La barca galleggiante non mi voleva obbedire, perché non conoscevo la parola per farla muovere. (Ho spesso pensato che quella parola fosse una delle cose che Piaton aveva cercato di dirmi, così come mi aveva suggerito di togliergli la vita; e vorrei avergli prestato attenzione prima). Alla fine, fui costretto a scendere dall’occhio destro, la peggiore scalata di tutta la mia vita. In questo prolungato racconto delle mie avventure, ho più volte detto che non dimentico mai nulla, e invece ho dimenticato molte cose di quella discesa perché ero esausto al punto che mi muovevo come nel sonno. Quando finalmente entrai barcollando nella silenziosa e sigillata città ai piedi dei catafratti, doveva essere quasi notte, e mi distesi accanto ad un muro che mi proteggeva dal vento.
Le montagne posseggono una terribile bellezza, anche quando portano una persona quasi all’orlo della morte; invero, io credo che questa loro bellezza sia allora più evidente, e che i cacciatori che penetrano nelle montagne ben vestiti e ben nutriti e le lasciano ben nutriti e ben vestiti, raramente la notino. Lassù, tutto il mondo può apparire come un bacino naturale d’acque immote e ghiacciate.
Quel giorno discesi per un buon tratto, e trovai altipiani che si stendevano per miglia, coperti di dolce erba e di fiori quali non avevo mai visto a più basse altitudini, fiori piccoli e rapidi a fiorire, perfetti e puri come le rose non potranno mai esserlo.
Quegli altipiani erano frequentemente costeggiati da alture, e, più di una volta, pensai che non avrei più potuto proseguire e sarei dovuto tornare indietro, ma alla fine riuscii sempre a trovare un passaggio, più in alto o più in basso, ed a continuare. Non vidi soldati cavalcare o marciare sotto di me, e, sebbene quello fosse in un certo senso un sollievo, … poiché avevo avuto il timore che le pattuglie dell’arconte stessero ancora seguendo le mie tracce… era una cosa che mi metteva anche a disagio, in quanto mi faceva capire che non ero più nelle vicinanze delle piste lungo le quali veniva rifornito l’esercito.
Il ricordo dell’alzabo tornò a perseguitarmi: sapevo che dovevano esserci molti altri esemplari della sua specie sulle montagne, e poi non potevo avere la certezza che quello incontrato fosse realmente morto. Chi poteva dire quali capacità di recupero possedesse una simile creatura? Se anche riuscivo a dimenticare quella paura alla luce del sole, allontanandola a forza, per così dire, dalla sfera della mia coscienza servendomi delle preoccupazioni relative alla presenza o all’assenza dei soldati, e delle immagini di migliaia di adorabili picchi e cataratte e vallate profonde che assalivano i miei occhi da ogni lato, essa ritornava di notte, quando, raggomitolato nella coperta e nel mantello, e bruciante di febbre, avevo l’impressione di udire il passo soffice della bestia e lo strisciare dei suoi artigli.
Si dice spesso che il mondo sia ordinato in base ad un piano (che si tratti di un piano preesistente alla sua creazione o derivato durante i bilioni di eoni di esistenza del mondo dall’inesorabile logica dell’ordine e della crescita, non fa alcuna differenza); se è così, allora in tutte le cose deve esistere la rappresentazione miniaturizzata delle glorie più grandi ed una descrizione enfatizzata degli aspetti più infimi.
Per tenere lontana la mia attenzione dal ricordo dell’orrore costituito dall’alzabo, cercai di fissarla su quella sfaccettatura della natura della bestia che le permette d’incorporare i ricordi e la volontà degli esseri umani per farli divenire suoi. Il parallelo con le cose più infime mi creò qualche difficoltà: l’alzabo poteva essere paragonato a certi insetti, che si ricoprono il corpo con ramoscelli ed erba, in modo da non essere scoperti dai loro nemici. Vista sotto un certo aspetto, questa cosa non è un inganno… i ramoscelli e l’erba sono là e sono reali. Eppure, l’insetto è sotto di essi. E così era per l’alzabo. Quando Becan, parlando con la bocca della bestia, mi aveva detto di desiderare di avere con sé la moglie ed il figlio, era lui stesso convinto di descrivere i propri desideri, ed in effetti lo stava facendo; eppure, quei desideri sarebbero serviti a nutrire l’alzabo, che era nascosto all’interno e che celava i suoi bisogni e il suo io dietro la voce di Becan.
Non mi sorprese il fatto che si rivelasse molto più difficile riuscire a collegare l’alzabo con una qualche verità più elevata, ma alla fine decisi che poteva essere paragonato all’assorbimento da parte del mondo materiale dei pensieri e degli atti di esseri umani che, per quanto non più vivi, hanno lasciato in quel mondo materiale, con attività che noi possiamo definire opere d’arte, sia che fossero edifici, canzoni, battaglie o esplorazioni, un’impronta tale che per qualche tempo dopo la loro scomparsa si può dire che il mondo prolunghi la loro vita. Proprio sotto questo punto di vista si poteva vedere il suggerimento avanzato dalla bambina Severa all’alzabo di spostare il tavolo nella casa di Casdoe per raggiungere il soppalco, anche se la bambina Severa era morta.
Poi, Thecla venne a consigliarmi, e, sebbene io mi appellassi a lei con ben poca speranza, ed ella avesse ben pochi consigli da darmi, era però stata messa in guardia tante volte contro i pericoli delle montagne da sentirsi indotta a spingermi a proseguire sempre più in basso, verso minori altitudini e maggior calore, non appena fosse sorto il sole.
Non avevo più fame, perché la fame è una cosa che passa se non si mangia. Adesso ero invece provato dalla debolezza, accompagnata da un’eccezionale chiarezza di mente. Poi, la sera del secondo giorno, dopo che ero disceso dalla pupilla dell’occhio destro, m’imbattei nel rifugio di un pastore, una sorta di alveare di pietra, all’interno del quale trovai una pentola ed una quantità di granturco macinato.
Una sorgente montana sgorgava appena ad una dozzina di passi di distanza, ma non c’era legna per il fuoco. Trascorsi la serata raccogliendo nidi abbandonati di uccelli su una superficie rocciosa a mezza lega di distanza, e quella notte accesi il fuoco usando come acciarino la punta di Terminus Est, feci bollire quel pasto secco (il che richiese parecchio tempo a causa dell’altitudine), e lo mangiai tutto. Fu, credo, il pasto più buono che avessi mai consumato, ed aveva un esclusivo ma inconfondibile aroma di miele, come se il nettare della pianta fosse stato trattenuto dai chicchi secchi, così come il sale di certi mari, di cui solo Urth rammenta l’esistenza, è ancora conservato nel cuore di alcune pietre.
Ero deciso a pagare per quello che avevo mangiato, e frugai nella giberna alla ricerca di qualcosa che avesse almeno lo stesso valore del granturco, da lasciare al pastore. Non potevo cedere il libro marrone di Thecla, e mi addolcii la coscienza dicendomi che era improbabile che il pastore sapesse leggere. Non volevo neppure cedere la mia pietra per affilare spezzata… sia perché mi ricordava l’uomo verde, sia perché sarebbe stata un dono di cattivo gusto, là dove pietre altrettanto buone giacevano dappertutto sull’erba. Non avevo denaro, perché avevo lasciato tutto ciò che possedevo a Dorcas, ed alla fine optai per la mantella scarlatta che lei ed io avevamo trovato nel fango della città di pietra molto tempo prima di arrivare a Thrax. Era macchiata e troppo sottile per dare calore, ma sperai che i tasselli ed il colore vivace piacessero a colui del cui cibo mi ero nutrito.
Non ho mai pienamente compreso come avesse fatto quella mantella a finire là dove l’avevo trovata, né se lo strano individuo che ci aveva chiamati a sé in modo da poter avere un sia pur breve periodo di nuova vita, l’avesse lasciata indietro intenzionalmente o per caso quando la pioggia lo aveva costretto a tornare ad essere polvere come era stato da tanto tempo.
L’antico ordine sacerdotale delle Pellegrine deve essere dotato di certi poteri che esse usano raramente o addirittura mai, e non è assurdo supporre che quella pratica di resuscitare i morti si trovi fra essi. Se è così, Apu-Punchau poteva aver chiamato a sé le sacerdotesse come aveva chiamato noi, e la mantella poteva essere stata abbandonata accidentalmente.
Eppure, anche se era così, poteva darsi che fosse stata servita una qualche più elevata autorità. È in questo modo che la maggior parte dei saggi spiegano il paradosso apparente per cui, sebbene noi scegliamo liberamente di compiere questa o quell’altra azione, di commettere un crimine o di rubare per altruismo la sacra distinzione dell’Empyrian, tuttavia l’Increato mantiene il comando assoluto ed è servito in ugual misura (cioè totalmente) da coloro che obbediscono e da coloro che si ribellano.
E non solo questo. Alcuni, le cui argomentazioni ho letto sul libro marrone e discusso parecchie volte con Thecla, sostengono che fluttuanti nella Presenza si trovano una moltitudine di esseri che, sebbene appaiano minuscoli… addirittura infinitesimali… in confronto risultano enormi agli occhi degli uomini, per i quali il loro signore è talmente gigantesco da essere invisibile. (Egli è reso minuto dalla sua illimitata mole, cosicché noi siamo collegati a lui come coloro che camminano su un continente ma vedono solo le foreste, le paludi, le colline di sabbia e così via, e per quanto avvertano, per esempio, la presenza di qualche sassolino nelle scarpe, non riflettono mai sul fatto che la terra che hanno contemplato per tutta la loro vita sta camminando con loro).
Ci sono altri saggi, inoltre, che dubitano dell’esistenza di quel potere cui si dice che questi esseri, che possono essere chiamati amschaspands, siano asserviti, ma che sostengono nondimeno l’esistenza di questi esseri. Le loro asserzioni non sono basate sull’umana testimonianza… che è abbondante ed a cui aggiungo la mia, perché io ho visto un simile essere nelle pagine fatte di specchi nelle camere di Padre Inire… ma piuttosto su una teoria inconfutabile, perché essi dicono che se l’universo non è stato creato (cosa che, per ragioni non completamente filosofiche trovano conveniente negare), allora deve essere esistito da sempre fino a questo giorno. E se esso è così esistito, il tempo stesso si estende al di là del giorno presente senza fine, ed in un simile, illimitato, oceano di tempo, tutte le cose concepibili devono necessariamente passare. Esseri come gli amschaspands sono concepibili, perché questi saggi e molti altri li hanno immaginati. Ma, se creature tanto possenti sono arrivate ad esistere, come possono poi essere distrutte? Pertanto, esse devono esistere ancora.
Così, per la paradossale natura del sapere, si arriva alla conclusione che, se si può dubitare dell’esistenza dell’Ylem, la primordiale fonte di tutte le cose, non si può però dubitare dell’esistenza dei suoi servi.
E, dal momento che simili esseri certamente esistono, non potrebbe darsi che essi interferiscano (se la si può chiamare interferenza) nei nostri affari creando casualità simili a quella della mantella scarlatta che avevo deciso di lasciare nel rifugio? Non è necessaria una potenza illimitata per interferire con l’economia interna di un nido di formiche… un bambino la può sconvolgere con un rametto. Non riesco ad immaginare un pensiero più terribile di questo. (Quello della morte, che è comunemente supposto il più terribile dei pensieri immaginabili, non mi tormenta molto; è più alla mia vita che io, forse a causa della perfezione della mia memoria, trovo difficile pensare.)
Eppure, esiste un’altra spiegazione: forse tutti coloro che cercano di servire la Teofania, e forse anche tutti coloro che sostengono di servirla, per quanto ci sembrino tanto differenti ed addirittura intenti a combattere una specie di guerra gli uni contro gli altri, sono invece tutti legati fra loro, come la marionetta del ragazzo e dell’uomo di legno che avevo visto una volta in sogno e che, sebbene sembrassero combattersi a vicenda, erano nondimeno sotto il controllo di un invisibile individuo che manipolava i fili di entrambi. Se è così, allora lo shaman da noi visto poteva essere stato un amico ed alleato di quelle sacerdotesse che, con il loro grado di civilizzazione, vagavano in lungo ed in largo per la stessa terra sulla quale lui, una volta, in modo primitivo e selvaggio, aveva offerto sacrifici con la rigidità liturgica di tamburi e crotali nel piccolo tempio della città di pietra.
Con le ultime luci del giorno successivo alla notte trascorsa nel rifugio del pastore, arrivai in vista del lago chiamato Diuturna. Era quello, credo, e non il mare, ciò che avevo visto all’orizzonte prima che la mia mente fosse incatenata da Typhon… se in effetti il mio incontro con Typhon e Piaton non era stato una visione o un sogno, dal quale mi ero per forza svegliato nel punto stesso in cui avevo cominciato a sognare. Comunque, il Lago Diuturna è quasi un mare esso stesso, perché le sue dimensioni sono sufficientemente vaste per risultare incomprensibili alla mente; ed è la mente, dopo tutto, a creare le risonanze generate da quella parola… senza la mente, esiste solo una frazione di Urth coperta di acqua stagnante. Anche se quel lago si trova ad un’altitudine sostanzialmente maggiore di quella del mare vero, io trascorsi buona parte del pomeriggio a scendere verso le sue rive.
Quella camminata costituì un’esperienza notevole, che custodisco ancora con piacere, ed è forse una delle più splendide che riesco a rammentare, anche se ora conservo nella mente le esperienze di così tanti uomini e donne, perché, nel discendere quei pendii, passai attraverso le stagioni dell’anno. Quando avevo lasciato il rifugio del pastore, avevo sopra di me, alle mie spalle ed alla mia destra, grandi distese di neve e ghiaccio, attraverso le quali si vedevano scuri crepacci ancora più gelidi, spazzati dal vento che ne toglieva la neve, che scendeva giù a fondersi sulla tenera erba su cui stavo camminando, l’erba dell’inizio della primavera. Mentre avanzavo, l’erba si fece più dura e di un verde più carico; il suono degli insetti, di cui non sono mai consapevole a meno che lo senta da parecchio tempo, riprese, con un vigore che mi fece tornare in mente l’accordo degli strumenti nella Sala Azzurra, prima dell’inizio della cantilena iniziale, un suono che talvolta ero solito ascoltare quando giacevo sul mio pagliericcio vicino alla porta aperta del dormitorio degli apprendisti.
I cespugli, che, nonostante il loro aspetto snello e forte, non erano stati in grado di sopravvivere alle maggiori altitudini dove invece viveva la tenera erba, fecero ora la loro comparsa; ma, quando li osservai con attenzione, scoprii che non erano cespugli, bensì piante che avevo visto altrove sotto forma di torreggianti alberi, accorciate qui dalla breve durata dell’estate e dalla furia selvaggia degli inverni, spesso spezzati dalle intemperie. Su una di quelle piante nane, trovai un tordo nel nido, il primo uccello che vedevo da qualche tempo, fatta eccezione per i volteggianti rapaci degli alti picchi. Una lega più avanti cominciai a sentire i fischi delle cavie, che avevano i loro nidi in buchi fra le sporgenze rocciose e che protendevano le testine chiazzate dai vivi occhi neri per avvertire i loro simili del mio passaggio.
Ancora una lega, ed un coniglio fuggì saltellando dinnanzi a me, terrorizzato al pensiero della roteante astara, che io invece non possedevo. A quel punto, stavo discendendo rapidamente, e cominciai ad accorgermi di quante forze avessi perduto, non solo a causa della fame e della malattia, ma anche per la rarefazione dell’aria. Era come se fossi stato afflitto da un secondo malessere di cui non mi ero accorto fino a che la ricomparsa dei cespugli e degli alberi aveva procurato la giusta cura.
Ormai, il lago non appariva più una lunga linea azzurra e nebbiosa: potevo scorgerlo come una grande distesa, quasi priva di lineamenti, di acqua del colore dell’acciaio, punteggiata da alcune barche che, come avrei appreso in seguito, erano costruite soprattutto di canne, e con un piccolo e perfetto villaggio all’estremità di una baia posta solo un poco sulla destra della mia attuale linea di viaggio.
Così come non mi ero reso conto di quanto fossi debole fino ad allora, fu solo quando vidi le barche ed il villaggio dai tetti di paglia che compresi quanto mi ero sentito solo da quando il bambino era morto. Era più che semplice solitudine, credo, perché non avevo mai avuto un gran bisogno di compagnia, a meno che fosse la compagnia di qualcuno che potevo chiamare mio amico. Certamente, di rado ho desiderato di conversare con stranieri o di vedere facce sconosciute. Credo piuttosto che, stando da solo, avevo in un certo senso l’impressione di aver perso la mia individualità: per il tordo ed il coniglio, io non ero Severian, bensì l’Uomo. Molta gente che ama vivere completamente sola, e, in particolare, completamente sola in luoghi selvaggi, lo fa, io credo, perché ama interpretare quel ruolo. Ma io volevo tornare ad essere una persona ben determinata, e perciò cercai lo specchio di altre persone, che mi potesse mostrare che non ero identico agli altri.