CAPITOLO SEDICESIMO Tra Drumner e Dremegole

Odyrny Thern. Ai chiede dal suo sacco a pelo:

— Che cosa state scrivendo, Harth?

— Un diario.

Lui ride un poco.

— Dovrei tenere un giornale per gli archivi Ecumenici; ma non sono mai riuscito a farlo, senza un dittafono.

Io spiego che le mie note sono destinate alla mia gente di Estre, che potrà incorporarle, come riterrà opportuno, negli Annali del Dominio; avendo così rivolto i miei pensieri al mio Focolare e a mio figlio, cerco di distoglierli di nuovo, e chiedo:

— Il vostro genitore… i vostri genitori, cioè… sono ancora vivi?

— No — dice Ai. — Morti da settant'anni.

Questo mi fece riflettere. E mi rese perplesso. Ai non aveva neppure trent'anni.

— Voi contate gli anni diversamente da noi? I vostri sono più corti?

— No. Oh, capisco. Ho compiuto un balzo temporale. Venti anni della Terra ad Hain-Davenant, di là cinquant'anni per Ollul, da Ollul a qui Diciassette anni. Ho vissuto soltanto sette anni, da quando ho lasciato la Terra, ma sono nato sul mio pianeta centoventi anni fa.

Molto tempo fa, a Erhenrang, mi aveva spiegato come il tempo viene abbreviato, all'interno delle navi che vanno veloci quasi quanto la luce dei soli nello spazio interstellare, ma non avevo accostato questo fatto alla durata di una vita umana, o delle vite che un uomo lascia dietro di sé, sul mondo. Mentre egli viveva poche ore, su una di quelle inimmaginabili navi che andavano da un pianeta all'altro, tutti coloro che egli aveva lasciato dietro di sé, a casa, invecchiavano e morivano, e i lori figli invecchiavano… Alla fine dissi:

— E io credevo di essere un esiliato.

— Voi per il mio bene… io per il vostro — disse lui, e rise di nuovo, un lieve suono allegro nel silenzio pesante. Questi tre giorni, da quando siamo discesi dal passo, sono stati di lavoro durissimo per risultati miseri, ma Ai non è più abbattuto e depresso, e neppure troppo speranzoso; e ha più pazienza con me.

Forse le droghe sono finalmente uscite dal suo corpo. Forse abbiamo imparato a tirare assieme la slitta.

Abbiamo passato questo giorno discendendo dallo sperone di basalto che abbiamo scalato per tutta la giornata di ieri. Dalla valle, sembrava una buona strada per salire al Ghiaccio, ma più andavamo in alto, più incontravamo una superficie rocciosa infida e pericolosa, e di un grado sempre più ripida, fino al punto in cui, anche abbandonando la slitta, non avremmo più potuto scalarla. Questa notte siamo di nuovo ai suoi piedi, nella morena, la valle di pietra e sassi. Nulla cresce, qui. Rocce, ciottoli, macigni, campi di sassi, argilla, fango. Un braccio del ghiacciaio si è ritirato da questo pendio negli ultimi cinquanta, o cento anni, lasciando esposte all'aria, nude, le ossa del pianeta; non c'è carne di terra, o d'erba. Qua e là fumarole spargono sopra la superficie nebulose fumate pesanti e giallastre, nebbia bassa e strisciante e insidiosa. Nell'aria, tutt'intorno, c'è un acre sentore di zolfo. Sono 7°, c'è una grande immobilità intorno, e una cappa pesante grava ovunque nella valle livida. Spero che non cada della neve, che non ci siano nevicate fitte fino a quando non avremo superato il territorio maligno che si stende tra questo posto e il ghiacciaio, il braccio del ghiacciaio che abbiamo visto dal costone roccioso, a poche miglia a ovest. Sembra un vasto fiume di ghiaccio, che discende dal plateau tra due montagne, due vulcani, entrambi incappucciati di vapore e di fumo. Se riusciamo ad arrivarci, salendo sul braccio del ghiacciaio dai pendii del più vicino vulcano, esso potrà offrirci una strada per arrivare sulla grande distesa, sull'altopiano di ghiaccio. A est, un ghiacciaio più piccolo discende fino a un lago gelato, ma scorre descrivendo una curva e perfino da qui è possibile vedere gli enormi crepacci che lo solcano; è inaccessibile a noi, equipaggiati come siamo. Abbiamo stabilito di comune accordo di tentare la strada del braccio glaciale tra i due vulcani, benché dirigendoci a occidente, per raggiungerlo, perderemo almeno due giorni sulla nostra tabella di marcia verso la nostra destinazione, un giorno per andare a ovest, un giorno per recuperare la distanza.

Opposthe Thern. Nevica neserem*). Non si può viaggiare. Abbiamo viaggiato per quasi un mezzo-mese, il sonno ci fa bene.

Ottermenbod Thern. Nevica neserem. Dormito abbastanza. Ai mi ha insegnato un gioco terrestre, che si gioca su quadrati con dei sassolini, chiamato «go». Un gioco difficile ed eccellente. Come mi ha fatto notare Ai, ci sono sassi a sufficienza qui, per giocare a «go».

Lui sopporta il freddo piuttosto bene, e se il coraggio fosse sufficiente starebbe nel gelo come un verme delle nevi. È strano vederlo infagottato con hieb e soprabito, con il cappuccio calcato sulla testa, quando la temperatura è al di sopra dello zero; ma quando usiamo la slitta, se il sole è visibile e il vento non è troppo pungente, ben presto si toglie il soprabito e suda come uno di noi. Dobbiamo arrivare a un compromesso, per il calore interno della tenda. Lui vorrebbe tenerlo al massimo, io al minimo, e quello che è comodo per ciascuno di noi provocherebbe la polmonite all'altro. Arriviamo a mezza misura, e lui trema, quand'è fuori dal suo sacco a pelo, mentre io sto a bollire nel mio; ma considerando da quali distanze ci siamo riuniti, per dividere questa tenda per un poco, ci comportiamo abbastanza bene.

Getheny Thanern. Sereno dopo la tormenta, vento caduto, il termometro indica circa 8° per tutta la giornata. Siamo accampati sul pendio occidentale, in basso, del più vicino vulcano: il Monte Dremegole, sulla mia mappa di Orgoreyn. Il suo compagno, dall'altra parte del fiume di ghiaccio, si chiama Drumner. La mappa è di pessima fattura; c'è una grande vetta, visibile a occidente, che non appare affatto sulla carta, e le proporzioni sono tutte falsate. Gli Orgota, evidentemente, non vengono spesso alle loro Colline di Fuoco. In effetti, non ci sono molti motivi che li possano indurre a venire qui, se non la grandiosità. Abbiamo viaggiato per undici miglia, oggi, lavoro difficile: solo roccia. Ai sta dormendo. Io mi sono ferito il tendine del calcagno, tirando come uno stupido quando il mio piede è rimasto preso tra due macigni, e ho zoppicato per tutto il pomeriggio. Una notte di riposo dovrebbe guarirmi. Domani dovremmo discendere sul ghiacciaio.

Le nostre provviste di cibo sembrano calate in maniera allarmante, ma è perché abbiamo mangiato tutta la roba più ingombrante. Avevamo tra le novanta e le cento libbre di cibo normale, metà del quale nel carico che ho rubato a Turuf; sessanta libbre di questo se ne sono già andate, dopo quindici giorni di viaggio. Ho cominciato con il gichy-michy al ritmo di una libbra al giorno, risparmiando due sacchetti di kadik, dello zucchero, e un cestino di pesci essicati per variare un po' la dieta, in seguito. Sono lieto di essermi liberato della roba pesante presa a Turuf. La slitta è molto più leggera.

Sordny Thanern. Sui dieci gradi; pioggia ghiacciata, vento che soffia dal fiume di ghiaccio come aria in una galleria. Accampati a un quarto di miglia dal bordo, su una lunga costa piatta di neve granulosa. La discesa dal Dremegole è difficile e ripida, su roccia spoglia e campi di sassi: il bordo del ghiacciaio è tutto un crepaccio, e così sporco di rocce e pietrisco rimasti nel ghiaccio, che anche là abbiamo provato a condurre la slitta con le ruote. Prima che avessimo percorso cento metri, però, una ruota si è spezzata, e l'asse si è piegato. Da allora, usiamo solo i pattini. Abbiamo percorso solo quattro miglia, oggi, ancora nella direzione sbagliata. Il ghiacciaio efferente sembra distendersi lungo un'ampia curva, a ovest, fino all'altopiano del Gobrin. Qui, tra i vulcani, è ampio circa quattro miglia, e non dovrebbe essere un cammino troppo disagevole più avanti, verso il centro, benché i crepacci siano di numero superiore a quello che avevo sperato. E la superficie è coperta di detriti, e cedevole in certi punti.

Drumner è in eruzione. Passandosi la lingua sulle labbra, si sente un sapore di fumo e di zolfo. Una massa tenebrosa, livida, ha gravato per tutto il giorno a ovest, anche sotto le nubi di pioggia. Di quando in quando ogni cosa, nubi, pioggia gelata, ghiaccio, aria, diventano di un rosso sanguigno, livido, che impallidisce lentamente fino a diventare grigio. Il ghiacciaio trema un poco, sotto i nostri piedi.

Eskichwe re mir Her ha ipotizzato che l'attività vulcanica, nel Nord-Ovest di Orgoreyn e nell'Arcipelago, sia stata in continuo aumento durante gli ultimi dieci o venti millenni, e la sua ipotesi prevede la fine del Ghiaccio, o almeno una recessione, e un periodo interglaciale. L'anidride carbonica liberata dai vulcani nell'atmosfera servirà, con il trascorrere del tempo, come un isolante, trattenendo a lungo l'energia calorifica rifratta dalla terra, permettendo però al diretto calore solare di entrare, senza subire perdite o diminuzioni. La temperatura media del mondo, afferma, alla fine salirà di circa diciotto gradi, raggiungendo i 36°. Sono felice di sapere che, quando questo accadrà, io non sarò presente. Ai afferma che teorie analoghe sono state proposte da studiosi terrestri, per spiegare l'ancora incompleta recessione della loro ultima Era dei Ghiacci. Tutte queste teorie rimangono ampiamente irrefutabili e indimostrabili; nessuno sa con certezza perché il ghiaccio venga, perché se ne vada. La Neve dell'Ignoranza rimane immacolata.

Al di sopra di Drumner, nel buio, ora, una grande tavola di fuoco livido sta ardendo.

Eps Thanern. Il misuratore indica che oggi abbiamo percorso sedici miglia, ma non siamo a più di otto miglia, in linea retta, dall'accampamento della notte scorsa. Siamo ancora all'interno del passo tra i due vulcani, sul fiume di ghiaccio. Drumner è in eruzione. Vermi di fuoco strisciano dai suoi fianchi torvi e neri, e si vedono bene quando il vento schiarisce l'aria, allontanando i viluppi e i vortici e l'arrotolarsi impalpabile delle nubi di cenere e delle nubi di fumo e del vapore bianco. Continuamente, senza alcuna pausa, un brontolio sibilante riempie l'aria, così enorme e così lungo, questo suono, che non lo si può udire, quando si smette di ascoltarlo; eppure esso riempie tutti gli interstizi dell'essere. Il ghiacciaio trema perpetuamente, sussulta e rabbrividisce, sussurra e trema sotto i nostri piedi. Tutti i ponti di neve che la tormenta può avere gettato sopra i crepacci se ne sono andati, scossi da quel tremito, abbattuti da quel tambureggiare e sobbalzare del ghiaccio e della terra sotto il ghiaccio. Andiamo avanti e indietro, cercando la fine di una spaccatura nel ghiaccio che inghiottirebbe l'intera slitta, e poi cercando la fine della spaccatura seguente, cercando di andare a nord e sempre costretti ad andare a ovest o ad est. Sopra di noi Dremegole, solidale con le fatiche di Drumner, grugnisce e brontola e trema, mandando grandi sbuffi di fumo sporco, sulfureo.

Il volto di Ai presentava brutti segni di congelamento, stamattina, il naso, gli orecchi, il mento, tutto di un grigio malato, quando l'ho guardato. L'ho fatto riprendere, non c'è stato nulla di male, ma dobbiamo stare più attenti. Il vento che spira dal Ghiaccio è (questa è la pura verità) mortale; e noi dobbiamo offrirgli la faccia, durante la nostra marcia.

Sarò felice di togliermi da questo fiume di ghiaccio, da questo braccio del ghiacciaio così corrugato e piagato e infido, tra quei due mostri che non cessano mai di lanciare il loro minaccioso brontolio. Le montagne dovrebbero vedersi, non sentirsi.

Arhad Thanern. Un po' di neve sove, tra i 7 e i 10 gradi. Abbiamo percorso dodici miglia, oggi, circa cinque con profitto, e il bordo del Gobrin è visibilmente più vicino, a nord, sopra di noi; ora vediamo che il fiume di ghiaccio è ampio miglia e miglia: il «braccio» tra Drumner e Dremegole è soltanto un dito, e noi ora siamo sul dorso della mano. Voltandosi a guardare, da questo punto, si vede il flusso del ghiacciaio dividersi, squarciarsi e passare accanto alle nere montagne fumanti che lo fanno sembrare minuscolo. Guardando avanti lo si vede allargarsi, sollevarsi e descrivere una curva lenta, al cui confronto rimpiccioliscono i bordi neri della terra, e dopo la curva la parete di ghiaccio, molto lontana, in alto, sotto veli di nubi e di fumo e di neve. Ceneri vulcaniche cadono ora con la neve, e il ghiaccio è solido, costellato di lapilli e di cenere e di frammenti dei lontani giganti. Un buon terreno per camminare, ma troppo accidentato per i pattini della slitta, e i pattini hanno bisogno di un nuovo rivestimento. Per due o tre volte, dei proiettili vulcanici hanno colpito il ghiaccio, molto vicino a noi. Producono un sibilo violento, quando colpiscono, e affondano nel ghiaccio che si scioglie intorno a loro; si scavano una tana, così sembra. La cenere continua a cadere con la neve. Strisciamo, andando avanti, ma sono progressi infinitesimali, questi, attraverso il sudicio caos di un mondo che si sta creando… che si sta facendo con le proprie forze riposte.

Sia lodata allora la Creazione incompiuta!

Netherhad Thanern. Non nevica da questa mattina; cielo coperto, e vento forte, e circa 6° di temperatura. Il grande ghiacciaio multiplo sul quale siamo entra nella valle da occidente, e noi siamo al suo estremo margine orientale. Dremegole e Drumner si trovano ora dietro di noi, benché un'aguzza sporgenza rocciosa di Dremegole si levi ancora alla nostra destra, quasi al livello dei nostri occhi. Strisciando e camminando e avanzando faticosamente, siamo arrivati a un punto nel quale dobbiamo scegliere tra seguire il ghiacciaio nella sua grande curva a occidente, e salire così gradualmente sull'altopiano di ghiaccio, oppure scalare le colline di ghiaccio un miglio a nord dell'accampamento di questa notte, risparmiandoci così venti o trenta miglia di viaggio, al prezzo del pericolo.

Ai è favorevole al pericolo.

C'è della fragilità, in lui. È completamente privo di protezione, esposto, vulnerabile, perfino al suo organo sessuale, che deve portare sempre fuori dal suo corpo; ma è forte, incredibilmente forte. Non sono sicuro che egli possa continuare a viaggiare più di me, ma può spingere la slitta più forte, e più in fretta, di me… almeno il doppio. Può sollevare la slitta, davanti o dietro, per rendere più facile il superamento di qualche ostacolo. Io non potrei sollevare e sopportare quel peso, a meno che non fossi in dothe. Pari a questa fragilità e a questa forza, egli possiede uno spirito facile alla disperazione e pronto alla sfida: un fiero coraggio impaziente. Questo lavoro lento, duro, strisciante che abbiamo compiuto nei giorni passati lo consuma, sia nel corpo che nell'animo, così che, se fosse uno della mia razza, lo crederei un codardo, ma non è nulla di simile; egli ha coraggio, è pronto alla sfida più disperata, una forma di coraggio di cui non ho mai visto l'uguale. È pronto, ansioso, nel momento in cui c'è da mettere in gioco la vita nella crudele prova del precipizio.

«Fuoco e paura, buoni servi, cattivi padroni.» Egli si fa servire dalla paura. Io mi sarei fatto guidare dalla paura per la lunga strada. Ragione e coraggio sono con lui. A che serve cercare la rotta sicura, in un viaggio come questo? Ci sono delle rotte insensate, che io devo evitare; ma non esiste alcuna rotta sicura.

Streth Thanern. Sfortuna. Non c'è modo di far salire la slitta, benché abbiamo passato tutto il giorno a tentare.

Nevica sove a raffiche, e alla neve si mescola densa cenere del vulcano. È stato buio tutto il giorno, perché il vento, che viene di nuovo da ovest, ha gettato di nuovo su di noi il velo del fumo di Drumner. Quassù il ghiaccio trema meno, ma mentre stavamo cercando di scalare un costone roccioso, è venuto un grande sussulto; ha fatto cadere la slitta, dal punto in cui l'avevamo fermata, e io sono caduto per quasi due metri, ma Ai aveva una buona presa, e la sua forza ci ha salvati: avremmo potuto precipitare, in una sola valanga, per tutta la strada, fino ai piedi della collina, sei metri e più. Se uno di noi si rompe una gamba o una spalla in queste imprese, vorrà dire probabilmente la fine di entrambi; è questo, precisamente, il rischio… piuttosto orribile, se osservato da vicino. Più in basso, la valle glaciale che ci siamo lasciati alle spalle è ora bianca di vapore: laggiù la lava sta toccando il ghiaccio. Certamente, ora, non possiamo più tornare indietro; domani tenteremo la scalata più avanti, a ovest.

Berny Thanern. Nessuna fortuna, neppure stavolta. Dobbiamo andare più oltre, sempre a ovest. Buio come al tramonto, per tutto il giorno. I polmoni ci fanno male, non per il freddo (siamo sempre al di sopra, o intorno allo zero, anche di notte, con questo vento d'occidente), ma per il continuo respirare la cenere e i fumi dell'eruzione. Alla fine di questo giorno di sforzi inutili, di scalate finite a metà, di arrampicate faticose, come vermi, su costoni di roccia e ghiaccio che non offrono alcun appiglio, su per blocchi di pietra e pendii di ghiaccio, su, e sempre per venire fermati da una parete levigata o da un costone ostile, e poi di tentativi compiuti più avanti, e sempre senza successo, Ai era esausto e incollerito. Pareva sul punto di piangere, ma non lo faceva. Io credo che egli consideri il pianto una cosa cattiva, o un motivo di vergogna. Anche quando era molto malato e debole, nei primi giorni della nostra fuga, nascondeva il suo viso quando piangeva, in modo che io non potessi vederlo. Ragioni personali, razziali, sociali, sessuali… come posso immaginare per quale motivo Ai non debba piangere? Eppure il suo nome è come un'esclamazione di dolore. Per quello l'ho cercato, da principio, a Erhenrang, ora mi sembra che sia passato un tempo lunghissimo; udendo parlare di un «Alieno» ho domandato il suo nome, e ho udito come risposta un grido di dolore da una gola umana nella notte. Ora sta dormendo. Le sue braccia tremano e sussultano, reazione muscolare alla fatica. Il mondo intorno a noi, ghiaccio e roccia, cenere e neve, fuoco e tenebre, trema e sussulta e brontola e si lamenta. Guardando fuori, un momento fa, ho visto il bagliore del vulcano, un rosso fiore sanguigno nel ventre di enormi nubi che sovrastano le tenebre.

Orny Thanern. Ancora niente. Questo è il ventiduesimo giorno del nostro viaggio, e dal decimo giorno non abbiamo fatto alcun progresso verso est, anzi abbiamo perduto venti o venticinque miglia, andando a ovest; dal diciottesimo giorno non abbiamo più fatto alcun progresso di qualsiasi genere, e avremmo potuto restarcene fermi, per quello che abbiamo concluso con le nostre fatiche. Se riusciremo mai a salire sul Ghiaccio, ci rimarrà cibo a sufficienza per attraversarlo? Questo pensiero è difficile da ignorare. Nebbia e cenere e tenebre dell'eruzione riducono di molto la visuale, e in questo modo non ci è possibile scegliere bene la strada. Ai vuole attaccare qualsiasi pendio, per quanto ripido, che mostri il minimo segno di poter essere scalato. Si spazientisce per la mia prudenza. Dobbiamo fare attenzione alla collera, e a come ci comportiamo. Io sarò in kemmer tra un giorno o due, e tutte le tensioni e le pressioni aumenteranno. Nel frattempo continuiamo a sbattere la testa contro colline di ghiaccio, scogliere di ghiaccio, pareti di ghiaccio, in un crepuscolo freddo pieno di cenere. Se io scrivessi un nuovo Canone Yomesh, manderei qui i ladri, dopo la morte. Ladri che rubano sacchi di provviste a Turuf, nella notte. Ladri che rubano a un uomo il nome e il focolare, e lo mandano via, carico di vergogna, in esilio. Ho la testa pesante, devo cancellare tutte queste cose dopo, troppo stanco per rileggere adesso.

Harhahad Thanern. Sul Gobrin. Il ventitreesimo giorno del nostro viaggio. Siamo sul Ghiaccio di Gobrin. Non appena ci siamo messi in marcia, questa mattina, abbiamo visto, solo a poche centinaia di metri dall'accampamento della notte, un sentiero che conduce direttamente al Ghiaccio, una strada soprelevata che descrive una curva, ampia e lastricata di cenere vulcanica, dai detriti e dagli abissi del ghiacciaio, in alto, attraverso le colline e le scogliere di ghiaccio. L'abbiamo percorsa, quella singolare passerella tra i ghiacci, come se avessimo marciato in parata lungo il Lungofiume del Sess. Siamo sul Ghiaccio. Siamo di nuovo diretti a est, verso casa.

Sono infettato dal piacere puro che Ai trae dal nostro successo. Considerata la situazione sobriamente, essa non è migliore di prima, quassù. Siamo sul bordo dell'altopiano di ghiaccio. Dei crepacci… alcuni ampi abbastanza da inghiottire dei villaggi, non casa per casa, ma tutto in una volta… corrono verso l'interno, a nord, a perdita d'occhio. Quasi tutti ci tagliano la strada, così anche noi dobbiamo andare a nord, e non a est. La superficie è terribile. Portiamo avanti la slitta, tra grandi mucchi e frammenti e spezzoni di ghiaccio, immensi detriti spinti in alto dalla tensione della grande coltre plastica di ghiaccio, tra e contro le Colline di Fuoco. I costoni spezzati dalla pressione hanno forme strane, torri rovesciate, giganti senza gambe, catapulte. Spesso un miglio all'inizio, il Ghiaccio qui si leva e si fa più spesso ancora, cercando di sommergere le montagne e di soffocare le bocche di fuoco con l'eterno silenzio del gelo. Qualche miglio a nord, un picco si leva dal Ghiaccio, il cono spoglio, aguzzo, aggraziato di un giovane vulcano; più giovane di migliaia di anni della coltre di ghiaccio che preme e spinge e travolge, frantumandosi in gorghi e ammucchiandosi in grandi blocchi e costoni scintillanti, e cadendo per precipizi oscuri, sopra i duemila metri di montagne più basse che non possiamo vedere.

Durante il giorno, voltandoci, abbiamo visto il fumo dell'eruzione di Drumner, sospeso dietro di noi come un tentacolo grigio-bruno che si protende dalla superficie del Ghiaccio. Un vento forte e costante soffia a livello del suolo da nord-est, ripulendo quest'aria di quota più alta dal pulviscolo e dal fetore del vomito del pianeta, che noi abbiamo respirato per giorni, appiattendo e spazzando via il fumo, dietro di noi, pressandolo a coprire, come un coperchio nero, i ghiacciai efferenti, le montagne più basse, le valli di pietre e morene, il resto della terra. Non c'è niente, dice il Ghiaccio, all'infuori del Ghiaccio… Ma il giovane vulcano là, a nord, ha un'altra parola che crede di dover dire.

Non nevica, una foschia alta copre il cielo. Una temperatura di -8° sull'altopiano, al tramonto. C'è una coltre di neve granulosa, di ghiaccio recente, e di vecchio ghiaccio, sotto il piede. Il ghiaccio fresco e insidioso, una sostanza viscida, azzurrognola, che è nascosta da un pulviscolo bianco. Siamo caduti entrambi, diverse volte. Su una lastra di ghiaccio simile, io sono scivolato bocconi, per più di tre metri. Ai, che tirava la slitta, si è piegato in due dal ridere. Mi ha chiesto scusa, e ha spiegato che credeva di essere lui la sola persona che su Gethen scivolasse sul ghiaccio.

Tredici miglia, oggi; ma se tentassimo di aumentare la velocità tra questi crepacci, tra i costoni e sul ghiaccio insidioso, ci consumeremmo dalla fatica, o subiremmo degli inconvenienti assai più gravi di una scivolata.

La luna è bassa, cupa come sangue rappreso; un grande alone brunito, iridescente, la circonda.

Guyrny Thanern. Un po' di neve, il vento si alza e la temperatura diminuisce. Anche oggi tredici miglia, che portano la distanza registrata da quando abbiamo lasciato il primo accampamento a 254 miglia. Abbiamo mantenuto una media di circa dieci miglia e mezzo al giorno; undici e mezzo, omettendo i due giorni passati ad aspettare la fine della tormenta. Il settantacinque per cento di queste miglia di fatiche e di lavoro non ci hanno fatto guadagnare terreno, rispetto alla nostra destinazione. Non siamo molto più vicini a Karhide, ora, di quanto non lo fossimo al momento della partenza. Ma ora abbiamo probabilità migliori, penso, di arrivarci.

Da quando siamo usciti dai fumi greveolenti del vulcano in eruzione, e dalla nera nuvola di cenere, il nostro spirito non è impegnato più soltanto nel lavoro e nell'apprensione, e dopo la cena parliamo sempre nella nostra tenda. Poiché io sono in kemmer, troverei più facile, certo, ignorare la presenza di Ai, ma questo è difficile in una tenda con due occupanti. Il guaio è, naturalmente, che lui, nel suo strano modo, è a sua volta in kemmer: sempre in kemmer. Deve trattarsi di una strana forma di desiderio, quella, assai ridotta, da dividere tra tutti i giorni dell'anno, senza intervalli, senza mai conoscere la scelta del sesso, ma esiste: e io sono qui, in kemmer. Questa notte, la mia estrema percezione fisica della sua presenza è stata piuttosto dura da ignorare, e io ero troppo stanco per tentare di sviarla, usando il non-trance, o qualsiasi altro canale offerto dalla mia disciplina. Finalmente lui mi ha chiesto se per caso non mi avesse offeso. Gli ho spiegato il mio silenzio, con un certo imbarazzo. Temevo che egli avesse riso di me. Dopotutto, lui non è più strano, più diverso, più anomalia sessuale di quanto non lo sia io: quassù, sul ghiaccio, ciascuno di noi è singolare, isolato, unico, io che sono tagliato fuori da quelli come me, dalla mia società e dalle sue regole, e lui che è tagliato fuori, allo stesso modo, da tutto ciò che ha conosciuto e gli appartiene. Qui non c'è un mondo pieno di altri getheniani, che possa spiegare e suffragare la mia esistenza. Noi siamo eguali, infine, eguali, alieni, soli. Lui non ha riso, naturalmente. Piuttosto, mi ha parlato con gentilezza che non sapevo esistesse in lui. Dopo qualche tempo, anche lui è arrivato a parlare d'isolamento, di solitudine.

— La vostra razza è spaventosamente sola, sul suo mondo. Non esistono altre specie di mammiferi. Non esistono altre specie ermafrodite. Non esistono animali intelligenti, neppure quanto basta per addomesticarli, per farne dei compagni, sia pure piccoli e insufficienti. Deve colorare violentemente il vostro modo di pensare, questa unicità. Non intendo parlare solo del pensiero scientifico, benché voi siate degli straordinari teorici, dei creatori d'ipotesi magistrali… è straordinario che siate arrivati a qualsiasi concetto d'evoluzione, avendo di fronte quell'abisso invalicabile tra voi e gli animali inferiori. No, non solo scientificamente: ma filosoficamente, emotivamente: essere così solitari, in un mondo così ostile, deve influenzare tutto di voi, le vostre visioni del mondo, del trascendente, del naturale, del soprannaturale, dei sentimenti.

— Gli Yomeshta direbbero che la singolarità dell'uomo è la sua divinità.

— Padroni e Signori della Terra, si. Altri culti, su altri mondi, sono giunti alla stessa conclusione. Questi tendono a essere i culti di civiltà dinamiche, aggressive, capaci di spezzare i legami ecologici. Orgoreyn appartiene a questo schema, a suo modo; almeno, gli Orgota sembrano muovere le cose, non le lasciano stare come sono. Cosa dicono gli Handdarata?

— Ebbene, nell'Handdara… sapete, non c'è teoria, non esistono dogmi… Forse ci si rende meno conto dell'abisso esistente tra l'uomo e gli animali, essendo più occupati con i legami, con le somiglianze, con le affinità, dell'intero del quale le cose viventi sono una parte. — La Parola di Tormer era stata per tutto il giorno nella mia mente, e così avevo pronunciato quelle frasi:

La luce è la mano sinistra delle tenebre,

E le tenebre la mano destra della luce.

Due sono uno, vita e morte, e giacciono

insieme come amanti in kemmer,

come mani giunte,

come la meta e la via.

La mia voce aveva tremato, nel dire questi versi, perché nel dirlo ricordai che nella lettera che mio fratello mi scrisse prima della sua morte, egli aveva citato proprio le stesse parole.

Ai ha meditato, e dopo qualche tempo ha detto:

— Voi siete isolati, e indivisi. Forse voi siete ossessionati dall'intero come noi siamo ossessionati dal dualismo.

— Anche noi siamo dualisti. Il dualismo è un fattore essenziale, non è vero? Finché esisteranno me stesso e l'altro.

— Io e Te — disse lui. — Sì, dopotutto, è ancora più ampio del sesso…

— Ditemi, in quale maniera l'altro sesso della vostra razza è differente dal vostro?

Mi parve sorpreso, e in realtà la mia domanda aveva sorpreso anche me; il kemmer provoca simili spontaneità, in una persona. Eravamo entrambi estremamente imbarazzati, consapevoli del nostro corpo, di noi stessi.

— Non avevo mai pensato a questo — disse. — Voi non avete mai visto una donna. — Usò la parola del suo linguaggio lerrestre, che io conoscevo.

— Ho visto le vostre fotografie, le immagini delle donne che mi avete mostrato. Le donne avevano l'aspetto di getheniani incinti, ma con dei seni più grandi. Differiscono molto dal vostro sesso, nel comportamento mentale? Sono come una specie differente?

— No. Sì. No, naturalmente no, in realtà, non proprio. Ma la differenza è molto importante. Suppongo che la cosa più importante, il più pesante elemento singolo nella vita di una persona, sia data dal fatto che sia nato maschio oppure femmina. In quasi tutte le società questo fatto determina le aspettative, le attività, l'aspetto, l'ideologia, l'etica, la morale, le maniere di una persona… quasi tutto. Vocabolario. Abitudini personali. Modo di gestire. Perfino di mangiare. Le donne… le donne tendono a mangiare meno… È estremamente difficile separare le differenze innate da quelle derivate, da quelle imparate. Anche dove le donne partecipano alla società in uno stato di uguaglianza con gli uomini, dove c'è parità di diritti e di doveri, dopotutto esse devono sempre portare i bambini, darli alla luce, e occuparsi di quasi tutta la prima educazione del bambino…

— L'uguaglianza, la parità, non è dunque la regola generale? Sono forse mentalmente inferiori?

— Non lo so. Apparentemente, esse non diventano frequentemente grandi matematiche, o compositrici di musica, o inventrici, o pensatrici astratte. Ma non è perché sono stupide. Fisicamente, sono meno muscolose, ma un po' più resistenti degli uomini, e più adattabili. Psicologicamente…

Dopo queste parole, aveva fissato per molto tempo la stufa ardente, e aveva scosso il capo.

— Harth — mi disse, — non posso dirvi come sono le donne. Non ho mai pensato molto a questo problema in astratto, sapete, e… Dio!… ormai, in pratica ho dimenticato. Sono qui da due anni… Non sapete. In un certo senso, per me le donne sono più aliene di quanto non lo siate voi. Con voi, almeno io condivido un sesso, in ogni caso… — Distolse lo sguardo e rise, a disagio e inquieto e impacciato. I miei sentimenti erano complessi, e lasciammo cadere l'argomento.

Yrny Thanern. Diciotto miglia, oggi, est-nord-est, usando la bussola, sugli sci. Ci siamo liberati dai costoni e dai crepacci dei bordi nella prima ora di viaggio. Entrambi abbiamo le cinghie, io davanti, dapprima, per sondare il terreno, ma non c'è più bisogno di prove: la neve granulosa è alta cinquanta, sessanta centimetri, sopra il ghiaccio solido, e sulla neve del ghiacciaio c'è uno strato di qualche centimetro di neve fresca, bianca, solida, la neve dell'ultima nevicata, con una buona superficie. Né per noi, né per la slitta, si trattava di un pericolo, e tirare la slitta era così semplice, la slitta pareva cosi leggera, che mi sembrava difficile credere che stavamo ancora tirando circa cento libbre a testa. Durante il pomeriggio facemmo dei turni, come si può fare facilmente su questa splendida superficie. È un peccato che tutto il duro lavoro di scalata e di avvicinamento al ghiacciaio, che il faticoso percorso sotto la pioggia, e tra le rocce, e le ceneri, e sotto i lapilli del vulcano, sia avvenuto quando il carico era ancora così pesante. Adesso è tutto leggero. Troppo leggero: mi ritrovo a pensare troppo spesso al cibo. Mangiamo, dice Ai, come libellule. Non so cosa intenda dire esattamente, ma so che intende lamentarsi per la ristrettezza della nostra dieta. Per tutto il giorno, siamo andati veloci sulla pianura di ghiaccio livellata, una pianura bianchissima sotto un cielo grigio-azzurro, tra orizzonti piatti, a eccezione delle poche vette nere che appaiono ancora in lontananza, dietro di noi, e a eccezione di una foschia di tenebre, il respiro di Drumner, ancora più indietro. Niente altro: il sole velato, il ghiaccio.

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