Nel Cortile della Fontana il sole di marzo splendeva attraverso le giovani fronde dei frassini e degli olmi, e l’acqua zampillava e ricadeva nell’ombra e nella luce chiara. Il cortile scoperto era cinto da quattro alti muri di pietra. E oltre quei muri c’erano stanze e cortili, passaggi, corridoi, torri, e poi le mura di cinta della Grande Casa di Roke, capaci di resistere all’assalto della guerra o del terremoto o dello stesso mare, poiché erano costruite non solo di pietra ma anche di magia invincibile. Perché Roke è l’Isola dei Saggi, e vi viene insegnata l’arte magica; e la Grande Casa è la scuola e il centro della magia; è il luogo centrale della Casa è quel piccolo cortile, racchiuso tra i muri, dove zampilla la fontana e gli alberi stanno impavidi nella pioggia o nel sole o nella luce delle stelle.
L’albero più vicino alla fontana, un rowan poderoso, aveva aggobbito e screpolato la pavimentazione di marmo con le sue radici. Vene di muschio verde-vivo colmavano quelle crepe, diffondendosi dall’area erbosa intorno alla vasca. C’era un ragazzo, seduto lì su quella bassa gibbosità di marmo e di muschio, e seguiva con lo sguardo la caduta dello zampillo centrale della fontana. Era quasi un uomo, e tuttavia era ancora un ragazzo; snello, e vestito riccamente. Il suo volto sembrava fuso nel bronzo dorato, tanto era ben modellato e immobile.
Dietro di lui, a una quindicina di passi di distanza, sotto gli alberi all’estremità opposta del prato centrale, stava ritto un uomo: o almeno, tale appariva. Era difficile esserne certi, in quel mutevole fremito di ombre e di calda luce. Senza dubbio era presente: un uomo biancovestito, ritto e immobile. Mentre il ragazzo guardava la fontana, l’uomo guardava il ragazzo. Non c’erano suoni o movimenti: solo il gioco delle fronde e il gioco dell’acqua, e il suo canto incessante.
L’uomo avanzò. Un refolo di vento scosse l’albero di rowan, agitando le foglie appena dischiuse. Il ragazzo balzò in piedi, agile e sorpreso. Si voltò verso l’uomo e s’inchinò. — Mio signore arcimago — disse.
L’uomo si fermò davanti a lui: una figura non troppo alta, eretta, vigorosa, in un manto di lana bianca con cappuccio. Al di sopra delle pieghe del cappuccio abbassato, il suo volto grifagno, bruno-rossicico, con una guancia sfigurata da vecchie cicatrici. Gli occhi erano vividi e ardenti, fierissimi. Tuttavia parlò in tono gentile. — È un luogo piacevole per sostare, il Cortile della Fontana — disse; e poi, prevenendo le parole di scusa del ragazzo: — Tu hai compiuto un lungo viaggio e non hai riposato. Torna a sederti.
S’inginocchiò sul candido bordo della vasca e protese la mano verso il cerchio di gocce scintillanti che cadevano dalla conca più alta della fontana, lasciandosi scorrere l’acqua tra le dita. Il ragazzo si sedette di nuovo sulle piastrelle aggobbite, e per un attimo nessuno dei due parlò.
— Tu sei il figlio del principe di Enlad e delle Enlades — disse l’arcimago, — erede del principato di Morred. Non esiste un’eredità più antica, in tutto Earthsea, né più bella. Ho visto i frutteti di Enlad in primavera e gli aurei tetti di Berila… Come ti chiami?
— Mi chiamo Arren.
— Dev’essere una parola del dialetto della tua terra. Cosa significa, nella nostra lingua comune?
Il ragazzo disse: — Spada.
L’arcimago annuì. Ci fu di nuovo un silenzio, e poi il ragazzo disse, senza baldanza ma senza timidezza: — Pensavo che l’arcimago conoscesse tutte le lingue.
L’uomo scosse il capo, guardando la fontana.
— E tutti i nomi…
— Tutti i nomi? Soltanto Segoy, che pronunciò la Prima Parola facendo sorgere tutte le isole dal profondo del mare, conosceva tutti i nomi. — Lo sguardo vivido e ardente si fissò sul volto di Arren. — Certo, se mi fosse necessario conoscere il tuo nome lo conoscerei. Ma non è necessario. Ti chiamerò Arren; e io sono Sparviero. Dimmi, com’è stato il viaggio che ti ha condotto qui?
— Troppo lungo.
— I venti erano contrari?
— I venti erano propizi, mio signore Sparviero, ma le notizie che porto sono nefaste.
— E allora dille — invitò in tono grave l’arcimago, ma come se accondiscendesse all’impazienza di un bambino; e mentre Arren parlava, guardò ancora il velo cristallino di gocciole d’acqua che cadevano dalla vasca superiore a quella inferiore, non già come se non ascoltasse ma come se ascoltasse qualcosa di più delle parole del ragazzo.
— Tu sai, mio signore, che il principe mio padre è un mago, poiché appartiene alla stirpe di Morred e in gioventù ha trascorso un anno qui a Roke. Possiede un certo potere e una certa conoscenza, sebbene usi raramente le sue arti poiché è troppo preso dal governo del suo reame, delle città e del commercio. Le flotte delle nostre isole si avventurano verso l’orizzonte fino allo Stretto Occidentale, per acquistare zaffiri e pelli di bue e stagno, e all’inizio dell’inverno un capitano è ritornato alla nostra città, Berila, e ha raccontato in giro una storia che è giunta fino agli orecchi di mio padre; e lui l’ha mandato a chiamare perché gliela ripetesse. — Il ragazzo parlava rapidamente, in tono sicuro. Era stato educato tra genti civili e raffinate, e non aveva la solita timidezza vergognosa dei giovani.
— Il capitano ha detto che sull’isola di Narveduen, situata all’incirca a cinquecento miglia da noi, verso occidente, sulle rotte delle navi, non c’è più magia. Gli incantesimi non vi avevano potere, ha detto, e le parole dell’arte erano state dimenticate. Mio padre ha chiesto se tutti gli incantatori e le streghe avevano abbandonato l’isola, e quello ha risposto di no: c’erano alcuni che erano stati incantatori, ma non gettavano più sortilegi, neppure i più modesti, per riparare le brocche o ritrovare un ago perduto. E mio padre ha domandato se la popolazione di Narveduen non era sconfortata. E il capitano ha risposto nuovamente di no: sembrava che non se ne curassero. E in verità, ha riferito, tra loro c’erano molte infermità, e il raccolto autunnale era stato molto scarso, eppure sembrava che non si curassero neppure di questo. Ha detto (io ero presente, quando ha parlato al principe): «Erano come malati; come un uomo cui è stato detto che deve morire entro l’anno ma pensa che la profezia non è vera e che vivrà in eterno. Se ne vanno in giro», ha detto, «senza guardare il mondo». Quando hanno fatto ritorno altri due mercanti, hanno confermato che Narveduen era divenuta una terra povera e aveva perso l’arte della magia. Ma erano soltanto le dicerie dello Stretto Occidentale, che sono sempre state strane; e mio padre è stato l’unico a darsene veramente pensiero.
«Poi, nell’Anno Nuovo, alla Festa degli Agnelli che si celebra a Enlad, quando le mogli dei pastori vengono in città portando i primi nati del gregge, mio padre ha designato l’incantatore Radice perché pronunciasse sugli agnelli le formule magiche della crescita. Ma Radice è tornato al nostro palazzo con aria depressa, ha deposto il bastone e ha detto: "Mio signore, non posso recitare gli incantesimi". Mio padre l’ha interrogato, ma quello ha saputo rispondere soltanto: "Ho dimenticato le parole e lo schema". Allora mio padre si è recato sulla piazza del mercato e ha recitato personalmente gli incantesimi, e la festa si è compiuta. Ma quella sera io l’ho visto rientrare nel palazzo; ed era incupito e stanco, e mi ha detto: "Ho pronunciato le parole, ma non so se avessero un significato". E in verità ci sono stati guai nelle greggi, questa primavera: molte pecore sono morte di parto, e molti agnelli sono nati morti, e alcuni sono… deformi. — La voce ferma e diligente del ragazzo si abbassò; rabbrividì nel pronunciare quella parola, e deglutì. — Ne ho visto qualcuno — disse. Ci fu una pausa.
«Mio padre ritiene che questo episodio, e la storia di quanto è avvenuto a Narveduen, dimostrino la presenza di qualche forza malefica all’opera nella nostra parte del mondo. E desidera il consiglio del Saggio.
— Il fatto che abbia inviato te dimostra che il suo desiderio è assillante — disse l’arcimago. — Tu sei il suo unico figlio, e il viaggio da Enlad a Roke non è breve. C’è altro da aggiungere?
— Solo le storie di certe vecchie comari, venute dalle colline.
— E cosa dicono le vecchie comari?
— Che tutte le predizioni lette dalle streghe nel fumo e nelle pozze d’acqua parlano di mali, e che i loro filtri d’amore sono inefficaci. Ma si tratta di gente che non conosce la vera magia.
— Le predizioni della sorte e i filtri d’amore non hanno grande importanza, ma è opportuno ascoltare ciò che dicono le vecchie. Ebbene, il tuo messaggio verrà discusso dai Maestri di Roke. Ma io non so, Arren, quale consiglio potranno dare a tuo padre. Perché Enlad non è la prima terra da cui giungono simili notizie.
La spedizione che Arren aveva compiuto dal nord, oltre la grande isola di Havnor e attraverso il Mare Interno fino a Roke, era il suo primo viaggio per mare. Solo in quelle ultime settimane aveva visto terre che non appartenevano alla sua patria, e s’era reso conto della distanza e della diversità, e aveva compreso che esisteva un mondo grandissimo, oltre le colline amene di Enlad, e che era popolato da molte genti. Non si era ancora abituato a pensare in grande; perciò impiegò qualche istante a capire. — E dove altro? — chiese allora, un po’ sbigottito. Perché aveva sperato di poter portare a Enlad un pronto rimedio.
— Nello Stretto Meridionale, all’inizio. Ultimamente, perfino nel sud dell’arcipelago, a Wathort. Gli uomini dicono che a Wathort non si compiono più magie. È difficile averne la certezza. Da molto tempo quella terra è in mano a ribelli e pirati; e ascoltare un mercante meridionale è ascoltare una menzogna, come si dice. Eppure la storia non cambia mai: le sorgenti della magia si sono inaridite.
— Ma qui, su Roke…
— Qui su Roke non ne abbiamo risentito. Siamo protetti contro le tempeste e i mutamenti e la malasorte. Fin troppo protetti, forse. Principe, ora cosa farai?
— Ritornerò a Enlad, quando potrò portare a mio padre una risposta chiara sulla natura di questo male e sul rimedio.
L’arcimago lo guardò di nuovo: e stavolta, nonostante il suo addestramento, Arren distolse lo sguardo. Non sapeva perché: non c’era nulla di scostante nell’espressione di quegli occhi scuri. Erano imparziali, sereni, pietosi.
Tutti, a Enlad, guardavano con rispetto suo padre, e lui era il figlio di suo padre. Nessuno l’aveva mai guardato in quel modo: non già come Arren, principe di Enlad, figlio del sovrano regnante, ma come Arren e basta. Non voleva pensare che temeva lo sguardo dell’arcimago, e tuttavia non sapeva sostenerlo. Sembrava che ingrandisse ancor più il mondo intorno a lui; e adesso non soltanto Enlad diventava insignificante, ma lo diveniva anche lui, e agli occhi dell’arcimago era solo una figura piccola, molto piccola, in un immenso scenario di terra cinta dal mare su cui aleggiava l’oscurità.
Rimase seduto, a strappare piccoli ciuffi del muschio che cresceva nelle crepe del lastricato, e dopo qualche istante parlò; e sentì la propria voce, divenuta profonda solo in quegli ultimi due anni, risuonare sottile e rauca: — E farò quello che mi comanderai.
— Hai il dovere di ubbidire a tuo padre, non a me — disse l’arcimago.
Teneva ancora gli occhi fissi su Arren, e in quel momento il ragazzo alzò la testa. Nel compiere quell’atto di sottomissione aveva dimenticato ogni cosa, ma adesso vedeva l’arcimago: il più grande incantatore di tutto Earthsea, l’uomo che aveva tappato il Nero Pozzo di Fundaur e aveva strappato l’Anello di Erreth-Akbe alle Tombe di Atuan e aveva costruito la possente diga marina di Nepp; il navigatore che conosceva tutti i mari da Astowell a Selidor; l’unico Signore dei Draghi vivente. E adesso stava lì, inginocchiato accanto a una fontana: un uomo non più giovane, di statura modesta, dalla voce quieta e dagli occhi profondi come la sera.
In tutta fretta, Arren si alzò e si inginocchiò secondo la consuetudine. — Mio signore — disse, balbettando, — permetti che io ti serva!
Tutta la sua sicurezza era svanita: aveva il volto avvampato, e la sua voce tremava.
Al fianco portava una spada, entro un fodero di cuoio istoriato a intarsi rossi e oro; ma la spada era semplicissima, con l’elsa consunta di bronzo argentato. La sguainò prontissimo, e ne presentò l’elsa all’arcimago, come un vassallo al suo principe.
L’arcimago non tese la mano per toccare l’impugnatura della spada. Guardò l’arma, e poi guardò Arren. — È tua, non mia — disse. — E tu non sei il servitore di nessuno.
— Ma mio padre ha detto che potevo restare su Roke fino a quando avessi appreso cos’è questo maleficio, e magari un po’ dell’arte: non ho esperienza, non credo di avere del potere, ma tra i miei antenati c’erano alcuni maghi… Se potessi imparare, in un modo o nell’altro, a rendermi utile a te…
— I tuoi antenati — disse l’arcimago, — erano re prima di essere maghi.
Si alzò, e a passi silenziosi ed energici si accostò ad Arren, gli prese la mano e lo fece alzare. — Ti ringrazio per la tua offerta di servirmi; e sebbene non l’accetti in questo momento, forse lo farò dopo che avremo tenuto consiglio sul problema. Non si può rifiutare a cuor leggero l’offerta di uno spirito generoso. E non si può respingere la spada del figlio di Morred così avventatamente. Ora va’. Il ragazzo che ti ha condotto qui provvederà perché tu possa mangiare, fare un bagno e riposarti. Va’. — E sospinse Arren, gentilmente, con una mano tra le scapole. Era una familiarità che nessuno si era mai permesso, e che da parte di chiunque altro avrebbe destato il risentimento del giovane principe; ma lui sentì il contatto dell’arcimago come un fremito di esaltazione. Perché si era innamorato.
Era sempre stato un ragazzo molto attivo, che amava gli svaghi e trovava piacere e orgoglio nella destrezza del corpo e della mente, ed eseguiva con diligenza i suoi doveri cerimoniali e di rappresentanza, che non erano né lievi né semplici. Tuttavia non si era mai votato interamente a qualcosa. Aveva avuto tutto, e aveva fatto tutto facilmente: era stato tutto un gioco, e lui aveva giocato ad amare. Ma adesso i suoi sentimenti più profondi erano stati risvegliati, e non da un gioco o da un sogno ma dall’onore e dal pericolo e dalla saggezza, da un volto sfigurato e da una voce quieta e da una mano scura che stringeva — noncurante del proprio potere — il bastone di tasso che accanto all’impugnatura intarsiata in argento sul legno nero portava la Runa Perduta dei Re.
Così il primo passo di chi abbandona la fanciullezza si compie all’improvviso, senza guardare né avanti né indietro, senza prudenza e senza riserve.
Dimenticando ogni commiato cerimonioso Arren si avviò svelto verso la porta, impacciato, radioso, ubbidiente. E Ged l’arcimago lo seguì con lo sguardo mentre usciva.
Ged rimase ancora per qualche tempo accanto alla fontana, sotto il frassino, poi levò il volto verso il cielo inondato di sole. — Un messaggero gentile per un triste annuncio — disse, a mezza voce, quasi parlasse alla fontana. La fontana non l’ascoltò, e continuò a parlare con la sua lingua argentea, e Ged rimase in ascolto per lunghi istanti. Poi, avviandosi verso un’altra porta che Arren non aveva visto, e che in verità ben pochi occhi avrebbero scorto per quanto scrutassero attentamente, disse: — Maestro Portinaio.
Apparve un ometto d’età indefinibile. Non era giovane, e veniva istintivo chiamarlo vecchio, ma quella parola non gli si addiceva. Il suo volto era asciutto e del colore dell’avorio, e aveva un sorriso simpatico che tracciava lunghe curve sulle sue guance. — Cosa c’è, Ged? — chiese.
Infatti erano soli, e lui era una delle sette persone al mondo che conoscevano il nome dell’arcimago. Le altre erano il Maestro dei Nomi di Roke; e Ogion il Taciturno, il mago di Re Albi che molto tempo addietro, sulla montagna di Gont, aveva dato a Ged quel nome; e la Bianca Signora di Gont, Tenar dell’Anello; e un incantatore di un villaggio di Iffish, chiamato Veccia; e ancora a Iffish la moglie di un carpentiere, madre di tre figlie, che ignorava la magia ma era sapiente in altre cose, e che era chiamata Millefoglie; e infine, dall’altra parte di Earthsea, all’estremo occidente, due draghi: Orm Embar e Kalessin.
— Dovremo riunirci, questa sera — disse l’arcimago. — Io andrò dal Maestro degli Schemi. E manderò a chiamare Kurremkarmerruk, perché riponga gli elenchi e lasci riposare i suoi discepoli per una serata e venga da noi, anche se non in persona. Tu provvederai agli altri?
— Sì — rispose il Portinaio, sorridendo, e se ne andò; e anche l’arcimago se ne andò; e la fontana continuò a parlare a se stessa, serenamente, incessantemente, nel sole dell’inizio di primavera.
In qualche luogo, a ovest della Grande Casa di Roke e spesso un po’ a sud, si vede di solito il Bosco Immanente. Non appare sulle mappe e non c’è modo di penetrarvi, se non per coloro che ne conoscono il modo e la strada. Ma anche i novizi e i contadini e gli abitanti delle città possono vederlo, sempre da una certa distanza: un bosco d’alberi molto alti, le cui foglie hanno una sfumatura dorata nel loro verdeggiare, perfino in primavera. E tutti — i novizi, i contadini, gli abitanti delle città — pensano che il Bosco si muova in modo enigmatico e sconcertante. Ma s’ingannano, perché il Bosco non si muove. Le sue radici sono le radici dell’essere. È tutto il resto, a muoversi.
Ged aveva lasciato la Grande Casa e camminava tra i campi. Si tolse il mantello bianco, perché il sole era al meriggio. Un contadino che stava arando le brune pendici di un colle levò la mano in atto di saluto, e Ged rispose con un gesto uguale. Stormi di uccellini s’innalzarono nell’aria, cantando. L’erba scintilla stava incominciando a fiorire nei prati e lungo le strade. A grande altezza, un falco tracciò un ampio arco nel cielo. Ged lo guardò, e levò di nuovo la mano. Il falco si tuffò, in un fremito di piume gonfie di vento, e si posò sul polso proteso, stringendolo con i gialli artigli. Non era uno sparviero, bensì un grande falcone di Ender, un falco pescatore screziato di bianco e di bruno. Guardò in tralice l’arcimago con un tondo occhio d’oro fulgido, poi sbatté il becco adunco e lo fissò con entrambi gli occhi dorati. — Intrepido — gli disse l’arcimago nella lingua della Creazione.
Il grosso falco sbatté le ali e strinse più forte gli artigli, guardandolo.
— Va’, dunque, fratello intrepido.
Il contadino, lontano sulla collina sotto il cielo luminoso, si era soffermato a guardare. Una volta, l’autunno precedente, aveva visto l’arcimago farsi discendere sul polso un uccello selvatico: e dopo un attimo non aveva più visto l’uomo, ma due falchi che ascendevano nel vento.
Questa volta si separarono, mentre il contadino stava a osservare: l’uccello s’involò nell’aria, l’uomo riprese a camminare attraverso i campi fangosi.
Ged raggiunse il sentiero che conduceva al Bosco Immanente, un sentiero che procedeva sempre diritto anche se il tempo e il mondo gli si aggiravano intorno tortuosamente: e percorrendolo giunse presto sotto l’ombra degli alberi.
Alcuni di quegli alberi avevano un tronco immane. Quando li si guardava, si poteva credere finalmente che il Bosco non si muovesse mai: erano come torri esistenti da tempo immemorabile e ingrigite dagli anni; le loro radici erano come le radici delle montagne. Eppure erano i più antichi, e alcuni avevano le fronde già rade e qualche ramo morto. Non erano immortali. In mezzo ai giganti crescevano arboscelli, alti e vigorosi, con chiome di fogliame vivido, e pianticelle ancora più giovani, esili fuscelli fronzuti non più alti di una bambina.
Il suolo ai piedi degli alberi era soffice, arricchito dalle foglie imputridite di tanti anni. Vi crescevano felci e piccole piante dei boschi; ma c’era un’unica specie di albero, che non aveva nome nella lingua hardese di Earthsea. Sotto le fronde l’aria aveva un fresco profumo di terra, e un sapore come di viva acqua di sorgente.
In una radura aperta molti anni prima dalla caduta di un enorme albero, Ged incontrò il Maestro degli Schemi, che viveva nel Bosco e non ne usciva mai o quasi mai. Aveva i capelli gialli come il burro: non era originario dell’arcipelago. Dopo il ritorno dell’Anello di Erreth-Akbe, i barbari di Kargad avevano smesso le incursioni instaurando rapporti di pacifico commercio con le Terre Interne. Non erano tipi amichevoli, e si tenevano in disparte. Ma di tanto in tanto un giovane guerriero o il figlio di un mercante si spingeva tutto solo verso ovest, attirato dall’amore per l’avventura o dal desiderio di apprendere la magia. E così era giunto dieci anni prima il Maestro degli Schemi: un giovane selvaggio di Karego-At, con la spada alla cintura e un pennacchio rosso sulla testa, arrivato a Gont in un mattino di pioggia; aveva detto al Portinaio, in hardese stentato e imperioso: — Io vengo per imparare! — E adesso stava sotto gli alberi, nella luce verde-dorata, alto e bello, con i lunghi capelli chiari e gli strani occhi verdi, il Maestro degli Schemi di Earthsea.
Forse conosceva anche lui il nome di Ged; ma se anche lo conosceva, non lo pronunciava mai. Si scambiarono un saluto in silenzio.
— Cosa stai osservando? — chiese l’arcimago, e l’altro gli rispose: — Un ragno.
Tra due alti fili d’erba, nella radura, un ragno aveva intessuto una ragnatela, un cerchio delicatamente sospeso. Gli argentei fili riflettevano la luce del sole. Al centro attendeva il tessitore, una cosettina nero-grigia non più grande di una pupilla.
— Anche quello è un maestro di schemi — disse Ged, studiando l’ingegnosa ragnatela.
— Che cos’è il male? — chiese l’uomo più giovane.
La ragnatela rotonda, con il suo centro nero, sembrava osservarli entrambi.
— Una ragnatela intessuta da noi uomini — rispose Ged.
In quel bosco non c’erano uccelli che cantassero. Era silente e caldissimo, nella luce del meriggio. Intorno a loro stavano gli alberi e le ombre.
— Sono giunte notizie da Narveduen e da Enlad: identiche.
— Sud e sudovest. Nord e nordovest — disse il Maestro degli Schemi, senza distogliere lo sguardo dalla tela rotonda.
— Verremo qui, questa sera. È il luogo più indicato per tenervi consiglio.
— Io non ho consigli da dare. — Il Maestro degli Schemi posò lo sguardo su Ged, e i suoi occhi verdi erano freddi. — Ho paura — disse. — C’è paura. Paura delle radici.
— Sì — replicò Ged. — Dobbiamo cercare le sorgenti più profonde, credo. Abbiamo goduto troppo a lungo della luce del sole, crogiolandoci nella pace apportata dall’Anello, realizzando piccole cose, pescando nei bassi fondali. Questa notte dobbiamo interrogare gli abissi. — E lasciò solo il Maestro degli Schemi, che continuava a fissare il ragno tra l’erba assolata.
Al limitare del Bosco, dove le fronde dei grandi alberi si protendevano all’esterno, sul terreno normale, si sedette con la schiena appoggiata a una radice possente e col bastone sulle ginocchia. Chiuse gli occhi, come se riposasse, e trasmise un messaggio del suo spirito oltre le colline e i campi di Roke, verso nord, verso il promontorio assediato dal mare dove sorgeva la Torre Isolata.
— Kurremkarmerruk — disse in spirito; e il Maestro dei Nomi alzò la testa dal grosso volume dei nomi di radici e erbe e foglie e semi e petali che stava leggendo ai suoi allievi, e disse: — Sono qui, mio signore.
Poi ascoltò (era un uomo alto e magro, con i capelli canuti sotto il cappuccio scuro), e gli studenti seduti agli scrittoi nella stanza della torre lo guardarono e si scambiarono occhiate.
— Verrò — disse Kurremkarmerruk, e chinò di nuovo la testa sul libro, dicendo: — Ora, il petalo del fiore del moli ha un nome, che è iebera, e anche il sepalo ha un nome, che è partonath; e anche stelo e foglia e radice hanno il loro nome…
Ma sotto il suo albero l’arcimago Ged, che conosceva tutti i nomi dell’erba moli, ritrasse il pensiero; e, tese più comodamente le gambe e tenendo chiusi gli occhi, poco dopo si addormentò nella luce del sole maculata dal fogliame.