I FIGLI DEL MARE APERTO

Verso la metà di quel giorno, Sparviero si mosse e chiese acqua. Quando ebbe bevuto, domandò: — Dove siamo diretti? — Perché la vela era tesa sopra di lui, e la barca si tuffava come una rondine sulle onde lunghe.

— Verso ovest o nordovest.

— Ho freddo — disse Sparviero. Il sole sfolgorava, e riempiva di calore la barca.

Arren non disse nulla.

— Cerca di mantenere la rotta verso ovest. Wellogy, a ovest di Obehol. Sbarca là. Abbiamo bisogno di acqua.

Il ragazzo guardò avanti, sul mare deserto.

— Cosa c’è, Arren?

Lui non disse nulla.

Sparviero cercò di levarsi a sedere, non vi riuscì, e allora tentò di raggiungere il bastone che stava accanto alla cassa degli attrezzi; ma era fuori dalla sua portata, e quando riprovò a parlare, le parole si arrestarono sulle sue labbra secche. Il sangue sgorgò di nuovo sotto la fasciatura incrostata, formando un esile filamento cremisi sulla pelle scura del suo petto. Lui tirò un brusco respiro e chiuse gli occhi.

Arren lo scrutò, ma apaticamente, e non a lungo. Andò a prua e tornò ad accovacciarsi, guardando avanti. Aveva la bocca inaridita. Adesso il vento dell’est spirava costante sul mare aperto, ed era secco come il vento del deserto. Nel barile c’erano solo due o tre pinte d’acqua; e Arren aveva deciso di serbarle per Sparviero, non per sé; non aveva mai pensato di bere quell’acqua. Aveva calato le lenze perché da quando avevano lasciato Lorbanery aveva imparato che il pesce crudo placa anche la sete, non soltanto la fame; ma non abboccava mai niente. Non aveva importanza. La barca continuava a procedere sul deserto d’acqua. Lentamente, anche il sole si muoveva da est a ovest, e alla fine vinceva la gara di tutta l’ampiezza del cielo.

A un certo momento Arren credette di scorgere una vetta azzurra, a sud, che poteva essere una terra o una nube; da ore la barca correva un po’ verso nordovest. Non cercò di bordeggiare e di virare: lasciò che andasse dove voleva. Quella terra poteva essere reale e poteva non esserlo: non importava. Per lui tutto l’immenso e fiammeggiante fulgore del vento e della luce e dell’oceano era offuscato e falso.

Venne l’oscurità, e poi di nuovo la luce, e poi l’oscurità, e la luce, come rulli di tamburo sul tesissimo telone del cielo.

Arren immerse la mano nell’acqua, sporgendosi dalla fiancata della barca. Per un istante la vide, vividamente: la sua mano verdepallida sotto l’acqua viva. Si piegò e succhiò le gocce dalle dita. Erano amare, e gli bruciavano dolorosamente le labbra, ma lui lo fece di nuovo. Poi fu preso dalla nausea, e si accosciò vomitando: ma era solo un po’ di bile che gli bruciava la gola. Non aveva più acqua da dare a Sparviero, e aveva paura di avvicinarglisi. Si sdraiò, rabbrividendo nonostante il caldo. Era tutto silente, asciutto e luminoso: terribilmente luminoso. Si riparò gli occhi dalla luce.


Stavano sulla barca, ed erano tre, esili come steli e angolosi, con gli occhi grandi, come strani aironi scuri, o gru. Le loro voci erano sottili, come quelle degli uccelli. Lui non li capiva. Uno s’inginocchiò sopra di lui, reggendo sul braccio una vescica scura, e l’inclinò verso la sua bocca: era acqua. Arren bevve avidamente, tossì perché un po’ gliene era andata di traverso, e bevve ancora fino a vuotare il recipiente. Poi si guardò intorno e si alzò, faticosamente, chiedendo: — Dov’è, dov’è? — perché con lui, a bordo della Vistacuta, c’erano soltanto quei tre uomini strani e sottili.

E quelli lo guardarono senza comprendere.

— L’altro uomo — gracchiò Arren, e la gola dolorante e le labbra incrostate stentavano a formare le parole. — Il mio amico…

Uno dei tre comprese la sua angoscia, se non le sue parole, e posandogli sul braccio una mano sottile tese l’altra a indicare. — Là — disse, rassicurante.

Arren guardò. E vide, a nord della barca, tante zattere, alcune radunate vicino e altre sfilate lontano, attraverso il mare: tante zattere che sembravano foglie d’autunno in uno stagno. Ciascuna, bassa sull’acqua, aveva al centro una o due cabine o capanne, e molte avevano anche alberi montati. Galleggiavano come foglie, sollevandosi e riabbassandosi lievemente quando le immense onde lunghe dell’oceano occidentale passavano sotto di loro. In mezzo, le fasce d’acqua brillavano come argento; e in cielo torreggiavano grandi nembi violetti e dorati, carichi di pioggia, che oscuravano l’ovest.

— Là — disse l’uomo, additando una grande zattera accanto alla Vistacuta.

Vivo?

Tutti lo guardarono, e finalmente uno comprese. — Vivo. È vivo. — Allora Arren cominciò a piangere, a singulti secchi, e uno degli uomini gli prese il polso nella mano sottile e forte e lo trascinò dalla Vistacuta alla zattera cui era legata la barca. La zattera era così grande e leggera che non s’inclinò neppure lievemente sotto il loro peso. L’uomo guidò Arren avanti, mentre uno degli altri protendeva un pesante grappino munito di un dente ricurvo di squalo-balena e tirava più vicina un’altra zattera per poter superare il varco. L’uomo condusse Arren alla cabina, che era aperta su un lato e chiusa sugli altri tre da pannelli intrecciati. — Sdraiati — disse. E Arren non ricordò altro.

Era sdraiato sul dorso, e guardava un rozzo tetto verde screziato da minuscoli punti di luce. Credette di essere nei meleti di Semermine, dove i principi di Enlad trascorrono l’estate, nelle colline dietro Berila; credette di essere adagiato sulla folta erba di Semermine, a guardare il cielo attraverso i rami dei meli.

Dopo un po’ udì lo sciabordio dell’acqua nelle cavità inferiori della zattera, e le sottili voci degli uomini: parlavano una lingua che era il comune hardese dell’arcipelago, ma tanto cambiato nei suoni e nei ritmi che era difficile comprenderlo; e allora seppe dov’era: lontano, oltre l’arcipelago, oltre il mare e tutte le isole, perduto nell’oceano aperto. Eppure rimase impassibile, e continuò a giacere comodamente, come se fosse sull’erba, nei frutteti della sua patria.

Dopo un poco pensò che doveva alzarsi, e lo fece. Scoprì che il suo corpo era scarno e bruciato, e che le gambe gli tremavano pur reggendolo ancora. Scostò il pannello intrecciato che formava le pareti della cabina e uscì nel pomeriggio. Aveva piovuto, mentre lui dormiva. Il legno della zattera — grossi tronchi levigati e squadrati, accostati e calafatati — era scurito dall’umidità, e i capelli di quegli esseri esili e seminudi erano neri e intrisi di pioggia. Ma metà del cielo era sgombra, dove il sole scendeva verso occidente; e adesso le nubi correvano lontano, verso nordest, in ammassi d’argento.

Uno degli uomini si accostò ad Arren, cautamente, e si fermò a qualche passo da lui. Era sottile e piccolo di statura, non più alto di un ragazzo di dodici anni: i suoi occhi erano grandi, allungati e scuri. Impugnava una lancia dalla punta d’avorio uncinata.

Arren gli disse: — Devo la vita a te e alla tua gente.

L’uomo annuì.

— Vuoi condurmi dal mio compagno?

L’uomo della zattera gli voltò le spalle e levò la voce in un grido acuto, penetrante come il richiamo di un uccello marino. Poi si accosciò sui talloni, come per attendere, e Arren lo imitò.

Le zattere erano dotate di alberi, sebbene l’albero di quella su cui si trovava non fosse montato. Vi si potevano issare le vele, che erano piuttosto piccole in confronto all’ampiezza delle zattere. Le vele erano di una stoffa bruna, che non era tela ma una sostanza fibrosa: non intessuta ma compressa, come il feltro. Una zattera, lontana un quarto di miglio, abbassò dal pennone la bruna vela e avanzò lentamente, manovrando con i grappini e le pertiche in mezzo alle altre fino ad affiancarsi a quella su cui stava Arren. Quando tra le due ci fu solo un varco inferiore a un braccio, l’uomo accanto ad Arren si alzò e lo scavalcò con un balzo disinvolto. Arren fece altrettanto e atterrò goffamente, carponi: le sue ginocchia avevano perso l’elasticità. Si rialzò e vide che l’ometto lo guardava, non con aria divertita ma con approvazione: evidentemente la sua compostezza ne aveva conquistato il rispetto.

Quella zattera era più grande, e più alta sull’acqua, di tutte le altre; era fatta di tronchi lunghi dodici braccia e larghi più di un braccio, anneriti e levigati dall’usura e dalle intemperie. Statue di legno stranamente scolpite sorgevano intorno alle numerose cabine e ai quattro angoli si ergevano pali che portavano ciuffi di penne d’uccelli marini. La sua guida lo condusse al più piccolo dei ripari, e là Arren vide Sparviero che giaceva immerso nel sonno.

Arren si sedette entro quella specie di cabina. La sua guida tornò all’altra zattera, e nessuno venne a disturbarlo. Dopo circa un’ora, una donna gli portò da mangiare: una zuppa di pesce freddo in cui galleggiavano pezzetti di una sostanza verde e trasparente, salata ma buona; e una tazzina d’acqua stantia, che aveva il sapore della pece con cui era stato impermeabilizzato il barile. Dal modo in cui lei gli porse l’acqua, Arren comprese che gli offriva un tesoro, una cosa da onorare. La bevve rispettosamente e non ne chiese altra, sebbene desiderasse ingollarne dieci volte di più.

La spalla di Sparviero era stata bendata con cura; e lui dormiva profondamente, serenamente. Quando si svegliò, aveva gli occhi limpidi. Guardò Arren e sorrise, quel sorriso dolce e gaio che era sempre sorprendente sul suo volto duro. All’improvviso, Arren provò di nuovo l’impulso di piangere. Posò la mano sulla mano di Sparviero e non disse nulla.

Uno degli uomini della zattera si avvicinò e si accovacciò nell’ombra del grande riparo vicino: sembrava una specie di tempio, con un grande motivo ornamentale molto complesso sopra l’entrata, e gli stipiti di tronchi scolpiti in forma di balene grige in immersione. L’uomo era piccolo ed esile come gli altri, fanciullesco, ma il suo volto era forte e segnato dagli anni. Portava soltanto un perizoma, ma era ammantato di dignità. — Deve dormire — disse; e Arren lasciò Sparviero e si accostò a lui.

— Tu sei il capo di questo popolo — disse: sapeva riconoscere un principe.

— Sì — fece l’uomo, con un cenno del capo. Arren rimase ritto davanti a lui, senza muoversi. Dopo qualche istante, gli scuri occhi dell’uomo incontrarono fuggevolmente i suoi. — Anche tu sei un capo — osservò.

— Sì — ammise Arren. Gli sarebbe piaciuto sapere come mai l’uomo della zattera l’aveva capito, ma restò impassibile. — Tuttavia servo il mio signore, che è là.

Il capo del popolo delle zattere disse qualcosa che Arren non capì: erano parole mutate fino a diventare irriconoscibili, oppure nomi che lui non conosceva; quindi disse: — Perché siete venuti in Balatran?

— Siamo venuti a cercare…

Ma Arren non sapeva cosa dire, e fino a che punto confidarsi. Tutto ciò che era accaduto, e la causa della loro ricerca, sembravano lontani e confusi, nella sua mente. Infine disse: — Eravamo andati a Obehol. Ci hanno attaccati quando abbiamo cercato di sbarcare. Il mio signore è stato ferito.

— E tu?

— Non sono stato ferito — disse Arren, e il freddo autocontrollo che aveva imparato nell’infanzia, a corte, gli tornò utile. — Ma c’era… c’era una specie di follia. Uno che era con noi si è annegato. C’era una paura… — S’interruppe e tacque.

Il capo lo scrutò con gli opachi occhi neri. Poi disse: — Dunque siete venuti qui per caso.

— Sì. Siamo ancora nello Stretto Meridionale?

— Lo stretto? No. Le isole… — Il capo descrisse un arco con la sottile mano nera, non più di un quarto di cerchio, da nord a est. — Le isole sono là — disse. — Tutte le isole. — Poi, indicando il mare immerso nella sera, davanti a loro, da nord a sud, attraverso l’ovest, disse: — L’oceano.

— Da quale terra vieni, mio signore?

— Nessuna terra. Noi siamo i Figli del Mare Aperto.

Arren scrutò quel volto aguzzo, poi girò lo sguardo sulla grande zattera, con il tempio e gli idoli eretti, ognuno dei quali era ricavato da un solo tronco d’albero, grandi statue divine che erano un miscuglio di delfino, pesce, uomo e uccello marino; osservò la gente intenta al lavoro, a tessere, a scolpire, a pescare, a cucinare su piattaforme rialzate, a curare i bambini piccoli; e le altre zattere, circa settanta, sparse sull’acqua in un grande cerchio di almeno un miglio di diametro. Era una città: sottili fili di fumo salivano dalle case lontane, e le voci dei bambini risuonavano acute nel vento. Era una città, e sotto i suoi pavimenti c’era l’abisso.

— Non andate mai, a terra? — chiese il ragazzo, a voce bassa.

— Una volta l’anno. Andiamo alla Lunga Duna. Là tagliamo gli alberi e provvediamo alla manutenzione delle zattere. Ci andiamo in autunno, dopo aver seguito le balene grige verso nord. D’inverno ci separiamo: ogni zattera se ne va da sola. In primavera andiamo a Balatran e ci incontriamo. Allora si va da una zattera all’altra, e si celebrano i matrimoni, e c’è la Lunga Danza. Queste sono le Strade di Balatran; da qui, la grande corrente porta a sud. D’estate andiamo verso sud, alla deriva sulla corrente, fino a quando vediamo le Grandi, le balene grige, che si dirigono verso nord. Allora le seguiamo, e ritorniamo così alle spiagge di Emah, sulla Lunga Duna, e sostiamo per qualche tempo.

— È meraviglioso, mio signore — disse Arren. — Non avevo mai sentito parlare di un popolo come il tuo. La mia patria è molto lontana da qui. Eppure anche là, sull’isola di Enlad, danziamo la Lunga Danza alla vigilia del Solstizio d’Estate.

— Voi battete i piedi sulla terra per renderla sicura — disse in tono asciutto il capo. — Noi danziamo sul mare profondo.

Dopo qualche istante chiese: — Come si chiama, il tuo signore?

— Sparviero — rispose Arren. Il capo ripeté quelle sillabe, ma era evidente che per lui non avevano significato. E questo, più di ogni altra cosa, fece comprendere ad Arren che la sua storia era vera, che costoro vivevano sempre sul mare, sul mare aperto al di là di ogni terra e dell’odore della terra, al di là del volo degli uccelli terricoli, al di fuori della conoscenza dell’uomo.

— C’era morte, in lui — disse il capo. — Deve dormire. Tu ritorna alla zattera di Astro; ti manderò a chiamare. — Si alzò. Sebbene fosse perfettamente sicuro di sé, era chiaro che non sapeva bene cosa fosse Arren: non sapeva se doveva trattarlo come un suo pari o come un ragazzo. In quella situazione Arren preferiva essere trattato da ragazzo, e accettò il congedo: ma poi si trovò alle prese con un problema. Le zattere si erano allontanate di nuovo, e cento braccia di acqua serica le separavano.

Il capo dei Figli del Mare Aperto gli parlò di nuovo, laconicamente: — A nuoto — disse.

Arren si calò impacciato nell’acqua. La frescura era piacevole, sulla sua pelle bruciata dal sole. Compì la traversata a nuoto e si issò sull’altra zattera: trovò un gruppo di cinque o sei bambini e giovani che l’osservavano con evidente interesse. Una bambinetta disse: — Tu nuoti come un pesce preso all’amo.

— Come dovrei nuotare? — chiese Arren, un po’ mortificato ma in tono cortese: in verità, non avrebbe mai saputo mostrarsi sgarbato verso un essere umano così piccolo. La bimba sembrava una statuina di mogano lucido, fragile e squisita. — Così! — esclamò lei, e si tuffò come una foca nel bagliore e nell’ondeggiare liquido delle acque. Solo dopo molto tempo, e da una distanza inverosimile, Arren udì il suo grido acuto, e vide la testolina nera e lucida affiorare alla superficie.

— Vieni — disse un ragazzo che aveva probabilmente la stessa età di Arren, sebbene non dimostrasse più di dodici anni: aveva l’aria seria, e un tatuaggio — un granchio azzurro — gli copriva il dorso. Si tuffò, e tutti si tuffarono, perfino un bimbetto di tre anni; perciò anche Arren dovette tuffarsi, cercando di non sollevare troppi spruzzi.

— Come un’anguilla — disse il ragazzo, riemergendo accanto alla sua spalla.

— Come un delfino — disse una graziosa fanciulla dal sorriso garbato, e sparì nelle profondità dell’acqua.

— Come me! — strillò il bimbetto di tre anni, ballonzolando sull’acqua come una bottiglia.

E così quella sera, fino a quando venne buio, e per tutto il lungo giorno dorato che seguì, e nei giorni successivi, Arren nuotò e parlò e lavorò con i giovani della zattera di Astro. E tra tutti gli eventi del viaggio, da quel mattino dell’equinozio in cui lui e Sparviero avevano lasciato Roke, quello gli sembrava il più strano, in un certo senso: perché non aveva nulla in comune con tutto ciò che era accaduto prima, nel viaggio o in tutta la sua vita; e meno ancora aveva un nesso con quanto doveva ancora venire. La notte, quando si sdraiava per dormire in mezzo agli altri, sotto le stelle, pensava: è come se fossi morto; e questa è una vita nell’aldilà, così, nel sole, oltre l’orlo del mondo, tra i figli e le figlie del mare…

Prima di addormentarsi guardava lontano, a sud, cercando con lo sguardo la stella gialla e la costellazione della Runa della Fine, e vedeva sempre Gobardon e il triangolo più piccolo, e quello più grande: ma adesso sorgevano più tardi, e lui non riusciva a tenere aperti gli occhi fino a quando l’intera figura emergeva libera dall’orizzonte. Di notte e di giorno le zattere andavano alla deriva verso sud, ma il mare non cambiava mai perché ciò che muta sempre è immutabile; i temporali di maggio passavano, e di notte brillavano le stelle, e tutto il giorno splendeva il sole.

Arren sapeva che la vita dei Figli del Mare Aperto non poteva essere sempre vissuta in quella serenità di sogno. Chiese dell’inverno, e gli parlarono delle lunghe piogge e delle onde possenti, delle zattere che vagavano separate e andavano alla deriva nel grigiore e nell’oscurità, per settimane e settimane. L’inverno precedente, durante una tempesta di un mese, avevano scorto onde così grandi che parevano «nuvoloni», dicevano, perché non avevano mai visto le montagne. Dal dorso di un’onda si poteva vedere quella successiva, immensa, a miglia e miglia di distanza, che si precipitava verso di loro. Le zattere potevano navigare in un mare simile?, chiese Arren, e quelli risposero che sì, potevano farlo, ma non sempre. In primavera, quando si radunavano alle Strade di Baltran, mancavano due zattere, o tre, o sei…

Si sposavano giovanissimi. Granchio Azzurro, il ragazzo che portava tatuato il simbolo del suo nome, e la ragazza graziosa, Albatros, erano marito e moglie, sebbene lui avesse appena diciassette anni e lei addirittura due di meno; c’erano molti matrimoni come il loro, tra il popolo delle zattere. Molti bimbetti camminavano carponi qua e là, legati a lunghi guinzagli fissati ai quattro pali dei ripari centrali, e tutti vi rientravano nelle ore più calde, e dormivano in mucchi frementi. I bambini grandicelli badavano ai più piccoli, e gli uomini e le donne si spartivano tutto il lavoro. Tutti facevano a turno per raccogliere le grandi alghe dalle foglie brune, i nilgu delle Strade, frangiati come felci e lunghi venti o trenta braccia. Tutti lavoravano insieme, battendo il nilgu per ricavarne stoffe o intrecciandone le fibre grezze per ricavare funi e reti; pescavano e seccavano il pesce, e fabbricavano utensili con avorio di balena, e insieme sbrigavano tutte le varie mansioni. Ma c’era sempre tempo per nuotare e chiacchierare, e non c’era mai un termine fisso per ultimare un lavoro. Le ore non esistevano: c’erano soltanto notti e giorni. Dopo pochissimo tempo, Arren ebbe l’impressione di vivere sulla zattera da un periodo incalcolabile; e che Obehol fosse un sogno, e che più indietro ci fossero sogni ancora più sbiaditi, e un altro mondo nel quale lui era vissuto sulla terraferma ed era stato un principe di Enlad.

Quando, finalmente, venne convocato alla zattera del capo, Sparviero lo scrutò per qualche istante e disse: — Mi sembri l’Arren che ho visto nel Cortile della Fontana: agile come una foca dorata. Mi sembra che ti trovi bene, qui.

— Sì, mio signore.

— Ma dov’è, «qui»? Abbiamo lasciato dietro di noi i luoghi della terra. Abbiamo navigato fino a uscire dalle mappe… Molto tempo fa ho sentito parlare del Popolo delle Zattere: ma credevo che fosse solo una delle tante leggende dello Stretto Meridionale, una fantasia inconsistente. Eppure siamo stati salvati da quella fantasia: le nostre vite sono state salvate da un mito.

Parlava sorridendo, come se partecipasse alla serenità atemporale di quella vita nella luce dell’estate; ma il suo volto era scavato, e nei suoi occhi c’era una tenebra. Arren se ne accorse, e l’affrontò.

— Ho tradito… — disse, e s’interruppe. — Ho tradito la tua fiducia in me.

— In che modo?

— Là… a Obehol. Quando, per una volta, tu hai avuto bisogno di me. Eri ferito, e avevi bisogno del mio aiuto. Io non ho fatto nulla. La barca andava alla deriva, e io la lasciavo andare. Tu soffrivi, e io non ho fatto nulla per te. Ho visto la terraferma… ho visto la terraferma, e non ho neppure tentato di far virare la barca…

— Taci, ragazzo — disse il mago, con tanta fermezza che Arren ubbidì. E poi: — Dimmi cosa pensavi, allora.

— Nulla, mio signore… nulla! Pensavo che fosse inutile fare qualunque cosa. Pensavo che la tua magia fosse svanita… no, che non fosse esistita mai. Che tu mi avessi ingannato. — Il sudore sgorgò sul volto di Arren: dovette farsi forza, per continuare a parlare. — Avevo paura di te. Avevo paura della morte. Ne avevo tanta paura che non ti guardavo, perché potevi essere moribondo. Non riuscivo a pensare a nulla, se non che c’era… che per me c’era un modo per non morire, se fossi riuscito a trovarlo. Ma la vita scorreva via, come se ci fosse stata una grande ferita e ne sgorgasse il sangue… come la tua ferita. Ma questa era in ogni cosa. E io non facevo nulla, nulla: cercavo solo di nascondermi all’orrore della morte.

Arren s’interruppe, perché dire a voce alta la verità era insopportabile. Non era la vergogna a farlo tacere, ma la paura, la stessa paura. Adesso sapeva perché quella vita tranquilla fra mare e sole, a bordo delle zattere, gli sembrava l’aldilà o un sogno irreale. Perché in cuor suo sapeva che la realtà era vuota, priva di vita e di calore e di colore e di suono, priva di significato. Non c’erano altezza né profondità. Tutto quell’incantevole gioco di forme e luci e colori sul mare e negli occhi degli uomini non era altro che un gioco d’illusioni sul vuoto superficiale.

E tutto passava, e restavano soltanto il freddo e l’assenza di forme: nient’altro.

Sparviero lo stava scrutando, e lui aveva abbassato gli occhi per evitare quello sguardo. Ma inaspettatamente, nell’animo di Arren parlò una voce esile, la voce del coraggio o del sarcasmo; era arrogante e spietata, e diceva: — Vigliacco! Vigliacco! Vuoi gettar via perfino questo?

E allora alzò la testa, con un tremendo sforzo di volontà, e incontrò gli occhi del suo compagno.

Sparviero tese il braccio e gli prese la mano in una stretta dura: adesso tra loro c’era il contatto degli occhi e della carne. Disse il vero nome di Arren, che non aveva mai pronunciato: — Lebannen. — Lo ripeté: — Lebannen, tutto questo è. E tu sei. Non c’è sicurezza, e non c’è fine. La parola dev’essere udita nel silenzio; dev’esserci l’oscurità, perché si possano vedere le stelle. La danza viene sempre danzata sopra la cavità, sopra il terribile abisso.

Arren contrasse le mani e chinò la fronte, fino a premerla contro la mano di Sparviero. — Ti ho deluso — disse. — Ti deluderò ancora e deluderò me stesso. Non ho abbastanza forza!

— Tu hai abbastanza forza. — La voce del mago era tenera, ma sotto la tenerezza c’era la durezza che era emersa dalle profondità della vergogna di Arren e che adesso lo irrideva. — Ciò che tu ami, amerai. Ciò che intraprendi, lo completerai. Tu sei un realizzatore della speranza: su di te si può fare assegnamento. Ma diciassette anni non offrono una robusta armatura contro la disperazione… Rifletti, Arren. Rifiutare la morte è rifiutare la vita.

— Ma ho cercato la morte… per te e per me! — Arren alzò la testa e fissò Sparviero. — Come Sopli, che si è annegato…

— Sopli non cercava la morte. Cercava di fuggire dalla morte e dalla vita. Cercava la sicurezza: la fine della paura… la paura della morte.

— Ma c’è… c’è una via. C’è una via al di là della morte. Il ritorno alla vita. È questo… ciò che cercano. Lepre e Sopli, coloro che erano incantatori. È quello che noi cerchiamo. Tu… tu più di ogni altro devi sapere… devi conoscere quella via…

La forte mano del mago era ancora posata sulla sua. — Non la conosco — disse Sparviero. — Sì, so ciò che credono di cercare. Ma so che è una menzogna. Ascoltami, Arren. Tu morirai. Non vivrai in eterno. Nessun uomo, nessuna cosa vivrà in eterno. Non c’è nulla d’immortale. Ma solo a noi è dato sapere che dobbiamo morire. Ed è un grande dono: il dono dell’io. Perché noi abbiamo solo ciò che sappiamo di dover perdere, ciò che siamo disposti a perdere… Quell’io che è il nostro tormento, e il nostro tesoro e la nostra umanità, non dura. Cambia; sparisce, come un’onda sul mare. Vorresti che il mare diventasse immobile, che le maree cessassero, solo per salvare un’onda, per salvare te stesso? Vorresti rinunciare all’abilità delle tue mani, e alla passione del tuo cuore, e alla luce dell’aurora e del tramonto, per comprare la sicurezza per te stesso, la sicurezza eterna? È quanto cercano di fare a Wathort e a Lorbanery e altrove. Questo è il messaggio udito da coloro che sanno udire: negando la vita puoi negare la morte e vivere per sempre! E io non odo questo messaggio, Arren, perché non voglio udirlo. Non ascolterò il consiglio della disperazione. Sono sordo; sono cieco. Tu sei la mia guida. Tu, con la tua innocenza e il tuo coraggio, con la tua mancanza di sapienza e la tua lealtà, tu sei la mia guida… il bambino che invio davanti a me nell’oscurità. Ciò che io seguo è la tua paura, la tua sofferenza. Tu mi hai giudicato duro nei tuoi confronti, ma non hai mai saputo fino a che punto lo sono stato. Uso il tuo amore come un uomo che brucia una candela, e la consuma, per illuminarsi il cammino. E dobbiamo andare avanti. Dobbiamo andare avanti. Dobbiamo arrivare fino in fondo. Dobbiamo giungere al luogo dove il mare s’inaridisce e s’inaridisce la gioia, il luogo verso il quale ti attrae il tuo terrore mortale.

— Dov’è, mio signore?

— Non lo so.

— Non posso condurti là. Ma verrò con te,

Lo sguardo del mago, fisso su di lui, era cupo, insondabile.

— Se dovessi deluderti di nuovo, tradirti…

— Mi fiderò di te, figlio di Morred.

Poi tacquero entrambi.

Sopra di loro, gli alti idoli scolpiti ondeggiavano lievemente contro l’azzurro cielo meridionale: corpi di delfini, ali di gabbiani ripiegate, volti umani che avevano occhi spalancati, formati da conchìglie.

Sparviero si alzò, irrigidito perché non era ancora guarito dalla ferita. — Sono stanco di starmene seduto — disse. — Ingrasserò, nell’ozio. — Cominciò a camminare avanti e indietro, sulla zattera, e Arren l’accompagnò. Parlarono un poco mentre camminavano; Arren disse a Sparviero come trascorreva le giornate, e chi erano i suoi amici tra il popolo delle zattere. L’inquietudine di Sparviero era più grande della sua forza, che ben presto l’abbandonò. Si fermò accanto a una ragazza che intesseva il nilgu al telaio, dietro la Casa dei Grandi, e la pregò di cercare il capo; poi ritornò al suo riparo. Poco dopo sopraggiunse il capo del popolo delle zattere, salutandolo con una cortesia che il mago ricambiò; tutti e tre si sedettero sui tappeti di pelle di foca maculata.

— Ho pensato — incominciò il capo, lentamente e in tono solenne, — alle cose che mi hai detto. Agli uomini che credono di ritornare dalla morte nei loro corpi, e che cercando di far questo dimenticano la venerazione dovuta agli dèi e trascurano la propria persona e impazziscono. È un grande male e una grande follia. Ma ho anche pensato: questo ci riguarda? Noi non abbiamo nulla da spartire con gli altri uomini, le loro isole e i loro costumi, le loro azioni e distruzioni. Noi viviamo sul mare e le nostre vite appartengono al mare. Noi non speriamo di salvarle, non cerchiamo di perderle. Qui la follia non giunge. Noi non andiamo alla terraferma, e la gente della terraferma non viene da noi. Quando ero giovane, talvolta parlavamo con uomini che venivano con le barche alla Lunga Duna, quando noi vi andavamo a tagliare i tronchi per le zattere e per costruire i ripari per l’inverno. Spesso vedevamo le vele che provenivano da Ohol e Welway [così lui chiamava Obehol e Wellogy], seguendo le balene grige in autunno. Spesso seguivano le nostre zattere da lontano, perché noi conosciamo le strade e i luoghi di raduno dei Grandi, nel mare. Ma io non ho mai visto altra gente della terraferma, e adesso non vengono più. Forse sono tutti impazziti e hanno preso a combattersi tra loro. Due anni fa, sulla Lunga Duna, guardando a nord verso Welway, abbiamo visto per tre giorni il fumo di un grande incendio. E se anche è così, che importanza ha per noi? Noi siamo i Figli del Mare Aperto. Noi andiamo per le vie del mare.

— Eppure, quando avete visto alla deriva la barca di un uomo della terraferma, vi siete avvicinati — osservò il mago.

— Alcuni di noi hanno detto che non era prudente farlo, e avrebbero voluto lasciare che la barca andasse alla deriva fino alla fine del mare — replicò il capo con quella sua voce alta e impassibile.

— Tu non eri tra quelli.

— No. Ho detto: anche se sono abitanti della terraferma, li aiuteremo; e così è stato fatto. Ma non c’entriamo con le tue iniziative. Se c’è la follia tra la gente della terraferma, allora è la gente della terraferma che deve occuparsene. Noi seguiamo la strada dei Grandi. Non possiamo aiutarvi nella vostra ricerca. Finché vorrete restare con noi, sarete i benvenuti. Non mancano molti giorni alla Lunga Danza; dopo ritorneremo verso nord, seguendo la corrente orientale che alla fine dell’estate ci porterà di nuovo ai mari presso la Lunga Duna. Se resterai con noi e guarirai dalla tua ferita, per noi andrà bene. Se prenderai la tua barca e te ne andrai per la tua strada, anche questo ci andrà bene.

Il mago lo ringraziò; e il capo si alzò, esile e impettito come un airone, e li lasciò soli.

— Nell’innocenza non c’è forza contro il male — disse Sparviero, in tono un po’ ironico, — ma c’è la forza per il bene… Resteremo con loro per qualche tempo, credo, fino a quando mi sarò ripreso da questa debolezza.

— È una decisione saggia — commentò Arren. La fragilità fisica di Sparviero l’aveva turbato e commosso: era deciso a proteggere quell’uomo contro la sua energia e la sua impazienza, a insistere perché attendessero un po’, fino a quando la sofferenza l’avesse abbandonato, prima di proseguire.

Il mago lo guardò, un po’ sorpreso da quel complimento.

— Qui sono generosi — continuò Arren, senza accorgersene. — Sembra che non siano afflitti dalla malattia dell’anima che avevano a Città Hort e sulle altre isole. Forse non esiste un’isola dove saremmo stati aiutati e accettati, come ha fatto questo popolo perduto.

— Forse hai ragione.

— E d’estate, costoro vivono una vita piacevole…

— È vero. Anche se mangiare pesce freddo per tutta la vita, e non vedere mai un pero fiorito o non assaporare mai l’acqua di una sorgente, alla fine dev’essere noioso!

Così Arren ritornò alla zattera di Astro, e lavorò e nuotò e si crogiolò al sole insieme agli altri giovani, e parlò con Sparviero nella frescura serotina, e dormì sotto le stelle. E i giorni passavano, verso la Lunga Danza della vigilia del solstizio d’estate, e le grandi zattere andavano lentamente verso il sud, portate dalle correnti del mare aperto.

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