CAPITOLO SESTO Una strada per Orgoreyn

Il cuoco, che arrivava sempre nella casa prestissimo, mi svegliò; il mio sonno è sempre profondo, e lui dovette scuotermi e dirmi nell'orecchio:

— Svegliatevi, svegliatevi, Lord Estraven, c'è un corriere venuto dalla Casa del Re!

Finalmente riuscii a capire le sue parole, e confuso dal sonno e dall'urgenza, mi alzai frettolosamente, e andai alla porta della mia camera, dove il messaggero aspettava, e così entrai completamente nudo e instupidito come un neonato nel mio esilio.

Leggendo il foglio che il corriere mi diede, pensai che questo l'avevo cercato, anche se non così presto. Ma quando dovetti osservare l'uomo inchiodare quel maledetto foglio sulla porta della casa, ebbene, in quel momento mi sentii come se egli dovesse infilare i chiodi nei miei occhi, e gli voltai la schiena e rimasi fermo, stordito e abbattuto e pervaso dal dolore, un dolore che io non avevo cercato.

Passato questo primo momento, decisi di provvedere a ciò che doveva essere fatto, e quando i gong del Palazzo batterono la Nona Ora, io ero già partito di là. Non c'era nulla che mi trattenesse per molto. Presi quel che potevo prendere. In quanto alle proprietà e al denaro che tenevo in banca, non avrei potuto riscuotere quel denaro senza mettere in pericolo coloro con i quali trattavo, e più questi uomini erano miei amici, peggiore era il pericolo che incombeva sopra di loro. Scrissi al mio vecchio kemmeri Ashe come avrebbe potuto ottenere gli interessi su certe pietre preziose, in modo che questi beni venissero conservati per nostro figlio, ma gli dissi di non tentare di mandarmi del denaro, perché Tibe avrebbe certo fatto sorvegliare la frontiera. Non potevo firmare la lettera. Se avessi chiamato qualcuno per telefono, chiunque egli fosse, lo avrei sicuramente fatto finire in prigione, e avevo fretta di andarmene, prima che qualche amico venisse a trovarmi, senza nulla sapere, e perdesse il suo denaro e la sua libertà come ricompensa di questa amicizia.

Partii verso ovest, attraversando la città. Mi fermai a un incrocio e pensai «Perché non dovrei andare a oriente, attraversando le montagne e le pianure, per ritornare in Kermlandia, come un povero a piedi, e così ritornare a Estre dove sono nato, quella casa di pietra su un impervio, ostile pendio di montagna; perché non tornare a casa?» A questo pensiero, per tre o quattro volte mi fermai, e mi voltai indietro, a guardare la strada. Ogni volta vidi tra gli indifferenti volti che popolavano le strade, quel viso che avrebbe potuto appartenere alla spia mandata a sorvegliare i miei movimenti, e a provvedere affinché io lasciassi Erhenrang, e ogni volta pensai a quale follia fosse l'idea di ritornare a casa. Tanto valeva uccidermi. Io ero nato per vivere in esilio, così sembrava, e l'unico modo per tornare a casa era la morte. Così proseguii verso occidente, e non mi voltai più indietro.

La grazia di tre giorni che mi era stata concessa mi avrebbe visto, se non ci fossero stati infortunii, al massimo nei pressi di Kuseben sul Golfo, ottantacinque miglia da Erhenrang. Molti esiliati hanno avuto una notte di preavviso, sull'Ordine del loro Esilio, e in questo modo una possibilità di trovare un passaggio su una nave in partenza lungo il Sess, prima che i capitani siano passibili di punizione per aver dato il loro aiuto. Una simile cortesia non era certo nella vena di Tibe. Nessun capitano di nave avrebbe osato prendermi a bordo, ora; ormai tutti mi conoscevano al Porto, essendo stato io a costruirlo per Argaven. Nessuna corriera mi avrebbe dato un passaggio, e da Erhenrang al più vicino confine ci sono quattrocento miglia. L'unica possibilità era quella di raggiungere Kuseben a piedi.

Il cuoco questo l'aveva capito. Lo avevo mandato via immediatamente, ma andandosene egli aveva preso tutto il cibo che era riuscito a trovare, e lo aveva impacchettato e ben riposto, per fornirmi il combustibile della mia corsa di tre giorni. Quella cortesia mi aveva salvato, e aveva salvato anche il mio coraggio, perché ogni volta che sulla strada mi ero fermato a mangiare di quei frutti e di quel pane, avevo pensato: «C'è un uomo che non mi considera un traditore; perché egli mi ha dato questo.»

Scoprii che è duro essere chiamato traditore. È strano vedere quanto sia duro, perché in fondo è un nome facile da dare a un altro uomo; un nome che rimane attaccato, che calza, che convince. Io stesso ne ero convinto per metà.

Arrivai a Kuseben al tramonto del terzo giorno, ansioso e con i piedi dolenti, perché negli ultimi anni passati a Erhenrang mi ero dato completamente alla ricchezza e al lusso, e avevo perduto gran parte dell'abitudine alle lunghe marce; e là, ad aspettarmi sulla porta della piccola città, trovai Ashe.

Per sette anni eravamo stati kemmeri, e avevamo due figli. Essendo nati dalla sua carne, essi portavano il suo nome, Foreth rem ir Osboth, ed erano stati allevati in quel Clan e in quel focolare. Tre anni prima lui era andato nella Fortezza di Orgny, e ora portava la catena d'oro di un Celibe dei Profeti. In quei tre anni non ci eravamo più visti, eppure vedendo il suo viso là nel tramonto, sotto l'arco di pietra, sentii la vecchia abitudine dal nostro amore, come se fosse stata spezzata il giorno prima, e conobbi la fedeltà, in lui, che lo aveva spinto a condividere la mia rovina. E sentendo quel legame inutile stringersi di nuovo sopra di me, provai collera; perché l'amore di Ashe mi aveva sempre costretto ad agire contro i sentimenti del mio cuore.

Proseguii, passandogli davanti. Se dovevo essere crudele era inutile nasconderlo, fingendo gentilezza.

— Therem — mi chiamò, e mi seguì. Io discesi in fretta le ripide strade di Kuseben, verso i moli. Un vento del sud spirava dal mare, facendo mormorare le fronde degli alberi scuri dei giardini, e attraverso quel caldo, tempestoso crepuscolo d'estate io mi affrettai per sfuggire da lui, come sarei fuggito da un assassino. Lui mi raggiunse, perché i miei piedi dolevano troppo e non potevo mantenere il passo. Mi disse, — Therem, verrò con te.

Io non risposi affatto.

— Dieci anni fa, in questo mese di Tuwa, ci siamo giurati…

— E tre anni fa, tu hai rotto il giuramento, lasciandomi, ed è stata una scelta saggia.

— Non ho mai rotto il voto che abbiamo giurato, Therem.

— È vero. Non c'era alcun voto da rompere. Era un voto falso, un secondo voto. Tu lo sai; e lo sapevi allora. L'unico vero voto di fedeltà che io abbia mai giurato non è stato pronunciato, né poteva essere pronunciato, e l'uomo al quale l'ho giurato è morto e la promessa è infranta, già da molto tempo. Tu non mi devi nulla, né io a te. Lasciami andare.

Mentre io parlavo, collera e amarezza si rivolsero da Ashe contro me stesso e contro la mia vita, che si stendeva dietro di me come una promessa infranta. Ma Ashe non sapeva questo, e le lacrime scintillavano nei suoi occhi. Disse:

— Vuoi prendere questo, Therem? Io non ti devo nulla, ma ti amo molto. — Mi tese un pacchetto.

— No. Ho del denaro, Ashe. Lasciami andare. Devo andare da solo.

Andai avanti, e lui non mi seguì. Ma l'ombra di mio fratello mi seguiva. Avevo fatto male a parlare di lui. Avevo fatto male in tutte le cose che avevo fatto.

Non trovai alcuna fortuna ad aspettarmi nella rada. Non c'erano navi di Orgoreyn nel porto, che io potessi prendere, per essere così fuori del territorio di Karhide a mezzanotte, come era necessario per salvare la vita. Pochi uomini erano sui moli, e di questi, non c'era uno solo che non si affrettasse a dirigersi verso la propria casa; il solo che trovai, con il quale avrei potuto parlare, un pescatore che stava riparando il motore della sua imbarcazione, mi guardò una volta e poi mi voltò la schiena, senza parlare. Vedendo questo, ebbi paura. L'uomo mi conosceva; non avrebbe saputo nulla, certo, se non fosse stato avvertito. Tibe aveva inviato i suoi accoliti per bloccarmi, e impedirmi di lasciare Karhide prima che il tempo concesso fosse scaduto. Ero stato pieno di collera e di dolore, fino a quel momento, ma non di paura; non avevo pensato che l'Ordine di Esilio avesse potuto essere un semplice pretesto per l'esecuzione. Una volta scoccata la Sesta Ora, sarei stato una facile preda per i sicari di Tibe, e nessuno avrebbe potuto gridare al Delitto, ma solo Giustizia È Fatta.

Sedetti là, su un sacco di sabbia per zavorra, nel ventoso riverbero e nell'oscurità incombente del porto. Il mare lambiva e gorgogliava intorno ai pali di sostegno, e le barche da pesca dondolavano ai loro ormeggi, e lontano, all'estremità della lunga banchina, ardeva una. lampada. Sedetti a fissare la luce e, al di là di essa, le tenebre che si addensavano sul mare. Alcuni trovano uno stimolo rapido nel pericolo imminente, io no. Il mio dono più grande è la previdenza. Minacciato da vicino divento stupido, e siedo su un sacco di sabbia chiedendomi se un uomo possa arrivare o no a nuoto in Orgoreyn. Il ghiaccio si è ritirato dal Golfo di Charisune ormai da un mese o due, si potrebbe sopravvivere per qualche tempo, nell'acqua. Fino alla riva Orgota ci sono centocinquanta miglia. Io non so nuotare. Quando distolsi lo sguardo dal mare, e guardai di nuovo le strade di Kuseben, scoprii di cercare con lo sguardo Ashe, sperando che ancora lui mi stesse seguendo. Arrivato a questo punto, la vergogna mi fece uscire dallo stordimento, e fui di nuovo capace di pensare.

La corruzione o la violenza erano le cose tra le quali dovevo scegliere, se volevo trattare con quel pescatore, ancora al lavoro sulla sua barca nella banchina interna: un motore difettoso non pareva degno né dell'una, né dell'altra. Il furto, allora. Ma i motori dei pescherecci sono chiusi e bloccati. Escludere il circuito bloccato, accendere il motore, fare uscire il peschereccio dalla rada, sotto le luci delle banchine, e poi dirigersi verso Orgoreyn, senza avere mai guidato un'imbarcazione a motore, pareva un'avventura stupida e disperata. Non avevo mai condotto un'imbarcazione a motore, ma avevo condotto una barca a remi, una volta, sul Lago di Ghiaccio di Kerm; e c'era una barca a remi ormeggiata nella banchina esterna, tra due lance. Non appena la vidi, mi disposi a rubarla. Corsi lungo la banchina, sotto le lampade fisse, balzai sulla barca, slegai l'ormeggio, presi i remi e remai nelle acque gonfie della rada, dove le luci scivolarono e riverberavano sulle nere onde. Quando fui a una distanza sufficiente dalla costa, smisi di remare per risistemare lo scalmo di un remo, perché c'era qualche impaccio e io avevo, pur sperando di essere raccolto il giorno successivo da un guardiacoste o da un peschereccio Orgota, un bel po' da remare. Quando mi curvai sull'anello del remo, una grande debolezza si abbatté sul mio corpo. Ebbi l'impressione di stare per perdere i sensi, e mi afflosciai sul sedile, esausto. Era la nausea della codardia che mi stava vincendo, ma non avevo saputo che ci fosse tanta codardia nel mio stomaco, e che fosse così pesante. Alzai gli occhi e vidi due figure all'estremità del molo lontano, come due rami sobbalzanti nella luce elettrica là, sull'acqua, e allora cominciai a pensare che la mia paralisi non fosse un effetto del terrore, ma di un fucile ad estrema distanza.

Potei vedere che uno di essi imbracciava un fucile d'assalto, e se già fosse passata la mezzanotte suppongo che egli avrebbe sparato, con esso, per uccidermi. Ma il fucile d'assalto produce un forte rumore, e questo avrebbe dovuto essere spiegato. Perciò avevano usato una pistola sonica. A intensità di paralisi, una pistola sonica può raggiungere il suo campo di risonanza solo entro trenta metri, non di più. Non so quale portata abbia a intensità letale, ma non ne ero stato molto lontano, da quel limite massimo, perché ero piegato in due, come un bambino sconvolto dalla nausea. Trovavo difficile respirare, perché il campo indebolito mi aveva raggiunto al petto. Poiché ben presto ci sarebbe stata una barca a motore, con la quale essi sarebbero venuti a finirmi, non potevo perdere dell'altro tempo curvo sui miei remi, ansante e tremante. Le tenebre si stendevano dietro di me, davanti alla barca, e nelle tenebre io dovevo remare. E remai con braccia deboli, guardando sempre le mani, per assicurarmi d'impugnare i remi, perché non potevo sentire né le mani, né la stretta, tanta era la paralisi che mi intorpidiva. Arrivai così in acque gonfie e inquiete, e nelle tenebre scure, e fui nel Golfo aperto. Là dovetti fermarmi. A ogni bracciata, la debolezza nelle mie braccia aumentava. Il mio cuore continuava a battere disordinatamente, e i polmoni avevano dimenticato come fare per procurarsi l'aria. Cercai di remare, ma non fui sicuro che le mie braccia si stessero muovendo. Cercai di tirare i remi in barca, allora, ma non potei farlo. Quando il faro di un guardiacoste del porto mi centrò, nella notte, facendomi risaltare come un fiocco di neve nel catrame, non riuscii neppure a distogliere gli occhi dalla luce impietosa.

Staccarono le mie mani dai remi, mi issarono a braccia per togliermi dalla barca, e mi posarono, come un pesce morto, sul ponte del guardiacoste. Sentii che mi guardavano, ma non riuscii a capire bene quel che dicevano, se non una voce, quella del capitano, lo riconobbi dal tono di voce; lui disse — non è ancora la Sesta Ora — e di nuovo, rispondendo a un'altra voce — e questo che cosa importa, a me? Il re lo ha esiliato, io seguirò gli ordini del re, e non di uomini inferiori.

Così, opponendosi agli ordini trasmessi per radio dagli uomini di Tibe rimasti a riva, e opponendosi alle argomentazioni del suo secondo, che temeva certo una ritorsione, quell'ufficiale della Guardia Costiera di Kuseben mi portò attraverso il Golfo di Charisune, e mi posò a riva, sano e salvo, nel Porto di Shelt, in Orgoreyn. Se questo lo avesse fatto per shifgrethor, contro gli uomini di Tibe che erano capaci di uccidere un uomo disarmato, o per gentilezza d'animo, non lo so. Nusuth. - Ciò che è ammirevole è inesplicabile.

Mi alzai in piedi quando la costa Orgota diventò grigia nella nebbia del mattino, e mi costrinsi a muovere le gambe, e camminai, dalla nave alle strade del porto di Shelt, ma quando fui là, in un punto che non ricordo, caddi di nuovo. Quando mi svegliai mi ritrovai nell'Ospedale Commensale della Zona Costiera di Charisune Numero 4, Ventiquattresima Commensalità, Sennethny. Di questo fui subito certo, perché era inciso, o intagliato, in caratteri Orgota all'estremità del letto, sulla lampada accanto al letto, sulla tazza di metallo sul comodino, sugli hieb degli infermieri, sulle coperte del letto, e sul pigiama che io indossavo. Un medico venne e mi disse:

— Perché avete resistito al dothe?

— Io non ero in dothe — dissi. — Ero in un campo sonico.

— I vostri sintomi erano quelli di una persona che ha resistito alla fase di rilassamento del dothe. — Era un vecchio medico deciso, dall'atteggiamento dominatore, e alla fine mi fece ammettere che avrei potuto anche usando la forza del dothe per combattere la paralisi, remando, senza rendermi chiaramente conto di averlo fatto; e poi quel mattino, durante la fase di thangen nella quale è necessario rimanere immobili, mi ero alzato e avevo camminato e così, per poco, non mi ero ucciso. Quando tutto questo fu stabilito in modo per lui soddisfacente, mi disse che avrei potuto lasciare l'ospedale tra un paio di giorni, e proseguì verso il letto successivo. Dietro di lui venne l'Ispettore.

Dietro ogni uomo, in Orgoreyn, viene l'Ispettore.

— Nome?

Non gli chiesi il suo. Dovevo imparare a vivere senza ombre, come si vive in Orgoreyn; non offendermi inutilmente. Ma non gli diedi il mio nome completo, tralasciai il nome della mia terra, che non è affare di nessun uomo di Orgoreyn.

— Therem Harth? Non è un nome Orgota. Quale Commensalità?

— Karhide.

— Quella non è una commensalità di Orgoreyn. Dove sono i vostri documenti di ingresso e d'identificazione?

Dov'erano i miei documenti?

Ero stato considerevolmente girato e rigirato da molte persone, nelle strade di Shelt, prima che qualcuno mi avesse portato all'ospedale, dove ero giunto senza documenti, senza effetti personali, senza soprabito, senza scarpe, e senza denaro. Quando udii questo, lasciai perdere la collera e risi; in fondo all'abisso non c'era più collera. L'Ispettore si offese per la mia risata.

— Non vi rendete conto, dunque, di essere uno straniero indigente e privo d'identificazione? Come intendete ritornare a Karhide?

— In una bara.

— Vi è proibito di dare risposte inappropriate a delle domande ufficiali. Se non avete intenzione di ritornare nel vostro paese, sarete mandato alle Fattorie Volontarie, dove c'è sempre un posto per criminali, vagabondi, stranieri, e persone non identificate. Non c'è altro posto, in Orgoreyn, per gli indigenti e i sovversivi. Farete meglio a dichiarare la vostra intenzione di ritornare a Karhide entro tre giorni, o io sarò…

— Sono proscritto da Karhide.

Il medico, che nell'udire il mio nome si era voltato, interrompendo la sua visita all'altro paziente, prese in disparte l'Ispettore e iniziò con lui una rapida conversazione sottovoce. L'Ispettore cominciò ad apparire più acido di una pessima birra, e quando ritornò da me disse, impiegando molto tempo per pronunciare ogni parola, e fissandomi con aria astiosa:

— Allora presumo che vorrete dichiararmi la vostra intenzione di fare domanda del permesso di ottenere una residenza permanente nella Grande Commensalità di Orgoreyn, in attesa di ottenere e a patto di conservare un utile impiego, quale dito di una Commensalità o di una Contea?

Dissi — Sì — Il divertimento era svanito del tutto, con quella parola, permanente, una parola definitiva, se mai ce n'erano.

Dopo cinque giorni mi fu concessa la residenza permanente, in attesa della mia registrazione quale dito della Contea di Mishnory (che io avevo richiesto), e mi furono dati dei documenti provvisori d'identificazione per il viaggio fino a quella città. Avrei sofferto la fame in quei cinque giorni, se il vecchio medico non mi avesse tenuto nell'ospedale. Gli piaceva avere tra i suoi pazienti un Primo Ministro di Karhide, e il Primo Ministro gli fu molto grato.

Lavorai, per arrivare a Mishnory, come scaricatore di corriere, in una carovana partita da Shelt, che trasportava pesce fresco. Un viaggio rapido e pieno di odore di pesce, che terminò nei grandi Mercati di Mishnory Sud, dove ben presto io trovai lavoro nelle celle frigorifere. C'è sempre lavoro in quei luoghi d'estate, con il carico e la confezione e la tenuta e la spedizione dei prodotti deperibili. Ebbi tra le mani principalmente pesce, e alloggiai in un'isola vicina ai Mercati, in compagnia dei miei colleghi delle celle frigorifere; l'Isola del Pesce, la chiamavano; il nostro odore si sentiva dappertutto, e impregnava l'aria e le pareti. Ma il lavoro mi piaceva, perché grazie a esso rimanevo quasi tutto il giorno nel magazzino refrigerato. Mishnory d'estate è un bollente bagno di vapore. Le porte delle colline sono chiuse; il fiume è bollente; gli uomini sudano. Nel mese di Ockre ci furono dieci giorni e dieci notti durante i quali la temperatura non scese sotto i trentadue gradi, e un giorno il calore arrivò a 42 gradi. Costretto a uscire dal mio fresco rifugio greveolente di pesce, e a tuffarmi in quella fornace incandescente, alla fine della mia giornata di lavoro, avevo camminato per un paio di miglia fino al Lungofiume Kunderer, dove ci sono alberi e si può vedere il grande fiume, anche se è impossibile scendere fino a esso. Era diventata un'abitudine. Restavo là pigramente per molto tempo, e ritornavo infine all'Isola del Pesce attraverso la notte rovente, e soffocante. Nella mia parte di Mishnory gli abitanti rompevano le lampade stradali, per mantenere al buio e nelle tenebre le loro azioni. Ma le auto degli Ispettori perlustravano e frugavano incessantemente quelle strade buie, con i fari e con le altre luci, sottraendo ai poveri l'unica intimità che possedevano, quella della notte.

La nuova Legge sulle Registrazioni di Stranieri, promulgata nel mese di Kus, una mossa nel quadro della lotta d'ombre con Karhide, invalidò la mia precedente registrazione e mi fece perdere il lavoro, e passai un mezzo-mese aspettando nelle anticamere di una teoria infinita di Ispettori. I miei compagni di lavoro mi prestarono del denaro e del pesce rubato nei depositi, per farmi mangiare; così riuscii a ottenere una nuova registrazione prima di morire di fame. Ma avevo appreso la lezione. Mi piacevano quegli uomini duri e leali, ma essi vivevano in una trappola dalla quale era impossibile uscire, e io avevo un lavoro da fare tra persone che mi piacevano assai meno. Feci così le chiamate che avevo rimandato per tre mesi.

Il giorno dopo stavo lavando la mia camicia nella lavanderia, che si trovava nel cortile dell'Isola del Pesce, insieme a diversi altri, tutti nudi o seminudi, quando attraverso il vapore e il fetore di pesce e sporcizia e il rumore e lo sciacquio dell'acqua sentii qualcuno chiamarmi, con il nome della mia terra, che nessuno aveva ancora pronunciato in Orgoreyn: e vidi che nella lavanderia c'era il Commensale Yegey, che aveva lo stesso aspetto che gli avevo notato durante il Ricevimento per l'Ambasciatore dell'Arcipelago, tenuto nel Salone delle Cerimonie del Palazzo di Erhenrang, sette mesi prima.

— Venite, venite fuori di qui, Estraven — disse con la voce alta, forte, nasale dei ricchi di Mishnory. — Oh, lasciate perdere quella dannata camicia.

— Non ne ho un'altra.

— Allora tiratela fuori da quella brodaglia e venite. Fa caldo, qui.

Gli altri lo fissarono con acre curiosità, riconoscendo in lui un ricco, ma non sapendo che si trattava di un Commensale. Non mi piaceva che lui fosse venuto qui; avrebbe dovuto mandare qualcuno a cercarmi. Pochissimi Orgota hanno un sia pur minimo senso della decenza. Volevo farlo uscire di là al più presto. La camicia non mi serviva a nulla, bagnata, così dissi a un ragazzo senza focolare che bighellonava nel cortile di conservarla per me, fino a quando non fossi tornato… di conservarla portandola sul suo corpo. I miei debiti e l'affitto erano tutti pagati, e i documenti li tenevo nella tasca dello hieb; senza camicia, lasciai l'isola nei Mercati, e andai con Yegey, per ritornare tra le case dei potenti.

In qualità di suo «segretario», fui registrato per la terza volte nei registri di Orgoreyn, non più come dito, ma come dipendente.

I nomi non servivano, loro dovevano avere delle etichette, e dire il genere prima di vedere la cosa. Ma questa volta l'etichetta era giusta, io ero dipendente, e presto fui indotto a maledire il proposito che mi aveva portato là, a mangiare il pane di un altro uomo. Perché per un mese ancora non mi diedero alcun segno di essere più vicino a raggiungere il proposito di quanto non lo fossi stato nell'Isola del Pesce.

Nel pomeriggio piovoso dell'ultimo giorno dell'estate Yegey mi mandò a chiamare nel suo studio, dove lo trovai intento a conversare con il Commensale del Distretto di Sekeve, Obsle, che io avevo conosciuto quando egli aveva diretto la Commissione Orgota per il Commercio Navale, a Erhenrang. Piccolo e borioso, con dei piccoli occhi triangolari in un viso piatto e grasso, faceva uno strano contrasto con Yegey, tutto delicatezza e ossa. Il gentiluomo e lo scaricatore di porto, sembravano, ma erano qualcosa di più. Erano due dei Trentatré che governavano Orgoreyn; eppure, anche in questo caso, erano qualcosa di più.

Dopo uno scambio di cortesie e un bicchiere d'acquaviva Sithi, Obsle sospirò e mi disse:

— Adesso ditemi perché avete fatto quel che avete fatto a Sassinoth, Estraven, perché se mai c'è stato un uomo che io credevo incapace di errare nello scegliere il tempo di un'azione, o nel soppesare lo shifgrethor, quell'uomo eravate voi.

— La paura è stata più forte della prudenza in me, Commensale.

— Paura di che diavolo? Di che cosa avete paura, Estraven?

— Di quel che sta accadendo ora. La continuazione della lotta di prestigio nella Valle di Sinoth; l'umiliazione di Karhide, la collera che scaturisce dall'umiliazione; l'uso di quella collera da parte del Governo Karhidi.

— L'uso? A quale fine?

Obsle non conosceva le buone maniere; Yegey, delicato e formale, intervenne:

— Commensale, Lord Estraven è mio ospite, e non deve subire un interrogatorio…

— Lord Estraven risponderà alle domande quando e come gli parrà opportuno, come ha sempre fatto — disse Obsle, sorridendo, un ago nascosto in una montagna di grasso. — Lui sa di essere tra amici, qui.

— Prendo i miei amici dove li trovo, Commensale, ma non cerco più di tenerli per molto.

— Lo credo bene. Però possiamo tirare assieme una slitta senza essere kemmeri, come diciamo a Sekeve… eh? Che diavolo, lo so per quale motivo siete stato esiliato, mio caro: perché Karhide vi piaceva più del suo re.

— Direi piuttosto perché il re mi piaceva più di suo cugino.

— O perché Karhide vi piaceva più di Orgoreyn — disse Yegey. — Mi sbaglio, Lord Estraven?

— No, Commensale.

— Voi pensate, allora — disse Obsle, — che Tibe voglia governare Karhide come noi governiamo Orgoreyn… con efficienza?

— Sì. Io penso che Tibe, usando la disputa per la Valle di Sinoth come pungolo, e affilandolo a seconda delle necessità, possa nel giro di un anno operare in Karhide un cambiamento più grande di quello che l'ultimo millennio abbia visto. Egli ha un modello sul quale lavorare, il Sarf. Ed egli sa come giocare sulle paure di Argaven. Questo è più facile che tentare di suscitare il coraggio di Argaven, come ho fatto io. Se Tibe riuscirà nel suo intento, voi signori scoprirete di avere un nemico degno di voi.

Obsle annuì.

— Rinuncio allo shifgrethor — disse Yegey. — Cosa state cercando di concludere, Estraven?

— Questo: il Grande Continente potrà contenere due Orgoreyn?

— Ah, ah, ah, lo stesso pensiero, la stessa idea — disse Obsle.

— La stessa idea: me l'avete piantata in testa già da molto tempo, Estraven, e non sono più riuscito a sradicarla. La nostra ombra si fa troppo lunga. Coprirà anche Karhide. Una faida tra due Clan, sì; un assalto tra due città, sì; una disputa di frontiera e qualche stalla bruciata e qualche assassinio, sì; ma una faida tra due nazioni? Un assalto che coinvolge cinquanta milioni di anime? Oh, per il dolce latte di Meshe, ecco un'immagine che ha messo il fuoco nei miei sogni, di notte, e mi ha fatto destare coperto di sudore… Non siamo sicuri, non siamo sicuri. Voi lo sapete, Yegey; l'avete detto a modo vostro, già molte volte.

— Ormai sono tredici volte che voto contro l'accentuazione della disputa per la Valle di Sinoth. Ma con quale beneficio? La fazione del Dominio detiene venti voti sicuri, e ogni mossa di Tibe rafforza il controllo del Sarf sopra quei venti. Lui costruisce un recinto attraverso la valle, mette delle guardie lungo il recinto, armate di fucili da assalto… fucili da assalto! Credevo che li conservassero nei musei. Lui dà in pasto alla fazione del Dominio una sfida, ogni volta che i suoi membri ne hanno bisogno.

— E così rafforza Orgoreyn. Ma anche Karhide. Ogni risposta che voi date alle sue provocazioni, ogni umiliazione che infliggete a Karhide, ogni vittoria del vostro prestigio, serve a rendere più forte Karhide, finché essa non sarà vostra eguale… interamente controllata da un centro, come è ora Orgoreyn. E in Karhide non tengono i fucili da assalto nei musei. Le guardie del Re li portano, insieme alle pistole.

Yegey riempì i nostri bicchieri d'acquaviva. I nobili Orgota bevono quel fuoco prezioso, che viene portato per cinquemila miglia, sui mari nebbiosi, da Sith lontana, come se fosse birra. Obsle si asciugò le labbra e batté le palpebre.

— Ebbene — disse, — tutto questo è come io pensavo, e come io penso, in gran parte. E io penso che abbiamo una slitta da tirare insieme. Ma ho una domanda, prima che noi prendiamo le funi, Estraven. Voi avete calato completamente il cappuccio sopra i miei occhi. Adesso ditemi: che cos'erano tutte quelle storie oscure, confuse e vaghe riguardanti un Inviato dall'altra faccia della luna?

Genly Ai, allora, aveva chiesto il permesso di entrare in Orgoreyn.

— L'Inviato? È quel che dice di essere.

— E cioè…

— Un inviato di un altro mondo.

— Ora, Estraven, lasciate perdere le vostre dannate metafore oscure da karhidiano. Rinuncio allo shifgrethor, lo metto da parte. Volete rispondere?

— L'ho già fatto.

— È un essere alieno? — disse Obsle.

E Yegey:

— E ha ottenuto udienza da Re Argaven?

Risposi di sì a entrambi. Essi tacquero per un minuto, e poi entrambi cominciarono a parlare contemporaneamente, senza cercare di nascondere o dissimulare il loro interesse. Yegey amava aggirare gli ostacoli e descrivere lunghi giri viziosi, ma Obsle arrivò direttamente al punto.

— Che cos'era, allora, nei vostri piani? Avete puntato su di lui, a quanto sembra, e avete perso. Perché?

— Perché Tibe mi ha fatto inciampare. Io tenevo fissi gli occhi sulle stelle, e non ho fatto attenzione al fango nel quale stavo entrando.

— Avete affrontato l'astronomia, mio caro?

— Faremmo tutti meglio ad affrontare l'astronomia, Obsle!

— È una minaccia per noi, questo Inviato?

— Credo di no. Lui porta, a nome del suo popolo, delle offerte di comunicazione, commercio, trattato e alleanza, niente altro. È venuto solo, senz'armi né difesa, solo con un apparecchio di comunicazione, e la sua nave, che ci ha permesso di esaminare completamente. Non c'è da temerlo, penso. Eppure lui porta con sé la fine del Regno e delle Commensalità, nelle sue mani vuote.

— Perché?

— Come potremmo trattare con degli stranieri, se non come fratelli? Come potrebbe trattare, Gethen, con un'unione di ottanta mondi, se non come un mondo solo?

— Ottanta mondi? — disse Yegey, e rise, una risata inquieta.

Obsle mi fissò obliquamente, e disse:

— Vorrei pensare che voi siate stato per troppo tempo con il pazzo, nel suo palazzo, e siate diventato pazzo anche voi… Nome di Meshe! Cos'è questo fantasticare di alleanze con i soli e di trattati con la luna? Come ha fatto quel tizio a venire qui, cavalcando una cometa? Aggrappato a una meteora? Una nave, ma quale nave può galleggiare nell'aria? Nello spazio vuoto? Eppure voi non siete più pazzo di quanto non lo siate mai stato, Estraven, e cioè astutamente pazzo, sapientemente pazzo. Tutti i karhidiani sono pazzi. Guidatemi, mio signore, io vi seguo. Andate avanti!

— Io non vado da nessuna parte, Obsle. E dove dovrei andare? Voi, però, potete arrivare da qualche parte. Se voleste seguire per un poco l'Inviato, egli potrebbe mostrarvi una strada per uscire dalla Valle di Sinoth, per uscire dalla rotta infausta nella quale siamo presi.

— Molto bene. Affronterò l'astronomia, anche se sono vecchio. Dove mi condurrà?

— Verso la grandezza, se procederete più saggiamente di quanto io non abbia fatto. Signori, io sono stato con l'Inviato, ho visto la sua nave che ha attraversato il vuoto, e io so che si tratta veramente ed esattamente di un messaggero venuto da un luogo che non è di questa terra. In quanto all'onestà del suo messaggio e alla verità della sua descrizione di quell'altro luogo, non c'è alcun modo di saperlo; e si può giudicare solo come ciascuno giudica qualsiasi altro uomo; se fosse uno di noi, lo chiamerei un uomo onesto. Questo lo giudicherete da soli, forse. Ma questo è certo: in sua presenza, le linee tracciate sulla terra non sono più confini, e non sono più difese. C'è qualcuno che lancia una sfida più grande di Karhide, alle porte di Orgoreyn. Gli uomini che accetteranno questa sfida, che per primi apriranno le porte della terra, saranno i capi e le guide di noi tutti. Tutti: i Tre Continenti: tutta la terra. La nostra frontiera oggi non è più una linea tra due colline, ma la linea che il nostro pianeta descrive nel girare intorno al Sole. Giocare lo shifgrethor su qualsiasi posta minore è un'impresa stolta, ora.

Avevo carpito l'attenzione di Yegey, ma Obsle sedeva affondato nel suo grasso, osservandomi con i suoi occhi piccoli e triangolari.

— Per credere questo ci vorrà un mese — disse. — E se uscisse da una barca che non fosse la vostra, Estraven, penserei che si tratta di pura invenzione, di una rete per il nostro orgoglio, intessuta di stelle, e di raggi di luna. Ma io conosco il vostro collo duro. Troppo duro per piegarsi a simulare la disgrazia e il disonore per ingannarci. Non posso credere che stiate dicendo la verità, eppure so che una menzogna vi farebbe soffocare… Bene, bene. Egli parlerà con noi, come a quanto sembra ha parlato con voi?

— È quello che cerca: parlare, essere ascoltato. Là o qui, non fa differenza. Tibe lo ridurrà al silenzio, se cercherà di farsi ascoltare di nuovo in Karhide. Ho paura per lui, egli non sembra rendersi conto del pericolo che corre.

— Ci direte quel che sapete?

— Lo farò; ma c'è qualche motivo per cui egli non possa venire qui, a dirvelo lui stesso?

Yegey disse, mordicchiandosi delicatamente le unghie.

— Credo di no. Ha chiesto il permesso di entrare nella Commensalità. Karhide non ha fatto obiezioni. La sua richiesta è attualmente allo studio…

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