SELIDOR

Destandosi al mattino, Arren vide davanti alla barca, indistinte e basse lungo l’azzurro orizzonte occidentale, le spiagge di Selidor.

Nel palazzo di Berila c’erano vecchie mappe che erano state eseguite ai tempi dei re, quando i mercanti e gli esploratori salpavano dalle Terre Interne e gli stretti erano meglio conosciuti. Una grande mappa del nord e dell’ovest era tracciata in mosaico su due pareti della sala del trono del principe, con l’isola di Enlad in oro e grigio al di sopra del seggio. Arren la vedeva con l’occhio della mente, come l’aveva vista mille volte nella sua infanzia. A nord di Enlad c’era Osskil, e a ovest di questa Ebosskil, e a sud di quest’ultima Semel e Paln. Là finivano le Terre Interne, e non c’era altro che il pallido mosaico verdazzurro del mare vuoto, e qua e là un minuscolo delfino o una balena. Poi, alla fine, dopo l’angolo dove la parete nord incontrava la parete ovest, c’era Narveduen, e più oltre tre isole più piccole. E poi ancora il mare vuoto, all’infinito: fino a quando, al limite della parete e all’estremità della mappa, c’era Selidor: e oltre Selidor non c’era più nulla.

La ricordava chiaramente, con la sua forma ricurva, e una grande baia al centro che si apriva verso est, senza allargarsi molto. Non erano giunti tanto a nord, ma adesso stavano virando verso una cala profonda nel capo più meridionale dell’isola: e là, mentre il sole era ancora basso nella foschia del mattino, sbarcarono.

Così ebbe fine la grande corsa dalle Strade di Balatran all’Isola Occidentale. Il silenzio parve loro strano, quando ebbero tirato in secco la Vistacuta e dopo tanto tempo rimisero piede sulla terraferma.

Ged salì su una duna bassa, incoronata d’erba, con la cresta che sporgeva sul ripido declivio, legata a cornicioni dalle dure radici dell’erba. Quando raggiunse la sommità restò immobile, a guardare verso ovest e verso nord. Arren si fermò accanto alla barca, per calzare le scarpe, che non portava da molti giorni, ed estrasse la spada dalla cassa e la cinse: e questa volta non si chiese se doveva o non doveva farlo. Poi salì sulla duna, accanto a Ged, per guardare quella terra.

Le dune procedevano verso l’interno, basse ed erbose, per circa mezzo miglio; e poi c’erano lagune, fitte di carici e di canne d’acqua salmastra; e più oltre colline basse, giallo-brune e vuote, fino a perdita d’occhio. Selidor era bella e desolata. Non c’era traccia della presenza dell’uomo e delle sue opere. Non si vedevano bestie, e i laghi fitti di giunchi non ospitavano stormi di gabbiani o di oche selvatiche o di altri uccelli.

Tra la duna più esterna e quella successiva c’era una depressione di sabbia pulita, riparata: il sole del mattino splendeva caldo sul pendio occidentale. — Lebannen — disse il mago, che adesso usava il vero nome di Arren, — questa notte non ho potuto dormire, e ora devo farlo. Resta con me, e monta di guardia. — Si sdraiò al sole, perché all’ombra faceva freddo; si coprì gli occhi col braccio, sospirò e si addormentò. Arren gli si sedette accanto. Non vedeva null’altro che i bianchi pendii della depressione, e l’erba delle dune che s’inchinava alla sommità contro l’azzurro nebbioso del cielo, e il giallo sole. Non c’era altro suono che lo smorzato mormorio della risacca; e talvolta il vento, spirando a refoli, smuoveva leggermente le particelle di sabbia con un lieve fruscio.

Arren vide qualcosa che poteva essere un’aquila, altissima nel cielo: ma non era un’aquila. Volteggiò e si tuffò, discese con quel rombo e quell’acuto sibilo delle auree ali spiegate. Atterrò con gli enormi artigli sulla sommità della duna. Controsole, la grande testa era nera e aveva baluginii di fuoco.

Il drago strisciò per un breve tratto giù per il pendio, e parlò. — Agni Lebannen — disse.

Arren, che stava fra il drago e Ged, rispose: — Orm Embar. — E tenne in mano la spada snudata.

Adesso non la sentiva pesante. L’elsa levigata e consunta si adattava bene alla sua mano. La lama era uscita dal fodero agevolmente, quasi con impazienza. Il potere e l’antichità della spada erano dalla sua parte, perché adesso sapeva come farne uso. Era la sua spada.

Il drago parlò di nuovo, ma Arren non poteva comprenderlo. Girò la testa a guardare il compagno addormentato, che non si era svegliato a quel rombo tonante, e disse al drago: — Il mio signore è stanco: dorme.

A quelle parole Orm Embar scese ad avvolgersi sul fondo della depressione. Era pesante, al suolo, non più libero e agile come quando volava, ma c’era un’eleganza sinistra nel modo in cui posava lentamente le grandi zampe unghiute e la curva della coda spinosa. Quando giunse sul fondo piegò le zampe, eresse l’enorme testa e restò immobile, come un drago scolpito sull’elmo di un guerriero. Arren vedeva il suo occhio giallo, a meno di tre braccia da lui, e sentiva il lieve odore di bruciato che gli aleggiava intorno. Non era un fetore di carogna: era asciutto e metallico, e si armonizzava con i fievoli odori del mare e della sabbia salata: un odore pulito e selvatico.

Il sole, levandosi ancora più in alto, investì i fianchi di Orm Embar, che sfolgorò come un drago forgiato di ferro e d’oro.

Ged dormiva ancora, abbandonato, e non faceva caso al drago più di quanto un contadino addormentato badi al suo cane.

Trascorse un’ora; e poi Arren, con un sussulto, si accorse che il mago si era levato a sedere accanto a lui.

— Ti sei abituato ai draghi al punto di addormentarti tra le loro zampe? — chiese Ged, e rise sbadigliando. Poi si alzò e parlò a Orm Embar nella lingua dei draghi.

Prima di rispondere, anche Orm Embar sbadigliò (forse per il sonno, forse per spirito di rivalità). Era uno spettacolo che ben pochi possono vantare di aver visto: le file dei denti bianco-gialli lunghi e affilati come spade, la rossa lingua biforcuta lunga il doppio della statura di un uomo, la fumante caverna della gola.

Orm Embar parlò, e Ged stava per rispondere quando entrambi si voltarono a guardare Arren. Avevano udito, nitido nel silenzio, il cavernoso fruscio dell’acciaio nel fodero. Arren stava guardando il ciglio della duna, dietro la testa del mago, e teneva la spada in pugno.

E là, illuminato dal sole, stava un uomo: il vento leggero gli agitava le vesti. Era immobile come una statua, eccettuato quel lieve svolazzare dell’orlo e del cappuccio del mantello. La sua chioma era lunga e nera, e cadeva in una massa di riccioli lucenti; aveva le spalle ampie, ed era alto. Un uomo forte e bello. I suoi occhi sembravano guardare oltre loro, verso il mare. Sorrideva.

— Conosco Orm Embar — disse. — E conosco anche te, Sparviero, sebbene tu sia invecchiato dall’ultima volta che ti ho visto. Adesso sei arcimago, mi dicono. Sei diventato grande, non soltanto vecchio. E hai con te un giovane servitore: un apprendista mago, senza dubbio, uno di coloro che imparano la saggezza sull’isola dei Saggi. Cosa fate, qui, tanto lontano da Roke e dalle mura invulnerabili che proteggono i Maestri da ogni male?

— C’è una breccia in mura anche più grandi — disse Ged, stringendo il bastone con entrambe le mani e levando lo sguardo verso l’uomo. — Ma non vuoi venire a noi in carne e ossa, in modo che possiamo salutare colui che abbiamo cercato a lungo?

— In carne e ossa? — ripeté l’uomo, e sorrise di nuovo. — Il corpo, la carne da macello, ha dunque tanta importanza tra due maghi? No, incontriamoci mente a mente, arcimago.

— Questo, credo, non possiamo farlo. Ragazzo, riponi la spada. Questa è soltanto un’apparizione, non un uomo vero. Tanto varrebbe sguainare la spada contro il vento. A Havnor, quando avevi i capelli bianchi, tu eri chiamato Pannocchia. Ma era soltanto un nome d’uso. Come dovremo chiamarti, quando t’incontreremo?

— Mi chiamerete Signore — disse l’alta figura sul ciglio della duna.

— Sì, e cos’altro?

— Re e Maestro.

A quelle parole Orm Embar sibilò, un suono fortissimo e tremendo, e i suoi grandi occhi brillarono; tuttavia distolse la testa dall’uomo e si acquattò, come se non riuscisse a muoversi.

— E dove verremo a te, e quando?

— Nel mio regno, e a mio piacere.

— Molto bene — disse Ged; alzò il bastone, lo spostò un poco verso l’uomo… e l’uomo sparì, come la fiamma di una candela che viene spenta.

Arren sbarrò gli occhi, e il drago si sollevò poderosamente sulle quattro zampe arcuate, e la corazza tintinnò e le labbra si aggricciarono scoprendo i denti. Ma il mago si appoggiò di nuovo al bastone.

— Era solo un’immagine trasmessa da quell’uomo. Può parlare e udire ma non ha potere, tranne quello che le prestano le nostre paure. Non corrisponde neppure al suo vero aspetto, a meno che così voglia colui che l’invia. Non abbiamo visto ciò che è adesso, credo.

— Pensi che sia vicino?

— Queste immagini non varcano l’acqua. È su Selidor. Ma Selidor è una grande isola: più larga di Roke e di Gont, e lunga quasi quanto Enlad. Forse dovremo cercarlo a lungo.

Allora parlò il drago. Ged ascoltò, poi si rivolse ad Arren. — Così dice il Signore di Selidor: «Io sono ritornato alla mia terra, e non la lascerò. Troverò il Distruttore e vi condurrò a lui, affinché insieme possiamo annientarlo». E non ho forse detto che un drago trova sempre ciò che cerca?

Poi piegò il ginocchio davanti al grande essere, come un vassallo davanti a un re, e lo ringraziò nella sua lingua. L’alito del drago, così vicino, era rovente sulla sua testa china.

Orm Embar trascinò il corpo squamoso su per la duna, batté le ali e prese il volo.

Ged si spolverò la sabbia dalle vesti e disse ad Arren: — Ora mi hai visto inginocchiato. E forse mi vedrai inginocchiarmi di nuovo, prima della fine.

Arren non chiese cosa volesse dire: nella lunga frequentazione, aveva imparato che il riserbo del mago aveva sempre un motivo. Eppure gli sembrava che quelle fossero parole di malaugurio.

Attraversarono la duna e tornarono sulla spiaggia, per assicurarsi che la barca fosse più in alto di dove potevano giungere la marea o la tempesta, e per prendere i mantelli per la notte e il cibo avanzato. Ged indugiò un attimo accanto alla sottile prua che li aveva portati su mari sconosciuti, così a lungo, così lontano: vi posò la mano ma non gettò incantesimi e non disse una parola. Poi si avviarono di nuovo nell’entroterra, verso le colline.

Camminarono tutto il giorno, e a sera si accamparono in riva a un ruscello che si snodava verso i laghi e le paludi intasati dalle canne. Sebbene fosse piena estate, il vento era gelido: veniva dall’ovest, dalle infinite distese senza terre del mare aperto. La nebbia velava il cielo, e neppure una stella brillava sopra le colline, dove non c’era mai stato il bagliore di un focolare o di una finestra illuminata.

Arren si svegliò nell’oscurità. Il loro fuocherello si era spento, ma la luna che scendeva verso occidente illuminava la terra di una luce grigia e vaporosa. Nella valle del ruscello e sulle colline circostanti c’era una moltitudine di gente: e tutti erano immobili e silenziosi, con la faccia rivolta verso Ged e Arren. I loro occhi non riflettevano la luce della luna.

Arren non osò parlare, ma posò la mano sul braccio di Ged. Il mago si scosse e si levò a sedere chiedendo: — Cosa succede? — Seguì lo sguardo del ragazzo e vide la gente silenziosa.

Erano tutti abbigliati di scuro, uomini e donne. I loro volti non si scorgevano chiaramente nella luce fioca, ma ad Arren sembrava che, tra coloro che stavano più vicini, nella valle al di là del ruscello, ci fossero alcuni che conosceva, anche se non avrebbe saputo dire i loro nomi.

Ged si alzò, e il mantello gli cadde da dosso. Il volto e i capelli e la camicia erano pallidi e argentei, come se la luce della luna si raccogliesse su di lui. Tese le braccia in un ampio gesto e disse, a voce alta: — O voi che avete vissuto, andate liberi! Io infrango il vincolo che vi trattiene: anvassa mane harw pennodathe!

Per un momento la moltitudine di figure silenziose rimase immobile. Poi si voltarono lentamente, parvero allontanarsi nella grigia oscurità, e scomparvero.

Ged si sedette. Tirò un profondo respiro. Guardò Arren e gli posò la mano sulla spalla, e quel tocco era caldo e deciso. — Non c’è nulla da temere, Lebannen — disse gentilmente, con ironia. — Erano solo i morti.

Arren annuì, sebbene gli battessero i denti e si sentisse gelato fino alle ossa. — Come… — incominciò: ma la mandibola e le labbra non gli ubbidivano ancora.

Ged lo comprese. — Sono venuti al suo comando. Questo è ciò che promette: la vita eterna. A una sua parola, possono ritornare. Al suo ordine, devono camminare sulle colline della vita, sebbene non possano smuovere neppure un filo d’erba.

— È… Dunque anche lui è morto?

Ged scosse la testa, pensieroso. — I morti non possono richiamare nel mondo i morti. No, ha i poteri di un uomo vivo, e anche di più… Ma se qualcuno ha pensato di seguirlo, lui l’ha ingannato. Serba il potere per se stesso. Gioca al re dei morti: e non dei morti soltanto… Ma quelle erano solo ombre.

— Non so perché ho tanta paura di loro — disse Arren, pieno di vergogna.

— Li temi perché temi la morte, e a ragione: perché la morte è terribile e va temuta. — Il mago gettò altra legna nel fuoco e soffiò sulle braci sotto la cenere. Un piccolo bagliore fiorì sui ramoscelli, una luce gradita ad Arren. — E anche la vita è terribile — aggiunse Ged. — E va temuta e lodata.

Si sedettero, avviluppandosi nei mantelli. Rimasero in silenzio per qualche tempo. Poi Ged parlò, in tono grave. — Lebannen, non so per quanto potrà provocarci con immagini e ombre. Ma tu sai dove andrà, alla fine.

— Nella terra tenebrosa.

— Sì. Tra loro.

— Ora li ho visti. Verrò con te.

— È la fede in me, che ti anima? Puoi fidarti del mio amore, ma non devi fidarti della mia forza. Perché credo di aver incontrato il mio degno avversario.

— Verrò con te.

— Ma se sarò sconfitto, se il mio potere o la mia vita finissero, non potrò guidarti sulla via del ritorno: e da solo non potrai ritornare.

— Ritornerò con te.

Allora Ged disse: — Tu entri nella vita di adulto davanti alla porta della morte. — E poi, a voce molto bassa, pronunciò la parola o il nome con cui il drago aveva chiamato per due volte Arren: — Agni… Agni Lebannen.

Non parlarono più, e poco dopo il sonno ritornò a loro, e si sdraiarono accanto al piccolo fuoco, che aveva ripreso a divampare per breve tempo.

La mattina seguente si rimisero in cammino, verso nordovest: questa era la decisione di Arren, e non di Ged, il quale disse: — Scegli tu la nostra strada, ragazzo: tutte le vie sono uguali, per me. — Non si affrettavano, perché non avevano una meta e attendevano un segnale di Orm Embar. Seguirono la catena estrema di colline, la più bassa, quasi sempre in vista dell’oceano. L’erba era arida e corta, perennemente agitata dal vento. Le colline si ergevano auree e desolate alla loro destra, e sulla sinistra si stendevano le paludi salmastre e il mare occidentale. Una volta videro alcuni cigni in volo, lontano, verso il sud. Per tutto quel giorno non scorsero altri esseri viventi. E per tutto il giorno una specie di stanchezza — la stanchezza del timore, dell’attesa del peggio — crebbe nell’animo di Arren; e vennero l’impazienza e una collera cupa. Osservò, dopo ore di silenzio: — Questa terra è morta, come la terra stessa della morte.

— Non dirlo — gli ingiunse seccamente il mago. Continuò a camminare per un po’, e quindi continuò, con voce mutata: — Guarda questa terra; guardati intorno. Questo è il tuo regno, il regno della vita. Questa è la tua immortalità. Guarda le colline, le colline mortali. Non durano in eterno. Le colline coperte di erba viva, e con i ruscelli che scorrono… In tutto il mondo, in tutti i mondi, nell’immensità del tempo, non c’è un altro ruscello uguale a questi, che scaturiscono freddi dalla terra dove nessun occhio li vede, e corrono verso il mare, attraverso il sole e l’oscurità. Profonde sono le sorgenti dell’essere, più profonde della vita e della morte.

Si fermò: ma nei suoi occhi, mentre guardava Arren e le assolate colline, c’era un grande amore, muto e doloroso. E Arren lo vide, e vedendolo vide Ged per la prima volta com’era in realtà.

— Non saprei spiegare cosa intendo — mormorò Ged, tristemente.

Ma Arren pensò a quella prima ora nel Cortile della Fontana, all’uomo che si era inginocchiato accanto all’acqua corrente; e in lui sgorgò una gioia limpida come il ricordo di quell’acqua. Guardò il suo compagno e disse: — Ho dato il mio amore a ciò che è degno d’amore. Non è questo, il regno e la sorgente imperitura?

— Sì, ragazzo — rispose Ged, gentilmente, dolorosamente.

Proseguirono in silenzio. Ma adesso Arren vedeva il mondo con gli occhi del compagno, e vedeva lo splendore vivente rivelato intorno a loro nella terra silente e desolata, come per un potere d’incantamento che trascendesse ogni altro, in ogni filo d’erba piegato dal vento, in ogni ombra e in ogni pietra. Come quando uno sta per l’ultima volta in un luogo amato, prima di un viaggio senza ritorno, e lo vede tutto, integralmente, reale e caro, come non l’ha mai visto prima e come non lo rivedrà mai più.

Quando venne la sera, linee dentellate di nubi salirono da occidente, portate dal mare sui grandi venti, e arsero fiammeggianti dinanzi al sole, arrossandolo mentre tramontava. Intento a raccogliere fascine per accendere il fuoco nella valle di un ruscello, in quella luce rossa, Arren alzò gli occhi e vide un uomo a meno di tre braccia da lui. Il volto di quell’uomo era indistinto e strano: ma Arren lo riconobbe. Era il Tintore di Lorbanery, Sopli, che era morto.

Dietro di lui stavano altri, e tutti avevano un volto immobile e triste. Sembrava che parlassero, ma Arren non riusciva a udire le loro parole: soltanto una specie di mormorio che il vento d’occidente portava via. Alcuni avanzarono lentamente.

Si alzò e li guardò, e poi guardò di nuovo Sopli: quindi voltò loro le spalle, si chinò e raccolse un altro ramoscello, sebbene gli tremassero le mani. L’aggiunse al carico, e poi ne raccolse un altro e un altro ancora. Infine si raddrizzò e si voltò indietro. Non c’era nessuno nella valle, solo la luce rossa che ardeva sull’erba. Ritornò da Ged e depose il carico di legna, ma non parlò di ciò che aveva visto.

Per tutta la notte, nell’oscurità nebbiosa di quella terra priva di anime viventi, ogni volta che si svegliava dal sonno irrequieto udiva intorno a sé i mormoni delle anime dei morti. Con uno sforzo di volontà, non li ascoltava e tornava ad addormentarsi.

Si svegliarono tardi, quando il sole, già alto di una spanna sopra le colline, si liberò finalmente dalla nebbia e rischiarò la fredda terra. Mentre consumavano il modesto pasto mattutino giunse il drago, volteggiando nell’aria sopra di loro. Dalle sue fauci scaturiva il fuoco, e fumo e scintille eruttavano dalle rosse narici: i denti luccicavano come lame d’avorio in quel bagliore livido. Ma non disse nulla, sebbene Ged lo salutasse e gridasse nella sua lingua: — L’hai trovato, Orm Embar?

Il drago ributtò all’indietro la testa e inarcò stranamente il corpo, graffiando il vento con gli artigli acuminati. Poi riprese a volare rapido, verso ovest, voltandosi a guardarli.

Ged strinse il bastone e lo batté al suolo. — Non può parlare — disse. — Non può parlare! Le parole della Creazione gli sono state sottratte, ed è rimasto come una vipera, come un verme senza lingua, e la sua sapienza è muta. Eppure può guidarci, e noi possiamo seguirlo! — Issatisi sulle spalle i leggeri zaini, si avviarono verso ovest, attraverso le colline, nella direzione in cui si era involato Orm Embar.

Proseguirono per otto miglia o più, senza rallentare quell’andatura svelta e costante. Adesso il mare stava a destra e a sinistra, e loro procedevano su un lungo crinale che finiva col discendere tra canne aride e letti tortuosi di ruscelli verso una spiaggia sabbiosa e curvilinea, color avorio. Era il capo più occidentale di tutte le isole, la fine della terra.

Orm Embar stava acquattato su quella sabbia eburnea, con la testa abbassata come un gatto infuriato e il respiro che gli usciva dalle fauci in sbuffi di fuoco. Un poco più avanti, fra il drago e i lunghi e bassi frangenti del mare, stava una specie di rifugio o di capanna, bianco, come costruito di legno gettato a riva dal mare e sbiancato dal tempo. Ma non c’era legno gettato su quella spiaggia, che non era rivolta verso altre terre. Quando si avvicinarono, Arren vide che quelle pareti malferme erano formate da grandi ossa: ossa di balena, pensò in un primo momento, e poi vide i triangoli bianchi, affilati come coltelli, e comprese che erano ossa di drago.

Giunsero in quel luogo. La luce del sole riflessa dal mare scintillava nelle fenditure tra le ossa. L’architrave della porta era un femore più lungo di un uomo: sopra stava un teschio umano, che fissava con le vuote occhiaie le colline di Selidor.

Si fermarono; e mentre guardavano il teschio un uomo uscì dalla porta. Aveva un’armatura di bronzo dorato e di foggia antica: era lacerata, come da colpi d’ascia, e il fodero ingemmato della spada era vuoto. Il suo volto era severo, con le sopracciglia nere e arcuate e il naso sottile; gli occhi erano scuri, acuti e dolorosi. C’erano ferite sulle sue braccia e sulla gola e sui fianchi: non sanguinavano più, ma erano ferite mortali. Rimase eretto, immobile, a guardarli.

Ged mosse un passo verso di lui. Quasi si somigliavano, così faccia a faccia.

— Tu sei Erreth-Akbe — disse Ged. L’altro lo fissò con fermezza e annuì, ma non parlò.

— Perfino tu, perfino tu devi fare il suo volere. — C’era furore, nella voce di Ged. — Oh mio signore, il più valoroso e il migliore di tutti noi, riposa nel tuo onore e nella morte! — Levate le mani, le riabbassò in un gesto solenne, ripetendo le parole che aveva rivolto alle moltitudini dei morti. Le sue mani lasciarono nell’aria, per un momento, un’ampia scia lucente. Quando questa scomparve, l’uomo in armatura non c’era più, e soltanto il sole brillava abbagliante sulla sabbia.

Ged batté col bastone sulla casa d’ossa, e la casa cadde e svanì. Non rimase nulla, tranne una grande costola che spuntava dalla rena.

Il mago si girò verso Orm Embar. — È qui, Orm Embar? È questo, il luogo?

Il drago aprì le fauci ed emise un immane sibilo ansimante.

— Qui, sull’ultima spiaggia del mondo. Bene! — Poi, impugnando nella mano sinistra il nero bastone di tasso, Ged spalancò le braccia nel gesto dell’invocazione e parlò. Sebbene parlasse nella lingua della Creazione, Arren comprese, finalmente, come devono comprendere tutti coloro che odono quell’invocazione, perché ha potere su tutti: — Ora io ti chiamo qui, mio nemico, davanti ai miei occhi e in persona, e ti lego con la parola che non verrà pronunciata fino alla fine del tempo, e ti comando di venire!

Ma dove avrebbe dovuto pronunciare il nome di colui che chiamava, Ged, disse soltanto: mio nemico.

Seguì un silenzio, come se il suono del mare si fosse dileguato. Ad Arren parve che il sole si offuscasse e si affievolisse, sebbene fosse alto nel cielo sereno. Un’oscurità si stese sulla spiaggia, come se si fossero messi a guardare attraverso un vetro affumicato: direttamente davanti a Ged l’oscurità divenne più intensa, ed era difficile vedere cosa c’era. Era come se non ci fosse nulla, nulla su cui potesse cadere la luce, un’assenza di forma.

E ne uscì un uomo, all’improvviso. Era lo stesso che avevano visto sulla duna, con i capelli neri e le braccia lunghe, alto e snello. Adesso impugnava una lunga verga, o una canna d’acciaio, interamente intarsiata di rune, e la protese verso Ged mentre si girava nella sua direzione. Ma c’era qualcosa di strano nell’espressione dei suoi occhi, come se fossero abbagliati dal sole e non potessero vedere.

— Io vengo — disse, — di mia libera scelta, e a modo mio. Tu non puoi chiamarmi, arcimago. Non sono un’ombra. Sono vivo. Io solo sono vivo! Tu credi di esserlo, ma stai morendo, morendo. Sai cosa impugno? È il bastone del Mago Grigio, colui che ridusse al silenzio Nereger; il Maestro della mia arte. Ma ora sono io, il Maestro. E ne ho abbastanza di giocare con te. — Con queste parole protese di scatto la lama d’acciaio per toccare Ged, che stava immobile come se non potesse muoversi né parlare. Arren era un passo più indietro, e tutta la sua volontà gli imponeva di muoversi: ma non poteva, non poteva neppure portare la mano sull’elsa della spada, e la voce gli si era arrestata nella gola.

Ma al di sopra di Ged e di Arren, al di sopra delle loro teste, immenso e fiammeggiante, il grande corpo del drago balzò, fremendo, e piombò con violenza sull’altro, così che la lama d’acciaio incantata penetrò in tutta la sua lunghezza nel petto corazzato del drago; ma l’uomo venne travolto dal suo peso, schiacciato e bruciato.

Rialzandosi dalla sabbia, inarcando il dorso e battendo le ali, Orm Embar vomitò sprazzi di fuoco e urlò. Tentò di volare, ma non vi riuscì. Freddo e maligno, il metallo gli era entrato nel cuore. Si accovacciò, e il sangue gli sgorgò a fiotti dalle fauci, nero e velenoso e fumante, e il fuoco si spense nelle sue narici finché divennero simili a fosse di cenere. Appoggiò la grande testa sulla sabbia.

Così morì Orm Embar, dov’era morto il suo progenitore Orm, sulle ossa di Orm sepolte nella sabbia.

Ma dove Orm aveva gettato a terra il suo nemico, giaceva qualcosa di orrendo e raggrinzito, come il corpo di un ragno enorme disseccato nella sua tela. Era stato bruciato dall’alito del drago e schiacciato dalle sue zampe artigliate. Eppure, mentre Arren lo guardava, si mosse. Si trascinò via, un po’ lontano dal drago.

La faccia si levò verso di loro. Non vi rimaneva più ombra di bellezza ma solo la rovina, la vecchiaia sopravvissuta alla vecchiaia. La bocca era incartapecorita. Le occhiaie erano vuote, e lo erano da molto tempo. Così Ged e Arren videro il volto vivo del loro nemico.

Si girò. Le braccia arse e annerite si tesero e vi si addensò una tenebra, la stessa oscurità informe che offuscava la luce del sole. Tra le braccia del Distruttore c’era come un’arcata o una porta, indistinta, senza contorni: e oltre quella non c’erano la pallida sabbia e l’oceano ma un lungo pendio di tenebra che scendeva nel buio.

Là entrò la figura sfracellata e strisciante, e quando passò nella tenebra parve improvvisamente alzarsi e muoversi in fretta: e scomparve.

— Vieni, Lebannen — disse Ged, posando la mano destra sul braccio del ragazzo: e avanzarono nella terra arida.

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