Lasciai il palazzo dell’arconte attraverso uno dei cancelli che davano sull’entroterra. Là c’erano di guardia sei soldati, che non avevano nulla dell’aria rilassata che aveva caratterizzato l’atteggiamento dei due guardiani al cancello sul fiume, appena pochi turni di guardia prima.
Uno di loro, sbarrandomi la strada con educazione ma in modo deciso, mi chiese se era tanto necessario che me ne andassi così presto. Mi qualificai e risposi che temevo proprio di dover andare, perché avevo ancora molto lavoro da svolgere quella notte (ed era vero) e perché il giorno dopo mi aspettava una dura giornata (il che era altrettanto vero).
— Allora sei un eroe — la voce del soldato suonò leggermente più amichevole. — Non hai una scorta, Littore?
— Avevo due clavigeri, ma li ho congedati: non c’è motivo perché non riesca a ritrovare da solo la strada fino al Vincula.
— Puoi rimanere qui fino al mattino — intervenne un altro soldato che non aveva ancora parlato. — Ti troveremo una cuccetta tranquilla per riposare.
— Grazie, ma così non potrei sbrigare il mio lavoro. Temo di dover andar via adesso.
Il soldato che mi bloccava la strada si fece da parte, dicendo:
— Mi piacerebbe farti accompagnare da un paio di uomini, e, se puoi aspettare un momento, lo farò: devo ottenere il permesso dall’ufficiale di guardia.
— Non sarà necessario — replicai, e mi allontanai prima che i soldati potessero aggiungere altro. Qualcosa… forse l’assassino di cui mi aveva parlato il mio sergente… si stava evidentemente muovendo nella città, e mi parve quasi sicuro che un altro omicidio si fosse verificato durante il periodo in cui ero rimasto nel palazzo dell’arconte. Quel pensiero mi riempì di un piacevole senso di eccitamento… non perché io fossi tanto sciocco da ritenermi superiore a qualsiasi attacco, ma perché l’idea di essere attaccato, di rischiare la morte quella notte nelle oscure strade di Thrax, servì a dissipare in parte il senso di depressione che altrimenti provavo. Quel terrore incorporeo, quella minaccia notturna senza volto, era il primo dei miei terrori infantili, e, come tale, ora che mi ero da tempo lasciato alle spalle la fanciullezza, aveva quel non so che di piacevole che hanno tutte le cose dell’infanzia quando si è adulti.
Mi trovavo già sulla stessa riva del fiume su cui sorgeva lo jacal che avevo visitato quel pomeriggio, e non c’era bisogno che prendessi di nuovo la barca, ma le strade mi erano sconosciute, e, nel buio, sembravano quasi un labirinto costruito per confondermi, per cui sbagliai parecchie volte prima di riuscire ad imboccare la stretta stradina che stavo cercando e che portava su per la collina.
Gli edifici ai lati della stradina, che erano immersi nel silenzio mentre attendevano che la possente ombra dell’immenso muro di pietra che sorgeva di fronte a loro si levasse a coprire il sole, risuonavano ora di mormorii di voci, ed alcune finestre splendevano della luce di lampade a olio. Mentre Abdiesus festeggiava nel suo palazzo vicino al fiume, anche la gente umile che viveva sulla collina faceva festa, ma in un modo che differiva da quello dell’arconte per il fatto che era più quieto.
Udii suoni d’innamorati mentre passavo, così come li avevo uditi nel giardino dell’arconte dopo aver lasciato Cyriaca per sempre, e sentii voci di uomini e di donne che discorrevano quietamente, ed anche rumori di litigi, qua e là. Il giardino del palazzo era profumato dai fiori, e la sua aria era lavata dalle fontane e dalla grande fiumana dell’Acis che scorreva appena fuori di esso. Qui, quegli odori non si avvertivano, ma la brezza che soffiava fra gli jacals e le grotte dalle aperture chiuse portava talvolta una puzza di rifiuti, talaltra l’aroma del tè o il profumo di qualche umile stufato, o anche solo l’odore della limpida aria montana.
Quando arrivai tanto in alto, su per la collina, da trovarmi dove non abitava nessuno che fosse abbastanza ricco da potersi permettere un mezzo d’illuminazione più costoso di un semplice fuoco, mi volsi a fissare la città come l’avevo osservata… anche se con uno spirito del tutto differente… dai bastioni del Castello di Acies quel pomeriggio. Si dice che nelle montagne ci siano crepacci tanto profondi che si possono scorgere in fondo ad essi le stelle… crepacci, quindi, tanto profondi da arrivare dall’altra parte del mondo, ed io ebbi ora l’impressione di averne trovato uno: era come guardare una costellazione, come se tutta Urth fosse svanita ed io stessi fissando un golfo stellato.
Mi sembrava probabile che in quel momento avessero ormai cominciato a cercarmi, ed immaginai i dimarchi dell’arconte che galoppavano per le strade portando magari con sé le fiaccole prese nel giardino. Molto peggiore era per me immaginare i clavigeri, che erano stati fino a quel momento ai miei ordini, uscire dal Vincula per cercarmi, ma non vidi alcuna luce muoversi e non udii alcun debole, rauco grido, e, se c’era agitazione nel Vincula, era un’agitazione che non si estendeva alle silenziose strade che si diramavano come una ragnatela sul pendio dall’altra parte del fiume. Avrebbe dovuto anche esserci un bagliore tremolante là dove il grande portone si spalancava per far uscire gli uomini appena destati, poi si chiudeva, poi tornava ad aprirsi; ma non vidi nulla. Infine, mi voltai e ripresi a salire: l’allarme non era ancora stato dato, ma era solo questione di tempo.
Nello jacal non c’era luce, né suono di conversazione. Estrassi l’Artiglio dalla sua sacca prima di entrare, per timore di non aver il coraggio di farlo una volta all’interno. Talvolta, esso brillava come un fuoco artificiale, come aveva fatto nella locanda di Saltus, mentre in altre occasioni non possedeva più luce di un pezzo di vetro. Quella notte, nello jacal, non era splendente, ma ardeva di una bagliore di un azzurro tanto cupo che la sua luce sembrava quasi un’oscurità più tenue di quella notturna. Di tutti i nomi dati al Conciliatore, quello meno usato e che mi aveva sempre lasciato sconcertato era il nome di Sole Nero, ma, a partire da quella notte, ebbi l’impressione di riuscire quasi a comprendere quel nome. Non potevo indurali a tenere la gemma fra le dita, come avevo già fatto in passato e come avrei ancora fatto in seguito, quindi deposi la gemma sul palmo della mano destra, in modo che il mio tocco non fosse più sacrilego del necessario, e, tenendola dinnanzi a me, mi chinai ed entrai nello jacal.
La ragazza giaceva dove l’avevo vista quel pomeriggio; se respirava, io non riuscii a sentirla, e non si muoveva. Il ragazzo con l’occhio malato dormiva sulla nuda terra ai piedi della sorella. Doveva aver comprato un po’ di cibo con il denaro che gli avevo dato, perché sul pavimento erano sparse bucce di granoturco e di frutti. Per un momento, osai sperare che nessuno dei due si svegliasse.
La luce cupa dell’Artiglio mi mostrò il volto della ragazza come qualcosa di più debole ed orrendo di quanto mi fosse parso alla luce del giorno, accentuando le depressioni sotto gli occhi e l’infossatura della guance. Sentii che avrei dovuto dire qualcosa, che avrei dovuto invocare l’Increato ed i suoi messaggeri con qualche formula, ma la mia bocca era più arida e priva di parole di quella di una bestia. Lentamente, abbassai la mano verso di lei fino a quando la sua ombra non bloccò la luce che le bagnava il volto. Quando tornai a sollevare la mano, non vidi alcun mutamento nelle condizioni della ragazza, e, rammentando come l’Artiglio non avesse aiutato Jolenta, mi chiesi se fosse possibile che la pietra non avesse efficacia sulle donne, o se in quel caso dovesse necessariamente tenerla in mano un’altra donna. Poi, toccai la fronte della ragazza con la pietra, in modo che, per un momento, parve che in quel viso quasi cadaverico fosse spuntato un terzo occhio.
Di tutti gli usi che ho fatto della pietra, quello è stato il più stupefacente, e forse l’unico in cui non era possibile attribuire l’accaduto alla mia credulità o ad una coincidenza, per quanto esasperata essa fosse. Poteva anche darsi che l’emorragia dell’uomo-scimmia si fosse arrestata a causa della credulità di quest’ultimo, che l’ulano incontrato lungo la strada della Casa Assoluta fosse solamente stordito e che si sarebbe comunque ripreso, e che l’apparente guarigione delle ferite di Jonas non fosse stato altro che uno scherzo della luce.
Ma adesso era come se un qualche potere inimmaginabile avesse agito nell’intervallo fra un chronon e l’altro per deviare l’universo dal suo cammino. Gli occhi della ragazza, neri come polle d’acqua, si aprirono, ed il suo volto non era più il teschio di prima ma solo la faccia tesa e sciupata di una giovane donna.
— Chi sei tu, con quegli abiti vivaci? — mi chiese, e poi aggiunse: — Oh, sto sognando.
Le dissi che ero un amico e che non doveva aver paura.
— Non ho paura — rispose. — Ne avrei se fossi sveglia, ma ora non lo sono. Sembri appena caduto dal cielo, ma so che sei soltanto l’ala di qualche povero uccello. Ti ha catturato Jader? Canta per me…
I suoi occhi si richiusero, e questa volta udii il suo lento respiro. Il suo volto rimase com’era quando gli occhi erano aperti… minuto e teso, ma il marchio della morte era stato cancellato da esso.
Le tolsi la gemma dalla fronte e sfiorai con essa l’occhio del ragazzo, come avevo fatto con la fronte della sorella, ma non sono sicuro che questo fosse necessario, dato che l’occhio appariva normale già prima che l’Artiglio lo toccasse, per cui forse l’infezione era già stata debellata. Jader si agitò nel sonno e gridò come se stesse sognando di correre e d’incitare altri ragazzi più lenti a seguirlo.
Riposi l’Artiglio nella sua sacca e sedetti sul pavimento di terra, fra le bucce, restando in ascolto. Qualche tempo dopo Jader si quietò nuovamente.
La luce delle stelle tracciava un piccolo disegno vicino alla porta, ma, per il resto, lo jacal era completamente al buio. Potevo sentire il respiro della giovane donna e quello del ragazzo.
La malata aveva detto che io, che indossavo il manto di fuliggine dal giorno della mia elevazione ad apprendista, e che, prima di allora, avevo indossato solo stracci grigi, portavo un abito dai colori brillanti. Sapevo che era rimasta abbagliata dalla luce che le ardeva sulla fronte, e che qualsiasi cosa, qualsiasi vestito, in quel momento le sarebbe parso brillante, eppure sentivo che, in un certo senso, lei aveva ragione. Non era che (come sarei tentato di scrivere) io fossi arrivato ad odiare il mio manto, i calzoni e gli stivali; piuttosto, ero arrivato a capire che quell’abito era davvero il travestimento a causa del quale ero stato scambiato al palazzo dell’arconte, o il costume che era sembrato essere quando avevo partecipato alla commedia del Dr. Talos.
Anche un torturatore è un uomo, e non è naturale che un uomo vesta sempre e soltanto abiti di quella tonalità più scura del nero. Avevo disprezzato la mia ipocrisia quando avevo indossato il mantello marrone acquistato nella bottega di Agilus, ma forse la fuliggine che avevo celato sotto di esso era un’ipocrisia altrettanto grande, se non più grande ancora.
Poi, la verità cominciò ad imporsi alla mia mente: se mai ero stato un torturatore, un torturatore nel modo in cui lo erano il Maestro Gurloes ed il Maestro Palaemon, non lo ero più. Qui a Thrax mi era stata offerta una seconda occasione, avevo fallito anche in questa, e non ne avrei avuta una terza. Potevo ottenere qualche impiego grazie al mio abbigliamento ed alle mie capacità, ma questo era tutto; e, naturalmente, sarebbe stato meglio per me distruggere quegli abiti non appena possibile e cercare di farmi posto fra i soldati che combattevano a nord, una volta che fossi riuscito… se mai ce l’avrei fatta… a restituire l’Artiglio.
Il ragazzo si mosse e chiamò un nome che doveva essere quello della sorella, che mormorò a sua volta qualcosa nel sonno. Mi alzai, li osservai ancora per un momento, poi scivolai fuori, temendo che la vista del mio volto duro e della mia lunga spada li spaventasse.