LUCE INCANTATA

Aveva la bocca secca, e piena di un sapore di polvere. Le sue labbra erano coperte di polvere.

Senza sollevare la testa dal pavimento, osservò il gioco delle ombre. C’erano le ombre grandissime che si muovevano e si piegavano, ingrandivano e rimpicciolivano; e altre, più fioche, che correvano svelte intorno alle pareti e al soffitto, irridendo quelle più grandi. C’erano un’ombra nell’angolo e un’ombra sul pavimento, e nessuna delle due si muoveva.

La nuca incominciava a dolergli. E nello stesso tempo, ciò che vedeva gli appariva chiarissimo, nella mente, in un unico bagliore cristallizzato in un istante: Lepre accasciato in un angolo, con la testa sulle ginocchia, Sparviero lungo disteso, riverso, e un uomo stava inginocchiato accanto a lui, e un altro gettava pezzi d’oro in una borsa, e un altro ancora stava in piedi e osservava. Il terzo uomo stringeva una lanterna in una mano e un pugnale nell’altra: il pugnale di Arren.

Anche se parlavano, lui non li udiva. Udiva soltanto i propri pensieri, che gli dettarono immediatamente, senza esitazioni, ciò che doveva fare. Subito eseguì. Si trascinò in avanti per un mezzo braccio con estrema lentezza, protese di scatto la mano sinistra e afferrò la borsa del bottino, balzò in piedi e si lanciò verso la scala con un grido rauco. Si precipitò giù per i gradini, nella cieca oscurità, senza mettere i piedi in fallo, come se stesse volando. Irruppe nella strada e corse via, a tutta velocità, nel buio.

Le case erano masse scure contro lo sfondo delle stelle. La fievole luce del cielo brillava sulla sua destra, e sebbene lui non potesse vedere dove conducevano le strade, riusciva a scorgere i crocicchi, e perciò poteva svoltare e ritornare indietro. Gli sconosciuti l’avevano seguito: li sentiva dietro di sé, non molto lontano. Erano scalzi, e il loro respiro ansimante era più rumoroso dei loro passi. Arren avrebbe riso, se ne avesse avuto il tempo: finalmente sapeva cosa si prova quando si è la selvaggina anziché il cacciatore, la preda anziché il capo della muta. Significa essere soli, e liberi. Deviò verso destra e corse, tenendosi chino, attraverso un ponte dal parapetto alto; s’infilò in una strada laterale, svoltò a un angolo, ritornò sul lungofiume e lo percorse per un tratto, poi attraversò un altro ponte. Le sue scarpe risuonavano rumorosamente sui ciottoli, ed era l’unico suono in tutta la città. Si fermò al riparo del ponte per slacciarle: ma le stringhe si erano ingarbugliate, e gli inseguitori non avevano perso le sue tracce. La lanterna scintillò, oltre il fiume; i passi pesanti e rapidi si avvicinarono. Non riusciva a liberarsene. Poteva soltanto distanziarli, continuare a correre, per condurli più lontano dalla stanza polverosa, sempre più lontano…

Gli avevano tolto la giubba, insieme al pugnale: era in maniche di camicia, leggero e accaldato, e gli girava la testa, e il dolore alla nuca diventava sempre più acuto a ogni passo, e lui correva e correva… La borsa lo intralciava. All’improvviso la gettò a terra, e un pezzo d’oro schizzò fuori e urtò le pietre con un tintinnio. — Ecco il vostro denaro! — gridò lui, con voce roca e ansimante. Continuò a correre. E all’improvviso la strada finì. Davanti a lui non c’erano né strade traverse né stelle: un vicolo cieco. Senza indugiare, girò su se stesso e corse incontro ai suoi inseguitori. La lanterna dondolava furiosamente davanti ai suoi occhi, e lui si avventò con un urlo di sfida.


C’era una lanterna che oscillava avanti e indietro, una fioca chiazza di luce in un grande grigiore in movimento. La guardò a lungo. Si affievolì, e finalmente un’ombra le passò davanti, e quando l’ombra sparì anche la luce era scomparsa. Lui se ne rammaricò, un poco; o forse si rammaricava per se stesso, perché sapeva che adesso doveva svegliarsi.

La lanterna, spenta, dondolava ancora dall’albero cui era agganciata. Tutt’intorno, il mare s’illuminava all’avvento del sole. Un tamburo rullava. I remi scricchiolavano pesantemente, regolarmente; il fasciame della nave strideva con cento piccole voci; un uomo, lassù, a prua, gridò qualcosa ai marinai che gli stavano dietro. Gli uomini incatenati insieme ad Arren nella stiva di poppa tacevano tutti. Ognuno portava una banda di ferro intorno alla vita, e manette ai polsi, collegati da una catena corta e pesante ai ceppi dell’uomo accanto; e la cintura di ferro era incatenata anche a una chiavarda fissata al ponte, in modo che l’uomo potesse stare seduto o accovacciato ma non alzarsi in piedi. Erano troppo vicini per sdraiarsi, stretti nella stiva poco spaziosa. Arren era nell’angolo anteriore di babordo. Se alzava la testa, i suoi occhi si trovavano all’altezza del ponte tra la stiva e il parapetto, che era largo mezzo braccio.

Non ricordava molto della notte precedente, dopo che era giunto nel vicolo cieco. Si era battuto ed era stato messo fuori combattimento, e legato e portato via. Aveva parlato un uomo dalla strana voce sussurrante; c’era stato un luogo che sembrava una fucina, col rosso e guizzante fuoco di una forgia… Non riusciva a rammentarlo. Ma sapeva che quella era una nave di razziatori di schiavi, e che l’avevano catturato per venderlo.

Tutto questo non significava molto, per lui. Aveva troppa sete. Era indolenzito in tutto il corpo, e gli faceva male la testa. Quando sorse il sole, la luce inviò lance di sofferenza nei suoi occhi.

A metà mattina ciascuno ebbe un quarto di pagnotta e una lunga sorsata da una borraccia di cuoio, accostata alle labbra da un uomo che aveva una faccia dura e spigolosa. Aveva il collo cinto da un’alta striscia di pelle borchiata come il collare di un cane, e quando Arren lo sentì parlare riconobbe la strana voce fievole e fischiante.

La bevanda e il cibo alleviarono per un poco la debolezza fisica e gli schiarirono la mente. Per la prima volta guardò in faccia i suoi compagni di schiavitù: tre nella sua fila e quattro più indietro. Alcuni stavano seduti, con la testa appoggiata alle ginocchia; uno era accasciato, sofferente o in preda all’effetto della droga. Quello al suo fianco era un giovane sulla ventina, con la faccia larga e piatta. — Dove ci portano? — gli chiese Arren.

Il giovane lo guardò — le loro facce distavano l’una dall’altra poco più di una spanna — e sogghignò scrollando le spalle, e Arren ritenne che intendesse far capire che non lo sapeva; ma poi agitò le mani incatenate, gesticolando, e aprì la bocca ancora sogghignante, mostrando una radice nera al posto della lingua.

— A Showl — disse uno, dietro Arren; e un altro: — Oppure al Mercato di Amrun. — E subito l’uomo dal collare, che sembrava onnipresente, si chinò sulla stiva sibilando: — Tacete, se non volete finire in pasto agli squali. — E tutti tacquero.

Arren cercò d’immaginare quei luoghi: Showl, il Mercato di Amrun. Là si vendevano schiavi. Li schieravano davanti ai compratori, senza dubbio, come i buoi o gli arieti in vendita sulla Piazza del Mercato di Berila. E lui sarebbe stato là, incatenato. Qualcuno l’avrebbe comprato e portato a casa e gli avrebbe dato un ordine, e lui avrebbe rifiutato di ubbidire. Oppure avrebbe ubbidito, e avrebbe tentato la fuga. E sarebbe stato ucciso, in un modo o nell’altro. La sua anima non si ribellava all’idea della schiavitù: era troppo sofferente e frastornato, per farlo. Semplicemente, sapeva di non poterlo fare; entro una settimana o due sarebbe morto, o sarebbe stato ucciso. Sebbene lo capisse e vi si rassegnasse, l’idea lo spaventava; perciò smise di pensare al futuro. Abbassò lo sguardo sul sudicio fasciame nero della stiva, tra i suoi piedi, e sentì il calore del sole sulle spalle nude, sentì la sete che gli inaridiva di nuovo la bocca e gli stringeva la gola.

Il sole tramontò. Venne la notte, serena e fredda. Le stelle si affacciarono, nitide. Il tamburo batteva come un cuore lento, ritmando i colpi dei remi, perché non c’era alito di vento. Il freddo diventò il tormento peggiore. La schiena di Arren assorbiva un po’ di tepore dalle gambe dell’uomo che gli stava dietro, il suo fianco sinistro dal muto che gli sedeva accanto, aggobbito, canticchiando un motivo borbottante, su una nota sola. I rematori cambiarono turno; il tamburo riprese a rullare. Arren aveva desiderato l’oscurità, ma non poteva dormire. Gli dolevano le ossa, e non poteva cambiare posizione. Restò seduto, dolorante e tremante, assetato, guardando le stelle che sobbalzavano nel cielo a ogni colpo di remi, scivolavano di nuovo al loro posto, restavano immote, sobbalzavano di nuovo, scivolavano, si soffermavano…

L’uomo con il collare e un altro stavano fra la stiva di poppa e l’albero maestro: la piccola lanterna oscillante appesa all’albero gettava bagliori in mezzo a loro e ne profilava le teste e le spalle. — Nebbia, vescica di porco — disse la voce debole e odiosa dell’uomo dal collare. — Cosa ci fa la nebbia nello Stretto Meridionale in questa stagione? Maledetta sfortuna!

Il tamburo rullava. Le stelle sussultavano, scivolavano, si soffermavano. Accanto ad Arren, l’uomo senza lingua rabbrividì all’improvviso e alzò la testa lanciando un urlo d’incubo, un suono terribile e informe. — Zitto, là! — ruggì il secondo uomo accanto all’albero. Il muto rabbrividì ancora e tacque, muovendo le mascelle come se masticasse.

Furtivamente, le stelle scivolarono avanti, nel nulla.

L’albero fremette e svanì. Una fredda coltre grigia sembrò cadere sul dorso di Arren. Il tamburo mancò un colpo e poi riprese il ritmo, ma più lento.

Nella nebbia non c’era la sensazione del movimento in avanti, solo il dondolio e la strappata dei remi. Il ritmo del tamburo si era smorzato. Era freddo e umido. La nebbia, condensandosi nei capelli di Arren, gli scorreva negli occhi: lui cercò di afferrare le gocce con la lingua e respirò l’aria umida con la bocca aperta, tentando di placare la sete. Ma gli battevano i denti. Il freddo metallo di una catena gli dondolava contro le cosce, e al contatto bruciava come fuoco. Il tamburo batté, e batté, e tacque.

Silenzio.

— Continua a suonare! Cosa succede? — ruggì la voce roca e bisbigliante dalla prua. Nessuna risposta.

La nave rollava leggermente sul mare tranquillo. Al di là degli indistinti parapetti non c’era nulla: il vuoto. Qualcosa stridette contro la fiancata della nave. Il rumore echeggiò in quel silenzio strano e morto, in quell’oscurità. — Abbiamo toccato fondo — mormorò uno dei prigionieri, ma il silenzio si chiuse sulla sua voce.

La nebbia divenne luminosa, come se vi fiorisse una luce. Arren vide chiaramente le teste degli uomini incatenati accanto a lui, le minuscole gocce di umidità che luccicavano nei loro capelli. La nave ondeggiò di nuovo, e Arren si alzò per quanto glielo permettevano le catene, allungando il collo per vedere più avanti. La nebbia risplendeva sul ponte, come la luna dietro nuvole sottili, fredda e radiosa. I rematori erano seduti, immobili come statue. I membri della ciurma erano nella parte centrale della nave, e i loro occhi scintillavano lievemente. Solo, a babordo, stava un uomo: ed era da lui che s’irradiava la luce, dal volto e dalle mani e dal bastone che ardevano come argento fuso.

Ai piedi dell’uomo risplendente stava accovacciata una forma scura.

Arren tentò di parlare, senza riuscirvi. Abbigliato della maestà della luce, l’arcimago gli si avvicinò e s’inginocchiò sul ponte. Arren sentì il tocco della sua mano, udì la sua voce. Sentì le strisce di ferro ai polsi e alla vita cedere: in tutta la stiva vi fu un tintinnio di catene. Ma nessuno si mosse. Soltanto Arren cercò di alzarsi; ma non vi riuscì, intorpidito com’era dalla lunga immobilità. La forte mano dell’arcimago gli strinse il braccio; con quell’aiuto, uscì dalla stiva e si rannicchiò sul ponte.

L’arcimago si allontanò da lui, e lo splendore nebuloso brillò sulle immobili facce dei rematori. Si arrestò accanto all’uomo che stava accovacciato vicino al parapetto di babordo.

— Io non punisco — disse la voce chiara e dura, fredda come la fredda luce incantata nella nebbia. — Ma in nome della giustizia, Egre, io mi assumo questa responsabilità: comando alla tua voce di tacere fino al giorno in cui troverai una parola degna di essere pronunciata.

Ritornò da Arren e l’aiutò ad alzarsi in piedi. — Adesso vieni, ragazzo — disse; e Arren, sorretto da lui, riuscì ad avanzare barcollando e a lasciarsi cadere nella barca che ondeggiava sotto la fiancata della nave: la Vistacuta, con la vela che spiccava nella nebbia come l’ala di una falena.

Nello stesso silenzio, nella stessa calma morta, la luce si estinse, e la barca virò e si allontanò dalla fiancata della nave. Quasi immediatamente la galea, la fioca lanterna appesa all’albero maestro, i rematori immobili, la nera fiancata incombente, scomparvero. Arren credette di udire voci che prorompevano in grida, ma era un suono troppo esile e subito si perse. Dopo un poco, la nebbia cominciò a diradarsi e a disperdersi nel buio. Emersero le stelle; e silenziosa come una farfalla, la Vistacuta volò nella notte chiara, sul mare.

Sparviero aveva avviluppato Arren nelle coperte e gli aveva dato acqua da bere; era seduto, con la mano sulla spalla del ragazzo, quando quest’ultimo scoppiò improvvisamente a piangere. Sparviero non disse nulla, ma c’era una gentile fermezza nel contatto della sua mano. Lentamente, Arren si sentì confortato: il calore, il leggero movimento della barca, la serenità del cuore.

Alzò gli occhi verso il compagno. Non c’era più il fulgore ultraterreno intorno al volto scuro. Riusciva a malapena a distinguerlo contro lo sfondo delle stelle.

La barca continuava a volare, guidata dall’incantesimo. Le onde mormoravano contro le sue fiancate, quasi stupite.

— Chi è l’uomo dal collare?

— Sta’ calmo. Un predone del mare, Egre. Porta quel collare per nascondere una cicatrice, un taglio alla gola. Sembra che abbia cambiato mestiere, passando dalla pirateria al commercio degli schiavi. Ma questa volta ha catturato il cucciolo d’orso. — C’era un’eco di soddisfazione nella voce quieta e asciutta.

— Come mi hai trovato?

— Magia, corruzione… Ho perso tempo. Non volevo che si risapesse che l’arcimago, il Custode di Roke, si aggirava come un furetto tra le catapecchie di Città Hort. Avrei voluto conservare ancora il mio travestimento. Ma dovevo rintracciare quest’uomo e quello, e quando finalmente ho scoperto che il mercante di schiavi era salpato prima del levar del sole ho perso la calma. Ho preso la Vistacuta e ho pronunciato la parola che ha portato il vento nella sua vela, con la bonaccia, e ho inchiodato agli scalmi i remi di tutte le navi in quella baia: per un po’, almeno. Come lo spiegheranno, se la magia è solo aria e menzogna, è affar loro. Ma nella fretta e nella collera ho superato la nave di Egre senza vederla: si era spinta a sudest per evitare gli scogli. Non ho fatto altro che sbagliare per tutta la giornata. Non c’è fortuna, a Città Hort… Be’, alla fine ho lanciato un incantesimo di ritrovamento, e così mi sono avvicinato alla nave nell’oscurità. Ma adesso non sarebbe meglio che tu dormissi?

— No, adesso mi sento molto meglio. — Una febbre leggera aveva preso il posto del freddo, e adesso Arren si sentiva veramente bene; fisicamente era illanguidito, ma la sua mente sfrecciava rapida da un pensiero all’altro. — Quando ti sei svegliato? Che fine ha fatto Lepre?

— Mi sono svegliato allo spuntar del giorno: e fortuna che ho la testa dura: dietro l’orecchio ho un bernoccolo e un taglio come un cocomero spaccato. Ho lasciato Lepre immerso nel sonno della droga.

— Non ho fatto la guardia come dovevo…

— Ma non perché ti eri addormentato.

— No. — Arren esitò. — Era… ero…

— Mi avevi preceduto: ti ho visto — disse stranamente Sparviero. — E così quelli sono entrati e ci hanno colpiti alla testa come agnelli, hanno preso l’oro, gli abiti buoni, lo schiavo vendibile, e se ne sono andati. È te che volevano, ragazzo. Avresti spuntato il prezzo di una fattoria, al Mercato di Amrun.

— Non mi hanno dato una botta abbastanza forte. Mi sono svegliato. Li ho costretti a inseguirmi. Ho sparpagliato il loro bottino per la strada, prima che mi bloccassero. — Gli occhi di Arren scintillavano.

— Ti sei svegliato mentre c’erano loro… e sei fuggito? Perché?

— Per allontanarli da te. — Lo stupore del tono di Sparviero colpì Arren nel suo orgoglio; aggiunse, risentito: — Pensavo che cercassero te. Pensavo che intendessero ucciderti. Ho afferrato la loro borsa, perché m’inseguissero, e sono fuggito. E loro mi hanno seguito.

— Sì… era logico che lo facessero. — Sparviero non disse altro: non una parola di elogio, sebbene rimanesse seduto a riflettere per qualche istante. — Non hai pensato che io potevo essere già morto?

— No.

— Prima uccidi e poi ruba: è il sistema più sicuro.

— Non ci avevo pensato. Ho pensato soltanto ad allontanarli da te.

— Perché?

— Perché tu avresti potuto difenderci entrambi, tirarci fuori dai guai, se avessi avuto il tempo di svegliarti. O almeno, tirar fuori dai guai te stesso. Io ero di guardia, e non ho fatto il mio dovere. Così, ho cercato di rimediare. Eri tu, quello che dovevo proteggere. Tu sei l’unico che conta. Ti accompagno per difenderti, o per servirti secondo le tue necessità: sei tu a guidarci, sei tu quello che può giungere dove dobbiamo andare e raddrizzare ciò che non va.

— Davvero? — ribatté il mago. — Anch’io la pensavo così, fino all’altra notte. Pensavo di avere un seguace, ma invece ho seguito te. — Il suo tono era sereno, forse un po’ ironico. Arren non seppe ribattere. Era completamente confuso. Aveva pensato che difficilmente la sua colpa di essersi abbandonato al sonno o alla trance mentre stava di guardia sarebbe stata espiata dalla prodezza con cui aveva allontanato i predoni da Sparviero; ma adesso sembrava che il suo fosse stato un gesto sciocco, mentre andare in trance al momento sbagliato era stato straordinariamente opportuno.

— Mi dispiace, mio signore — disse infine, con le labbra irrigidite, dominando a stento l’impulso di piangere. — Ti ho deluso. E tu mi hai salvato la vita…

— E tu, forse, hai salvato la vita a me — replicò il mago, bruscamente. — Chissà? Forse mi avrebbero tagliato la gola, dopo aver finito. Non parliamone più, Arren. Sono lieto di averti con me.

Poi andò alla cassa, accese la piccola stufa a carbone dolce, e cominciò a darsi da fare. Arren rimase sdraiato a guardare le stelle; e le sue emozioni si placarono, la sua mente smise di turbinare. E allora comprese che quanto aveva fatto e non aveva fatto non sarebbe stato giudicato da Sparviero. L’aveva fatto: Sparviero l’accettava come realtà. «Io non punisco» aveva detto a Egre, con voce fredda. E non ricompensava. Ma era venuto in tutta fretta a cercarlo attraverso il mare, scatenando il potere della sua magia per salvarlo; e l’avrebbe fatto ancora. Meritava tutto l’amore che Arren provava per lui, e tutta la fiducia. Perché si era fidato di Arren. Ciò che Arren faceva, era giusto.

Poi l’arcimago ritornò e gli porse una ciotola di vino fumante. — Forse questo ti farà dormire. Sta’ attento, se no ti scotti la lingua.

— Da dove viene? A bordo non ho mai visto un solo otre di vino…

— Sulla Vistacuta c’è molto più di quanto si vede — disse Sparviero, sedendosi di nuovo accanto a lui; e Arren lo sentì ridere, brevemente e quasi silenziosamente, nell’oscurità.

Si levò a sedere, per bere il vino. Era delizioso, e ristorava il corpo e lo spirito. Arren chiese: — Adesso dove andiamo?

— Verso occidente.

— Dove sei andato, con Lepre?

— Nella tenebra. Io non l’ho mai perso, ma lui era perduto. Vagava ai confini esterni, nell’interminabile deserto del delirio e dell’incubo. La sua anima pigolava come un uccello in quei luoghi squallidi, come un gabbiano che grida lontano dal mare. Lui non è una guida: è sempre stato perduto. Nonostante la sua arte magica, non ha mai visto la via davanti a sé: vedeva solo se stesso.

Arren non comprendeva completamente quelle parole, e adesso non voleva neanche capire. Era stato attirato per un breve tratto in quella «tenebra» di cui parlavano i maghi, e non voleva ricordarla: non aveva nulla in comune con lui. E non voleva dormire, per non rivederla in sogno, per non scorgere quella figura cupa, quell’ombra che protendeva una perla e sussurrava «Vieni».

— Mio signore — cominciò, mentre la sua mente virava rapida verso un altro pensiero, — perché…

— Dormi! — disse Sparviero, con blanda esasperazione.

— Non posso dormire, mio signore. Mi sto chiedendo perché non hai liberato gli altri schiavi.

— L’ho fatto. Non ho lasciato nessuno incatenato, a bordo di quella nave.

— Ma gli uomini di Egre erano armati. Se avessi incatenato loro…

— Sì, se li avessi incatenati? Erano soltanto sei. I rematori erano schiavi alla catena, come te. A quest’ora Egre e i suoi uomini possono essere morti, o incatenati dagli altri per finire venduti come schiavi: ma li ho lasciati liberi di combattere o di mercanteggiare. Io non faccio schiavi.

— Ma sapevi che erano uomini malvagi…

— E perciò dovevo comportarmi come loro? Lasciare che le loro azioni condizionassero le mie? Non sarò io a scegliere per loro, e non permetterò che scelgano per me!

Arren rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. Dopo un po’, il mago disse, con voce lieve: — Vedi, Arren: contrariamente a quanto pensano i giovani, un’azione non è un sasso che si raccoglie e si scaglia e che colpisce il bersaglio o lo manca e tutto finisce lì. Quando quel sasso viene sollevato, la terra è più leggera; la mano che lo stringe è più pesante. Quando viene lanciato, i circuiti delle stelle reagiscono, e dove colpisce o cade, l’universo cambia. Da ogni azione dipende l’equilibrio del tutto. I venti e i mari, le potenze dell’acqua e della terra e della luce, tutto ciò che loro fanno e tutto ciò che fanno le bestie e le piante, è ben fatto, e fatto giustamente. Tutti agiscono nell’ambito dell’Equilibrio. Dall’uragano, dall’immersione di una grande balena, fino alla caduta di una foglia secca e al volo di un moscerino, tutto ciò che viene fatto viene fatto nell’ambito dell’equilibrio del tutto. Ma noi, poiché abbiamo potere sul mondo e l’uno sull’altro, dobbiamo imparare a fare ciò che la foglia e la balena e il vento fanno per loro natura. Dobbiamo imparare a mantenere l’equilibrio. Poiché abbiamo l’intelligenza, non dobbiamo agire nell’ignoranza. Poiché possiamo scegliere, non possiamo agire senza responsabilità. Chi sono io, anche se ho il potere di farlo, per punire e ricompensare, giocando col destino degli uomini?

— Ma allora — disse il ragazzo, guardando le stelle con la fronte aggrondata, — l’equilibrio si conserva non facendo nulla? Senza dubbio, un uomo deve agire, anche se non conosce tutte le conseguenze del suo atto, se si deve fare qualcosa.

— Non temere. Per gli uomini, agire è assai più facile che astenersi dall’azione. Continueremo a fare il bene e a fare il male… Ma se ci fosse di nuovo un re, al di sopra di tutti noi, e se chiedesse il consiglio di un mago come avveniva nell’antichità, e io fossi quel mago, gli direi: mio signore, non fare mai qualcosa perché è giusto o lodevole o generoso farlo; non fare qualcosa perché ti sembra bene farlo; fa’ solo ciò che devi fare, e che non puoi fare in altro modo.

Il tono di voce indusse Arren a voltarsi a scrutarlo, mentre parlava. Gli parve che lo splendore della luce s’irradiasse di nuovo da quel volto: vide il naso aquilino, la guancia sfregiata, gli occhi scuri e ardenti. E lo guardò con amore ma anche con paura, pensando: è troppo al di sopra di me. Eppure, mentre lo guardava, si accorgeva finalmente che sulle linee e sui piani del volto di quell’uomo non c’era la luce incantata, non c’era il freddo splendore della magia, ma c’era la luce stessa: il mattino, la normale luce del giorno. C’era un potere più grande di quello del mago. E gli anni non erano stati generosi con Sparviero più che con qualunque altro uomo. Il suo volto recava i segni dell’età, e aveva l’aria stanca, via via che la luce si rafforzava. Arren sbadigliò…

E così, mentre guardava e rifletteva, finalmente si addormentò. Ma Sparviero restò seduto accanto a lui, a guardare l’alba che spuntava e il sole che sorgeva, come se scrutasse un tesoro alla ricerca di qualche oggetto smarrito, una gemma difettosa, un bambino malato.

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