CAPITOLO QUATTORDICESIMO La fuga

Quando Obsle e Yegey lasciarono entrambi la città, e il portiere di Slose rifiutò di farmi entrare, capii che era giunto il momento di rivolgermi ai miei nemici, perché nei miei amici non c'era più niente di buono. Andai dal Commissario Shusgis, e lo ricattai. Mancando del denaro sufficiente per comprarlo, dovetti spendere la mia reputazione. Tra i perfidi, il nome di traditore è già un capitale. Gli dissi che mi trovavo in Orgoreyn quale agente della Fazione dei Nobili di Karhide, che stava preparando l'assassinio di Tibe, e che lui era stato designato quale mio contatto con il Sarf; se lui rifiutava di darmi l'informazione di cui avevo bisogno, avrei detto ai miei amici di Erhenrang che lui era un doppio agente, al servizio della Fazione del Libero Mercato, e questa parola sarebbe senza dubbio rimbalzata fino a Mishnory, e sarebbe giunta al Sarf; e quel dannato stupido mi credette. Mi disse quasi subito quello che io volevo sapere; arrivò perfino a chiedermi se io approvavo.

Non correvo un pericolo immediato, da parte dei miei amici Obsle, Yegey, e degli altri. Avevano comprato la loro salvezza con il sacrificio dell'Inviato, e confidavano che io non provocassi guai, né per loro, né per me. Fino a quando non ero andato da Shusgis, nessuno, nel Sarf, all'infuori di Gaum, mi aveva considerato degno della sua attenzione, ma ora sarebbero stati subito alle mie calcagna. Perciò dovevo finire il mio lavoro, e sparire. Non avendo modo di avvertire direttamente qualcuno, in Karhide, perché la posta verrebbe letta, e il telefono o la radio intercettati, andai per la prima volta all'Ambasciata Reale. Sardon rem ir Chenewich, che ho conosciuto bene a corte, era l'addetto diplomatico. Ha subito acconsentito a trasmettere ad Argaven un messaggio, nel quale si dichiara quel che ne è stato dell'Inviato, e dove sarebbe stato imprigionato. Potevo fidarmi di Chenewich, una persona intelligente e onesta, che avrebbe trasmesso il messaggio senza intercettazioni fino ad Argaven; anche se non potevo immaginare quel che avrebbe deciso di fare Argaven con il messaggio, se avesse deciso di fare qualcosa. Volevo che Argaven ottenesse l'informazione, nel caso che la Nave Stellare di Ai apparisse improvvisamente sbucando dalle nubi; perché allora serbavo ancora qualche speranza che egli avesse lanciato il segnale alla Nave, prima che il Sarf lo catturasse.

Adesso ero in pericolo, e se fossi stato visto entrare nell'Ambasciata, in un pericolo immediato. Dalla porta dell'Ambasciata andai direttamente al porto delle corriere, nella Parte Sud, e prima di mezzogiorno di quel giorno, Odstreth Susmy, lasciai Mishnory, come vi ero entrato, come uno scaricatore di camion. Avevo con me i vecchi permessi, un po' alterati per adeguarsi al nuovo lavoro. La falsificazione di documenti è rischiosa, in Orgoreyn, dove i documenti vengono esaminati cinquantadue volte al giorno, ma non è rara, malgrado il rischio, e i miei vecchi compagni nell'Isola del Pesce mi avevano mostrato i trucchi da impiegare. Portare un falso nome mi umilia, ma niente altro potrebbe salvarmi, o farmi attraversare liberamente il territorio di Orgoreyn, fino alla costa del Mare di Occidente.

I miei pensieri erano rivolti tutti là, a occidente, mentre la carovana percorreva rombando il Ponte di Kunderer, e usciva da Mishnory. L'autunno guardava in volto ormai l'inverno, e io dovevo raggiungere la mia destinazione prima che le strade venissero chiuse al traffico veloce, e mentre c'era ancora qualcosa di utile nell'arrivare là. Avevo visto una Fattoria Volontaria una volta, nel Komsvashom, quando ero stato nell'Amministrazione di Sinoth, e avevo parlato con ex-prigionieri di Fattorie. Quel che avevo visto e udito era come un peso insopportabile sul mio cuore, ora. L'Inviato, così vulnerabile al freddo da indossare un soprabito quando il clima era mite, non sopravviverebbe a un inverno a Pulefen. Perciò la necessità mi spingeva ad andare in fretta, ma il convoglio mi fece andare lentamente, passando di città in città, a nord e a sud, lungo la strada, caricando e scaricando, così che occorse un mezzomese per giungere a Ethwen, alla foce del Fiume Esagel.

A Ethwen ebbi fortuna. Parlando con uomini della Casa di Transito, sentii parlare del commercio di pellicce sul fiume, e di come dei cacciatori autorizzati risalissero il corso del fiume, con slitte o barche da ghiaccio, attraverso la Foresta di Tarrempeth, fin quasi al Ghiacciaio. Dai loro discorsi sulle trappole e sulle pellicce, venne il mio piano di trasformarmi in cacciatore di pellicce. Esistono dei pesthry dal pelo bianco in Kermlandia, come nei Retroterra del Gobrin; gli animali amano nascondersi sotto il respiro del ghiacciaio. Ero andato a caccia di pesthry quando ero stato giovane, nelle foreste di thore di Kerm, perché non andare a disporre trappole, ora, nelle foreste di thore di Pulefen?

In quella parte di Orgoreyn, così inoltrata a nord-ovest, nelle vaste lande selvagge a ovest dei Sembensyens, gli uomini vanno e vengono come loro aggrada, più o meno, perché non ci sono Ispettori a sufficienza per tenerli tutti sotto il più rigido dei controlli. Una parte dell'antica libertà sopravvive nella Nuova Epoca, là. Ethwen è un porto grigio, costruito sulle rocce grigie della Baia di Esagel; un vento di mare gonfio di pioggia soffia nelle strade, e gli abitanti sono marinai dall'aria torva e decisa, che parlano direttamente, senza sprecare frasi o parole. Ricordo con approvazione, e con piacere, Ethwen, dove la mia fortuna cambiò.

Comprai degli sci, delle scarpe da neve, delle trappole, e delle provviste, ottenni la licenza di caccia, autorizzazione, identificazione, e così via, dall'Ufficio Commensale, e cominciai a risalire a piedi il corso dell'Esagel, con una compagnia di cacciatori guidata da un vecchio di nome Mavriva. Il fiume non era ancora ghiacciato, e delle ruote giravano ancora per le strade, perché ancora pioveva più di quanto nevicasse, su questo pendio costiero, nell'ultimo mese dell'anno. Quasi tutti i cacciatori aspettavano il cuore dell'inverno, e nel mese di Thern cominciavano a risalire l'Esagel a bordo di barche da ghiaccio, ma Mavriva intendeva giungere all'estremo nord in anticipo, e catturare i pesthry non appena i primi fossero discesi alla foresta, nel corso della loro migrazione. Mavriva conosceva il Retroterra, il Nord Sembensyen, e le Colline di Fuoco, forse più di qualsiasi altro uomo, e in quei giorni, risalendo il fiume, imparai molte cose, da lui, la cui conoscenza mi servì più tardi.

Alla città chiamata Turuf abbandonai la compagnia, fingendo di essere malato. I cacciatori proseguirono verso nord, e a quel punto io mi diressi a nord-est, da solo, nei primi contrafforti collinosi dei Sembensyens. Passai alcuni giorni a conoscere la terra e poi, nascondendo quasi tutto quel che possedevo in una valle segreta, a dodici miglia e più da Turuf, ritornai in città, avvicinandomi di nuovo da sud, e questa volta vi entrai, e mi fermai in una Casa di Transito. Come se volessi approvvigionarmi per la caccia, acquistai degli sci, delle scarpe da neve, e delle provviste, un sacco a pelo e degli indumenti invernali, tutto quello che avevo già acquistato sulla costa; e comprai anche una stufa Chabe, una tenda termica, di pelli, una slitta leggera, sulla quale caricai ogni cosa. Poi, non ebbi più niente da fare, se non attendere che la pioggia si trasformasse in neve e il fango in ghiaccio; non molto, perché avevo trascorso quasi un mese nella strada da Mishnory a Turuf. Di Arhad Thern l'inverno era già arrivato, tutto era ghiacciato, e la neve che avevo aspettato stava già cadendo.

Passai il recinto elettrificato della Fattoria Pulefen nel primo pomeriggio, e tutte le tracce rimaste dietro di me furono ben presto coperte dall'abbondante nevicata. Lasciai la slitta nell'anfratto di un torrente, nella foresta, a est della Fattoria, e portando solo uno zaino ritornai a piedi sulla strada; e di là giunsi apertamente al cancello d'ingresso della Fattoria. Là io mostrai i documenti, che avevo di nuovo falsificato durante l'attesa a Turuf. Erano documenti dal «timbro azzurro», ora, e mi identificavano come Therner Benth, prigioniero sotto giuramento, e insieme a essi c'era l'ordine di presentarmi entro l'Eps Thern alla Terza Fattoria Volontaria della Commensalità, a Pulefen, per prestare servizio come guardia per due anni. Un Ispettore dallo sguardo acuto e penetrante si sarebbe insospettito, per quei documenti ormai troppo usati, ma c'erano ben pochi occhi acuti o penetranti, in quel luogo.

Non c'è nulla di più facile che entrare in prigione. Mi sentii abbastanza rassicurato anche sulla maniera per uscirne.

Il capoguardia mi biasimò per essere arrivato con un giorno di ritardo su quello specificato nei miei ordini, e mi mandò nelle caserme. La cena era finita, e fortunatamente era troppo tardi per darmi scarpe e uniforme regolamentari, e confiscare i miei abiti, che erano assai migliori. Non mi diedero un'arma, ma trovai una pistola a portata di mano, mentre giravo per la cucina, cercando d'indurre il cuoco a darmi qualcosa da mangiare. Il cuoco teneva la sua pistola appesa a un chiodo, dietro i forni. La rubai. Non c'era la frequenza letale; forse nessuna delle pistole delle guardie la possedeva. Non uccidevano gente, nelle Fattorie; lasciavano che la fame e l'inverno e la disperazione uccidessero al loro posto.

C'erano trenta o quaranta carcerieri, e centocinquanta, al massimo centosessanta, prigionieri, nessuno dei quali era in condizioni buone; quasi tutti dormivano profondamente, benché la Quarta Ora non fosse passata da molto. Convinsi una giovane guardia a farmi vedere il luogo, e i prigionieri addormentati. Li vidi nella luce fissa, abbagliante dello stanzone nel quale dormivano, e la loro vista aumentò la mia speranza di agire quella notte stessa, prima che io avessi attirato qualche sospetto su di me. Erano tutti nascosti sulle cuccette, nei loro sacchi a pelo, come bambini rannicchiati nel grembo del genitore, invisibili, impossibili da distinguersi l'uno dall'altro… tutti meno uno, troppo lungo per nascondersi, un viso scuro come un teschio, occhi chiusi e infossati, una criniera di capelli lunghi, fibrosi.

La fortuna che era girata a Ethwen ora faceva girare il mondo con sé, sotto la mia mano. Ho sempre avuto un solo talento, quello di sapere quando la grande ruota cede a un semplice tocco, sapere e agire. Avevo creduto che quella preveggenza fosse andata perduta, l'anno prima, a Erhenrang, e che mai avrei potuto riacquistarla. Era una grande gioia sentire di nuovo quella certezza, sapere che avrei potuto cambiare rotta alla mia fortuna e alla grande opportunità del mondo, come il conducente di una slitta nell'ora rapida del pericolo.

Dato che stavo ancora girando e vagabondando intorno, recitando la mia parte di curioso, irrequieto, nuovo arrivato non troppo scaltro, mi iscrissero subito nell'ultimo turno di guardia; a mezzanotte, all'infuori di me e di un altro guardiano, che faceva il mio stesso turno, l'intera Fattoria Pulefen era immersa nel sonno. Continuai a girare per tutto l'edificio, osservando, esplorando, ascoltando, avvicinandomi di quando in quando alle cuccette. Predisposi attentamente i miei piani. E poi cominciai a preparare volontà e corpo a entrare in dothe, perché la mia sola forza mai avrebbe potuto bastare, se non fosse stata aiutata dalla forza uscita dalle Tenebre. Qualche tempo prima dell'alba andai di nuovo nel dormitorio, e usando la pistola del cuoco colpii Genly Ai con una scarica paralizzante al cervello, della durata di un centesimo di secondo, poi lo sollevai dalla cuccetta, sacco a pelo compreso, e lo trasportai fuori, sulle spalle, fino alla sala di guardia.

— Che succede? — dice l'altra guardia, mezza addormentata. — Lascialo stare!

— È morto.

— Un altro morto? Per le viscere di Meshe, e non è ancora inverno, inverno pieno! — Gira il capo di sbieco, per guardare il viso dell'Inviato, che pende così, dalla mia spalla. — Quello è il Pervertito, vedo. Per l'Occhio, non credevo a tutto quello che dicono sui karhidiani, finché non gli ho dato un'occhiata, a questo orribile anormale. Ha passato tutta la settimana sulla cuccetta, lamentandosi e sospirando, ma non pensavo che morisse così, semplicemente. Bene, buttalo fuori, dove si conserverà fino a quando non sarà giorno, non restare lì, come uno scaricatore di camion con un sacco sulle spalle…

Mi fermai all'Ufficio d'Ispezione, percorrendo il corridoio, ed essendo io la guardia nessuno mi impedì di entrare e di cercare, fino a quando non trovai il pannello murale contenente gli allarmi e gli interruttori. Nessuno portava un'etichetta, ma le guardie avevano inciso delle lettere, accanto agli interruttori, per aiutare la memoria quando la fretta era necessaria; presumendo che R.o volesse dire «recinto», abbassai quell'interruttore, per togliere la corrente dalle difese esterne della Fattoria, e poi proseguii, portando di peso Ai, ora tenendolo per le spalle. Raggiunsi la guardia di servizio nella stanza di sentinella, accanto alla porta. Recitai la parte di chi trascina con enorme fatica un peso morto, dovetti recitare, perché la forza del dothe era dentro di me, e non volevo che la guardia vedesse con quale facilità, in realtà, potessi tirare o trasportare il peso di un uomo più pesante di me. Dissi:

— Un prigioniero morto, mi hanno detto di portarlo fuori dal dormitorio. Dove lo metto?

— Non lo so. Portalo fuori. Sotto un tetto, in modo che la neve non possa seppellirlo e lui ci spunti fuori a primavera, nel disgelo, puzzolente come una pestilenza. Nevica peditia. - Intendeva quello che noi chiamiamo neve-sove, una precipitazione fittissima, bagnata, per me la migliore delle notizie.

— Va bene, va bene — dissi, e portai fuori il mio carico, fuori dal dormitorio e intorno all'angolo del casermone, dove lui non poteva più vederci. Issai di nuovo Ai in spalla, mi diressi a nord-est per qualche centinaio di metri, scavalcai il recinto nel quale la corrente non circolava più, e posai al suolo il mio carico, scesi a mia volta, libero, raccolsi di nuovo Ai, e mi allontanai il più in fretta possibile verso il fiume. Non ero lontano dal recinto, quando un fischio prolungato cominciò a sibilare, e i fari si accesero. La neve era abbastanza fitta da nascondermi, ma non era abbastanza compatta da nascondere le mie tracce entro pochi minuti. Eppure, quando arrivai al fiume, non erano ancora sulle mie tracce. Mi diressi a nord, sul terreno libero, sotto gli alberi, o attraverso l'acqua quando non trovai terreno sgombro; il fiume, un tumultuoso, rapidissimo tributario dell'Esagel, non era ancora ghiacciato. Le cose cominciavano ad assumere contorni più distinti, ora, nel chiarore dell'aurora, e potei camminare in fretta. In pieno dothe trovai l'Inviato, benché le sue misure costituissero un carico ingombrante, un peso facilissimo da portare. Seguendo il torrente nella foresta raggiunsi il crepaccio dov'era la mia slitta, e sulla slitta posai e legai con cinghie l'Inviato, accumulando il mio carico intorno e sopra di lui, in modo che egli fosse ben nascosto, e su tutto posai una larga pelle impermeabile; poi cambiai d'abito, e mangiai del cibo preso dal mio zaino, perché la grande fame che si prova nel dothe prolungato era già padrona del mio ventre. Infine mi diressi a nord, sulla principale Strada della Foresta. Prima che fosse passato molto tempo, un paio di sciatori mi raggiunsero.

Ero adesso vestito, e attrezzato, come un cacciatore di pelli, e dissi loro che stavo cercando di raggiungere il gruppo di Mavriva, che era andato a nord negli ultimi giorni di Grende. Gli sciatori conoscevano Mavriva, e accettarono la mia storia dopo aver dato un'occhiata alla mia licenza di caccia. Non si aspettavano di trovare i fuggiaschi diretti a nord, perché nulla si trova a nord di Pulefen, se non la foresta e il Ghiaccio; e forse non erano molto interessati a trovare i fuggiaschi, fin dall'inizio. Perché avrebbero dovuto esserlo? Proseguirono, e solo un'ora più tardi mi passarono di nuovo accanto, diretti nuovamente alla Fattoria. Uno di loro era l'uomo con il quale avevo sostenuto il turno di guardia notturno. Non aveva mai visto il mio viso, benché l'avesse avuto davanti agli occhi per metà della notte.

Quando fui sicuro che se ne fossero andati, abbandonai la strada e per tutto il giorno percorsi un lungo semicerchio, che ripassava attraverso la foresta e i contrafforti montuosi a est della Fattoria, avvicinandomi infine da oriente, dalla landa deserta e desolata, alla valle segreta sopra Turuf dove avevo nascosto tutto il mio equipaggiamento di riserva. Era difficile guidare la slitta su quella terra dalle molte pieghe, con più del mio peso da tirare, ma la neve era alta, e si stava già facendo più solida, e io ero in dothe. Dovevo mantenere quella condizione, perché non appena una persona lascia cadere la forza del dothe, questa persona non serve più a nulla. Non avevo mai mantenuto lo stato di dothe, prima di allora, per più di un'ora, ma sapevo che alcuni dei Vecchi potevano mantenersi in piena forza per un giorno e una notte, e perfino di più, e la mia necessità presente si dimostrava un eccellente supplemento al mio addestramento. In dothe non ci si preoccupa molto, e quel poco di apprensione che io avevo era tutto rivolto all'Inviato, che avrebbe dovuto svegliarsi già da molto tempo dalla leggera dose di pistola sonica che gli avevo dato. Non si era mai mosso, neppure un fremito, e non avevo tempo di accudire a lui. Il suo corpo era forse così alieno che quella che per noi era semplicemente una paralisi, per lui era la morte? Quando la ruota gira sotto la vostra mano, bisogna fare attenzione a quello che dite; e per due volte io l'avevo chiamato morto, e l'avevo portato come vengono portati i morti. Allora veniva il pensiero che forse era un morto quello che io avevo portato per le colline e la foresta e il fiume e la valle, e che la mia fortuna e la sua vita erano andate sprecate, dopotutto. A quel pensiero io sudavo e imprecavo, e la forza del dothe pareva uscire da me come acqua zampillante da un otre rotto. Ma andai avanti, e la forza non mi mancò fino a quando non ebbi raggiunto il nascondiglio nelle colline, e non ebbi eretto la tenda, e fatto quel che io potevo fare per Ai. Aprii una scatola di cubi di cibo concentrato, che divorai in gran parte, mentre una piccola parte la feci entrare in lui, come brodo, perché mi pareva vicino a morire di fame. C'erano delle ulcerazioni sulle sue braccia e sul suo petto, che non si rimarginavano a causa del sacco ruvido e sporco nel quale giaceva. Quando queste piaghe furono lavate ed egli giacque, al caldo, nel mio sacco a pelo, nascosto come solo l'inverno e la desolazione della terra potevano nasconderlo, non ci fu altro che io potessi fare. La notte era caduta e le tenebre più grandi, il prezzo per l'evocazione volontaria dell'intera forza del corpo, stavano calando fitte, pesanti su di me; e alle tenebre dovevano affidare me stesso, e lui.

Dormimmo. Cadde la neve. Per tutta la notte e il giorno e la notte del mio sonno di thangen dovette nevicare, non una tormenta, ma la prima grande nevicata dell'inverno. Quando infine mi mossi, e riuscii, in parte sveglio, a sollevarmi per guardare fuori, la tenda era per metà sepolta dalla neve. Luce del sole e ombre azzurrine si stendevano vivide sulla neve. Lontano e in alto a est, una sottile striscia di grigio sbiadiva la lucentezza tersa del cielo: il fumo di Udenushreke, la più vicina a noi delle Colline di Fuoco. Intorno alla piccola vetta della tenda si stendeva la neve, montagne, colline, pozzi, crepacci, pendii, tutto bianco, candido, neve bianca, immacolata.

Trovandomi ancora nel periodo di recupero, ero molto debole e assonnato, ma quando riuscivo a muovermi, a destarmi, davo ad Ai del brodo, un poco per volta; e nella sera di quel giorno egli si rianimò, pur non recuperando del tutto sensi ed intelletto. Si mise a sedere, rialzandosi di scatto e gridando, come preso da un grande terrore. Quando m'inginocchiai accanto a lui, cercò di allontanarsi da me, e lo sforzo fu troppo per lui, ed egli svenne. Quella notte egli parlò molto, ma non in una lingua che io conoscessi. Era strano, molto strano, in quella nera immobilità del territorio desolato e selvaggio, sentirlo mormorare parole di una lingua che aveva appreso su un mondo diverso da questo. Il giorno dopo fu duro, perché ogni volta che io cercavo di accudire a lui, lui mi scambiava, penso, per una delle guardie della Fattoria, e aveva il terrore che io gli dessi delle droghe. Esclamava in Orgota e in lingua karhidi, mescolandole in un pietoso balbettio, supplicandomi di «non farlo», e lottò contro di me animato dalla forza del panico. Questo accadde ancora, e ancora, e poiché io ero ancora in thangen ed ero debole di membra e di volontà, mi sembrò di non poter fare nulla per lui. Quel giorno pensai che non lo avessero soltanto drogato, ma anche avessero cambiato la sua mente, lasciandolo pazzo o idiota. Allora desiderai che fosse morto sulla slitta, nella foresta degli alberi di thore, o che io non avessi avuto alcuna fortuna, ma fossi stato arrestato nel lasciare Mishnory e mandato in qualche Fattoria, per scontare nel lavoro la mia condanna.

Mi svegliai dal sonno e lui mi stava guardando.

— Estraven? — mi disse, in un debole sospiro attonito.

Allora il mio cuore si animò di speranza. Potei rassicurarlo, e provvedere ai suoi bisogni; e quella notte entrambi dormimmo bene.

Il giorno dopo egli era molto migliorato, e poté sedersi per mangiare. Le piaghe del suo corpo si stavano rimarginando. Gli domandai che cosa fossero.

— Non lo so. Credo che siano le droghe a provocarle; prima dei lividi, poi delle piaghe. Mi facevano delle iniezioni…

— Per evitare il kemmer? — Questa era una storia che avevo udito dagli uomini fuggiti, o rilasciati, dalle Fattorie Volontarie.

— Sì. E altre, non so cosa fossero, sieri della verità di qualche tipo. Mi facevano stare male, e continuavano a darmele. Cosa stavano cercando di scoprire, cosa avrei potuto dire loro?

— Forse non cercavano tanto di interrogarvi, quanto di addomesticarvi.

— Addomesticarmi?

— Rendervi docile, con un'assuefazione forzata a uno dei derivati dell'orgrevy. Questa pratica non è sconosciuta in Karhide. Oppure potevano effettuare un esperimento, su voi e gli altri. Mi è stato detto che sperimentano delle droghe per cambiare la mente e tecniche dello stesso tipo sui prigionieri delle Fattorie. Di questo ne dubitavo, quando l'ho sentito per la prima volta; non ora.

— Avete queste Fattorie, in Karhide?

— In Karhide? — dissi. — No.

Si passò la mano sulla fronte, diffidente.

— A Mishnory direbbero che luoghi simili non esistono in Orgoreyn, suppongo.

— Al contrario. Se ne vanterebbero, e vi mostrerebbero nastri e fotografie delle Fattorie Volontarie, dove i deviati vengono riabilitati e viene dato rifugio ad antichi gruppi tribali. Potrebbero addirittura accompagnarvi in visita alla Fattoria Volontaria del Primo Distretto, appena fuori di Mishnory, una mostra bellissima, secondo i racconti che ne fanno. Se voi credete che in Karhide abbiamo delle Fattorie, signor Ai, voi ci sopravvalutate troppo. Non siamo un popolo così raffinato.

Giacque a lungo, fissando la brillante stufa Chabe che avevo messo al massimo, tanto che da essa emanava un calore soffocante. E poi guardò me.

— Me l'avete detto questa mattina, lo so, ma la mia mente non era chiara, temo. Dove siamo, e come siamo arrivati qui?

Glielo dissi di nuovo.

— Voi, semplicemente… siete uscito con me?

— Signor Ai, uno di voi prigionieri, o tutti quanti insieme, avrebbe potuto uscire da quel luogo tranquillamente, in qualsiasi notte. Se non foste stati affamati, esausti, demoralizzati, e drogati; se aveste avuto degli abiti pesanti, da inverno; e se aveste avuto qualche posto dove andare… Ecco qual è la trappola. Dove sareste andati? In una città? Nessun documento; e siete finiti, in questo caso. Nel deserto di neve? Non c'è riparo; e siete finiti. D'estate, immagino che la Fattoria Pulefen sia presidiata da un numero assai maggiore di guardie. D'inverno, per sorvegliarla si servono solo dell'inverno stesso.

Mi stava a malapena ascoltando.

— Non potreste portarmi in spalla per più di cinquanta metri, Estraven. Non parliamo di fuggire, portandomi, per un paio di miglia, di corsa, attraverso la foresta e il deserto nevoso, al buio…

— Io ero in dothe.

Ai esitò.

— Indotto volontariamente?

— Sì.

— Voi siete… uno degli Handdarata?

— Sono stato allevato nell'Handdara, e ho abitato per due anni nella Fortezza di Rotherer. In Kermlandia, quasi tutti gli uomini dei Focolari Interni sono Handdarata.

— Pensavo che dopo il periodo di dothe, l'enorme pressione esercitata sulle energie fisiche di una persona producesse una specie di crollo…

— Sì; thangen, viene chiamato, il sonno nero. Dura molto più a lungo del periodo di dothe, e quando entrate nel periodo del recupero, è molto pericoloso cercare di resistervi. Ho dormito per due notti e due giorni di seguito. Ora sono ancora in thangen; ma potrei scalare questa collina. E in questa fase, la fame è una componente pressante. Ho mangiato gran parte delle razioni che, secondo i miei piani, avrebbero dovuto bastarmi per tutta la settimana.

— D'accordo — disse lui, con fretta stizzosa. — Vedo, e vi credo… cosa posso fare, se non credervi! Eccomi qui, e qui siete anche voi… Ma non capisco. Non capisco perché abbiate fatto tutto questo.

A queste parole, la mia collera esplose, e dovetti guardare lo scalpello da ghiaccio che giaceva, vicino alla mano, senza guardare Ai e senza rispondere finché non ebbi controllato la mia ira. Fortunatamente, non c'era ancora molto calore, o molta prontezza, nel mio cuore, e mi dissi che egli era un uomo ignorante, uno straniero, esausto e spaventato. Così arrivai a fargli giustizia, e dissi, infine:

— Sento che è in parte colpa mia, se voi siete venuto in Orgoreyn e siete così finito nella Fattoria Pulefen. Sto cercando di rimediare alla mia colpa.

— Voi non avete avuto nulla a che fare, con il mio arrivo in Orgoreyn.

— Signor Ai, noi abbiamo visto i medesimi eventi con occhi diversi; ho erroneamente pensato che ci sarebbero apparsi gli stessi. Permettetemi di ritornare alla primavera scorsa. Io ho cominciato a incoraggiare Re Argaven ad attendere, a non prendere alcuna decisione che riguardasse voi o la vostra missione, da circa mezzo-mese prima del giorno della Cerimonia della Chiave di Volta. L'udienza era già stata stabilita, e la cosa migliore sembrava quella di passarla, pur senza attendersi alcun risultato da essa. Ho creduto che voi capiste tutto questo, e in questo ho errato. Ho dato troppo per scontato, per garantito; non ho voluto offendervi, dandovi dei consigli; ho pensato che comprendeste il pericolo costituito dalla subitanea ascesa nel kyorremy di Pemmer Harge rem ir Tibe. Se Tibe avesse conosciuto qualche buona ragione per temervi, vi avrebbe accusato di essere al servizio di una fazione, e Argaven, che viene facilmente mosso dalla paura, probabilmente vi avrebbe fatto assassinare. Volevo che voi foste in basso, sano e salvo, mentre Tibe era in alto, e potente. È poi accaduto che io sia caduto in basso con voi. Ero destinato a cadere, benché non sapessi che sarebbe accaduto proprio quella notte nella quale abbiamo parlato davanti al mio focolare; ma nessuno rimane primo ministro di Argaven per molto tempo. Dopo aver ricevuto l'ordine di Esilio, non potevo comunicare con voi senza contaminarvi con la mia disgrazia, aumentando così il vostro pericolo; sono venuto qui, in Orgoreyn. Ho cercato di suggerirvi di venire a vostra volta in Orgoreyn. Ho esortato gli uomini dei quali diffidavo di meno, fra i Trentatré Commensali, a concedervi il permesso di entrata nel paese; senza il loro favore, voi non l'avreste ottenuto. Essi vedevano, e io li ho incoraggiati a vedere in voi una strada per il potere, una via d'uscita dalla rivalità in continuo aumento con Karhide, e verso il ritorno alla restaurazione del mercato libero, forse perfino una opportunità per spezzare la stretta soffocante del Sarf. Ma si tratta di uomini troppo prudenti, troppo cauti, che hanno paura di agire. Invece di proclamare la vostra realtà e la vostra presenza, vi hanno celato, e hanno così perduto la loro opportunità, e vi hanno venduto al Sarf per salvare la pelle. Ho contato troppo su di loro, e perciò la colpa è mia.

— Ma per quale scopo… tutti questi intrighi, questi nascondigli e questa lotta per il potere, questi complotti e queste trame oscure… perché tutto questo, a quale scopo, Estraven? Che cosa stavate cercando?

— Cercavo quel che voi stavate cercando: l'alleanza del mio mondo con i vostri mondi. Che cosa pensavate?

Ci stavamo fissando negli occhi, attraverso l'ostacolo della stufa ardente, come un paio di bambole di legno.

— Volete dire… anche se fosse stato Orgoreyn a firmare l'alleanza…?

— Anche se fosse stato Orgoreyn. Karhide avrebbe ben presto seguito questo esempio. Pensate che io possa giocare allo shifgrethor, quando la posta è così enorme per tutti noi, per tutti i miei simili, per tutti gli uomini? Che importanza può avere il nome del paese che si sveglia per primo, purché noi tutti ci svegliamo?

— Come diavolo posso credere a quello che dite, qualsiasi cosa sia! — esplose lui. La stanchezza fisica fece della sua indignazione un lamento petulante, e miserevole. — Se tutto questo è vero, avreste potuto spiegarmi qualcosa prima, la primavera scorsa, risparmiando a entrambi un viaggio a Pulefen. I vostri sforzi per la mia missione…

— Sono falliti. E vi hanno provocato dolore, e vergogna, e pericolo. Lo so. Ma se avessi tentato di combattere Tibe per voi, ora non sareste qui, bensì in una tomba di Erhenrang. E ora ci sono alcune persone, in Karhide, e poche altre in Orgoreyn, che credono alla vostra storia, perché hanno ascoltato le mie parole. Potranno ancora esservi utili. Il mio errore più grande è stato, come dite, nel non chiarire a voi i miei scopi. Non sono abituato a fare questo. Non sono abituato a dare o ad accettare, sia il consiglio che il biasimo.

— Non intendo essere ingiusto, Estraven…

— Eppure lo siete. È strano. Io sono il solo uomo, su tutto Gethen, che ha creduto completamente in voi, e sono il solo uomo su tutto Gethen nel quale voi avete rifiutato di credere.

Si prese il capo tra le mani. Alla fine disse:

— Mi dispiace, Estraven. — Era una scusa e un'ammissione a un tempo.

— Il fatto è — gli dissi, — che voi non potete, o non volete, credere nel fatto che io creda in voi. — Mi alzai, perché avevo le gambe intorpidite, e scoprii di tremare, per la collera e la debolezza. — Insegnatemi il vostro linguaggio della mente — gli dissi, cercando di parlare con calma, e senza rancore, — il vostro linguaggio che non contiene menzogna. Insegnatemi questo, e poi chiedetemi perché ho fatto quel che ho fatto.

— Mi piacerebbe farlo, Estraven.

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