CAPITOLO VENTESIMO Una inutile impresa

In qualche punto degli appunti che Estraven aveva scritto durante la nostra traversata del Ghiaccio di Gobrin, egli si chiede per quale motivo il suo compagno ha vergogna di piangere. Anche allora avrei potuto dirgli che non si trattava tanto di vergogna, quanto di paura. Ora io andavo attraverso la Valle di Sinoth, percorrendo le ombre della sera della sua morte, nel freddo paese che si stende oltre la paura. In quel paese scoprii che si può piangere quanto si vuole, ma non c'è sollievo, non c'è niente di buono in questo.

Fui riportato a Sassinoth e imprigionato, perché ero stato in compagnia di un fuorilegge, e probabilmente perché non sapevano cos'altro fare di me. Fin dall'inizio, ancor prima che gli ordini ufficiali giungessero da Erhenrang, mi trattarono bene. La mia prigione karhidi era una stanza ammobiliata, nella Torre dei Lords-Eletti di Sassinoth; avevo un caminetto, una radio, e mi venivano dati cinque pasti abbondanti al giorno. Non era una stanza comoda. Il letto era duro, le coperte sottili, il pavimento spoglio, l'aria fredda… come tutte le stanze di Karhide. Ma mandarono un medico, nelle cui mani e nella cui voce c'era un conforto più durevole, più concreto, di tutti i lussi e i conforti che avevo trovato in Orgoreyn. Dopo il suo arrivo, credo che la porta fosse lasciata aperta. La ricordo aperta, mentre io desideravo che fosse chiusa, per il soffio d'aria fredda che veniva dal corridoio. Ma io non avevo la forza, né il coraggio, di scendere dal letto per chiudere la porta della mia prigione.

Il medico, un individuo dall'aria grave e materna, mi disse con un tono di pacifica certezza:

— Per cinque o sei mesi avete mangiato troppo poco, e avete faticato troppo. Vi siete consumato. Non c'è più niente da consumare. State disteso, riposatevi. State disteso, come i fiumi ghiacciati nelle valli durante l'inverno. State immobile. Aspettate.

Ma quando dormivo, mi trovavo sempre nel camion, rannicchiato insieme agli altri, ed eravamo tutti puzzolenti, tremanti, nudi, pressati gli uni agli altri per cercare calore, tutti meno uno. Uno giaceva da solo, contro la porta sbarrata, quello freddo, con la bocca piena di sangue raggrumato. Era il traditore. Se ne era andato da solo, abbandonandoci, abbandonandomi. Mi svegliavo pieno di collera, una collera debole e tremante che si scioglieva in lacrime deboli e tremanti.

Devo essere stato molto malato, perché ricordo alcuni degli effetti della febbre violenta, e il medico rimase con me una notte, o forse di più. Non posso ricordare queste notti, ma ricordo di avergli detto, sentendo la nota tremante, querula nella mia voce:

— Avrebbe potuto fermarsi. Ha visto le guardie. È andato a gettarsi sui loro fucili.

Il giovane medico non aveva detto niente per un poco.

— Non starete dicendo che si è ucciso?

— Forse…

— Questa è una cosa molto amara da dirsi sul conto di un amico. E non posso crederla, di Harth rem ir Estraven.

Non avevo pensato, parlando, a quanto era spregevole il suicidio per quella gente. Per loro il suicidio non è, come per noi, una scelta. È la rinuncia alla scelta, l'atto stesso del tradimento. Per un karhidiano che studiasse i nostri canoni, il delitto di Giuda non si troverebbe nel tradimento di Cristo, ma nell'atto che, sigillo ultimo della disperazione, nega ogni possibilità di perdono, di cambiamento, di redenzione, di vita: il suo suicidio.

— Allora voi non lo chiamate Estraven il Traditore?

— Né mai l'ho fatto. Siamo in molti a non aver mai creduto alle accuse contro di lui, signor Ai.

Ma non ero in grado di trovare alcun conforto in queste parole, e avevo saputo solo gridare, pervaso dallo stesso tormento:

— Allora perché gli hanno sparato? Perché è morto?

A questo egli non diede risposta, non essendocene alcuna.

Non venni mai sottoposto a un interrogatorio formale. Mi domandarono come avessi fatto a uscire dalla Fattoria Pulefen e a ritornare in Karhide, e chiesero quale fosse la destinazione e lo scopo del messaggio in codice che avevo inviato attraverso la loro radio. Risposi la verità. Quell'informazione andò direttamente a Erhenrang, raggiunse personalmente il re. L'argomento dell'astronave venne apparentemente tenuto segreto, ma la notizia della mia fuga da una prigione Orgota, il mio viaggio attraverso il Ghiaccio nel cuore dell'inverno, la mia presenza a Sassinoth, vennero riferite e discusse pubblicamente, senza alcuna restrizione. La parte avuta da Estraven nella cosa non venne menzionata per radio, e neppure fu data notizia della sua morte. Eppure tutto questo era noto. La segretezza, in Karhide, è fino a un limite straordinario una questione di discrezione, di un silenzio concordato, accettato mutualmente… un'omissione di domande, ma non un'omissione di risposte. I Bollettini parlavano soltanto dell'Inviato Signor Ai, ma tutti sapevano che era stato Harth rem ir Estraven a strapparmi dalle mani degli Orgota e ad accompagnarmi attraverso il Ghiaccio fino in Karhide, per denunciare l'impudente menzogna dei Commensali che avevano narrato della mia improvvisa morte a Mishnory, in autunno, per un attacco di febbre nera… Estraven aveva predetto gli effetti del mio ritorno in maniera abbastanza accurata; il suo errore era consistito soprattutto nel sottovalutarli. A causa dell'alieno che giaceva malato, senza agire, senza pensare, senza importarsene di nulla, in una stanza di Sassinoth, due governi caddero nel giro di dieci giorni.

Dire che un governo Orgota cade significa, naturalmente, solo che un gruppo di Commensali ha sostituito un altro gruppo di Commensali negli Uffici che controllano il corpo dei Trentatré. Certe ombre si accorciano e certe altre si allungano, come si dice in Karhide. La fazione del Sarf che mi aveva mandato a Pulefen resistette, malgrado l'imbarazzo — del resto non nuovo — di essere stata colta in palese menzogna, fino all'annuncio pubblico dato da Argaven sull'imminente arrivo della Nave Stellare in Karhide. Quel giorno il partito di Obsle, la fazione del Libero Mercato, si impadronì degli uffici direttivi dei Trentatré. Così, dopotutto, io ero stato di qualche utilità a quel gruppo.

In Karhide la caduta di un governo significa, in quasi tutte le accezioni, la caduta in disgrazia e la sostituzione di un Primo Ministro, insieme a un leggero rimpasto del kyorremy; benché l'assassinio politico, l'abdicazione, e l'insurrezione siano tutte alternative di una certa frequenza. Tibe non fece alcun tentativo di resistere. Il mio valore corrente nel gioco dello shifgrethor internazionale, più la mia vendetta (questo implicitamente) di Estraven, mi diedero, alla luce dei fatti, un peso in prestigio così superiore al suo, che egli diede le dimissioni, come più tardi appresi, ancor prima che il Governo di Erhenrang venisse a conoscenza del fatto che io avevo chiamato via radio la mia nave stellare. Aveva agito in base all'avvertimento ricevuto da Thessicher, aveva aspettato fino a quando non aveva avuto notizia della morte di Estraven, e poi aveva dato le dimissioni. Aveva ottenuto la sua sconfitta e la sua vendetta di quella sconfitta allo stesso tempo, in un colpo solo.

Quando Argaven venne completamente informato dell'accaduto, mi inviò una convocazione, una richiesta di andare immediatamente a Erhenrang, e insieme alla convocazione una somma cospicua quale rimborso spese. La Città di Sassinoth, con uguale liberalità, mandò con me il giovane dottore, perché non ero ancora in condizioni buone. Facemmo il viaggio a bordo di slitte a motore. Ricordo solo alcune parti di quel viaggio; era calmo, tranquillo e senza fretta, con lunghe soste in attesa di pressaneve che spianassero la strada, e lunghe notti passate nelle locande che sorgevano lungo la via. Probabilmente il viaggio occupò solo due o tre giorni, ma mi parve lunghissimo, e non riesco a ricordarne molto, fino al momento in cui attraversammo la Porta Nord di Erhenrang, e ci trovammo nelle strade profonde, piene d'ombra e di neve.

Allora sentii che il mio cuore s'induriva e la mente si schiariva, finalmente. Io ero stato completamente in pezzi, disintegrato nel corpo e nello spirito. Ora, benché quel viaggio agevole mi avesse stancato molto, ritrovai dentro di me della forza, qualche forza che era miracolosamente rimasta integra. Forza dell'abitudine, è probabile più di ogni altra cosa, perché finalmente mi trovavo in un luogo che conoscevo, una città nella quale avevo vissuto, e lavorato, per più di un anno. Riconoscevo le strade, le torri, i cortili severi e i sentieri e le facciate del Palazzo. Conoscevo qual era il mio compito, là. Perciò per la prima volta mi venne in mente il pensiero che, essendo morto il mio amico, dovevo portare a compimento l'impresa per la quale lui era morto. Questo era molto chiaro in quel momento, per me. Dovevo mettere la chiave di volta nell'arcata.

Alle porte del Palazzo, l'ordine che mi concerneva era quello di procedere per una delle Case degli Ospiti, all'interno delle mura del Palazzo. La mia dimora era la Dimora della Torre Rotonda, la qual cosa significava un altissimo grado di shifgrethor nella corte: non tanto il favore del re, quanto il suo riconoscimento di uno status già alto. Gli ambasciatori di potenze amichevoli erano solitamente alloggiati là. Era un ottimo segno. Per arrivarci, però, dovemmo passare davanti alla Dimora Rossa dell'Angolo, e io guardai, attraverso la porta dallo stretto arco, l'albero spoglio che tendeva i suoi rami sulla piscina, grigia di ghiaccio, e la casa che sorgeva ancora vuota e abbandonata.

Alla porta della Torre Rotonda venni accolto da una persona in hieb bianco e camicia cremisi, che portava una catena d'argento intorno al collo: Faxe, il Profeta della Fortezza di Otherhord. Alla vista del suo volto bello e gentile, il primo volto conosciuto che vedessi da moltissimi giorni, una fiumana di sollievo travolse e addolcì il mio umore di risoluzione tesa e forzata. Quando Faxe mi prese le mani, nel raro gesto di saluto karhidiano, e mi diede il benvenuto come amico, riuscii a rispondere in qualche maniera al suo calore.

Lui era stato mandato al kyorremy dal suo distretto, Sud Rer, nei primi giorni dell'autunno. L'elezione di membri del consiglio tra gli Abitanti delle Fortezze Handdara non è un evento insolito; non è però usuale che un Tessitore accetti la carica, e credo che Faxe avrebbe rifiutato, se egli non fosse stato troppo preoccupato degli effetti del governo di Tibe, e della direzione in cui esso stava portando la nazione. Così egli si era separato dalla catena rossa di Tessitore, e aveva indossato la catena d'argento del consigliere; e non aveva impiegato molto a lasciare il suo segno nella corte, perché dal mese di Thern era diventato membro dell'Heskyorremy, o Concilio Interno, che serve da contrappeso al Primo Ministro, ed era stato il re a nominarlo per quell'alto incarico. Forse Faxe stava salendo a quella posizione di eminenza dalla quale Estraven, meno di un anno prima, era caduto. Le carriere politiche, in Karhide, sono brusche, precipitose.

Nella Torre Rotonda, una casetta fredda e pomposa, Faxe e io parlammo a lungo, prima che io dovessi vedere qualcun altro, o fare qualche dichiarazione o apparizione formale. Lui mi chiese, con i suoi occhi chiari fissi su di me:

— C'è una nave che viene, allora, che discende sulla terra: una nave più grande di quella con la quale siete disceso sull'Isola di Horden, tre anni fa. È vero, questo?

— Sì. Cioè, ho inviato un messaggio che dovrebbe prepararla a discendere.

— E quando verrà?

Quando mi resi conto di non sapere neppure in quale giorno del mese fossimo, cominciai anche a capire in quali condizioni tragiche mi ero trovato, fisicamente e moralmente, negli ultimi tempi. Fui costretto a contare faticosamente i giorni, risalendo a quello precedente la morte di Estraven. Quando scoprii che l'astronave, se fosse stata alla distanza minima nel momento della chiamata, doveva già trovarsi in orbita planetaria, in attesa di una mia comunicazione, provai un'altra scossa violenta.

— Devo comunicare con la nave. Vorranno delle istruzioni. Dove desidera che discenda, il re? Dovrebbe trattarsi di una regione disabitata, e abbastanza vasta. Devo avere una trasmittente…

Tutto venne disposto rapidamente, e con facilità. Le interminabili convulsioni e frustrazioni dei miei precedenti contatti con il Governo di Erhenrang si erano fuse come ghiaccio in un fiume caldo, nel tempo del disgelo. La ruota girava… Il giorno dopo avrei avuto un'udienza dal re.

C'erano voluti sei mesi, a Estraven, per predisporre la mia prima udienza. C'era voluto tutto il resto della sua vita per disporre la seconda.

Ero troppo stanco per provare apprensione, questa volta, e c'erano cose, nella mia mente, il cui peso era assai superiore alla vergogna, o alla coscienza di me stesso. Percorsi il lungo corridoio rosso, sotto le bandiere polverose, e mi fermai davanti alla piattaforma, con i suoi tre grandi focolari, dove tre fuochi vividi scintillavano e crepitavano. Il re era seduto accanto al focolare centrale, curvo su uno sgabello intarsiato, accanto al tavolo.

— Sedetevi, signor Ai.

Sedetti dall'altra parte del focolare, di fronte ad Argaven, e vidi il suo viso alla luce delle fiamme. Pareva malato, livido e grigiastro, e vecchio. Aveva l'aspetto di una donna che ha perduto il proprio bambino, di un uomo che ha perduto suo figlio.

— Ebbene, signor Ai, così la vostra nave sta per atterrare.

— Atterrerà nelle Paludi di Athten, come avete chiesto, mio signore. La faranno discendere questa sera, all'inizio della Terza Ora.

— E se per caso sbagliassero l'atterraggio? Brucerebbero forse ogni cosa?

— Seguiranno un segnale radio direttamente fino al punto di atterraggio; è stato tutto predisposto. Non ci saranno errori.

— E quanti di loro verranno… undici? È esatto?

— Sì. Non abbastanza per averne paura, mio signore.

Le mani di Argaven si contrassero, in un gesto incompiuto.

— Io non ho più paura di voi, signor Ai.

— Ne sono lieto.

— Voi mi avete servito bene.

— Ma io non sono vostro servo.

— Lo so — disse lui, con indifferenza. Fissò il fuoco, mordicchiandosi l'interno del labbro.

— La mia trasmittente ansible è nelle mani del Sarf, a Mishnory, presumibilmente. Comunque, quando la nave scenderà, a bordo ci sarà un ansible. Da quel momento io avrò, se questo sarà accettabile per voi, la posizione di Inviato Plenipotenziario dell'Ecumene, e avrò il potere di discutere, e firmare, un trattato di alleanza con Karhide. Tutto questo potrà essere confermato da Hain e dai diversi Stabili, per mezzo dell'ansible.

— Molto bene.

Non dissi altro, perché egli non mi stava dando tutta la sua attenzione. Spostò un ceppo nel focolare, con la punta della sua scarpa, traendone così alcune scintille rosse e crepitanti.

— Perché diavolo mi ha ingannato? — domandò, con la sua voce alta e stridula, e per la prima volta mi guardò direttamente negli occhi.

— Chi? — dissi, sostenendo il suo sguardo.

— Estraven.

— Ha provveduto affinché non ingannaste voi stesso. Mi ha portato via dalla vostra vista, quando avete cominciato a favorire una fazione a me ostile. Mi ha riportato da voi, quando bastava il mio ritorno a persuadervi a ricevere la Missione dell'Ecumene, e il credito di questa impresa.

— Perché non mi ha mai detto niente su quest'altra, più grande nave?

— Perché non ne sapeva nulla; non ne ho mai parlato a nessuno, finché non sono andato in Orgoreyn.

— E una bella compagnia avete scelto laggiù per parlare delle vostre cose, voi due. Lui ha tentato di indurre gli Orgota a ricevere la vostra Missione. Ha sempre lavorato con i loro Liberi Mercanti. Non mi direte che questo non è un tradimento, forse?

— No, mio signore. Egli sapeva che, qualunque nazione avesse stabilito per prima un'alleanza con l'Ecumene, l'altra l'avrebbe seguita presto: come sarà: poiché Sith e Perunter e l'Arcipelago seguiranno, fino a quando non troverete l'unità. Lui amava molto il suo paese, mio signore, ma non serviva il suo solo paese, e voi. Serviva il padrone che anch'io servo.

— L'Ecumene? — disse Argaven, sorpreso.

— No. Il genere umano.

Parlando, non sapevo se quel che io dicevo era la verità. Era vero in parte; un aspetto della verità. Non sarebbe stato meno vero dire che le azioni di Estraven erano nate da una pura lealtà personale, un senso di responsabilità e di amicizia nei confronti di un singolo essere umano, io. Né questa sarebbe stata ancora l'intera verità.

Il sovrano non diede alcuna risposta. Il suo viso tetro, scavato, grinzoso, era di nuovo rivolto al fuoco.

— Perché avete chiamato quella vostra nave prima di notificarmi il vostro ritorno in karhide?

— Per forzarvi la mano, mio signore. Un messaggio diretto a voi avrebbe raggiunto anche Lord Tibe, che avrebbe potuto riconsegnarmi agli Orgota. O farmi fucilare. Come ha fatto fucilare il mio amico.

Il re non disse niente.

— La mia sopravvivenza personale non significa tanto, ma io ho, come avevo allora, un dovere verso Gethen e verso l'Ecumene, un compito da portare a compimento. Per prima cosa ho lanciato il segnale alla nave, per assicurarmi qualche possibilità di compiere la mia impresa. Questo è stato un consiglio di Estraven, e questo consiglio era giusto.

— Ebbene, non era sbagliato. In ogni caso, essi atterreranno qui; noi saremo i primi… E sono tutti simili a voi, eh? Tutti pervertiti, sempre in kemmer? Strana compagnia, per gareggiare onde ottenerne l'onore del ricevimento… Dite a Lord Gorchern, il ciambellano, come essi si aspettano di venire ricevuti. Provvedete affinché non ci siano offese né omissioni. Saranno alloggiati nel Palazzo, dovunque voi riteniate appropriato. Desidero mostrare loro che li onoro. Mi avete reso un paio di buoni servigi, signor Ai. Avete reso dei mentitori i Commensali, e poi degli stupidi.

— E in futuro degli alleati, mio signore.

— Lo so! — disse lui, con voce stridula. — Ma prima Karhide… prima Karhide!

Annuii.

Dopo un breve silenzio, egli disse:

— Come è stata, quella traversata del Ghiaccio?

— Non facile.

— Estraven doveva essere un compagno molto buono, per una folle traversata come quella. Era forte come il ferro. E non perdeva mai la calma. Mi dispiace che sia morto.

Non trovai alcuna risposta.

— Riceverò i vostri… connazionali in udienza domani pomeriggio, alla Seconda Ora. C'è altro da dire, adesso?

— Mio signore, vorrete revocare l'Ordine di Esilio di Estraven, per riabilitare il suo nome?

— Non ancora, signor Ai. Non precipitate le cose. C'è dell'altro?

— Niente.

— Andate, allora.

Perfino io l'avevo tradito. Avevo detto che non avrei fatto discendere la nave, fino a quando il bando che gravava sul suo nome non fosse stato revocato, e il suo nome riabilitato. Non potevo gettar via quello per cui lui era morto, insistendo sulla condizione. Non l'avrebbe fatto ritornare dall'esilio. Non da questo esilio, almeno.

Il resto della giornata fu trascorso nel predisporre, insieme a Lord Gorchern e altri dignitari della corte, il ricevimento e l'alloggio dell'equipaggio della nave stellare. Alla Seconda Ora partimmo, a bordo di slitte a motore, per le Paludi di Athten, che distavano circa trenta miglia a nord-est da Erhenrang. La località dell'atterraggio era sul bordo più vicino di quella grande regione desolata, una vasta torbiera troppo pantanosa per poter essere coltivata o colonizzata, e ora, a metà Irrem, una desolazione vasta, piatta e ghiacciata, sotto una coltre di molti metri di neve. Il segnale radio aveva funzionato per tutto il giorno, e la stazione aveva ricevuto dei segnali di conferma dalla nave.

Sugli schermi, durante la discesa, l'equipaggio doveva avere visto la linea di divisione tra il giorno e la notte stendersi attraverso il Grande Continente, lungo la frontiera, dalla Baia di Guthen al Golfo di Charisune, e le vette del Kargav ancora illuminate dai raggi del sole, come una catena di stelle nelle tenebre; perché era il tramonto quando noi, guardando in alto, vedemmo discendere una stella.

La stella scese in un grande ruggito e avvolta di splendore e gloria, e molto vapore salì ruggendo, candido come la neve intorno, quando i suoi stabilizzatori discesero in un grande lago d'acqua e fango creato dai retrorazzi; in basso, sotto il fango della palude, c'era del ghiaccio perenne, duro come granito, e la nave si fermò in perfetto equilibrio, e riposò, raffreddandosi nel lago che rapidamente tornava a gelarsi, un grande pesce aggraziato che stava in equilibrio sulla coda, argento scuro nel crepuscolo di Inverno.

Al mio fianco, Faxe di Otherhord parlò per la prima volta, dal momento del suono e dello splendore della discesa della nave delle stelle.

— Sono felice di essere vissuto fino a vedere questo — disse.

Così aveva detto Estraven quando aveva guardato il Ghiaccio, e la morte; così avrebbe detto in questa notte. Per allontanarmi dall'amaro rimpianto che mi sconvolgeva, cominciai a camminare verso la nave, sopra la neve. La nave delle stelle era già coperta di brina e ghiaccio, per i getti di raffreddamento dello scafo, e mentre io mi avvicinavo l'alto portello si aprì silenziosamente, scorrendo sui cardini invisibili, e la scaletta d'uscita uscì dall'apertura, una passerella che descriveva una curva aggraziata, fino a toccare il ghiaccio. La prima a uscire fu Lang Heo Hew, immutata, naturalmente, precisamente come l'avevo vista l'ultima volta, tre anni prima, nella mia vita, e solo un paio di settimane, nella sua. Lei guardò me, e poi Faxe, e gli altri componenti della scorta, che mi avevano seguito al luogo dell'incontro, e si fermò ai piedi della passerella. Disse solamente, in lingua karhidi:

— Sono venuta in amicizia.

Ai suoi occhi, eravamo tutti alieni. Lasciai che fosse Faxe a salutarla per primo.

Lui mi indicò a lei, e lei venne e mi prese la mano destra, nella maniera del mio popolo, guardandomi in viso.

— Oh, Genly — disse. — Non ti avevo riconosciuto!

Era strano udire la voce di una donna, dopo tanto tempo. Gli altri uscirono dalla nave, dietro mio consiglio: mostrare qualsiasi forma di sfiducia, a questo punto, avrebbe umiliato la scorta karhidiana, mettendo in gioco il loro shifgrethor. Uscirono tutti, e incontrarono i karhidiani con perfetta cortesia. Ma tutti avevano un aspetto strano, ai miei occhi, uomini e donne, benché li conoscessi così bene. Le loro voci avevano un suono strano: troppo profonde, troppo acute. Erano come una banda di animali strani e grandi, di due specie diverse: grandi scimmie dagli occhi intelligenti, tutti quanti in fregola, in kemmer… Mi presero la mano, mi toccarono, mi tennero stretto.

Riuscii a controllarmi, e a dire a Heo Hew e a Tulier quello che era necessario sapere con maggiore urgenza sulla situazione nella quale erano entrati, e questo lo dissi a bordo della slitta, nel viaggio di ritorno verso Erhenrang. Quando giungemmo al Palazzo, però, dovetti andare subito nella mia stanza.

Il medico di Sassinoth entrò. La sua voce calma, e il suo viso, un viso giovane, serio, non un viso d'uomo e non di donna, un viso umano, furono un sollievo per me, familiari, giusti… Ma lui disse, dopo avermi ordinato di andare a letto, e avermi dato una dose di un tranquillante blando:

— Ho visto i vostri colleghi Inviati. Questa è una cosa meravigliosa, la venuta di uomini dalle stelle. E pensare che questo sia accaduto nella mia vita mi dà un brivido di gioia!

Là, di nuovo, trovavo il piacere, il coraggio, che sono le cose più ammirevoli nello spirito karhidiano… e nello spirito umano… e benché io non potessi dividere queste cose con lui, negarle sarebbe stato un atto detestabile. Io dissi, senza sincerità, ma con assoluta verità:

— È davvero una cosa meravigliosa anche per loro, la venuta su di un nuovo mondo, tra una nuova umanità.

Alla fine di quella primavera, negli ultimi giorni di Tuwa, quando le inondazioni del disgelo si erano ritirate, ed era ritornato possibile viaggiare, presi una vacanza dalla mia piccola Ambasciata di Erhenrang, e mi diressi a est. La mia gente era disseminata, ormai, su tutta la superficie abitabile del pianeta. Da quando avevamo ricevuto l'autorizzazione a usare gli aerei, Heo Hew e altri tre ne avevano preso uno, volando fino a Sith e all'Arcipelago, nazioni dell'Emisfero Oceanico che io avevo interamente trascurato. Altri si trovavano in Orgoreyn, e due, riluttanti, erano andati a Perunter, dove il Disgelo non comincia mai fino a Tuwa, e ogni cosa ritorna a gelarsi (dicono) una settimana più tardi. Tulier e Ke'sta stavano facendo un eccellente lavoro a Erhenrang, e potevano affrontare tutto quel che avrebbe potuto accadere, con facilità. Non c'era nulla di urgente. Dopotutto, una nave stellare che fosse partita immediatamente da uno dei nuovi alleati di Inverno più vicini non avrebbe potuto giungere prima di diciassette anni, tempo planetario. Inverno è un mondo marginale, ai bordi della Via Lattea. Al di là di quel sistema, verso il Braccio Sud di Orione, nessun mondo era stato trovato, sul quale vivessero gli uomini. E ci vuole molta, molta strada tra le stelle, da Inverno ai mondi più ricchi e importanti dell'Ecumene, i mondi che costituiscono il Focolare della nostra razza: cinquant'anni per Hain-Davenant, una vita umana per la Terra. Non c'era fretta.

Attraversai il Kargav, questa volta per dei passi più bassi, seguendo una strada sinuosa, che percorre le alture dominando la costa del mare meridionale. Feci una visita al primo villaggio nel quale mi ero fermato, quando i pescatori mi avevano portato là dall'Isola di Horden, tre anni prima; la gente di quel Focolare mi accolse, ora come allora, senza la minima sorpresa. Passai una settimana nella grande città portuale di Thater, alla foce del Fiume Ench, e poi, nei primi giorni dell'estate, partii a piedi verso Kermlandia.

Andai a est e a sud, in quel territorio ripido e ostile, pieno di crepacci e di colline verdi e di grandi fiumi e di case solitarie, finché non giunsi al Lago di Ghiaccio. Dalla riva del lago, guardando in alto, a sud, verso le colline, vidi una luce che conoscevo: l'ammiccare, il cielo soffuso di bianco, il lucore del ghiacciaio che si stendeva più oltre, in alto, lontano. Il Ghiaccio era là.

Estre era un luogo molto antico. Il suo Focolare e gli edifici esterni erano tutti di pietra grigia, tagliata dal ripido fianco della montagna alla quale erano aggrappati. Era un luogo spoglio, pieno del suono del vento.

Battei alla porta, e la porta fu aperta. Dissi:

— Chiedo l'ospitalità del Dominio. Ero un amico di Therem di Estre.

Colui che mi aveva aperto, un individuo piccolo e snello, dall'aria grave, che non aveva più di diciannove o vent'anni, accettò le mie parole in silenzio, e in silenzio mi ammise nel Focolare. Mi accompagnò nella Casa dell'Acqua, nella Casa degli Indumenti, e nella grande cucina, e quando fu sicuro che lo straniero fosse pulito, vestito, e sfamato, mi lasciò solo in una camera da letto che guardava, da finestre profonde e strette, sul lago grigio e sulle grige foreste di thore che giacciono tra Estre e Stok. Era una terra spoglia, una casa spoglia. Il fuoco ruggiva nel profondo del focolare, dando come sempre più calore per l'occhio e lo spirito che per la carne, perché il pavimento e le mura di pietra, il vento esterno, che soffiava ululando dalle montagne e dal Ghiaccio, bevevano avidamente quasi tutto il calore che emanava dalle fiamme. Ma io non sentivo freddo, non lo sentivo più tanto come l'avevo sentito nei primi due anni passati su Inverno; ormai da molto tempo vivevo in una terra fredda.

Dopo circa un'ora il ragazzo (nell'aspetto e nei movimenti aveva la delicatezza e la guizzante grazia di una fanciulla, ma nessuna fanciulla avrebbe potuto mantenere un silenzio così cupo come il suo) venne a dirmi che il Lord di Estre mi avrebbe ricevuto, se desideravo andare da lui. Lo seguii in basso, attraverso lunghi corridoi dove si svolgeva un gioco, che mi pareva consistesse nel nascondersi e cercare. Molti bambini correvano accanto a noi, giravano intorno a noi, i più piccoli che gridavano di eccitazione, gli adolescenti che scivolavano come ombre di porta in porta, tenendosi le mani sulla bocca, per rendere muta la risata che saliva. Una creaturina grassa, di cinque o sei anni, si aggrappò alle mie gambe, poi si tuffò e prese la mano della mia scorta, cercando protezione.

— Sorve! — squittì, continuando a fissarmi sempre a occhi spalancati. — Sorve, vado a nascondermi nella birreria… — E se ne andò veloce, come un ciottolo rotondo scagliato da una fionda. Il giovane Sorve, per nulla scomposto, mi guidò più oltre, e mi fece entrare nel Focolare Interno, al cospetto del Lord di Estre.

Esvans Harth rem ir Estraven era un vecchio, che aveva oltrepassato i settant'anni, paralizzato dalle artriti ai fianchi. Sedeva eretto in una poltrona a rotelle, accanto al fuoco. Il suo viso era largo, consumato e segnato dal tempo, come una rupe in un torrente: un viso calmo, terribilmente calmo.

— Voi siete l'Inviato, Genry Ai?

— Sì.

Lui mi fissò, e io lo fissai. Therem era stato il figlio, figlio della carne, di questo vecchio signore. Therem il figlio più giovane; Arek il maggiore, quel fratello la cui voce egli aveva udito nella mia, che gli aveva parlato nel muto linguaggio del pensiero; entrambi morti, ormai. Non potevo vedere nulla del mio amico in quel vecchio viso consumato, calmo, duro, che sosteneva il mio sguardo. Là non trovai nulla, se non la certezza, la sicura realtà del fatto che Therem era morto.

La mia venuta a Estre era stata un'inutile impresa, nella speranza di trovare conforto. Non c'era conforto; e perché un pellegrinaggio al luogo dell'adolescenza del mio amico avrebbe potuto fare qualche differenza, riempire qualsiasi assenza, lenire qualsiasi rimorso? Nulla poteva essere più cambiato, ora. La mia venuta a Estre aveva, però, un altro scopo, e almeno quello potevo portarlo a compimento.

— Sono stato con vostro figlio, nei mesi prima della sua morte. Ero con lui quando è morto. Vi ho portato i diari che egli ha tenuto. E se c'è qualcosa che io possa dirvi di quei giorni…

Nessuna espressione particolare apparve sul viso del vecchio. Quella calma non poteva essere alterata. Ma il giovane, con un movimento improvviso, uscì dalle ombre, nella luce, tra la finestra e il fuoco, una luce pallida e instabile, impastata di tenebre, e parlò raucamente:

— A Erhenrang, lo chiamano ancora Estraven il Traditore.

Il vecchio Lord guardò prima il ragazzo, e poi me.

— Questo è Sorve Harth — disse. — Erede di Estre, il figlio dei miei figli.

Non esisteva alcun bando sull'incesto là, questo lo sapevo bene, ormai. Solo la stranezza di questo fatto, per me, un terrestre, e la stranezza di vedere il lampo dello spirito del mio amico in questo cupo, fiero ragazzo di provincia, mi stordì per qualche tempo. Quando parlai, la mia voce era malferma:

— Il re revocherà il bando. Therem non era un traditore. Cosa importa come lo chiamano gli stupidi?

Il vecchio Lord annuì lentamente, serenamente.

— Importa — disse.

— Avete attraversato il Ghiaccio di Gobrin insieme — domandò Sorve, — voi e lui?

— Sì.

— Mi piacerebbe udire la narrazione di questa impresa, mio nobile Lord Inviato, — disse il vecchio Esvans, con infinita calma.

Ma il ragazzo, il figlio di Therem, disse, balbettando:

— Ci racconterete come è morto?… Ci racconterete degli altri mondi lassù, tra le stelle… le altre razze degli uomini, le altre vite?

Загрузка...