Tentai di dare una mano a Casdoe, e, nel farlo, voltai le spalle ad Agia ed alla sua daga. Fu un errore che quasi mi costò la vita, perché Agia mi fu addosso non appena ebbi le mani occupate con l’imposta. Secondo il proverbio, donne e marinai tengono il coltello sotto la mano, ma Agia colpì dal basso verso l’alto per aprire la carne e raggiungere il cuore come avrebbe potuto fare un assassino di professione, ed io mi volsi appena in tempo per bloccare la sua lama con l’imposta. La punta del coltello trapassò il legno e spuntò dall’altra parte, brillando.
La forza stessa impressa al colpo tradì Agia: diedi all’imposta uno strattone laterale e la gettai dall’altra parte della stanza, con il coltello confitto dentro. Agia e Casdoe si lanciarono verso l’imposta, ed io afferrai Agia per un braccio e la trassi indietro, mentre Casdoe incastrava l’imposta al suo posto, con il coltello che sporgeva all’esterno, verso la tempesta imminente.
— Sciocca! — esclamò Agia, la voce calma per la sconfitta. — Non ti rendi conto che stai offrendo un’arma a colui che temi, chiunque sia?
— Esso non ha bisogno di coltelli — replicò Casdoe.
La casa era adesso buia, fatta eccezione per la rossiccia luce del fuoco. Mi guardai in giro alla ricerca di una candela o di una lanterna ma non ne vidi; più tardi avrei appreso che le poche che la famiglia possedeva erano state portate nel soppalco. I lampi presero a saettare all’esterno, delineando i contorni delle imposte e disegnando una spezzata linea di luce sotto la porta… ci misi un momento prima di rendermi conto che la linea di luce sotto la porta era spezzata mentre avrebbe dovuto essere continua.
— C’è qualcuno là fuori — dissi, — sullo scalino.
— Ho chiuso la finestra appena in tempo — annuì Casdoe. — Non era mai venuto così presto prima d’ora. Forse la tempesta lo ha svegliato.
— Non pensi che potrebbe essere tuo marito?
Prima che la donna mi potesse rispondere, una voce, più forte di quella del ragazzino, chiamò:
— Fammi entrare, Mamma!
Perfino io, che non sapevo chi stesse parlando, percepii una terribile distorsione esistente in quelle semplici parole: forse era la voce di un bambino, ma non di un bambino umano.
— Mamma - chiamò ancora la voce, — sta cominciando a piovere!
— Faremmo meglio a salire di sopra — suggerì Casdoe. — Se ci tiriamo dietro la scala, non ci potrà raggiungere, anche se dovesse entrare.
Mi ero avvicinato alla porta: senza la luce dei lampi, i piedi della creatura dietro la porta erano invisibili, ma potevo avvertire un respiro lento e rauco al disopra del battito della pioggia, ed una volta sentii un suono raspante, come se la cosa che aspettava nel buio avesse spostato i piedi.
— È opera tua? — chiesi ad Agia. — È una delle bestie di Hethor?
Agia scosse il capo, gli occhi castani che danzavano.
— Queste creature vagano selvagge su queste montagne, come tu dovresti sapere meglio di me.
— Mamma!
Ci fu uno strisciare di piedi… con quell’ansioso appello, la creatura all’esterno si era allontanata dalla porta. Una delle imposte aveva una fessura, e tentai di guardare attraverso essa: non vidi altro che la fitta oscurità esterna, ma potei sentire un passo morbido e pesante che era identico al suono che talvolta trapelava dalle porte sbarrate della Torre dell’Orso, a casa.
— Ha preso Severa tre giorni fa — spiegò Casdoe. Stava cercando di far alzare il vecchio che obbedì lentamente, riluttante ad abbandonare il calore del fuoco. — Non permettevo mai né a lei né a Severian di addentrarsi fra gli alberi, ma esso è venuto qui nella radura un turno di guardia prima del tramonto. Da allora, è tornato ogni notte. Il cane non voleva seguire le sue tracce, ma oggi Becan è andato lo stesso a cercarlo.
Ormai avevo intuito l’identità della bestia, anche se non ne avevo mai vista una di quella specie.
— Allora è un alzabo? La creatura dalle cui ghiandole si ricava l’analettico?
— Sì, è un alzabo — rispose Casdoe, — ma non so nulla di alcun analettico.
— Ma Severian sì — rise Agia. — Ha assaporato la saggezza di quella creatura e porta la sua amata dentro di sé. A quanto mi è dato di capire, di notte si possono sentire i loro ardenti sospiri d’amore.
Cercai di colpirla, ma Agia schivò abilmente e mise il tavolo fra lei e me.
— Non sei felice, Severian, che quando altri animali vennero portati su Urth per sostituire quelli che gli uomini avevano sterminato, fra essi ci fosse anche l’alzabo? Senza l’alzabo, avresti perduto la tua adorata Thecla per sempre. Racconta a Casdoe quanto ti ha reso felice l’alzabo!
— Sono davvero dispiaciuto di apprendere della morte di tua figlia — dissi invece a Casdoe. — Difenderò questa casa dall’animale che c’è fuori, se sarà necessario.
La mia spada era appoggiata al muro, e, per dimostrare la mia buona volontà, allungai la mano verso di essa. Fu una vera fortuna che lo facessi, perché in quel momento da dietro la porta giunse la voce di un uomo:
— Aprimi, cara!
Agia ed io balzammo contemporaneamente avanti per fermare Casdoe, ma nessuno di noi fu abbastanza rapido, e, prima che avessimo potuto raggiungerla, aveva già sollevato la sbarra. La porta si spalancò.
La bestia che attendeva fuori era un quadrupede, ma anche così le sue spalle massicce arrivavano all’altezza della mia testa. La testa era bassa, con le punte degli orecchi al disotto della cresta di pelo che cresceva sulla schiena; alla luce del fuoco, i suoi denti brillavano candidi ed i suoi occhi avevano un bagliore rosso. Ho visto gli occhi di molte di quelle creature che si dice siano giunte qui da oltre i margini del mondo… attratte, come sostengono certi filosofi, dalla morte di quelle bestie che avevano avuto origine qui, così come tribù di enchors, armate di coltelli di pietra e di fuochi, sciamano su un territorio la cui popolazione sia stata annientata dalla malattia o dalla guerra. Comunque, gli occhi di quelle creature erano soltanto gli occhi di una bestia, mentre le orbite rosse dell’alzabo erano qualcosa di più, poiché non avevano l’intelligenza propria degli uomini ma neppure l’innocenza dei bruti. Erano occhi uguali a quelli di un demonio che fosse appena riuscito ad emergere dall’abisso di una stella nera. Poi, mi rammentai degli uomini-scimmia, che erano chiamati demoni ma che avevano occhi umani.
Per un momento, parve che si potesse richiudere la porta, e vidi Casdoe, che era indietreggiata inorridita, cercare di spingere il battente. L’alzabo sembrò avanzare lentamente, perfino pigramente, eppure fu troppo veloce per lei ed il bordo della porta batté contro le costole dell’animale che parvero fatte di roccia.
— Lascia aperto — dissi alla donna. — Avremo bisogno di ogni possibile fonte di luce.
Avevo sguainato Terminus Est, che ora brillava alla luce del fuoco tanto da sembrare essa stessa una fiammella. Una balestra come quella che i sicari di Agia avevano usato, le cui quadrelle venivano accese dall’attrito con l’atmosfera ed esplodevano quando colpivano come pietre gettate in una fornace, sarebbe forse stata un’arma migliore, ma non mi sarebbe sembrata un prolungamento del mio braccio come lo era Terminus Est, e forse avrebbe dato all’alzabo il tempo di balzarmi addosso mentre cercavo di ricaricare, se non lo avessi colpito con la prima quadrella.
La lunga lama della mia spada non eliminava completamente il pericolo: la sua punta squadrata non poteva impalare la bestia, se questa avesse saltato. Avrei dovuto sferrare un fendente mentre era in aria, e, anche se non dubitavo di riuscire a staccare quella testa dal suo spesso collo, sapevo comunque che sbagliare avrebbe significato la mia fine. Inoltre, avevo bisogno di un certo spazio per sferrare il colpo, e la stretta stanza non era certo adeguata. E avevo anche bisogno di luce, mentre il piccolo fuoco si stava invece estinguendo.
Il vecchio, il bambino e Casdoe erano tutti scomparsi, e non ero certo se si fossero arrampicati sulla scaletta, mentre la mia attenzione era fissa sugli occhi della bestia, o se almeno qualcuno di loro fosse riuscito a fuggire dalla porta, alle spalle dell’animale. Rimaneva solo Agia, appiattita in un angolo ed armata con il bastone dalla punta d’acciaio di Casdoe, come un marinaio che, al limite della disperazione, cercasse di allontanare una galeassa servendosi di un rampone. Sapevo che parlarle sarebbe equivalso ad attirare su di lei l’attenzione della bestia, ma speravo che, se l’alzabo avesse alzato la testa in quella direzione, sarei forse riuscito a troncargli la spina dorsale.
— Agia — dissi, — ho bisogno di luce. Al buio mi ucciderà. Una volta, hai detto ai tuoi uomini che mi avresti affrontato, se solo loro mi avessero preso alle spalle. Ora io affronterò questa bestia per te, se solo tu mi porterai una candela.
Agia annuì per dire che aveva capito, e, in quel momento, la bestia si mosse verso di me; non balzò tuttavia, come mi ero aspettato: scivolò pigramente, ma agilmente, sulla destra, venendo più vicina e cercando al contempo di tenersi fuori dalla portata della mia spada. Dopo un momento d’incomprensione, mi accorsi che, assumendo quella nuova posizione vicino al muro, la bestia aveva bloccato qualsiasi ulteriore attacco che io avrei potuto sferrare, e che, se fosse riuscita ad aggirarmi (come aveva quasi fatto) fino a portarsi fra me ed il fuoco, avrei perduto la maggior parte del vantaggio che mi veniva dalla luce della fiamma.
Iniziammo così un attento gioco, nel quale l’alzabo cercava di sfruttare il più possibile le sedie, il tavolo ed i muri, ed io tentavo di trovare il massimo spazio possibile per la mia spada.
Poi balzai avanti. L’alzabo, così mi parve, evitò il mio colpo per non più di un dito di distanza, si allungò contro di me e si trasse indietro appena in tempo per evitare il mio colpo di ritorno. Le sue mascelle, grandi abbastanza per addentare la testa di un uomo come un uomo addenterebbe una mela, si erano chiuse di scatto davanti alla mia faccia, inondandomi con il puzzo del suo respiro marcio.
Rimbombò un altro tuono, tanto vicino che, quando il suo rombo si fu spento, potei udire il tonfo del grande albero di cui esso aveva proclamato la morte; il lampo, illuminando ogni dettaglio con la sua luce abbagliante, mi lasciò intontito ed accecato. Agitai Terminus Est nell’oscurità che seguì, e la sentii mordere un osso e poi rimbalzare. Quando il tuono risuonò di nuovo, roteai ancora la spada, ma questa volta sfasciai solo qualche pezzo di mobilio.
Poi, ci vidi nuovamente. Mentre l’alzabo ed io ci scambiavamo alcune finte e mutavamo posizione, anche Agia si era mossa, e doveva essere corsa verso la scala quando era scoppiato il lampo: era già a metà della scaletta, e vidi Casdoe allungare una mano per aiutarla. L’alzabo era fermo dinnanzi a me, e sembrava integro, se non fosse stato per una pozza di sangue nero che si stava formando ai suoi piedi. Il suo pelo appariva rosso ed ispido alla luce del fuoco, e gli artigli delle zampe, più grossi di quelli di un orso, erano anch’essi di un rosso cupo. Poi, più orrenda della voce che uscisse dalle labbra di un cadavere, sentii ancora la voce che aveva chiesto a Casdoe di aprire la porta.
— Sì - disse, — sono ferito, ma il dolore non è molto, e posso reggermi in piedi e muovermi come prima. Non mi puoi tenere per sempre lontano dalla mia famiglia.
Dalla bocca di quella bestia usciva la voce di un uomo serio ed onesto.
Trassi fuori l’Artiglio e lo deposi sul tavolo, ma esso non emetteva che una debole scintilla azzurra.
— Luce! — gridai ad Agia, ma non mi venne fornito alcun lume, e sentii invece il suono della scaletta del solaio, mentre le donne la tiravano su.
— La via della fuga ti è preclusa, vedi? - disse ancora la bestia, con la voce dell’uomo.
— Lo è anche la tua avanzata. Puoi forse saltare tanto in alto, con una zampa ferita?
Bruscamente, la voce si trasformò in quella sottile e tremolante della bambina.
— Ma posso arrampicarmi. Credi forse che non penserei di spostare il tavolo sotto l’apertura? Io, che posso parlare?
— Allora sai di essere una bestia!
— Noi sappiamo di essere dentro questa bestia, come una volta eravamo dentro gli involucri di carne che essa ha divorato. - Era di nuovo la voce dell’uomo.
— E tu acconsentiresti a che essa divori anche tua moglie e tuo figlio, Becan?
— Lo ordinerei. Sono io che lo ordino. Voglio che Casdoe e Sevenan ci raggiungano qui, come io ho raggiunto Severa quest’oggi. Quando il fuoco si spegnerà, anche tu morirai… ti unirai a noi… e così anche loro.
— Ti sei dimenticato che ti ho ferito quando non potevo vederci? — risi. Tenendo pronta Terminus Est, attraversai la stanza fino a raggiungere la sedia che avevo fracassato, e, preso quello che era stato il suo schienale, lo gettai nel fuoco, generando una nube di scintille. — Quello mi sembrava legno ben stagionato, e lucidato con cura con cera d’api. Dovrebbe bruciare bene.
— Il buio verrà… ugualmente. - La bestia… Becan… sembrava infinitamente paziente. — Il buio verrà, e tu ti unirai a noi.
— No. Quando tutta la sedia sarà bruciata e la luce comincerà a mancare, io avanzerò e ti ucciderò. Adesso sto solo aspettando per farti sanguinare.
Seguì un silenzio reso maggiormente strano dal fatto che nulla, nell’espressione della bestia, lasciava supporre che questa stesse pensando. Sapevo che, come quanto restava dell’attività neurale di Thecla era stato fissato nei nuclei di alcune delle mie cellule frontali grazie ad una secrezione distillata dagli organi di una creatura come quella, così quell’uomo e sua figlia si aggiravano nell’opaco bosco che era la mente di quell’animale ed erano convinti di essere vivi. Ma io non riuscivo neppure ad immaginare che spettro di vita potesse essere il loro, né quali sogni o desideri potessero entrarvi.
— Fra un turno di guardia o due, quindi - disse ancora la voce dell’uomo, — io ucciderò te o tu ucciderai me. O forse ci distruggeremo a vicenda. Se adesso mi volto e me ne vado nella notte e nella pioggia, mi darai la caccia quando Urth si girerà ancora una volta verso il sole? O rimarrai qui per tenermi lontano dalla donna e dal bambino che mi appartengono?
— No — risposi.
— Sull’onore che possiedi? Lo giuri su quella spada, anche se non la puoi puntare verso il sole?
Feci un passo indietro e rovesciai Terminus Est, tenendo la lama in modo che la sua punta fosse diretta verso il mio cuore.
— Giuro su questa spada, l’emblema della mia Arte, che se non tornerai più questa notte, non ti darò la caccia domani, né rimarrò in questa casa.
Rapido come un serpento, l’alzabo si volse, e, forse, per un istante avrei potuto colpire la sua grossa schiena. Poi scomparve, e non rimase altra traccia della sua presenza che la porta spalancata, la sedia in pezzi e la pozza di sangue (più scuro, mi sembra, di quello degli animali del nostro mondo) che stava penetrando nelle tavole del plancito.
Andai alla porta e la sbarrai, quindi riposi l’Artiglio nella piccola sacca che avevo appesa al collo ed infine, come aveva suggerito la bestia, spostai il tavolo in modo da potermi arrampicare su di esso ed issarmi facilmente nel soppalco. Casdoe ed il vecchio mi aspettavano nell’angolo più lontano insieme al bambino, Severian, nei cui occhi vidi ricordi che sarebbero rimasti in lui per vent’anni a venire. Essi erano illuminati dalla vacillante luce di una lampada sospesa ad una delle travi.
— Sono sopravvissuto, come vedete. Avete sentito quello che abbiamo detto di sotto?
Casdoe annuì senza parlare.
— Se tu mi avessi portato il lume che ti avevo chiesto, non avrei fatto ciò che ho fatto. Così come stavano le cose, non ho sentito alcun obbligo nei vostri confronti. Se fossi in voi, lascerei questa casa non appena si fa giorno e scenderei a valle. Ma questo riguarda solo voi.
— Avevamo paura — mormorò Casdoe.
— Anch’io. Dov’è Agia?
Con mia sorpresa, il vecchio m’indicò qualcosa, ed io guardai nella direzione segnalatami, vedendo che il fitto strato di paglia era stato spostato quanto bastava per praticare un’apertura sufficiente a far passare lo snello corpo di Agia.
Quella notte, dormii accanto al fuoco, dopo aver avvertito che avrei ucciso chiunque si fosse azzardato a scendere di sotto. Al mattino, feci il giro della casa e notai che, come mi ero aspettato, il coltello di Agia non era più conficcato nell’imposta.