aria cessarono. Il silenzio dello spazio avvolse lo scafo e all’interno il tranquillo e possente pulsare, che Trehearne ricordava, si faceva più rapido, più alto. Gli sfuggì un sospiro e il suo corpo si rilassò. Sorrise. Era dove desiderava essere.


Il lungo viaggio verso Ercole fu privo di avvenimenti e gli altri lo trovarono monotono. Ma per Trehearne ogni minuto era pieno di magia. Fu chiamato alla presenza del capitano che lo fissò duramente e disse: «Joris mi raccomandò di badare che lavorassi e sarà necessario che tu faccia degli esami per fare carriera presto o tardi. Ecco, studia questi. E se hai tempo libero, impara tutto quello che puoi sull’astronave.»

Così dicendo gli consegnò testi sulle leggi che regolavano il commercio dei Vardda, dell’espansione transgalattica della razza vardda durante i mille anni della sua esistenza. Sapeva che Joris doveva aver fornito i libri ed era contento di averli. I codici commerciali, come le leggi di qualunque paese, erano piuttosto noiosi e interessavano solo per il campo fantasticamente vasto che includevano.

I manuali erano un po’ meglio perché ricchi di riferimenti a razze diverse e spesso non umane, con affascinanti descrizioni dei più strani costumi e psicologie di cui mai Trehearne avesse udito. Ma la storia lo incantava. Iniziava con una prefazione su ciò che i Vardda erano stati nei millenni precedenti la comparsa di Orthis, quando erano semplicemente gli abitanti di Llirdis. Sembrava a Trehearne che essi non fossero molto diversi dai Popoli della Terra. Avevano avuto le loro epoche barbariche e mutamenti ed espansioni, la loro omogeneità non era stata raggiunta senza fatica. Comunque l’avevano raggiunta e in un periodo più antico rispetto allo svolgimento della loro cultura di quello in cui si trovava ora il suo pianeta d’origine. Pensava che forse il compito era stato più facile per i Llirdiani, vi erano state meno barriere geografiche al libero mescolarsi delle genti nella loro fase nomade. Gli oceani erano chiusi tra le terre e le catene montuose interrotte da passi transitabili. Nessuna tribù primitiva si era trasformata in uno stato isolato se pure parzialmente, e le conenti culturali erano fluite impetuose in tutte le direzioni perdendo d’intensità ma espandendosi oltre i loro ristretti limiti in quello che infine divenne un patrimonio universale. Tale unità culturale creò forse una certa monotonia nel quadro del pianeta a causa dell’uniformità degli abiti, della lingua e dei costumi, ma aveva una sua forza e portò alla concezione dell’individuo come cittadino del mondo invece che di una nazione, fatto che conduce usualmente alla guerra. Il progresso scientifico aveva avuto solo qualche naturale interruzione, senza età oscure che determinassero regressi, e in un’epoca in cui i popoli della Terra erano immersi nel più nero pozzo dell’ignoranza, cioè dall’età della pietra, Llirdis possedeva l’energia atomica, un traffico organizzato con i pianeti vicini e stava costruendo e varando la prima astronave, e qui si arrivava al capitolo iniziale della storia e a Orthis: "È difficile immaginare che cosa sia stato il primo epico volo dell’uomo tra gli astri…

"Non come ora rapido e agevole, di molto superiore alla velocità della luce. La scienza aveva a disposizione anche allora i mezzi tecnici per costruire e azionare veloci astronavi, ma esse erano inutili. L’uomo non poteva sopravvivere alle ultravelocità. Dovevano accontentarsi di andare da un pianeta all’altro lentamente. Quattro generazioni vissero e morirono dentro gli angusti confini di quel primo fragile precursore delle flotte dei Vardda; uomini e donne dedicarono se stessi e i loro figli alla conquista della più ardua barriera che l’umanità abbia mai superato. E la superarono. Lentamente, a fatica, esposti a tutti i pericoli di radiazioni sconosciute, di luoghi selvaggi nel vero senso della parola, mai esplorati, non segnati su alcuna carta, nella più terribile solitudine e isolamento che mai esseri viventi abbiano affrontato, essi proseguirono faticosamente il loro viaggio finché sbarcarono sul pianeta di un altro sole e poi — e questa, a Trehearne sembrava la più incredibile audacia — di nuovo salparono per Llirdis che per questa generazione intermedia rappresentava solo un nome, una tradizione; e qualcosa che, lo sapevano bene, non avrebbero mai visto. Orthis nacque durante questo viaggio di ritorno, a ventidue anni di distanza dal pianeta che gli avevano insegnato a considerare come sua patria, sebbene non sapesse nulla di pianeti ne di alcun’altra forma di vita oltre quella dell’astronave che si muoveva come per l’eternità. Il suo udito doveva essere accordato solo a quel vasto silenzio, la sua vista all’oscurità e alle stelle lontane. Al vento, alla pioggia, alla luce del sole, all’erba calda, agli animali, ai visi delle folle egli era straniero.

"E straniero rimase. Non poteva sopportare di essere legato ai pianeti, dopo aver vissuto tutta la sua vita nello spazio. Costruì la sua astronave-laboratorio e lavorò in essa, navigando dove voleva, quasi solo, per altri quindici anni. Poi all’età di trentasette anni, annunciò la sua scoperta: la nascita dell’uomo galattico, il principio della razza vardda.

"Orthis rifiutò di rivelare il segreto del suo processo di mutazione, convinto che fosse troppo pericoloso affidarlo a mani inesperte. Egli stesso costruì gli strumenti necessari di cui si servì per seminare con le sue stesse mani il seme della razza vardda che sarebbe germogliato nella generazione successiva. E in quel tempo egli era venerato dalle genti di Llirdis come un semidio. Ma nell’anno seguente ebbero principio i guai che quasi gettarono nella discordia lo stato llirdiano, che infine fecero cadere in disgrazia Orthis. Egli aveva svelato la sua scoperta al suo popolo prima che ad altri, e ora…"

Trehearne leggeva con la più profonda attenzione, cercando di scoprire oltre il nudo racconto dei fatti quale forza poteva far sì che uomini come Edri calpestassero i loro interessi più vitali. Orthis non aveva avuto intenzione di limitare al suo mondo la razza dei Vardda. Avrebbe voluto rendere partecipi del suo segreto gli altri pianeti di Aldebaran e infine i sistemi solari che la prima spedizione aveva visitato e che vantavano un alto grado di civiltà. Desiderava che tutti loro ne partecipassero, essi e le altre razze che forse si sarebbero scoperte nella Galassia purché dotate di un livello culturale abbastanza alto da esserne degne. Ma quando ciò fu risaputo dai neo-Stellari, si ebbe una violenta reazione. Si sollevò ogni genere di obiezioni, dall’egoistica, ma, per Trehearne, del tutto logica argomentazione che i Llirdiani avevano tutti i diritti alla mutazione, avendo sperimentato tutte le vie e compiuto tutta la fatica, e perciò dovevano tenere per sé il segreto, almeno per qualche tempo, alla grave minaccia della guerra in proporzioni galattiche. «Ricordate» aveva ammonito il presidente del Consiglio «come abbiamo aiutato i più arretrati mondi del nostro sistema solare nella conquista del volo interplanetario e come essi ci hanno ripagato. Ricordate le guerre che già abbiamo combattuto! Pensiamoci bene, prima di diffondere questo grande potere.»

Ci pensarono, e nonostante le appassionate argomentazioni di Orthis e dei suoi seguaci, non si affrettarono a prendere una decisione. La situazione divenne così tesa che la nave-laboratorio di Orthis venne sigillata e sequestrata e Orthis stesso venne posto in stato d’arresto. La lotta si trascinò per anni, e dai resoconti sembrava a Trehearne che quei padri dei futuri Vardda non avessero agito solo per l’egoistico desiderio di tenere per sé quel bene supremo. Essi si trovavano di fronte a un gravissimo problema senza precedenti, e non avevano nulla su cui fondarsi se non i loro pensieri e sentimenti. Alcuni dei membri del Consiglio — i congressisti llirdiani — erano evidentemente mossi da gretti motivi di puro egoismo. Ma ve ne erano altri che cercavano sinceramente di essere giusti e per i quali la giustizia verso la loro gente veniva per prima cosa. Temevano di rendere partecipi del segreto della mutazione o del controllo di essa qualsiasi altro popolo. Temevano di spalancare tutte le ignote porte dello spazio su Aldebaran. Gli Orthisti furono sconfitti.

Poi venne la fine, la drammatica esplosione finale. La fazione orthista preparò la fuga per il suo capo. Lo aiutarono a impadronirsi dell’astronave. Lo videro scomparire nel vuoto oscuro oltre il cielo, e pensarono che dopo tutto sarebbe riuscito vittorioso. Ma in quel tempo la nuova razza Vardda aveva incominciato a prosperare e alcuni fra loro erano già in grado di volare. Si misero all’inseguimento di Orthis, credendo nel proprio diritto così intensamente come egli nel suo. Orthis stesso doveva essere indubbiamente in grado di sopportare le ultravelocità, perché fu una caccia lunga ed estenuante. I nuovi giovani Vardda disarmarono in parte la sua astronave, ma anche così egli riuscì a sfuggir loro. Non vi erano in quei giorni il radar o la radio a onde ultracorte e, dopotutto, il vecchio si era fatto le ossa tra le stelle. Lo persero di vista e quella fu la fine di Orthis e della sua astronave, di tutto, tranne del messaggio lasciato nella scialuppa alla deriva e ritrovato più di un secolo dopo. E Trehearne pensava: "Abbia avuto ragione o torto, quell’Orthis era un diavolo di un uomo".

Riusciva a capire perché l’Orthismo avesse resistito così tenacemente per tutti quei secoli. Certamente non si era mai concepito un più nobile sogno. Per parte sua, comunque, era contento si trattasse soltanto di un sogno. Gli piaceva essere un Vardda. Gli piacevano le cose così come stavano. Erano andate abbastanza bene per tutti, e guardando al passato, riusciva a pensare a una gran quantità di gente che gli sarebbe ripugnato sapere in grado di raggiungere i suoi vicini di altri sistemi solari. Orthis, quel solitario nato nello spazio, aveva visto solo l’ideale, l’astrazione. Il Consiglio aveva tenuto conto della realtà delle cose.

Non discusse la questione con nessuno. Quella notte nel parco dei divertimenti, gli aveva lasciato viva la sensazione che l’intero argomento fosse pericoloso, specialmente per lui.

Il pensiero di Kerrel gli tornava qualche volta come un’ombra oscura e legata a esso era una tormentosa ansietà per Edri che non aveva visto prima di partire, non per ragioni di prudenza, se ne sarebbe vergognato, ma perché Edri se ne era andato da qualche parte e non si poteva raggiungerlo. Aveva inviato a Trehearne un breve messaggio augurandogli buona fortuna e questo era tutto.

A Shairn pensava il meno possibile. Non desiderava sapere che cosa stesse facendo. Preferiva ricordare le due settimane trascorse alla Torre d’argento come perse al di là di una cieca muraglia.

Continuava a leggere l’epica saga delle esplorazioni dei Vardda che avevano aperto le vie delle stelle. Studiava le leggi e i codici. Imparava tutto intorno all’astronave.

I suoi compagni di cuccetta erano più che desiderosi di far mostra delle loro cognizioni con un novellino, soprattutto perché era più vecchio di loro. Perri gli spiegava il funzionamento segreto dei vibranti giganti metallici che azionavano l’astronave: adattamenti del cosmotrone e generatore, con centrifughe sintonizzate a ultravelocità che creavano radiazioni del quinto ordine. Rohan gli lasciò manovrare le leve dei calcolatori che risolvevano problemi di matematica astrale e Yann gli insegnò a interpretare gli schermi del radar che funzionava non solo con onde elettromagnetiche lente, ma con radiazioni del genere di quelle che fornivano l’energia motrice all’astronave, essendo dotate di una velocità superiore a quella della luce. Nella cabina di trasmissione ascoltava le astronavi dei Vardda comunicare attraverso la Galassia in fitti colloqui fantomatici per mezzo degli stessi raggi supersonici. Il capitano in breve accondiscese e gli permise — ed era come realizzare un sogno impossibile — di tenere con le sue mani i comandi della Saarga.

Yann lo prendeva benevolmente in giro: «Sei solo al principio, ed è ancora divertente. Aspetta finché sarai un veterano come me.» Aveva ventott’anni. «Ho fatto nove viaggi nella Costellazione, e ne sono stulo. Tutto quello che voglio è un’astronave mia; ne affiderò il comando a qualcun altro e io me ne starò comodamente a Llirdis a spassarmela tra vino e donne.»

«Hai qualche probabilità di procurartene una?» chiese Trehearne.

«Con questo viaggio ce la farò.»

Rohan scoppiò in un fragorosa risata. «Sentilo! Non lasciarti prendere in giro, Trehearne. Guadagniamo bene, ma non fino a questo punto.»

Yann disse gravemente: «Lo dico sul serio.»

«Ti spiacerebbe dirmi come?»

«Ho risparmiato del denaro» rispose candidamente Yann, poi sogghignò. «E inoltre stai dimenticando che ho passato quasi un anno a terra, a riempir moduli per un dannato agente vardda che è morto. Non ho sprecato, il mio tempo.» Si rivolse a Trehearne: «Aspetta che facciamo scalo a quel sistema solare, ti mostrerò cose che non hai mai visto prima d’ora. Una vera barbarie. Buona gente, tuttavia. Sono in ottimi rapporti con loro.»

«Suppongo» disse Trehearne «che vi sia ogni tipo di mondo nella costellazione di Ercole.»

«Aspetta» disse Rohan acido. «Ne farai un’indigestione prima di aver finito il viaggio. Ve ne sono di belli, di pittoreschi, e di molto strani, e va bene, e alcuni anche civilizzati. Ma ve n’è una quantità infernale di semplicemente spaventosi. Avrai intuito che vi sono delle buone ragioni se riceviamo un forte compenso per questo viaggio.»

La grande costellazione di Ercole si trasformò da una piccola macchia di fosco splendore, sperduta nella vampa, nel fragore e nel tuono dell’Universo, in un mostruoso sciame di stelle, abbagliante pur attraverso l’oblò oscurato, un alveare brulicante di astri, bianchi, rossi, gialli, turchesi e verde intenso, che riecheggiava nel vuoto eterno con l’impeto e il rombo di una valanga cosmica, rotolante in qualche sconosciuta direzione, mossa dai maligni occhi ammiccanti delle variabili cefeidi. La Saarga, si immerse infine in quel brulichio e Trehearne scoprì almeno una delle molte ragioni per cui Edri lo aveva preavvertito delle difficoltà di quel viaggio a Ercole.

«Tutte le costellazioni globulari sono pericolose» gli disse Yann allegramente.

«I Centauri, Omega, eccone un’altra da far impazzire uno Stellare. Una buona astronave, un buon capitano, nessuna immaginazione, ecco cosa ci vuole per un viaggio come questo.»

Trehearne fece conoscenza delle correnti di gravità e per la prima volta in vita sua seppe che cos’era la vera paura. I generatori sussultavano incessantemente. La Saarga gemeva e scricchiolava in tutta la sua armatura, procedendo a scatti irregolari di velocità e arresti improvvisi, impennandosi e inclinandosi allorché si faceva strada tra banchi d’astri, lottando per aprirsi un varco tra intricati, instabili campi di gravità. Trehearne aveva la sensazione di essere chiuso in un gigantesco pallone che venisse scagliato qua e là tra le stelle.

Yann sogghignava: «Andrà peggio più avanti.»

E fu così. Trehearne pensava fosse impossibile per qualsiasi astronave resistere tra quelle possenti, intersecantesi correnti di gravitazione mentre gli astri si infittivano come api sciamanti. Cento volte al giorno era convinto che la fine fosse vicina e il suo unico conforto era il pensiero che la costellazione di Ercole era un luogo che si prestava di più a una morte gloriosa di qualsiasi altro visto sulla Terra. Esaurì il suo potenziale emotivo finché si sentì vuoto dentro e non soffrì più che per i rumori e le violente impennate, mentre la Saarga rollava faticosamente sulla sua rotta. Immaginava che si dovessero trovare nel cuore della costellazione, e rimase sbalordito nell’apprendere, quando l’astronave fece il suo primo scalo, che erano ancora soltanto ai margini. Era troppo scosso per curarsene, Tutto ciò che voleva era di aver sotto i piedi la terra ferma. Uscì fuori dalla camera di compressione alla luce di una stella evanescente, indicibilmente opaca e triste e posò lo sguardo su un oscuro pianoro, scarsamente illuminato anche a mezzogiorno dal riflesso di astri lontani che ardevano solitari. La pianura era nuda, battuta fino alle rocce sottostanti dai venti che la percorrevano impetuosi, arida, disseccata, fredda.

Ma vi si ergeva una città nitida, gaia e colorata.

A Trehearne faceva venire in mente un trucco troppo vivo sul volto di un cadavere. La Saarga scaricò cibarie, metalli e svariati articoli voluttuari, ricevendo in pagamento gemme di porpora reale estratta dalla roccia grigia da piccoli uomini dagli occhi tristi. Il luogo incominciava a dare sui nervi a Trehearne. Il suo lavoro lo teneva nelle vicinanze dell’astronave a controllare le bollette di carico, ma aveva modo di osservare la gente che veniva dalla città. Erano uomini sani, ben nutriti, ben vestiti. Ma avevano certi corpi macilenti e anche i volti dei fanciulli esprimevano una tristezza che sembrava essere parte di loro come la luce morente del sole e il suolo inaridito. Notò l’espressione con cui guardavano la grande astronave e gli ardenti astri fiammeggianti che essi non avrebbero mai potuto raggiungere. Non parlavano molto. Se ne stavano immobili a guardare. Ma una volta un gruppo di ragazzi sgattaiolò vicino a lui e un bambino gli chiese nella lingua franca dei modi commerciali: «Che cosa si prova a volare tra le stelle?»

La Saarga non si fermò lì a lungo e Trehearne ne fu contento. «Dannazione!» disse a Yann. «Quei ragazzini ti spezzerebbero il cuore. Non si potrebbe trasferirli altrove o far qualcosa? Muoiono lentamente con il loro mondo.»

Yann scosse il capo. «Si è tentato, ma senza riuscirvi. A velocità planetarie per superare una distanza anche relativamente piccola tra le stelle, ci vogliono degli anni, e la maggior parte della gente non vi è preparata psicologicamente. Crollano in un modo o nell’altro oppure avvizziscono e muoiono. Inoltre, suppongo vi sia una specie di ecologia interstellare. I mondi vecchi muoiono e i nuovi nascono e se si comincia a distruggere l’equilibrio naturale, non si otterrà altro che di sovraffollare i pianeti abitabili di popolazione in numero maggiore di quanta ne possano sostentare.»

Pensando ai bambini, Trehearne sbottò: «Al diavolo l’ecologia. Sono esseri umani!»

Il giovane Perri si strinse nelle spalle. «A ognuno tocca la propria sorte. Ti ci abituerai. Qualcuno sa quale sarà il prossimo scalo?»

«È ai margini della costellazione» disse Yann. «Un bel posto. Piacerà a Trehearne: non vi sono affatto abitanti.»

L’istruzione di Trehearne in fatto di diritti, privilegi e doveri dei Vardda era solo all’inizio. La Saarga rallentò di nuovo nelle vicinanze di una variabile a cumuli dal più funesto aspetto e si diresse verso un pianeta che si rivelò degna creatura di tale genitore. «Ecco dove ci guadagniamo la nostra paga» disse Yann.

«Scafandri antiradiazione. Equipaggiamento completo. Soltanto il Vecchio non ne fa uso.»

«Che cosa facciamo?» Trehearne desiderava saperlo.

«Raccogliamo funghi» gli rispose Rohan, con un’aria poco allegra. «Se ne estrae un antibiotico particolarmente efficace, una volta che siano stati opportunamente trattati, ma nel frattempo sta’ attento. Sono dannatamente velenosi. E bada che il tuo respiratore a ossigeno sia in perfetto ordine. L’aria è satura di metano.»

«Non se ne cura, lui» lo canzonò Yann. «Ha la testa ancora piena delle meraviglie dei nuovi mondi.»

«Smettila di prendermi in giro» brontolò Trehearne. «È vero.»

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