LORBANERY

Vista attraverso dieci miglia d’acqua illuminata dal sole, Lorbanery era verde, verde come il muschio brillante sull’orlo di una fontana. Da vicino si frammentava in fronde, e tronchi d’albero e ombre e strade e case, e volti e indumenti di esseri umani, e polvere, e tutto ciò che compone un’isola abitata dagli uomini. Eppure, nel complesso, era ancora verde: perché ogni acro che non era coperto da case o da strade era lasciato ai bassi e tondeggianti alberi di hurbah, delle cui foglie si nutrono i piccoli bachi che filano la seta, tessuta poi dagli uomini e dalle donne e dai bambini di Lorbanery. Al crepuscolo, l’aria si riempie di piccoli pipistrelli grigi che si nutrono di quei bachi. Ne divorano molti, ma i tessitori di seta li lasciano fare e non li uccidono, e anzi considerano di malaugurio l’uccisione dei pipistrelli dalle ali grige. Perché, dicono, se gli esseri umani vivono dei bachi, anche le piccole nottole hanno il diritto di farlo.

Le case erano strane, con le finestrelle situate a casaccio e i tetti di ramoscelli di hurbah, tutti verdi di muschio e di licheni. Era stata un’isola ricca, per quanto lo sono le isole dello stretto, e lo si poteva vedere tuttora nelle case ben dipinte e ben arredate, nei grandi arcolai e telai delle casette e degli opifici, e nei pontili di pietra del piccolo porto di Sosara, dove potevano attraccare parecchie grandi galee. Ma non c’erano galee, nel porto. Il colore delle case era sbiadito, non c’erano mobili nuovi, e quasi tutti gli arcolai e telai erano fermi, coperti di polvere, e c’erano ragnatele tra un pedale e l’altro, fra intelaiatura e ordito.

— Incantatori? — disse il sindaco del villaggio di Sosara, un ometto dalla faccia dura e brunita come le piante dei suoi piedi scalzi. — Non ci sono incantatori, a Lorbanery. Non ci sono mai stati.

— Chi l’avrebbe mai pensato? — esclamò Sparviero in tono d’ammirazione. Stava seduto in compagnia di otto o nove abitanti del villaggio, e beveva vino di bacche di hurbah, un’annata mediocre e dal sapore amaro. Aveva dovuto dire che si era spinto nello Stretto Meridionale in cerca di pietre emmel, ma non aveva camuffato se stesso né il suo compagno: solo, Arren aveva lasciato la sua spada nascosta a bordo della barca, come al solito; e se Sparviero aveva con sé il suo bastone, non si vedeva. Gli abitanti del villaggio, all’inizio, si erano mostrati cupi e ostili, ed erano pronti a ridiventare ostili e cupi da un momento all’altro: solo l’abilità e l’autorità di Sparviero li aveva costretti ad accettarli, sia pure di malavoglia. — Dovete avere uomini meravigliosamente esperti nella cura degli alberi — disse. — Cosa fanno, quando una gelata in ritardo colpisce le piantagioni?

— Niente — rispose un uomo scarno, in fondo alla fila. Erano seduti così, tutti in fila, con la schiena appoggiata al muro della locanda, sotto la sporgenza del tetto di fronde. A poca distanza dai loro piedi scalzi, le grandi e dolci gocce della pioggia d’aprile battevano sul terreno.

— Il pericolo è la pioggia, non il gelo — disse il sindaco. — Fa marcire i bozzoli. Nessuno può impedire alla pioggia di cadere. Nessuno c’è mai riuscito. — Era bellicoso, quando sentiva parlare di maghi e di magia; alcuni degli altri sembravano più immalinconiti. — Un tempo non pioveva mai, in questa stagione — aggiunse un altro. — Quando era ancora vivo il vecchio.

— Chi? Il vecchio Mildi? Be’, non è più vivo. È morto — osservò il sindaco.

— Lo chiamavano Piantatore — disse l’uomo magro. — Sì. Lo chiamavano Piantatore — confermò un altro. Scese un silenzio, come la pioggia.

Arren sedeva nella nicchia della finestra della locanda, che aveva un’unica stanza. Aveva trovato un vecchio liuto appeso a una parete, un liuto allungato, a tre corde, come si usano nell’isola della Seta, e adesso lo suonava, imparando a trarne una musica, non molto più forte del ritmo della pioggia sul tetto di fronde.

— Nei mercati di Città Hort — disse Sparviero, — ho visto vendere stoffe presentate come seta di Lorbanery. Alcune erano seta: ma nessuna era vera seta di Lorbanery.

— Le stagioni vanno male — commentò l’uomo magro. — Da quattro o cinque anni, ormai.

— Sono cinque anni, dalla Vigilia dell’Aratura — precisò un vecchio, in tono borbottante, soddisfatto di sé, — da quando è morto il vecchio Mildi; sì, è morto, e non aveva neppure l’età che io ho adesso. È morto alla Vigilia dell’Aratura.

— La scarsità ha fatto alzare i prezzi — disse il sindaco. — Per una pezza di seta semifina tinta d’azzurro, adesso incassiamo quello che una volta si otteneva per tre pezze.

— Quando ci riusciamo. Dove sono le navi? E l’azzurro è falso — ribatté l’uomo magro, provocando così una discussione di mezz’ora sulla qualità delle tinture che venivano usate nei grandi opifici.

— Chi prepara le tinture? — chiese Sparviero, e si scatenò un’altra polemica. Risultò così che i procedimenti della tintura erano stati affidati alla supervisione di una famiglia che, per la verità, affermava di avere poteri magici; ma se quelli erano mai stati davvero maghi avevano perso la loro arte, e nessun altro l’aveva più scoperta, come osservò in tono acido l’uomo magro. Perché tutti, tranne il sindaco, erano d’accordo nel riconoscere che le famose tinte azzurre di Lorbanery e l’impareggiabile cremisi, il «fuoco di drago» portato molto tempo prima dalle regine di Havnor, adesso non erano più quelli di un tempo. Avevano perso qualcosa. La colpa era delle piogge intempestive, o delle terre delle tinte, o dei raffinatori. — Oppure degli occhi degli uomini — disse l’uomo magro, — che non saprebbero distinguere il vero azzurro dal fango blu. — E lanciò un’occhiataccia al sindaco. Il sindaco non raccolse la frecciata, e tutti ripiombarono nel loro mutismo.

Il vino fiacco sembrava inacidire il loro umore: avevano tutti la faccia cupa. Adesso non c’erano altri suoni che il fruscio della pioggia sulle innumerevoli foglie dei frutteti della valle, e il mormorio del mare giù in fondo alla strada, e il sussurro del liuto nell’oscurità della locanda.

— Sa cantare, quel tuo ragazzo dall’aria di fanciulla? — domandò il sindaco.

— Sì, sa cantare. Arren! Cantaci qualcosa, ragazzo.

— Non riesco a far suonare a questo liuto qualcosa che non sia in tono minore — disse Arren dalla finestra, sorridendo. — Vuole piangere. Cosa gradireste ascoltare, miei anfitrioni?

— Qualcosa di nuovo — borbottò il sindaco.

Il liuto trillò un poco: Arren aveva imparato a conoscerlo. — Questa potrebbe essere nuova, qui — disse. Poi cantò.


Per il bianco stretto di Soléa

e i rossi rami piegati

che protendono i loro fiori

sulla sua testa china, appesantita

dall’angoscia per l’amante perduto,

per il ramo rosso e il ramo bianco

e la pena incessante,

io giuro, Serriadh,

figlio di mia madre e di Morred,

di ricordare il torto subito,

per sempre, per sempre.


Tutti tacevano, immobili: i volti amareggiati e quelli stizziti, le mani affaticate e i corpi. Sedevano in silenzio nel caldo crepuscolo piovoso del sud, e ascoltavano quel canto, come il grido del cigno grigio dei mari freddi di Éa, doloroso e disperato. Per un poco, dopo la fine del canto, continuarono a tacere.

— È una strana musica — disse uno, in tono incerto.

Un altro, sicuro che l’isola di Lorbanery fosse il centro assoluto del tempo e dello spazio, osservò: — La musica forestiera è sempre strana e tetra.

— Fateci sentire la vostra — propose Sparviero. — Mi piacerebbe udire qualcosa di gaio. Il ragazzo vuole sempre cantare gli antichi eroi morti.

— Lo farò io — disse l’ultimo che aveva parlato; indugiò un poco, e cominciò a cantare di un robusto e fidato barile di vino e ehi, oh, andiamocene in giro! Ma nessuno gli fece eco nel coro, e l’uomo stonò su «ehi, oh».

— Non si canta più come si deve — disse, irritato. — È colpa dei giovani, che cambiano sempre il modo di fare le cose e non imparano le vecchie canzoni.

— Non è questo — replicò l’uomo magro. — Non c’è più niente che vada bene. Più niente.

— Sì, sì, è vero — piagnucolò il più vecchio. — La buona fortuna è finita. Ecco. La buona fortuna è finita.

Poi non ci fu molto altro da dire. Gli abitanti del villaggio se ne andarono, a due o tre insieme, e Sparviero rimase solo davanti alla finestra, e Arren nella nicchia. E poi Sparviero rise. Ma non era una risata gaia.

La timidissima moglie del locandiere venne a preparare i letti sul pavimento e uscì, e i due si sdraiarono per dormire. Ma le alte travi della stanza erano dimora dei pipistrelli. Per tutta la notte, entrarono e uscirono dalla finestra senza vetri, stridendo con voci acutissime. Solo all’alba ritornarono tutti e si misero tranquilli: ognuno si compose in un minuscolo e ordinato involto grigio, appeso capovolto a una trave.

Forse fu l’inquietudine dei pipistrelli a turbare il sonno di Arren. Erano passate molte notti da quando aveva dormito a terra per l’ultima volta: il suo corpo non era più abituato all’immobilità della terraferma, e mentre si addormentava gli diceva che dondolava, dondolava… e allora il mondo veniva meno sotto di lui, e si svegliava con un grande sussulto. Quando finalmente si addormentò, sognò di essere incatenato nella stiva della nave dei mercanti di schiavi; altri erano incatenati insieme a lui, ma erano tutti morti. Si destò più volte da quel sogno dibattendosi e lottando per liberarsene; ma quando si riassopiva tornava a immergervisi. Alla fine gli parve di essere solo sulla nave ma ancora incatenato, e di non potersi muovere. Poi una strana voce lenta gli parlò all’orecchio. — Sciogli le tue catene — disse. — Sciogli le tue catene. — Allora tentò di muoversi, e si mosse: si alzò. Adesso era in un’immensa brughiera semibuia, sotto un cielo pesante. C’era orrore nella terra e nell’aria densa: un’enormità di orrore. Quel luogo era la paura, la paura stessa; e lui era lì, e non c’erano sentieri. Doveva trovare la via, ma non c’erano sentieri, e lui era piccolo come un bambino, come una formica, e quel luogo era immenso, infinito. Cercò di camminare, incespicò e si svegliò.

La paura era dentro di lui, adesso che era desto: non era più lui a essere dentro la paura. Tuttavia questa era ugualmente enorme e sconfinata. Si sentiva soffocato dalla nera oscurità della camera, cercò le stelle nell’indistinto riquadro della finestra, ma sebbene la pioggia fosse cessata le stelle non c’erano. Rimase a giacere, sveglio, impaurito, e i pipistrelli entravano e uscivano a volo con le silenziose ali coriacee. Talvolta sentiva le loro strida acutissime, al limite dell’udibilità.

Il mattino spuntò luminoso; e si alzarono di buon’ora. Sparviero cominciò a cercare con impegno le pietre emmel. Sebbene nessuno, tra gli abitanti del villaggio, sapesse cos’era la pietra emmel, tutti avevano teorie in proposito, e litigavano; e lui ascoltava, anche se in realtà cercava ben altre notizie che quelle sulla pietra emmel. Alla fine lui e Arren si avviarono per la strada indicata dal sindaco, verso le cave dove veniva estratta la terra azzurra per le tinture. Ma lungo il percorso, Sparviero deviò.

— La casa dev’essere quella — annunciò. — Hanno detto che quella famiglia di tintori e di maghi screditati vive su questa strada.

— Servirà a qualcosa, parlare con loro? — chiese Arren, che ricordava fin troppo bene Lepre.

— Questa malasorte ha un centro — disse il mago, in tono aspro. — C’è un luogo dove la fortuna si esaurisce. Ho bisogno di una guida per giungervi! — E proseguì, e Arren dovette seguirlo.

La casa stava in disparte, tra le sue piantagioni; era un bell’edificio di pietra, ma appariva trascurata da molto tempo, come tutte le piantagioni circostanti. I bozzoli non raccolti dei bachi da seta pendevano scoloriti tra i rami sfrangiati, e il terreno era coperto da uno strato di bachi e di farfalle morti, sottili come carta. Tutt’intorno alla casa, sotto i fitti alberi, aleggiava un odore di putredine, e quando si avvicinarono Arren ricordò all’improvviso l’orrore che l’aveva assalito nella notte.

Prima che giungessero alla porta, quella si spalancò. Ne uscì a precipizio una donna dai capelli grigi che roteava gli occhi arrossati e gridava: — Via, maledetti, ladri, calunniatori, idioti, bugiardi, sciocchi bastardi! Andate via, via! La malasorte vi accompagni per sempre!

Sparviero si fermò, con aria piuttosto sorpresa, e poi levò in fretta la mano in uno strano gesto. Pronunciò una sola parola: — Indietro!

La donna smise di gridare. Lo fissò.

— Perché l’hai fatto?

— Per allontanare la tua maledizione.

La donna lo guardò ancora per qualche istante e poi disse, con voce rauca: — Forestieri?

— Del nord.

La donna si fece avanti. In un primo momento, Arren aveva provato l’impulso di ridere di quella vecchia che urlava sulla soglia della sua casa; ma adesso che le era vicino provava soltanto un senso di vergogna. Era sporca e malvestita, e il suo alito era fetido, e nei suoi occhi c’era una terribile espressione di sofferenza.

— Non ho il potere di maledire — mormorò. — Nessun potere. — Imitò il gesto di Sparviero. — Lo fanno ancora, nel luogo da dove venite?

Il mago annuì. La scrutò con fermezza, e lei ricambiò lo sguardo. Dopo un poco, il volto della donna incominciò a cambiare espressione. Chiese: — Dov’è il tuo bastone?

— Non lo mostrerò qui, sorella.

— No, non devi farlo. Ti terrà lontano dalla vita. Come il mio potere: mi teneva lontana dalla vita. Quindi l’ho perso. Ho perso tutte le cose che conoscevo, tutte le parole e tutti i nomi. Uscivano in fili sottili come ragnatele, dai miei occhi e dalla mia bocca. C’è una breccia nel mondo, e ne esce la luce. E le parole se ne vanno insieme alla luce. Lo sapevi? Mio figlio sta cercando tutto il giorno al buio, con lo sguardo fisso, cercando la breccia nel mondo. Dice che vedrebbe meglio se fosse cieco. Ha perso la sua abilità di tintore. Noi eravamo i Tintori di Lorbanery. Guarda! — Agitò davanti a loro le braccia magre e muscolose, macchiate fino alla spalla da una mistura striata e sbiadita di tinture indelebili. — Non si stacca mai dalla pelle — disse. — Ma la mente si ripulisce. Non trattiene i colori. Chi siete?

Sparviero non rispose. I suoi occhi fissavano di nuovo quelli della donna; e Arren, che si teneva un po’ in disparte, osservava inquieto.

All’improvviso, lei tremò e disse, in un bisbiglio: — Io ti conosco…

— Sì. Ogni simile conosce il suo simile, sorella.

Stranamente, la donna si scostò dal mago, atterrita, come se volesse sfuggirgli, e nello stesso tempo sembrava ansiosa di accostarsi, come per inginocchiarsi ai suoi piedi.

Sparviero le prese la mano e la trattenne. — Vorresti riavere il tuo potere, l’arte, i nomi? Io posso ridarteli.

— Tu sei il Grande Uomo — mormorò lei. — Tu sei il Re delle Ombre, il Signore del Luogo Tenebroso…

— No. Non sono un re. Sono un uomo, un mortale, tuo fratello e tuo simile.

— Ma non morirai?

— Morirò.

— Ma ritornerai e vivrai in eterno.

— No. Né io né nessun altro.

— Allora tu non sei… non sei il Grande della tenebra — disse la donna, aggrottando la fronte e guardandolo un po’ di sottecchi, con minore paura. — Tuttavia, tu sei un Grande. Ce ne sono due? Qual è il tuo nome?

Il severo volto del mago si addolcì un momento. — Non posso dirtelo — rispose gentilmente.

— Ti dirò un segreto — fece la donna. Adesso stava più eretta, di fronte a lui, e nella sua voce e nel suo portamento c’era un’eco della sua antica dignità. — Non voglio vivere e vivere e vivere per sempre. Preferirei riavere i nomi delle cose. Ma sono tutti svaniti. I nomi non hanno più importanza. Vuoi conoscere il mio nome? — I suoi occhi si riempirono di luce; strinse i pugni e si protese verso Sparviero, mormorando: — Il mio nome e Akaren. — Poi gridò. — Akaren! Akaren! Il mio nome è Akaren! Adesso tutti conoscono il mio nome segreto, il mio vero nome, e non ci sono segreti, e non c’è la verità, e non c’è la morte… la morte… la morte! — Gridò quella parola singhiozzando, e la saliva le volò dalle labbra.

— Taci, Akaren!

La donna tacque. Le lacrime le scorrevano sul volto sudicio, invaso dalle ciocche spettinate dei capelli grigi.

Sparviero prese tra le mani quel volto grinzoso e striato dal pianto e delicatamente, teneramente, la baciò sugli occhi. La donna restò immobile, a occhi chiusi. Poi, accostatele le labbra all’orecchio, lui pronunciò qualche parola nella Vecchia Lingua, la baciò di nuovo, e la lasciò andare.

La donna aprì i limpidi occhi e lo guardò per qualche istante con un’espressione pensierosa e stupita. È così che un neonato guarda la madre e che una madre guarda il figlio. Si girò lentamente, si diresse alla porta, entrò, e la chiuse dietro di sé: sempre in silenzio, e sempre con quell’espressione di stupore.

In silenzio, il mago si voltò e s’incamminò per raggiungere la strada. Arren lo seguì. Non osò fargli domande. Dopo un po’, il mago si fermò, lì nella piantagione devastata, e disse: — Le ho preso il suo nome e gliene ho dato uno nuovo. E così, in un certo senso, è una rinascita. Non c’era altro aiuto, altra speranza che potessi darle.

La sua voce era forzata, soffocata.

— Era una donna del potere — continuò. — Non una semplice strega o una fattucchiera, ma una donna dotata di arte e di abilità, che usava le sue capacità per creare il bello: una donna fiera e onorevole. Quella era la sua vita. Ed è tutto sprecato. — Si voltò, bruscamente, si avviò tra i filari della piantagione, e si fermò accanto a un albero, voltando le spalle ad Arren.

Arren l’attese nella luce afosa, screziata dalle fronde. Sapeva che Sparviero si vergognava di opprimerlo con le sue emozioni: e in verità lui non poteva dire nulla o fare nulla. Ma il suo cuore volò verso il suo compagno, non più con quell’ardente adorazione iniziale e romantica ma con dolore, come se si fosse creato tra loro un legame infrangibile. Perché in quell’amore che provava adesso c’era compassione; e senza quella compassione l’amore non è temprato, e non è completo, e non dura.

Dopo un po’, Sparviero ritornò accanto a lui attraverso la verde ombra della piantagione. Nessuno dei due parlò; procedettero a fianco a fianco. Era già molto caldo; la pioggia della notte precedente si era prosciugata, e la polvere si sollevava dalla strada sotto i loro passi. Prima, quel giorno era parso squallido e insulso ad Arren, quasi fosse contagiato dai suoi sogni: ma adesso trovava piacere nel morso della luce del sole e nel sollievo dell’ombra, e si compiaceva di camminare senza chiedersi quale fosse la loro destinazione.

E fu bene che fosse così, perché non conclusero nulla. Il pomeriggio venne impiegato a discorrere con gli uomini che lavoravano nelle cave delle argille colorate, e a mercanteggiare l’acquisto di pezzetti di quella che veniva presentata come pietra emmel. Mentre tornavano lentamente verso Sosara, col sole del tardo pomeriggio che batteva loro sulla testa e sul collo, Sparviero osservò: — È malachite azzurra: ma credo che neppure a Sosara capiranno la differenza.

— Sono molto strani, qui — disse Arren. — È sempre così con tutto: non conoscono la differenza. Come ciò che uno di loro ha detto al sindaco, ieri sera: «Non sapresti riconoscere il vero azzurro dal fango blu…». Si lagnano dei tempi grami, ma non sanno quando hanno avuto inizio; non conoscono neppure la differenza fra un artigiano e un incantatore, tra i manufatti e la magia. È come se non avessero in mente una netta distinzione tra le linee e i colori e le cose. Per loro, è tutto uguale: è tutto grigio.

— Sì — disse il mago, pensieroso. Continuò a camminare per un po’, con la testa aggobbita tra le spalle, come un falco; sebbene fosse basso di statura, camminava a lunghi passi. — Cos’è che gli manca?

Arren rispose, senza esitazioni: — La gioia della vita.

— Sì — disse di nuovo Sparviero, accettando l’affermazione di Arren e considerandola per lunghi istanti. — Sono lieto — disse alla fine, — che tu sappia pensare per me, ragazzo… Mi sento stanco e intontito. Ho il cuore stretto fin da stamattina, quando abbiamo parlato con la donna che era Akaren. Non mi piacciono gli sprechi e la distruzione. Non voglio un nemico. Se devo avere un nemico, non voglio cercarlo e trovarlo e incontrarlo… Se si deve andare in cerca di qualcosa, il premio dev’essere un tesoro, non qualcosa di detestabile.

— Un nemico, mio signore? — chiese Arren.

Sparviero annuì.

— Quando quella donna ha parlato del Grande Uomo, del Re delle Ombre…?

Sparviero annuì di nuovo. — Credo di sì — disse. — Credo che dovremo trovare non soltanto un luogo ma una persona. Ciò che avviene su quest’isola è malefico, malefico: questa perdita dell’arte e dell’orgoglio, questa assenza di gioia, questo spreco. È l’opera di una volontà maligna. Ma è una volontà che neppure si cura di tutto questo, che non si accorge neppure di Akaren o di Lorbanery. La pista che cerchiamo è una pista di devastazione, come se seguissimo un carro sfuggito al controllo, giù lungo il declivio di una montagna, e lo vedessimo dare l’avvio a una valanga.

— Lei… Akaren… potrebbe dirti qualcosa di più di questo nemico… chi è e dov’è, o che cosa è?

— Adesso no, ragazzo — rispose il mago, con voce sommessa ma piuttosto amara. — Senza dubbio avrebbe potuto farlo. Nella sua demenza c’era ancora un po’ di magia. Anzi, la sua demenza era la sua magia. Ma non potevo costringerla a rispondermi. Soffriva troppo.

E proseguì, con la testa aggobbita tra le spalle, come se lui stesso soffrisse e desiderasse evitare quel dolore.

Arren si voltò udendo uno scalpiccio di piedi sulla strada, dietro di loro. C’era un uomo che li stava rincorrendo: era molto lontano, ma guadagnava rapidamente terreno. La polvere della strada e i lunghi capelli ispidi formavano aureole rosse intorno a lui, nella luce del tramonto, e la sua lunga ombra spiccava balzi fantastici lungo i tronchi e i filari delle piantagioni che fiancheggiavano la strada. — Ascoltate! — gridò. — Fermatevi! Ho trovato! Ho trovato!

Li raggiunse, correndo. La mano di Arren volò di scatto dove avrebbe dovuto esserci l’elsa della spada, e poi dove avrebbe dovuto esserci il pugnale perduto, e quindi si strinse a pugno, in un mezzo secondo. Con una smorfia, si fece avanti. L’uomo era di tutta la testa più alto di Sparviero, e aveva le spalle ampie: un pazzo ansimante e delirante, con gli occhi stralunati. — Ho trovato! — continuava a ripetere, mentre Arren, cercando d’intimidirlo con un tono e un atteggiamento severi e minacciosi, diceva: — Cosa vuoi? — L’uomo tentò di girargli intorno per avvicinarsi a Sparviero; Arren gli si parò di nuovo davanti.

— Tu sei il Tintore di Lorbanery — disse Sparviero.

Allora Arren si rese conto che da parte sua era stata una sciocchezza tentare di proteggere il compagno: e si scostò, togliendosi di mezzo. Perché, a quelle sei parole del mago, il pazzo smise di ansimare e di contrarre le grossi mani macchiate: i suoi occhi si acquietarono. Chinò il capo in segno di assenso.

— Ero il tintore — disse. — Ma ora non so più tingere. — Poi guardò di sottecchi Sparviero e sogghignò; scosse la testa dagli irti capelli rossi e e impolverati. — Tu hai portato via il nome a mia madre — disse. — Adesso io non la conosco, e lei non conosce me. Mi vuole ancora abbastanza bene, ma mi ha lasciato. È morta.

Arren si sentì stringere il cuore, ma vide che Sparviero si limitava a scuotere leggermente la testa. — No, no — disse il mago. — Non è morta.

— Ma morirà. Morirà.

— Sì. È una conseguenza del fatto di essere vivi — osservò il mago. Il Tintore parve riflettere per lunghi istanti su quel concetto; poi si avvicinò allo Sparviero, l’afferrò per le spalle e si chinò su di lui. Si mosse con tanta rapidità che Arren non riuscì a impedirglielo: ma si accostò, e perciò lo sentì mormorare: — Ho trovato la breccia nella tenebra. Ci stava il re. La vigila: la governa. Aveva in mano una piccola fiamma, una minuscola candela. Vi ha soffiato sopra, e si è spenta. Poi vi ha soffiato sopra di nuovo, e si è riaccesa. Si è riaccesa!

Sparviero non protestò per il modo in cui l’uomo lo teneva stretto, mormorando. Chiese, semplicemente: — Dov’eri, quando l’hai visto?

— A letto.

— Sognavi?

— No.

— Oltre il muro?

— No — disse il Tintore, in tono improvvisamente sobrio, e come se si sentisse a disagio. Lasciò andare il mago, e indietreggiò di un passo. — No, io… Non so dov’è. L’ho trovato. Ma non so dov’è.

— È quello che vorrei sapere — disse Sparviero.

— Io posso aiutarti.

— Come?

— Tu hai una barca. Ti è servita per venire qui, e proseguirai. Andrai a occidente? Quella è la strada. La strada verso il luogo da dove lui è venuto. Dev’esserci un luogo, un luogo qui, perché lui è vivo… non solo gli spiriti, gli spettri, che vengono oltre il muro, non così… non si può portare null’altro che le anime oltre il muro: ma quello è un corpo, è la carne immortale. Ho visto la fiamma sorgere nell’oscurità al suo soffio, la fiamma che si era spenta. L’ho vista. — Il volto dell’uomo era trasfigurato, e aveva una bellezza selvaggia nella lunga luce rosso-oro. — So che ha sconfitto la morte. Lo so. Ho dato la mia magia per saperlo. Ero un incantatore, una volta! E tu lo sai, e andrai là. Conducimi con te.

La stessa luce risplendeva sul volto di Sparviero, ma lo lasciava impassibile e duro. — Sto cercando di andarci — disse.

— Lascia che venga con te!

Sparviero annuì, sobriamente. — Se sarai pronto quando salperemo — disse, con la stessa freddezza.

Il Tintore indietreggiò di un altro passo e si fermò a scrutarlo. L’esaltazione si rannuvolò lentamente, fino a essere sostituita da un’espressione strana, pesante: si sarebbe detto che il pensiero razionale cercasse di erompere attraverso la tempesta di parole e di sentimenti e di visioni che lo confondevano. Infine girò su se stesso senza pronunciare una parola e riprese a correre lungo la strada, nella nube di polvere che non era ancora ricaduta. Arren tirò un lungo respiro di sollievo.

Anche Sparviero sospirò, ma non sembrava che si sentisse il cuore più leggero. — Bene — disse. — Le vie strane hanno strane guide. Andiamo.

Arren si avviò al suo fianco. — Non vorrai condurlo con noi, vero?

— Spetta a lui decidere.

In un lampo di collera, Arren pensò: spetta anche a me. Ma non disse nulla; e proseguirono insieme, in silenzio.

Non furono ben accolti, al loro ritorno a Sosara. Su una piccola isola come Lorbanery, tutto viene risaputo subito, e senza dubbio li avevano visti deviare verso la Casa dei Tintori, e parlare col pazzo lungo la strada. Il locandiere li servì sgarbatamente, e sua moglie si comportò come se avesse una paura terribile di loro. La sera, quando gli uomini del villaggio vennero a sedersi sotto la tettoia della locanda, evitarono ostentatamente di parlare con i forestieri e si sforzarono di conversare tra loro con spiritosa gaiezza. Ma non avevano molte spiritosaggini da scambiarsi, e ben presto esaurirono tutta l’allegria. Rimasero seduti a lungo in silenzio, e infine il sindaco chiese a Sparviero: — Hai trovato le tue pietre azzurre?

— Ho trovato alcune pietre azzurre — rispose educatamente il mago.

— Sopli ti ha mostrato dove trovarle, senza dubbio.

— Ah, ah, ah — fecero gli altri uomini, di fronte a quel capolavoro d’ironia.

— Sopli sarebbe l’uomo dai capelli rossi?

— Il pazzo. Avete fatto visita a sua madre, questa mattina.

— Io stavo cercando un mago — disse Sparviero.

L’uomo magro, che sedeva più vicino a lui, sputò nell’oscurità. — Perché?

— Credevo che avrei potuto scoprire quello che cerco.

— La gente viene a Lorbanery per acquistare la seta — disse il sindaco. — Non viene in cerca di pietre. E neppure in cerca d’incantesimi. O di gesti e di frasi senza senso e di trucchi da incantatori. Qui vivono persone oneste, che fanno un lavoro onesto.

— È vero. Ha ragione — dissero altri.

— E non vogliamo nessun altro, qui, individui che vengono da terre straniere per curiosare e impicciarsi degli affari nostri.

— È vero. Ha ragione — ripeterono gli altri, in coro.

— Se qui ci fosse qualche incantatore che non fosse pazzo, gli daremmo un lavoro onesto negli opifici: ma quelli non sanno neppure fare un lavoro onesto.

— Potrebbero saperlo, se ce ne fossero — disse Sparviero. — Gli opifici sono vuoti, le piantagioni sono abbandonate, la seta nei vostri magazzini è stata tutta tessuta anni addietro. Cosa fate, qui a Lorbanery?

— Badiamo agli affari nostri — rispose aspramente il sindaco, ma l’uomo magro s’intromise in tono eccitato: — Perché non vengono, le navi? Diccelo tu! Cosa fanno a Città Hort? Forse perché il nostro lavoro è scadente? — Venne interrotto da smentite rabbiose. Gli uomini si scambiarono grida, balzarono in piedi, il sindaco agitò il pugno in direzione di Sparviero, un altro sfoderò un coltello. Erano infuriati. Arren scattò in piedi, prontamente. Guardò Sparviero, aspettandosi di vederlo cinto all’improvviso dal fulgore della luce magica, pronto ad ammutolirli con la rivelazione del suo potere. Ma quello non lo fece. Rimase seduto a guardare gli uomini e ad ascoltare le loro minacce. E a poco a poco quelli si azzittirono, come se non sapessero alimentare la loro collera più di quanto sapessero alimentare l’allegria. Il coltello fu rinfoderato; le minacce si mutarono in sbuffi sprezzanti. Cominciarono ad allontanarsi come cani dopo una zuffa, alcuni baldanzosi, altri con fare furtivo.

Quando i due rimasero soli, Sparviero si alzò, entrò nella locanda, e bevve una lunga sorsata d’acqua, dalla brocca accanto alla porta. — Vieni, ragazzo — disse. — Ne ho avuto abbastanza.

— Andiamo alla barca?

— Sì. — Posò due pezzi d’argento sul davanzale della finestra, per pagare il vitto e l’alloggio, e si caricò sulle spalle il leggero involto dei loro indumenti. Arren era stanco e insonnolito, ma girò lo sguardo sulla stanza squallida e soffocante, che adesso era tutta un fremito di pipistrelli inquieti, fra le travi; pensò alla notte che vi aveva trascorso e fu ben lieto di seguire Sparviero. E mentre percorrevano l’unica e buia strada di Sosara, pensò che andandosene adesso avrebbe lasciato lì il pazzo. Ma quando giunsero al porto, Sopli li stava aspettando sul pontile.

— Eccoti qui — disse il mago. — Sali a bordo, se vuoi venire con noi.

Senza pronunciare una parola, Sopli si calò nella barca e si rannicchiò accanto all’albero, come un grosso cane irsuto. Arren si ribellò. — Mio signore! — disse. Sparviero si voltò: si guardarono, faccia a faccia, sul pontile.

— Su quest’isola sono tutti pazzi, ma credevo che tu non lo fossi. Perché lo porti con noi?

— Come guida.

— Una guida… verso altre pazzie? Verso la morte per annegamento, o per una coltellata nella schiena?

— Verso la morte, ma non so per quale strada.

Arren aveva parlato accalorandosi, e sebbene Sparviero rispondesse quietamente, nella sua voce c’era una nota di risentimento. Non era abituato a simili contestazioni. Ma sempre, da quando Arren aveva cercato di difenderlo dal pazzo quel pomeriggio, per la strada, e si era accorto che la sua protezione era vana e inutile, aveva provato un senso di amarezza, e tutto lo slancio di devozione che aveva sentito al mattino era rovinato e sprecato. Non era in grado di proteggere Sparviero: non gli era consentito prendere decisioni; non poteva neppure comprendere il carattere della loro ricerca, o non gli era permesso. Veniva semplicemente trascinato, inutile come un bambino. Ma non era un bambino.

— Non vorrei litigare con te, mio signore — disse, con tutta la possibile freddezza. — Ma questo… questo è irragionevole.

— È irragionevole. Noi stiamo andando dove la ragione non può condurci. Vuoi venire o non vuoi venire?

Gli occhi di Arren si riempirono di lacrime di rabbia. — Ho detto che sarei venuto con te e che ti avrei servito. Non verrò meno alla mia parola.

— Bene — disse cupamente il mago, e fece l’atto di voltarsi. Poi si girò di nuovo verso Arren. — Ho bisogno di te, e tu hai bisogno di me. Perché, ti dico ora, credo che la strada che ci accingiamo a percorrere sia la tua, e dovrai seguirla: non per ubbidienza o devozione nei miei confronti, ma perché era la tua prima ancora che tu mi vedessi, prima ancora che mettessi piede su Roke, prima che salpassi da Enlad. Non puoi voltarle le spalle.

La sua voce non si era addolcita. Arren gli rispose, altrettanto torvo: — E come potrei voltarle le spalle, se non ho una barca e sono all’orlo del mondo?

— Questo è l’orlo del mondo? No, quello è molto più lontano. Forse ci arriveremo.

Arren annuì e balzò nella barca. Sparviero sciolse l’ormeggio e chiamò nella vela un vento leggero. Quando si furono allontanati dai deserti moli di Lorbanery, l’aria prese a spirare fresca e pulita dal buio del nord e la luna eruppe argentea dal mare lucente davanti a loro e veleggiò sulla loro sinistra quando virarono verso sud per costeggiare l’isola.

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