CAPITOLO DICIANNOVESIMO Ritorno a casa

In una stagione buia e ventosa continuammo a viaggiare, cercando di trarre qualche incoraggiamento dalla visione delle Rocce di Esherhoth, la prima cosa che non fosse ghiaccio o neve o cielo che avevamo visto da diverse settimane. Sulla mappa, la loro posizione non era lontana dalle Paludi di Shenshey a sud, e dalla Baia di Futhen a est. Ma non si trattava di una mappa della regione del Gobrin che ispirasse fiducia. Ed eravamo stanchi. Ogni giorno che passava, eravamo un poco più stanchi.

Eravamo più vicini al bordo meridionale del Ghiaccio di Gobrin di quanto indicasse la mappa, perché cominciammo a trovare formazioni di ghiaccio di pressione e crepacci il secondo giorno della nostra deviazione a sud. Il Ghiaccio non era così perturbato e tormentato come nella regione delle Colline di Fuoco, ma era fragile, insidioso, spesso più tenero. C'erano dei pozzi nascosti, larghi decine di metri, perfino acri e acri; si trattava probabilmente di laghi, durante l'estate; falsi pavimenti di neve che avrebbero potuto crollare con un enorme ansito tutt'intorno a noi, nella sacca d'aria che si trovava mezzo metro più in basso; zone bucherellate e solcate da fori di diverse dimensioni e crepacci; e, sempre più spesso, c'erano dei grandi crepacci, antichi canyons nel Ghiaccio, alcuni vasti come gole tra le montagne, e altri larghi solo sessanta o settanta centimetri, ma profondi. Nel giorno Odyrny Nimmer (secondo il diario di Estraven, poiché io non tenevo alcun diario e avevo quasi perduto il computo del tempo, nella bianca pianura del ghiacciaio) il sole brillava chiaro, con un forte vento dal nord. Conducendo la slitta attraverso i ponti di neve, su stretti crepacci, potevamo guardare in basso, a sinistra e a destra, nei pozzi azzurrini e negli abissi dove frammenti di ghiaccio spostati dai pattini cadevano producendo una musica grande, debole, delicata, tremante, come se fili d'argento toccassero sottili piani di cristallo, cadendo. Ricordo il veloce piacere sognante, con la testa leggera e gli occhi scintillanti, del viaggio di quel mattino nella luce del sole, sopra i grandi abissi. Ma il cielo cominciò a imbiancarsi, l'aria a farsi più densa e pesante; le ombre impallidirono, l'azzurro si prosciugò, nel cielo e nella neve. Non eravamo preparati al pericolo del tempo bianco su una superficie simile. Poiché il ghiaccio era molto corrugato, io spingevo mentre Estraven tirava; avevo gli occhi sulla slitta e stavo spingendo e spingendo, con la mente occupata soltanto dal pensiero di spingere nel modo migliore, quando d'un tratto la sbarra per poco non fu strappata dalla mia mano, mentre la slitta balzava avanti, in un tuffo improvviso. Mi fermai, aggrappandomi d'istinto, e gridai, «Ehi!» a Estraven, per dirgli di rallentare, pensando che egli avesse trovato un lastrone piano e stesse accelerando sulla superficie più agevole. Ma la slitta si fermò completamente, inclinata all'ingiù, ed Estraven non era là.

Per poco non lasciai andare la sbarra della slitta, per andare a cercarlo. Fu per pura fortuna che io non lo feci. Rimasi così, fermo, guardandomi stupidamente intorno, cercando il mio compagno, e così vidi il labbro contorto del crepaccio, reso visibile dallo slittamento e dalla caduta di un'altra sezione del ponte di neve crollato. Lui era caduto come una pietra, verticalmente, e nulla impediva alla slitta di seguirlo, se non il mio peso, che tratteneva un terzo ancora dei pattini della slitta sul ghiaccio solido. La slitta continuava a scivolare avanti, inclinandosi sempre più, ma in misura infinitesimale, spinta dal peso di Estraven che era sospeso, all'interno dei suoi finimenti e delle cinghie, sull'abisso.

Calai tutto il mio peso sulla sbarra posteriore della slitta, e tirai, spinsi in basso, facendo leva, e riuscii a far indietreggiare la slitta dal bordo del crepaccio. Non fu facile. La slitta faceva resistenza. Ma spinsi sulla sbarra con tutte le mie forze, e tirai, fino a quando la slitta non cominciò faticosamente a muoversi, e poi scivolò, bruscamente, e agevolmente, in direzione opposta a quella del crepaccio. Estraven era riuscito ad aggrapparsi con le mani al bordo del crepaccio, e il suo peso ora mi aiutava. Annaspando, trascinato da quei provvidenziali finimenti che lo cingevano, riuscì a risalire dal bordo, a scavalcarlo, e cadde bocconi sul ghiaccio.

Mi inginocchiai accanto a lui, tentando di slacciare i finimenti, allarmato dal modo in cui era disteso là, passivo, a eccezione del grande movimento del suo petto che annaspava, alzandosi e abbassandosi. Le sue labbra erano cianotiche, un lato della sua faccia era ammaccato e graffiato.

Si mise a sedere, tremando, malfermo, e disse, con un sospiro rauco e sibilante:

— Azzurro… tutto azzurro… Torri negli abissi…

— Che cosa?

— Nel crepaccio. Tutto azzurro… pieno di luce.

— Ti senti bene?

Ricominciò ad allacciarsi i finimenti.

— Vai avanti tu… con la corda… con il bastone — ansimò. — Scegli la strada. Fa' attenzione.

Per ore e ore uno di noi tirava la slitta, mentre l'altro guidava, con cautela, avanzando come un gatto su un guscio di uovo, sondando ogni passo in anticipo con il bastone. Nel tempo bianco, era impossibile vedere un crepaccio fino a quando non si poteva fissare l'abisso sotto di sé… un po' troppo tardi, perché i bordi erano rientrati, e non sempre solidi. Ogni volta che si appoggiava il piede era una sorpresa, una caduta o un sobbalzo. Non c'erano ombre. Una sfera uguale, bianca, silenziosa, dove il suono non si trasmetteva, o giungeva ovattato: ci stavamo muovendo all'interno di un'immensa sfera di cristallo coperta di brina. Non c'era niente nella sfera, e non c'era niente fuori. Ma c'erano delle spaccature, nel cristallo. Sondare e fare un passo, sondare e fare un passo. Cercare con il bastone le fessure invisibili nelle quali si poteva cadere, e precipitare fuori della sfera bianca di cristallo, e cadere, cadere, cadere… Una tensione invincibile piano piano s'impadronì di tutti i miei muscoli. Diventò difficile, troppo difficile fare anche un solo passo in più.

— Che succede, Genry?

Ero fermo là, in mezzo al nulla. Le lacrime uscivano, e chiudevano le mie palpebre in una morsa di ghiaccio. Dissi:

— Ho paura di cadere.

— Ma tu sei legato alla corda — disse.

Poi, avvicinandosi e vedendo che non c'era alcun crepaccio visibile, vicino a me, capì quel che stava succedendo, e disse:

— Accampiamoci.

— Non è ancora il momento, dovremmo andare avanti.

Stava già scaricando la tenda dalla slitta.

Più tardi, dopo avere mangiato, lui disse:

— Era il momento di fermarci. Non credo che possiamo andare da questa parte. A quanto pare, il Ghiaccio discende lentamente a valle, e sarà pieno di crepacci e viscido e insidioso per tutta la strada. Se potessimo vedere, potremmo farcela: ma non nella non-ombra.

— Ma allora, come faremo a discendere sulle Paludi di Shenshey?

— Ebbene, se continuiamo a tenerci a est, invece che discendere a sud, potremmo trovarci sul ghiaccio solido fino alla Baia di Guthen. Ho visto il Ghiaccio una volta, da una barca, sulla Baia, d'estate. Si ferma contro le Colline Rosse, e discende, in fiumi di ghiaccio, fino alla Baia. Se discendessimo da uno di quei ghiacciai efferenti, potremmo andare a sud sul mare ghiacciato, fino a Karhide, e così entrare sulla costa, invece che alla frontiera; la qual cosa potrebbe essere migliore. Questo aggiungerebbe però diverse miglia al nostro viaggio… tra le venti e le cinquanta, direi. Qual è la tua opinione su questo, Genry?

— La mia opinione è che non posso andare avanti neppure per venti metri, fino a quando durerà il tempo bianco.

— Ma se uscissimo dalla regione dei crepacci…

— Oh, se uscissimo dai crepacci starei benissimo. E se il sole spunterà mai un'altra volta, tu potrai salire sulla slitta, e io ti darò un passaggio gratuito fino a Karhide.

Questo era un tipico esempio dei nostri tentativi di fare dell'umorismo, in questo stadio del viaggio; erano sempre molto stupidi, ma a volte facevano sorridere l'altro.

— Non ho niente di serio — dissi, dopo qualche secondo. — Sono solo malato di paura cronica acuta.

— La paura è molto utile. Come le tenebre; come le ombre. — Il sorriso di Estraven era una fessura strana in una maschera bruna, screpolata, gonfia, bordata di peluria nera e con due pezzi di roccia nera incastonati. — È strano che la luce del giorno non basti. Abbiamo bisogno delle ombre, se vogliamo camminare.

— Dammi il tuo quaderno, un momento.

Lui aveva appena finito di annotare il tragitto di quel giorno, e aveva fatto alcuni calcoli sulle miglia percorse e sulle razioni. Spinse verso di me il quadernetto e la matita a carboncino, scostandosi appena dalla stufa Chabe che ci divideva. Sul foglio bianco incollato alla controcopertina nera, tracciai la doppia curva all'interno del circolo, e annerii la metà yin del simbolo, poi restituii il quaderno al mio compagno.

— Conosci questo segno?

Lo guardò a lungo, con espressione strana, ma poi disse:

— No.

— Lo si è trovato sulla Terra, e su Hain-Davenant, e su Chiffewar. È yin e yang. La luce è la mano sinistra delle tenebre… era così il verso? Luce, tenebre. Paura, coraggio. Freddo, caldo. Femmina, maschio. Sei tu. Therem. Entrambi e uno. Un'ombra sulla neve.

Il giorno dopo, ci dirigemmo un po' a nord-est, attraverso la bianca assenza di ogni cosa, fino a quando non ci furono più fessure, e spaccature, nel pavimento del nulla: un giorno di viaggio. Le razioni erano ridotte di 2/3, e avevamo paura che il percorso più lungo ci privasse completamente di cibo. A me sembrava che questo, dopotutto, non avesse molta importanza, essendo la differenza tra poco e niente troppo sottile per essere valutata. Estraven, però, era sulla pista della sua fortuna, seguendo quello che sembrava essere una premonizione o un'intuizione, ma che poteva essere esperienza applicata e ragionamento. Andammo a est per quattro giorni, quattro dei tragitti più lunghi che mai avessimo fatto sul ghiaccio, tra le diciotto e le venti miglia al giorno, e poi il tempo calmo e fatto di nulla si ruppe, e andò in pezzi, trasformandosi in un vorticare, vorticare, vorticare di minuscole particelle di neve, davanti, dietro, ai fianchi, negli occhi, una tempesta che iniziò non appena la luce impallidì e si spense. Giacemmo nella tenda per tre giorni, mentre la tormenta urlava, urlava contro di noi, lunga tre giorni, un urlo interminabile, inarticolato, carico d'odio che usciva da polmoni che non respiravano.

Mi costringerà a gridare a mia volta, a rispondere - dissi a Estraven, nel linguaggio della mente.

E lui, con quel suo formalismo esitante che distingueva il suo rapporto mentale:

— È inutile. Non ascolterà.

Dormimmo, ora dopo ora, mangiammo un poco, curammo le nostre infiammazioni, le tracce di congelamento, la pelle, le ammaccature, parlammo con il linguaggio della mente, e dormimmo di nuovo. L'urlo di tre giorni diminuì, si spense in un ululato lamentoso, poi in un singhiozzo, e infine smorì nel silenzio. Venne giorno. Venne la luce. Attraverso l'apertura della tenda brillò verso di noi la lucentezza del cielo. Illuminava il cuore, quella luce, benché fossimo troppo stanchi e logori per mostrare il nostro sollievo in alacrità o entusiasmo di movimento. Togliemmo l'accampamento… ci vollero quasi due ore, perché noi andavamo lenti e curvi, come due vecchi… e partimmo. Il percorso era in discesa, con l'inclinazione lieve ma inconfondibile; la crosta di ghiaccio e neve era perfetta, per gli sci. Il sole brillava sopra di noi. Il termometro, a metà mattina, indicò -8°. Il percorso sembrava ridarci le forze, e così andammo veloci, con facilità che da tempo non conoscevamo. Quel giorno viaggiammo fino a quando nel cielo di cristallo non apparvero le stelle.

A cena, Estraven servì razioni complete. A quel ritmo, ne avevamo solo per altri sette giorni.

— La ruota gira — mi disse, con serenità. — Per viaggiare bene, dobbiamo mangiare.

— Mangia, bevi, e sii lieto — dissi io. Il cibo mi aveva messo di ottimo umore. Risi scompostamente delle mie stesse parole. — Tutta una cosa… una sola… mangiare-bere-rallegrarsi. Si può essere lieti senza mangiare, forse? — Questo mi pareva un mistero, pari a quello dello yin e yang, di quel circolo che era uno e due, ma non durò, non durò affatto. Qualcosa nell'espressione di Estraven dissipò l'incantesimo e il mistero. Allora mi venne voglia di piangere, ma riuscii a trattenermi. Estraven non era forte come me, e non sarebbe stato onesto, avrebbe fatto piangere anche lui. Lui era già addormentato; si era addormentato ancora seduto con la ciotola di cibo sulle ginocchia. Non era degno di lui, essere così poco metodico. Ma non era una cattiva idea, dormire.

Ci svegliammo piuttosto tardi, il mattino dopo, facemmo una colazione doppia, e poi ci mettemmo i finimenti e tirammo la nostra slitta leggera, leggera, fino al bordo del mondo.

Sotto il bordo del mondo, che era un pendio ripido di bianco e rosso in una pallida luce meridiana, giaceva silenziosamente il mare gelato: la Baia di Guthen, gelata da una riva all'altra, e da Karhide fino al Polo Nord.

Per discendere fino al mare di ghiaccio, attraverso le contorte, spezzate barriere, e trincee, e gole e contrafforti del Ghiaccio che spingeva contro le pendici delle Colline Rosse, ci volle tutto quel pomeriggio, e il giorno successivo. In quel secondo giorno, abbandonammo la nostra slitta. Ci facemmo degli zaini; con la tenda quale carico maggiore di uno zaino, e i sacchi a pelo sulla schiena del compagno, e il cibo distribuito in parti uguali, avevamo da portare meno di venticinque libbre a testa; aggiunsi al mio zaino, che non era uno zaino, anche la stufa Chabe, e dovevo portare ugualmente meno di trenta libbre. Era bello finalmente, essere liberi dal compito di dover tirare e spingere e sollevare e muovere quella slitta, e lo dissi a Estraven, durante il tragitto. Lui lanciò uno sguardo dietro di sé, alla slitta che era un frammento, un rifiuto, in quell'immenso tormento di ghiaccio e di rocce rossigne.

— Si è comportata bene — disse.

La sua fedeltà era estesa senza sproporzioni alle cose, le cose pazienti, ostinate, fidate che noi usiamo e alle quali ci abituiamo, le cose che vivono con noi e con le quali e grazie alle quali viviamo. Aveva nostalgia della slitta, me ne accorsi. Era addolorato, nel doverla lasciare. Ne sentiva la mancanza.

Quella sera, la settantacinquesima del nostro viaggio, il nostro cinquantunesimo giorno sull'altopiano di ghiaccio, Harhahad Anner, discendemmo dal Ghiaccio di Gobrin sul mare ghiacciato della Baia di Guthen. Viaggiammo anche questa volta a lungo e fino a tardi, fin quando non cadde la notte. L'aria era molto fredda, ma limpida e immobile, e la lucida superficie di ghiaccio, pulita e sgombera, senza il peso della slitta da portare con noi, era un invito per i nostri sci. Quando quella notte ci accampammo trovai strano, bizzarro pensare che sotto di noi non c'era più un miglio di ghiaccio, ma solo pochi metri, sotto i quali si stendeva l'acqua salata. Ma non passammo molto tempo a pensare. Mangiammo, e poi dormimmo.

All'alba, di nuovo una giornata serena, limpida, pur se terribilmente fredda, rigida, sotto i -25° allo spuntare del sole; guardando a sud, potevamo vedere la linea costiera, rigonfia qua e là nelle lingue avanzanti del ghiacciaio, allontanarsi sempre più, verso l'orizzonte meridionale, quasi in linea retta. Dapprima la seguimmo tenendoci vicinissimi alla terra. Un vento del nord ci aiutò ad andare più veloci, e noi sciammo affiancati, fino a quando non fummo accanto all'imboccatura di una valle, tra due alte colline color arancio; da quella gola venne ululando un vento di bufera, che ci abbatté entrambi come birilli. Il vento ci portò a est, e faticosamente ci allontanammo dalla costa, e quando fummo sulla livellata pianura che d'estate sarebbe ritornata un mare, finalmente riuscimmo a rialzarci in piedi, e potemmo riprendere la marcia.

— Il Ghiaccio di Gobrin ci ha sputati dalla sua bocca — dissi.

Il giorno dopo, la curva verso est della linea costiera fu evidente, direttamente davanti a noi. Alla nostra destra c'era Orgoreyn, ma quella curva azzurra, davanti a noi, era Karhide.

In quel giorno consumammo i nostri ultimi grani di Orsh, e le ultime riserve, pochi grammi, di kadik; ci erano rimaste, ormai, due libbre a testa di gichy-michy, e sei once di zucchero.

Non riesco a descrivere molto bene quegli ultimi giorni del nostro viaggio, me ne accorgo ora, perché non riesco realmente a ricordarli. La fame può affinare la percezione, ma non quando essa è combinata all'estrema stanchezza; suppongo che tutti i miei sensi fossero intorpiditi, plumbei, carichi di quella stanchezza accumulata nei lunghi giorni del viaggio. Ricordo di avere sofferto di crampi allo stomaco, i crampi della fame, ma il ricordo non è associato al dolore, i miei sensi non riuscivano a trasmettermelo, probabilmente. Avevo, mi sembra di ricordare, una sensazione vaga, continuamente, un senso di liberazione, di avere superato qualcosa, di gioia; e inoltre, la sensazione di avere un sonno tremendo, schiacciante, insopportabile, quasi. Raggiungemmo la terra il dodici, Posthe Anner, e ci inerpicammo su una spiaggia ghiacciata, addentrandoci poi nella desolazione rocciosa e nevosa della Costa di Guthen.

Eravamo in Karhide. Avevamo raggiunto la nostra destinazione. Poco mancò che non si trattasse di una vittoria inutile, perché i nostri zaini erano vuoti.

Per celebrare il nostro arrivo il nostro festino fu solo a base di acqua bollente. Il mattino dopo ci alzammo e andammo alla ricerca di una strada, di un centro abitato, di qualcosa. Si trattava di una regione desolata, e non ne possedevamo una mappa. Le strade potevano essere sotto due o tre metri di neve, se ne esistevano, e forse ne attraversammo diverse, senza neppure accorgercene. Non c'era alcun segno di coltivazioni. Quel giorno ci spingemmo a sud-ovest, alla cieca, e lo stesso il giorno dopo, e alla sera del giorno dopo, vedendo una luce ardere su una lontana collina, attraverso le ombre del crepuscolo e la neve che cadeva, sottile e rada, nessuno di noi riuscì a dire qualcosa, per qualche tempo. Restammo fermi, a guardare. Finalmente il mio compagno disse, raucamente:

— È una luce, quella?

La notte era caduta già da molto tempo, quando finalmente giungemmo, barcollando, quasi cadendo, in un villaggio karhidi, una strada tra case nere, dal tetto alto, la neve pressata e accumulata fino alle porte invernali. Ci fermammo alla locanda, attraverso le finestre strette della quale usciva, in fessure e raggi e frecce, la luce gialla che avevamo visto tra le colline bianche d'inverno. Aprimmo la porta, ed entrammo.

Era Odsordny Anner, l'ottantunesimo giorno del nostro viaggio; avevamo undici giorni di ritardo sul programma di Estraven. Lui aveva calcolato con esattezza le nostre provviste di cibo; settantotto giorni, al massimo. Avevamo percorso 840 miglia, la misurazione della slitta più una supposizione per quegli ultimi giorni, dopo l'abbandono della slitta. Molte di queste miglia erano state perdute rifacendo la strada già percorsa, e se avessimo avuto realmente ottocento miglia da coprire, non ce l'avremmo mai fatta; quando finalmente avemmo una buona mappa, calcolammo che la distanza tra la Fattoria Pulefen e questo villaggio era meno di 730 miglia. Tutte quelle miglia, e tutti quei giorni, erano stati di desolazione, attraverso bianche distese senza case, senza una parola umana: roccia, ghiaccio, cielo, e silenzio: niente altro, per ottantuno giorni, se non la compagnia l'uno dell'altro.

Ed entrammo in una grande sala, illuminata vividamente, bollente e fumante, piena di cibo e degli odori del cibo, e di persone e delle voci delle persone. Io mi aggrappai alla spalla di Estraven. Volti stranieri si girarono verso di noi, occhi stranieri, volti strani e occhi strani. Avevo dimenticato che esistesse qualcuno, tra i vivi, che non avesse l'aspetto e i lineamenti di Estraven. Fui preso dal terrore.

In realtà, si trattava di una stanzetta piuttosto piccola, e la folla di stranieri che vi si trovava era composta da sette od otto persone, le quali certamente erano rimaste sorprese, e spaventate quanto me, almeno per un poco. Nessuno viene nel Dominio di Kurkurast in pieno inverno, dal nord, di notte. Ci guardarono, attoniti, e socchiusero gli occhi, ansiosi, e tutte le voci tacevano, e c'era silenzio.

Estraven parlò, un mormorio appena udibile.

— Domandiamo l'ospitalità del Dominio.

Rumore, brusio, confusione, allarme, benvenuto.

— Siamo venuti attraverso il Ghiaccio di Gobrin.

Ancor più rumore, voci, domande; si affollarono intorno a noi.

— Volete aiutare il mio amico?

Mi era parso di averlo detto io, ma era stato Estraven, invece. Qualcuno mi aiutava a sedere. Ci portarono del cibo; ci aiutarono, ci curarono, ci accolsero, ci diedero il benvenuto, come se fossimo ritornati a casa da un lungo viaggio.

Anime avvolte dall'oscurità, primitive, appassionate, ignoranti, contadini di una terra povera, la loro generosità diede una conclusione nobile a quel duro viaggio. Diedero con entrambe le mani, generosamente, senza fermarsi. Non misurarono, non contarono, non esitarono. E così Estraven ricevette quel che essi ci davano, come un Lord tra i lords suoi pari, o come un mendicante tra i mendicanti, un uomo tra la gente del suo popolo.

Per gli abitanti di quel villaggio di contadini e pescatori, gente povera che vive sul bordo del bordo, all'estremo limite abitabile di un continente a malapena abitabile, l'onestà è essenziale come il cibo. Devono comportarsi con giustizia e onestà l'uno con l'altro; non c'è abbastanza per ingannare, giocare, nascondersi. Estraven sapeva questo, e quando dopo un giorno o due essi cominciarono a chiedere, discreti e indiretti, con il debito riguardo per lo shifgrethor, perché noi avevamo scelto di passare un inverno a viaggiare sul Ghiaccio di Gobrin, egli rispose subito:

— Il silenzio non è quel che io dovrei scegliere, eppure mi è più conveniente di una menzogna.

— È ben noto che degli uomini d'onore possono essere messi fuori della legge, eppure la loro ombra non diminuisce, — disse il cuoco della taverna, che nel villaggio era secondo soltanto al capo, e la cui taverna era una specie di soggiorno dell'intero Dominio, d'inverno.

— Una persona può essere messa fuorilegge in Karhide, un'altra in Orgoreyn — disse Estraven.

— Vero; e una persona dal suo clan, un'altra dal re di Erhenrang.

— Il re non diminuisce l'ombra di nessun uomo, per quanto egli possa tentare di farlo — fece notare Estraven, e il cuore parve soddisfatto. Se fosse stato il clan di Estraven a scacciarlo, lui sarebbe stato un individuo sospetto, ma le censure del re non erano importanti. E in quanto a me, evidentemente uno straniero e di conseguenza colui che era stato messo fuorilegge in Orgoreyn, questo era semmai un titolo di credito.

Non dicemmo mai i nostri nomi a coloro che ci avevano ospitato nel Dominio di Kurkurast. Estraven era molto riluttante a usare un nome falso, e i nostri veri nomi non potevano essere pronunciati. Era, dopotutto, un crimine parlare a Estraven, e perciò ospitarlo, vestirlo e sfamarlo come quella gente aveva fatto doveva essere un delitto assai peggiore. Anche un villaggio remoto della Costa di Guthen possedeva una radio, e gli abitanti non avrebbero potuto proclamare a loro scusante l'ignoranza dell'Ordine di Esilio; solo una reale ignoranza dell'identità dei loro ospiti avrebbe potuto fornire loro una scusante. La loro vulnerabilità pesava sulla mente di Estraven, ancor prima che io avessi potuto pensarci. La terza notte egli venne nella mia stanza, per discutere la nostra prossima mossa. Un villaggio karhidi somiglia a un antico castello della Terra, nel fatto di non avere, di norma, delle abitazioni separate, private; oppure di averne pochissime. Eppure negli edifici alti, irregolari e antichi del Focolare, il Commercio, il Condominio (non esisteva un Lord di Kurkurast) e la Casa Esterna, ciascuno dei cinquecento abitanti del villaggio poteva trovare isolamento, perfino quello, nelle stanze di quegli antichi corridoi, dalle pareti di quasi un metro di spessore. Ci era stata data una stanza a testa, all'ultimo piano del Focolare. Ero seduto nella mia, accanto al fuoco, un fuoco piccolo, caldo, dall'aroma penetrante, di torba delle Paludi di Shenshey, quando entrò Estraven. Egli disse:

— Dobbiamo andarcene presto da qui, Genry.

Lo ricordo bene, in piedi, nelle ombre della stanza illuminata dal fuoco, scalzo, e con indosso solo i larghi calzoni di pelliccia che il capo gli aveva dato. Nell'intimità, e in quello che considerano il calore, delle loro case, i karhidiani spesso girano seminudi, o nudi del tutto. Nel nostro viaggio, Estraven aveva perduto tutta la solidità compatta, uniforme che contraddistingue il fisico getheniano; era magro e segnato, e il suo viso era bruciato dal freddo, quasi che fosse stato esposto al fuoco. Era una nera, dura, e sempre sfuggente figura in quella luce rapida, guizzante e irrequieta.

— Dove?

— A sud-ovest, penso. Verso la frontiera. Il nostro primo compito è quello di trovare una radio trasmittente, abbastanza potente da permetterti di chiamare la tua nave. Dopo questo potremo trovare un nascondiglio, oppure tornarcene in Orgoreyn per qualche tempo, allo scopo di evitare che una punizione cada su coloro che qui ci stanno aiutando.

— Come farai a ritornare in Orgoreyn?

— Come ho fatto l'altra volta… attraverso la frontiera. Gli Orgota non hanno niente contro di me.

— Dove potremo trovare una trasmittente?

— Non prima di Sassinoth.

Sobbalzai. E lui sorrise.

— Non ce ne sono, più vicino?

— Centocinquanta miglia, non di più; abbiamo percorso più strada, su un terreno peggiore. Ci sono delle strade ovunque; la gente ci accoglierà; potremo ottenere anche un passaggio, su una slitta a motore.

Assentii, ma ero depresso all'idea di un'altra fase del nostro viaggio invernale, e questa volta non verso un rifugio, ma di nuovo verso quella maledetta frontiera, dove Estraven avrebbe potuto ritornare in esilio, lasciandomi solo. La prospettiva era brutta.

Meditai su queste cose, e alla fine dissi:

— Ci sarà una condizione che Karhide dovrà portare a compimento, prima di poter entrare nell'Ecumene. Argaven deve revocare il tuo esilio.

Lui non disse niente, ma rimase a guardare il fuoco.

— Parlo sul serio — insistei. — Prima questo, poi il resto.

— Ti ringrazio, Genry — mi disse. La sua voce, quando parlava piano come in quel momento, aveva il timbro di una voce di donna, calda e carezzevole. Mi guardò, gentilmente, senza sorridere. — Ma è ormai molto tempo che non mi aspetto di vedere più la mia casa. Sono un esule ormai da vent'anni, vedi. Venti anni di esilio. Questo bando non è molto diverso. Saprò badare a me stesso; e tu farai bene a pensare a te, e al tuo Ecumene; e questo lo devi fare da solo. Ma stiamo dicendo tutte queste cose troppo presto. Di' alla tua nave di scendere! Quando sarà fatto questo, allora penserò a quel che segue.

Restammo per altri due giorni a Kurkurast, riposandoci e nutrendoci bene, aspettando un pressaneve che doveva giungere dal sud, e ci avrebbe dato un passaggio al ritorno. I nostri ospiti fecero narrare a Estraven l'intera storia del nostro attraversamento del Ghiaccio. Estraven la narrò come solo una persona nata e cresciuta in una tradizione letteraria tramandata oralmente avrebbe potuto narrare una storia, così che la «traversata del Gobrin» divenne una vera saga epica, piena di locuzioni tradizionali e perfino di episodi classici, rimanendo, malgrado ciò, esatta e vivida, dal fuoco sulfureo e dalla nube nera e ostile del passo tra Drumner e Dremegole agli uragani di vento urlanti che uscivano dalle gole montuose per spazzare con violenza la Baia di Guthen; senza trascurare degli interludi comici, come la sua caduta nel crepaccio, e mistici, quando egli parlò dei suoni e dei silenzi del Ghiaccio, del tempo bianco dove le ombre non esistevano, delle tenebre della notte. Io ascoltai, affascinato come tutti gli altri, fissando il volto scuro del mio amico.

Lasciammo Kurkurast all'interno della cabina di un pressaneve; stipati come sardine, a stretto contatto di gomito l'uno dell'altro; un pressaneve era un potente veicolo a motore che spianava e pressava la neve sulle strade di Karhide, il metodo più sicuro, e forse l'unico, per mantenere aperte le strade durante l'inverno; perché il tentativo di usare degli spartineve per rimuovere la bianca coltre delle strade, tenendole sgombre, avrebbe occupato metà del tempo e del denaro del regno, e d'inverno, comunque, tutto il traffico si volge sui pattini. Il pressaneve avanzò alla velocità di due miglia all'ora, e ci portò nel villaggio seguente, il più vicino a sud di Kurkurast, in piena notte. In questo villaggio, come sempre, ci venne dato il benvenuto, e fummo accolti, sfamati, e ospitati per la notte; il giorno dopo partimmo di là a piedi. Eravamo ora all'interno delle colline costiere che schermano l'entroterra dall'impeto maggiore del vento del nord che spira nella Baia di Guthen, riparati da quella barriera naturale, in una regione più popolata, e così andammo non da un accampamento all'altro, ma da un Focolare all'altro. Un paio di volte ottenemmo dei passaggi da slitte a motore, una volta per più di trenta miglia. Le strade, malgrado le frequenti e copiose precipitazioni nevose, erano ben pressate, e chiaramente tracciate e riconoscibili. C'era sempre del cibo nei nostri zaini, un ricordo degli ospiti della notte precedente; alla fine del percorso di una giornata, c'era sempre un tetto, e c'era sempre un fuoco.

Eppure quegli otto o nove giorni di facile viaggio, di tranquillo procedere attraverso una terra ospitale, furono la parte più dura e più spaventosa di tutto il nostro viaggio, peggiore ancora della scalata fino al ghiacciaio, peggiore ancora degli ultimi giorni di fame e stenti. La saga era finita, apparteneva al Ghiaccio. Eravamo molto stanchi. Stavamo andando nella direzione sbagliata. Non c'era più alcuna gioia, in noi.

— A volte bisogna andare contro a come gira la ruota — disse Estraven, più volte. Era fiero come sempre, ma nel suo modo di camminare, nella sua voce, nel suo atteggiamento, il vigore era stato sostituito dalla pazienza, e la certezza da una testarda risoluzione. Era assai taciturno, ora, né voleva parlare molto con me telepaticamente.

Giungemmo a Sassinoth. Una città di molte migliaia di abitanti, inerpicata sulle colline, che dominavano l'Ey ghiacciato; tetti bianchi, pareti grige, colline chiazzate dal nero di foreste e sporgenze rocciose, campi e fiumi bianchi; dall'altra parte del fiume, la contesa Valle di Sinoth, tutta bianca…

Giungemmo là quasi a mani vuote. Quasi tutto quel che ci era rimasto, dell'equipaggiamento usato nella traversata del Ghiaccio, era stato dato agli ospiti gentili che avevamo trovato lungo la strada, e ormai ci rimanevano soltanto la stufa Chabe, gli sci, e gli abiti che indossavamo. Così, leggeri, sgravati dal carico che ci aveva accompagnati nelle ore e nei giorni della traversata, procedemmo per la nostra strada, chiedendo informazioni sulla via da percorrere solo un paio di volte, non entrando nella città, ma dirigendoci verso una fattoria vicina. Era un posto misero, che non faceva parte di un Dominio, ma era soltanto una fattoria indipendente, sotto l'Amministrazione della Valle di Sinoth. Quando Estraven era stato un giovane segretario di quell'Amministrazione, il proprietario era stato un suo amico, e anzi era stato Estraven a comprare quella fattoria per lui, un anno o due prima, quando era stato intento ad aiutare la popolazione a stabilirsi a est dell'Ey, nella speranza di eliminare i motivi della disputa sulla proprietà della Valle di Sinoth. Fu lo stesso fattore ad aprirci la porta, un uomo massiccio, dalla voce sommessa, che aveva circa l'età di Estraven. Il suo nome era Thessicher.

Estraven aveva attraversato questa regione, tenendosi il cappuccio ben calato sul viso, per nascondere i suoi lineamenti. Aveva paura di essere riconosciuto, qui. Ma non c'era bisogno, forse, di tante precauzioni; ci voleva un occhio molto acuto per riconoscere Harth rem ir Estraven nel magro viandante logorato dall'inverno, Thessicher continuava a fissarlo, nascostamente, perché evidentemente non riusciva a credere che lui fosse quel che diceva di essere.

Thessicher ci fece entrare, e la sua ospitalità era degna di quella della regione, benché i suoi mezzi fossero assai piccoli. Ma si comportava con disagio, con noi, era inquieto per la nostra presenza, avrebbe preferito non averci là. Era comprensibile; lui rischiava la confisca della sua proprietà, dandoci riparo. Poiché lui doveva quella proprietà a Estraven, e in quel momento avrebbe potuto trovarsi senza niente, come noi, se Estraven non avesse provveduto alle sue necessità, non sembrava ingiusto chiedergli di correre qualche rischio, in cambio. Il mio amico, però, chiese il suo aiuto non per ricambiare quanto era stato dato, ma per una questione di amicizia, contando non sull'obbligo di Thessicher, ma sul suo affetto. E infatti Thessicher si sgelò, dopo che il suo allarme fu passato, e con tipica volubilità karhidi diventò nostalgico ed espansivo, ricordando i vecchi tempi e le vecchie conoscenze insieme a Estraven per quasi tutta la notte, accanto al focolare. Quando Estraven gli domandò se non avesse qualche idea sul luogo in cui trovare un nascondiglio, qualche fattoria deserta o isolata, dove un uomo bandito dal regno avrebbe potuto nascondersi per un mese o due, nella speranza di una revoca del suo esilio, Thessicher disse immediatamente:

— Restate con me.

Gli occhi di Estraven s'illuminarono a queste parole, ma egli rifiutò; e dichiarandosi d'accordo sul fatto che il mio amico non sarebbe stato molto sicuro, così vicino a Sassinoth. Thessicher promise di trovargli un nascondiglio. Non sarebbe stato difficile, disse, se Estraven avesse assunto un nome falso e si fosse fatto assumere come cuoco o agricoltore, una cosa forse non piacevole, ma certamente migliore di un ritorno in Orgoreyn.

— Cosa diavolo faresti in Orgoreyn? Di che cosa vivresti, eh?

— Nella Commensalità — disse il mio amico, con una lieve traccia di quel suo sorriso da lontra, — forniscono un lavoro a tutte le Unità, sai. Non ci sarebbero problemi. Ma preferirei restare in Karhide… se tu pensi davvero che la cosa possa essere risolta…

Avevamo tenuto la stufa Chabe, l'unica cosa di qualche valore che ci era rimasta. La fedele stufa ci servì, in un modo o nell'altro, fino al termine del nostro viaggio. Il mattino dopo il nostro arrivo alla fattoria di Thessicher, presi la stufa e, con gli sci, discesi in città. Estraven naturalmente non venne con me, ma mi aveva spiegato quel che dovevo fare, e tutto andò bene. Vendetti la stufa al Commercio della Città (ogni Dominio ha il suo Commercio, che può essere paragonato, sia pure in un'accezione più vasta, a quello che noi conosciamo come un Mercato), con una punta di rincrescimento, poi presi la bella somma di denaro che avevo ricavato, e risalii la collina, giungendo al piccolo collegio dei Mestieri e delle Professioni, dove si trovava la stazione radio, e acquistai dieci minuti di «trasmissione privata per ascolto privato». Tutte le stazioni tenevano un certo periodo di tempo, durante la giornata, per simili trasmissioni private a onde corte; poiché quasi tutte venivano fatte da mercanti ai loro agenti d'oltremare, o ai loro clienti, nell'Arcipelago, a Sith, o a Perunter, il costo è piuttosto alto, ma non irragionevole. Minore, in ogni caso, del costo di una stufa Chabe di seconda mano. I miei dieci minuti sarebbero stati l'inizio della Terza Ora, quel pomeriggio. Non volevo sciare avanti e indietro per tutta la giornata, dalla fattoria di Thessicher in città e così via, così rimasi a vagabondare per Sassinoth, e a poco prezzo consumai una buona e abbondante colazione in una delle taverne. Senza dubbio la cucina karhidi era migliore di quella Orgota. Mangiando, ricordai il commento di Estraven a questo riguardo, quando gli avevo chiesto se odiava Orgoreyn; ricordai la sua voce, la notte prima, quando aveva detto in tono blando, tranquillo: «Preferirei restare in Karhide…» E mi domandai, non per la prima volta, che cosa fosse il patriottismo, in che cosa consistesse realmente l'amore per il proprio paese, da dove e come sorgesse quella lealtà struggente che aveva fatto tremare la voce del mio amico: e come un amore così vero potesse diventare, troppo spesso, una cosa bigotta tanto stupida e meschina e volgare. In quale punto, in quale momento ciò che è giusto diventa sbagliato, ciò che è sano diventa malato? era questa la mia domanda, in quel momento.

Dopo colazione, continuai le mie peregrinazioni per Sassinoth. L'operosità della città, i negozi e i mercati e le strade, piene di animazione malgrado la neve e la temperatura gelida, tutte queste cose mi parevano un gioco, irreale, che stordiva. Non ero ancora uscito dalla solitudine del Ghiaccio. Ero a disagio, in mezzo a gente estranea, e sentivo costantemente la mancanza di Estraven, accanto a me.

Salii la strada nevosa della collina quando già le ombre del crepuscolo stavano calando intorno, raggiunsi il Collegio e là venni istruito sul modo di usare la trasmittente. Al momento stabilito lanciai il segnale di risveglio al satellite-relé, che si trovava in un'orbita fissa a circa 500 chilometri di altezza, sopra la regione meridionale di Karhide. La presenza di quel satellite artificiale era una forma di assicurazione contro i rischi di una situazione come quella nella quale mi trovavo ora, dopo avere perduto il mio ansible, e perciò nell'impossibilità di segnalare a Ollul la necessità di trasmettere l'ordine all'astronave in orbita solare, e trovandomi privo di attrezzatura, o senza il tempo materiale, di stabilire un diretto contatto con l'incrociatore siderale. La trasmittente di Sassinoth era più che adeguata per questa necessità, ma poiché il satellite non era attrezzato che per la ritrasmissione di un segnale all'astronave, non potei far altro che lanciare l'ordine e fermarmi a quel punto. Non potevo sapere se il messaggio fosse stato ricevuto, e ritrasmesso all'astronave. Non sapevo se avevo fatto bene a lanciarlo. Ero giunto ad accettare queste incertezze con serenità.

Aveva cominciato a nevicare con forza, e fui costretto a passare la notte in città, non conoscendo le strade a sufficienza per percorrerle da solo, al buio e sotto la tormenta. Essendomi rimasto un po' di denaro, domandai un consiglio sulla locanda più vicina; a questa domanda, insistettero affinché io passassi la notte al Collegio; cenai con una banda di studenti chiassosi e allegri, e dormii in uno dei dormitori. Mi addormentai pervaso da un piacevole senso di sicurezza, la sicurezza della straordinaria e infallibile ospitalità di Karhide per gli stranieri. Ero disceso nel paese giusto la prima volta, e adesso ero ritornato. Così mi addormentai, e mi svegliai prestissimo, il mattino dopo, partendo subito per la fattoria di Thessicher, prima di colazione, avendo passato una notte inquieta, piena di sogni e di bruschi risvegli.

Il sole che sorgeva, piccolo e freddo in un cielo limpido, gettava delle ombre a occidente, traendole da qualsiasi gibbosità che interrompeva la bianca coltre nevosa. La strada era tutta un disegno di bianco e di nero. Nessuno si muoveva in quei grandi campi di neve; ma lontano, lontano, sulla strada, una piccola, minuscola figura venne verso di me, con l'andatura morbida, sinuosa dello sciatore. Molto tempo prima di poter vedere il viso, capii che si trattava di Estraven.

— Che succede, Therem?

— Devo arrivare alla frontiera — mi disse, senza neppure fermarsi, quando ci incontrammo. Era già senza fiato. Mi voltai, e andammo entrambi a ovest, e io faticai per non perdere contatto da lui. Dove la strada girava, per dirigersi a Sassinoth, lui la lasciò, attraversando veloce i campi biancheggianti, che non avevano recinti. Attraversammo l'Ey ghiacciato a circa un miglio dalla città, a nord. Le rive erano ripide, e alla fine dell'ascesa fummo entrambi costretti a fermarci e a riprendere fiato. Non eravamo nella condizine di compiere una corsa cosi affannosa.

— Che è successo? Thessicher?…

— Sì. L'ho sentito che parlava nel suo apparecchio radio. All'alba. — Estraven ansimava rapidamente, come quando era stato disteso sul ghiaccio, accanto al crepaccio azzurro. — Tibe deve aver posto una taglia sul mio capo.

— Quel maledetto traditore ingrato! — dissi, ansimando; non intendevo parlare di Tibe, ma di Thessicher, il cui tradimento era quello di un amico.

— È così, infatti — disse Estraven, — ma gli ho chiesto troppo, ho troppo tirato uno spirito piccolo. Ascolta, Genry. Torna subito a Sassinoth.

— Prima, almeno, voglio vederti oltre il confine.

— Potrebbero esserci delle guardie Orgota, là.

— Resterò da questa parte. Per l'amor di Dio…

Lui sorrise. Continuando a respirare affannosamente, si alzò e proseguì, e io andai con lui.

Sciammo attraverso piccoli boschi coperti di neve e di ghiaccio, alberi avvolti in strane trame di cristalli di gelo, sopra le colline e nei campi della valle contesa. Non c'era alcun riparo, non c'era alcuna protezione. Un cielo rischiarato dal sole, un mondo bianco, e noi due, ombre veloci sulla neve bianca, in fuga. Un terreno diseguale ci nascose la frontiera, fino a quando non fummo a meno di duecento metri da essa; e poi la vedemmo d'un tratto con chiarezza, segnata da una barriera, della quale solo una quarantina di centimetri dei pali si vedevano sopra la neve bianca, le cime di questi pali dipinte di rosso. Non si vedevano guardie, dalla parte Orgota. Dalla parte più vicina, invece, si vedevano numerose tracce di sci, e, a sud, molte minuscole figure in movimento.

— Ci sono delle guardie da questa parte. Dovrai aspettare il tramonto, Therem.

— Gli Ispettori di Tibe — ansimò lui, in tono amaro, e si voltò.

Sciammo affiancati sopra la piccola altura che avevamo raggiunto in quel momento, e arrivammo al riparo più vicino. Là passammo tutta quella lunga giornata, in una specie di tana, tra i folti alberi di hemmen che crescevano intorno, con i rami rossigni curvi sopra di noi, sotto il gran peso della neve caduta. Discutemmo molti piani, tra noi… andare a nord o a sud, lungo la frontiera, per allontanarci da questa zona particolarmente sorvegliata, oppure tentare di raggiungere le colline a est di Sassinoth, e perfino di ritornare a nord, nella campagna vuota e semideserta, ma ogni piano non poté essere accettato. La presenza di Estraven era stata ormai denunciata dal traditore, e non potevamo più viaggiare apertamente in territorio karhidi, come avevamo fatto fino a quel momento. Né potevamo viaggiare segretamente per qualsiasi distanza: non avevamo tenda, né cibo, né troppe energie rimaste. L'unica soluzione era la fuga diretta oltre il confine, c'era una sola strada aperta.

Ci nascondemmo nella tana profonda, sotto gli alberi scuri, nella neve. Giacemmo vicinissimi, per scaldarci. Verso mezzogiorno, Estraven si riposò per un poco, ma io avevo troppa fame e troppo freddo per dormire; giacqui là, accanto al mio amico, in una specie di torpore, stordito, cercando di ricordare le parole che mi aveva citato una volta: Due sono uno, vita e morte, e giacciono insieme… Somigliava un poco alle notti passate sotto la tenda, sul Ghiaccio, ma senza riparo, senza cibo, senza riposo: non restava altro che la nostra compagnia, che ben presto sarebbe anch'essa finita.

Il cielo cominciò a coprirsi, nel pomeriggio, dapprima una foschia bianca, poi nuvole più dense, e la temperatura cominciò a calare. Perfino in quella tana dove non spirava vento fu troppo freddo per restare immobili. Fummo costretti a muoverci, eppure, verso il tramonto, fui colto dai brividi e sussulti, simili a quelli che avevo conosciuto nel camion-prigione, attraverso Orgoreyn. L'oscurità pareva impiegare secoli e secoli a discendere. Nel crepuscolo azzurro, lasciammo il nostro riparo e, strisciando cautamente, nascondendoci sotto alberi e cespugli, risalimmo la collina, fino a quando non potemmo distinguere di nuovo la barriera del confine, una serie di punti fievoli lungo la neve pallida. Non c'erano luci, nulla si muoveva, non si udiva alcun suono. Lontano, a sud ovest, brillava lo scintillio giallo di una piccola città, qualche piccolo Villaggio Commensale di Orgoreyn, dove Estraven avrebbe potuto andare, con i suoi inaccettabili documenti d'identificazione, e avrebbe ottenuto almeno l'alloggio per una notte nella Prigione Commensale, o forse nella più vicina Fattoria Volontaria Commensale. Improvvisamente… là, all'ultimo momento, non prima… mi resi conto di quello che il mio egoismo e il silenzio di Estraven mi avevano tenuto nascosto, dove egli stesse andando e a che cosa andasse incontro.

Dissi:

— Therem… aspetta…

Ma lui era già partito, giù per la collina: uno sciatore prodigiosamente veloce, che questa volta non indugiava per aspettarmi. Sfrecciò veloce, descrivendo un'ampia curva, attraverso le ombre, sulla neve. Fuggiva da me, e andava direttamente verso i fucili delle guardie di frontiera. Penso che le guardie gridassero un avvertimento, o l'ordine di fermarsi, e una luce dovette accendersi da qualche parte, ma non ne sono sicuro; in ogni caso, lui non si fermò, ma discese come una freccia verso la barriera, e le guardie spararono, abbattendolo prima che egli potesse raggiungerla. Non usarono i paralizzatori sonici ma i fucili d'assalto, l'antica arma che spara una raffica di frammenti metallici. Spararono per ucciderlo. Stava morendo quando io lo raggiunsi, era disteso in maniera bizzarra, con il corpo scomposto, strappato dagli sci che sporgevano dalla neve, e il petto era squarciato dalla raffica mortale. Presi il suo capo tra le braccia e gli parlai, ma egli non mi rispose; solo in un modo rispose al mio amore per lui, gridando, nella distruzione e nel tumulto silenzioso della sua mente, un attimo prima che la conoscenza crollasse, nella lingua silenziosa del pensiero, una volta, chiaramente: «Arek!» E poi, nient'altro. Lo tenni stretto, rannicchiato là nella neve, mentre lui moriva. Mi lasciarono fare questo. Poi mi fecero alzare, e portarono via me da una parte, e lui dall'altra, io per andare in prigione, e lui nelle tenebre.

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