XI

Quella sera cenammo in un ristorante molto speciale di Chicago, un locale che aveva la caratteristica di servire carni quasi impossibili da trovarsi altrove: bistecca di bisonte, filetto d’orso e d’alce, uccelli come fagiani, pernici, galli cedroni. Vornan ne aveva sentito parlare, non so come, e voleva assaporarne le misteriose delizie. Era la prima volta che andavamo con lui in un ristorante pubblico, e questo ci preoccupava; già cominciava ad affermarsi una tendenza pericolosa, folle incontrollabili si radunavano dovunque attorno a lui, e avevamo paura che in un ristorante accadesse lo stesso. Kralick aveva chiesto alla direzione di servire le specialità nel nostro albergo, ed il ristorante era anche disposto a farlo… per una certa cifra. Ma Vornan non aveva voluto saperne. Desiderava cenare fuori, e così cenammo fuori.

La nostra scorta governativa prese tutte le precauzioni. Stavano imparando in fretta a risolvere i problemi creati dai modi imprevedibili di Vornan. Risultò che il ristorante aveva un’entrata secondaria ed una sala da pranzo riservata al piano di sopra, e così riuscimmo a introdurre il nostro ospite evitando gli avventori normali, senza difficoltà. Vornan sembrava scontento di trovarsi in una sala privata, ma noi fingemmo che nella nostra società fosse il massimo del lusso mangiare isolati dal volgo, e Vornan accettò la storiella per quel che valeva.

Alcuni di noi non sapevano che tipo di ristorante fosse. Heyman maneggiò il cubo del menù, lo sbirciò a lungo, e poi lanciò un sibilo teutonico. Stava bollendo di furore. «Bisonte!» esclamò. «Alce! Sono animali rari! Dobbiamo mangiare preziosi esemplari scientifici? Signor Kralick, io protesto! È uno scandalo!»

Kralick aveva sopportato parecchio, e lo sdegno di Heyman era per lui fastidioso quanto l’imprevedibilità di Vornan. Disse: «Le chiedo scusa, professor Heyman. Tutto ciò che figura nel menù è approvato dal Dipartimento dell’Interno. Vede, anche i branchi degli animali rari qualche volta vanno un po’ sfoltiti per il bene della specie. E poi…»

«Potrebbero mandarli in un’altra riserva,» tuonò Heyman. «E non macellarli per mangiarseli! Mio Dio, che dirà di noi la storia? Noi che viviamo nell’ultimo secolo in cui si trovano sulla Terra gli animali selvatici, e uccidiamo e divoriamo i pochi, preziosi superstiti di un tempo in cui…»

«Vuoi il verdetto della storia?» chiese Kolff. «Ecco là la storia, Heyman! Chiedi la sua opinione.» Agitò la mano carnosa in direzione di Vornan-19, nella cui autenticità non credeva affatto, e sghignazzò da far tremare il tavolo.

Serenamente, Vornan disse: «Secondo me è delizioso che mangiate questi animali. Attendo con ansia l’occasione di poter fare altrettanto.»

«Ma non è giusto,» sbottò Heyman. «Questi esseri… ne esiste ancora qualcuno, nel suo tempo? Oppure sono tutto scomparsi… tutti divorati?»

«Non ne sono certo. I nomi non mi sono familiari. Questo bisonte, per esempio. Che cos’è?»

«Un grosso mammifero, un bovino, coperto da un irsuto manto bruno,» disse Aster Mikkelsen. «Imparentato con la mucca. Un tempo si trovava in mandrie di molte migliaia di capi nelle praterie occidentali.»

«Estinto,» disse Vornan. «Abbiamo alcune mucche, ma non i parenti delle mucche. E l’alce?»

«Un animale a grandi corna delle foreste settentrionali. C’è una testa d’alce imbalsamata, appesa alla parete: quella con i grandi palchi di corna e il muso lungo e pendulo,» disse Aster.

«Assolutamente estinto. L’orso? Il gallo cedrone? La pernice?»

Aster glieli descrisse tutti. Vornan rispose allegramente che nessuno di quegli animali, a quanto ne sapeva lui, esisteva nella sua epoca. La faccia di Heyman era diventata paonazza. Non sapevo che avesse tendenze ecologiche. Tenne una bruciante predica sull’estinzione degli animali selvatici quali simbolo della decadenza della civiltà, osservando che non sono i barbari ad eliminare le specie, bensì i popoli colti e schizzinosi, che cercano il piacere della caccia e della tavola, o che spingono gli avamposti della civiltà negli habitat di creature strane ed oscure. Parlò con passione e persino con una certa saggezza; era la prima volta che sentivo il presuntuoso storico dire qualcosa che avesse valore per una persona intelligente. Vornan l’osservò con interesse, mentre parlava. Poco a poco, un’espressione di piacere soffuse il volto del nostro visitatore, e credetti di capire perché: Heyman sosteneva che l’estinzione delle specie viene con il diffondersi della civiltà e Vornan, il quale ci considerava poco più che selvaggi, senza dubbio giudicava estremamente spassoso quel tipo di ragionamento.

Quando Heyman finì, noi ci guardammo a vicenda e guardammo i nostri menucubi con aria un po’ vergognosa, ma Vornan spezzò l’incantesimo. «Sicuramente,» disse, «non mi negherete il piacere di collaborare alla grande estinzione che rende il mio tempo così privo di fauna selvatica! Dopotutto, gli animali che stiamo per mangiare stasera sono già morti, non è vero? Permettetemi di portare nella mia epoca la sensazione di aver cenato a base di bisonte e gallo cedrone e alce, vi prego.»

Naturalmente, non c’era neanche da pensare di cenare altrove, quella sera. Avremmo mangiato lì, sentendoci in colpa, oppure avremmo mangiato lì senza sentirci in colpa. Come aveva fatto osservare Kralick, il ristorante serviva soltanto carne permessa, ottenuta direttamente tramite canali governativi, e perciò non causava direttamente la scomparsa delle specie minacciate. La carne che servivano lì era di animali rari, ed i prezzi lo dimostravano, ma era inutile rimproverare ad un locale come quello le sofferenze della fauna selvatica del ventesimo secolo. Comunque, in una cosa Heyman aveva ragione: gli animali stavano effettivamente scomparendo. Avevo letto da qualche parte la predizione che entro un altro secolo non vi sarebbero più stati animali selvatici, ad eccezione di quelli nelle riserve protette. Se potevamo accettare Vornan come un autentico ambasciatore della posterità, quella predizione si era avverata.

Ordinammo. Heyman scelse pollo arrosto; tutti gli altri sguazzarono nelle rarità. Vornan chiese e ottenne una sorta di «misto assortito» un piatto freddo delle specialità del locale: un piccolo filetto di bisonte, un pezzetto di bistecca d’alce, petto di fagiano, ed uno o due degli altri piatti insoliti.

Kolff chiese: «Che animali ci sono nella sua… ehm… epoca?»

«Cani. Gatti. Mucche. Topi.» Vornan esitò. «E parecchi altri.»

«Nient’altro che animali domestici?» domandò Heyman, scandalizzato e inorridito.

«No,» disse Vornan, e si mise in bocca un succoso pezzo di carne. Sorrise garbatamente. «Delizioso! Che perdita abbiamo subito!»

«Vedete!» esclamò Heyman. «Se la gente avesse…»

«Naturalmente,» fece soavemente Vornan, «abbiamo molti cibi interessanti. Devo ammettere che è un piacere mettersi in bocca un pezzo di carne proveniente da una creatura vivente, ma è un piacere che solo pochissimi potrebbero apprezzare. Quasi tutti sono molto schizzinosi. Ci vuole uno stomaco forte, per viaggiare nel tempo.»

«Perché noi siamo barbari sudici, depravati, disgustosi?» chiese Heyman, a voce alta. «È questa l’opinione che si è fatta di noi?»

Per niente scombussolato, Vornan rispose: «Il vostro modo di vivere è del tutto diverso dal mio. Ovviamente. Altrimenti, perché mi sarei preso la briga di venire qui?»

«Eppure, un modo di vivere non è inerentemente superiore od inferiore ad un altro,» intervenne Helen McIlwain, alzando energicamente gli occhi da un’enorme fetta di carne d’alce, ricordo. «La vita può essere più comoda in un’epoca che in un’altra, può essere più sana, può essere più tranquilla, ma non possiamo servirci di termini come superiore o inferiore. Dal punto di vista del relativismo culturale…»

«Sapete,» disse Vornan, «che nel mio tempo i ristoranti sono sconosciuti? Mangiare in pubblico, fra estranei… lo giudichiamo inelegante. Nella Centralità, sapete, si viene molto spesso a contatto con estranei. La cosa non avviene, invece, nelle regioni esterne. Nessuno è mai ostile nei confronti di uno sconosciuto, ma nessuno mangerebbe mai in sua presenza, a meno che intendesse stabilire poi un’intimità sessuale. Per consuetudine, ci riserviamo di mangiare soltanto con commensali molto intimi.» E ridacchiò. «È stata in effetti una perversità, da parte mia, voler visitare un ristorante. Vi considero tutti compagni intimi, dovete rendervene conto…» Con un gesto della mano indicò i presenti, come fosse disposto ad andare a letto persino con Lloyd Kolff, se Kolff ci stava. «Ma spero mi concederete il piacere di cenare in pubblico, uno di questi giorni. Forse cercavate di salvaguardare la mia sensibilità, facendo in modo che mangiassimo in questa sala riservata. Ma vi prego di lasciarmi godere un po’ della mia spudoratezza, la prossima volta.»

«Meraviglioso,» disse Helen McIlwain, parlando soprattutto a se stessa. «Un tabù contro il mangiare in pubblico! Vornan, se almeno ci dicessi qualcosa di più sulla tua epoca. Siamo così ansiosi di conoscere tutto ciò che hai da dirci!»

«Sì» disse Heyman. «Quel periodo chiamato Tempo della Pulizia, per esempio…»

«… qualche informazione sulla ricerca biologica…»

«… problemi di terapia mentale. Le psicosi più diffuse, per esempio, interessano moltissimo a…»

«… una possibilità di discutere con lei sull’evoluzione linguistica nel…»

«… i fenomeni d’inversione temporale. E anche qualche informazione sui sistemi energetici che…» Era la mia voce, che s’insinuava nella fitta trama della conversazione. Naturalmente, Vornan non rispose a nessuno, poiché parlavamo tutti insieme. Quando se ne rendemmo conto, piombammo in un silenzio imbarazzato, lasciando goffamente cadere qualche parola oltre il ciglio del nostro disagio, per infrangere l’abisso della vergogna. Per un istante le nostre frustrazioni erano esplose. Nei giorni e nelle notti di giostra in compagnia di Vornan-19, lui si era mostrato laconico fino all’esasperazione, per quanto riguardava la sua epoca presunta: aveva lasciato cadere un accenno qui, un’allusione là, senza mai dire niente che somigliasse ad un vero discorso sull’assetto della società futura di cui sosteneva d’essere un emissario. Ciascuno di noi traboccava di domande senza risposte.

E le risposte non vennero neppure quella sera. Pasteggiammo a base di manicaretti di un’epoca in declino, petto di fenice e cotoletta di unicorno, ed ascoltammo attentamente mentre Vornan, più loquace del solito, lasciava cadere qualche rara pepita sulle abitudini alimentari del trentesimo secolo. Eravamo felici di ciò che potevamo apprendere. Persino Heyman si lasciò coinvolgere a tal punto nella situazione che smise di piangere la sorte delle rarità che avevano abbellito i nostri piatti.

Quando venne il momento di uscire dal ristorante, ci trovammo alle prese con una di quelle crisi ormai purtroppo familiari. Era corsa la voce che il celebre uomo venuto dal futuro era lì, e si era radunata una folla. Kralick dovette ordinare alle guardie armate di sferze neurali di aprire un varco attraverso il ristorante, e per un po’ parve davvero che le sferze stessero per venire usate. Almeno cento avventori abbandonarono i tavoli e avanzarono verso di noi, mentre scendevamo dalla sala riservata. Erano ansiosi di vedere, toccare, assaporare Vornan-19 a distanza ravvicinata. Guardai i loro volti, sbigottito e allarmato. Alcuni avevano smorfie scettiche, altri il vitreo distacco dell’ozioso cacciatore di curiosità; ma su molti c’era quella strana espressione di riverenza che avevamo osservato così spesso in quell’ultima settimana. Non era semplicemente timore reverenziale. Era l’ammissione di un’esigenza messianica interiore. Quelli sognavano di gettarsi in ginocchio davanti a Vornan. Non sapevano niente di lui, soltanto ciò che avevano visto sui teleschermi, eppure erano attratti verso di lui e speravano che riempisse qualche vuoto nelle loro vite. E Vornan che cosa offriva? Fascino, un bell’aspetto, un sorriso magnetico, una voce attraente? Sì, e alienità, perché nelle sue parole e nelle sue azioni c’era il marchio dell’estraneità. Anch’io, quasi, potevo sentire quell’attrazione. Ero stato troppo vicino a Vornan per venerarlo; avevo visto la sua colossale cupidigia, l’imperiale indulgenza verso se stesso, il gigantesco appetito nei confronti dei piaceri sensuali di ogni genere, e quando si è visto un messia che brama il cibo e impala legioni di donne disponibili, è difficile provare per lui sentimenti di reverenza. Tuttavia, sentivo il suo potere. Avevo cominciato a trasformare la mia valutazione. All’inizio ero stato scettico, ostile e quasi bellicoso; poi mi ero addolcito, e avevo virtualmente smesso di aggiungere l’inevitabile precisazione «se è autentico», ogni volta che pensavo a Vornan-19. Non era stata solo la prova dell’analisi del sangue a farmi cambiare idea, ma ogni aspetto della condotta di Vornan. Adesso credere che fosse un impostore mi era più difficile che credere che fosse venuto veramente a noi dal tempo, e questo naturalmente mi metteva in una posizione insostenibile di fronte alla mia specializzazione scientifica. Ero costretto ad accettare una conclusione che consideravo ancora fisicamente impossibile: un bis-pensiero, nel senso orwelliano. Il fatto che mi trovassi intrappolato in quel modo era una dimostrazione del potere di Vornan; e credevo di capire un po’ cosa desiderava la gente che gli si stringeva attorno, cercando di sfiorarlo al suo passaggio. Per fortuna, uscimmo dal ristorante senza spiacevoli incidenti. Era così freddo che per la strada c’erano solo pochi rìtardatari. Li superammo in fretta e salimmo sulle macchine in attesa. Autisti dalle facce inespressive ci portarono al nostro albergo. Lì, come a New York, ci avevano assegnato una serie di stanze comunicanti nella parte più riservata del palazzo. Vornan si scusò con noi non appena arrivammo al nostro piano. Le ultime notti aveva dormito con Helen McIlwain, ma sembrava che la visita al postribolo gli avesse tolto temporaneamente ogni interesse per le donne, il che non era sorprendente. Sparì nella sua stanza e le guardie la chiusero immediatamente. Kralick, pallido ed esausto, andò a trasmettere il suo solito rapporto serale a Washington. Noi ci radunammo in uno degli appartamenti per distenderci un po’, prima di andare a dormire.


I sei membri della commissione erano ormai insieme da un po’ di tempo, e si era manifestata una varietà di tendenze. Eravamo ancora divisi sulla questione dell’autenticità di Vornan, ma meno nettamente di prima. Kolff, che in partenza era scettico, era ancora convinto che Vornan fosse un impostore, sebbene ne ammirasse la tecnica. Heyman, che all’inizio era contro l’autenticità di Vornan, adesso non era più tanto sicuro; gli sarebbe costato parecchio ammetterlo, ma ormai pendeva dalla parte di Vornan, soprattutto in base ad alcuni vaghi accenni che l’ospite aveva lasciato cadere a proposito del corso della storia futura. Helen McIlwain continuava ad accettare Vornan per autentico. Morton Fields, d’altra parte, si stava allontanando disgustato dalla sua valutazione positiva originaria. Penso fosse geloso della valentia sessuale di Vornan e cercasse, per vendetta, di negare la sua legittimità.

Aster, che in principio era stata neutrale, aveva deciso di attendere che arrivassero altre prove. La prova era arrivata. Adesso Aster era interamente convinta che Vornan provenisse da una fase più avanzata dell’evoluzione umana, e aveva la prova biochimica che per lei era decisiva. Come ho già detto, anch’io ora pendevo piuttosto a favore di Vornan, anche se esclusivamente per ragioni emotive; scientificamente, per me restava un’impossibilità. Perciò adesso noi avevamo due Vere Credenti, due ex scettici vacillanti, inclini a prendere per valida l’affermazione di Vornan, un ex credente che si avvicinava al polo opposto, ed un apostata incrollabile. Certamente, gli spostamenti erano stati in favore di Vornan. Ci stava conquistando.

In quanto alle correnti incrociate emotive all’interno del nostro gruppo, erano forti, anzi violente. Eravamo d’accordo su una cosa soltanto; eravamo tutti cordialmente stufi di F. Richard Heyman. La sola vista della ruvida barba rossa dello storico mi era diventata odiosa. Eravamo stanchi del suo dogmatismo, della sua mania di pontificare, dell’abitudine di trattarci tutti come studenti non troppo svegli. Anche Morton Fields si stava rendendo insopportabile. Dietro la facciata escetica si era rivelato un libidinoso, e questo non mi dava tanto fastidio; ma soprattutto un libidinoso clamorosamente fallito, e questo lo trovavo criticabile. Aveva sbavato dietro a Helen ed era stato respinto; aveva sbavato dietro Aster ed aveva fatto fiasco completo. Poiché Helen praticava una specie di ninfomania professionale, in base al principio che un’antropologa ha il dovere di studiare tutta l’umanità il più possibile da vicino, il fatto che avesse respinto Fields era per lui il più bruciante degli insuccessi. Prima che il nostro giro turistico avesse superato la settimana iniziale, Helen era venuta a letto con noi almeno una volta, escludendo Sandy Kralick, il quale la venerava troppo per pensare di lei in termini sessuali, ed il povero Fields. Non c’era da stupirsi, se questo diventava acido. Immagino che Helen avesse avuto con lui qualche dissidio scientifico anteriore alla missione Vornan, e questo la spingeva a castrarlo psicologicamente senza troppe sottigliezze. La mossa successiva di Fields era stata in direzione di Aster; ma Aster era ultraterrena come un angelo, e lo teneva lontano senza avere l’aria di comprendere cosa volesse da lei. Anche se Aster aveva fatto la doccia con Vornan, nessuno di noi poteva credere che tra loro ci fosse stato qualcosa di carnale. L’innocenza cristallina di Aster sembrava inviolabile persino di fronte all’irresistibile fascino mascolino di Vornan, secondo noi.

Quindi Fields aveva i problemi sessuali di un adolescente brufoloso, e come potete immaginare, questi problemi esplodevano in molti modi durante le normali conversazioni. Esprimeva le sue frustrazioni erigendo opache facciate di terminologia, dietro le quali tuonava e infuriava e sprizzava veleno. Questo suscitava la disapprovazione di Lloyd Kolff, che nella sua cordialità falstaffiana riusciva a vedere Fields solo come qualcosa di deplorevole; quando Fields diventava abbastanza fastidioso, Kolff aveva l’abitudine di mandarlo a cuccia con un ringhio gioviale che serviva solo a peggiorare la situazione. Non avevo niente contro Kolff: sbevazzava allegramente ogni sera, ed era una compagnia simpaticamente ursina, in quella che altrimenti sarebbe stata una missione più deprimente. Ero soddisfatto anche della compagnia di Helen McIlwain, e non solo a letto. Anche se era monomaniaca per quanto riguardava il relativismo culturale, era vivace, ben informata, divertentissima; si poteva sempre avere la certezza che avrebbe sgonfiato qualunque enorme dibattito procedurale con poche parole ben scelte sull’asportazione dalla clitoride tra le donne delle tribù nordafricane o sulle cicatrici cerimoniali nei riti della pubertà della Nuova Guinea. In quanto ad Aster l’insondabile, Aster l’impenetrabile, Aster l’imperscrutabile, non potevo dire esattamente che mi piacesse; ma la giudicavo un attraente enigma quasi femminile. Mi turbava avere osservato la sua nudità grazie a quel collegamento-spia; gli enigmi dovrebbero restare integralmente tali, e adesso che l’avevo vista nuda, sentivo che il suo mistero era in parte violato. Mi sembrava deliziosamente casta, una Diana della biochimica, magicamente conservata in eterno all’età di sedici anni. Nei nostri frequenti dibattiti sui modi ed i mezzi di trattare con Vornan, Aster parlava di rado, ma ciò che aveva da dire era invariabilmente ragionevole e giusto.

Il nostro circo viaggiante si spostò, procedendo da Chicago verso Ovest, alla fine di gennaio. Vornan era instancabile come turista non meno che come amatore. Lo portavamo a visitare fabbriche, centrali elettriche, musei, autostrade, stazioni di controllo meteorologico, nodi ferroviari, ristoranti di lusso e molte altre cose, un po’ su richieste ufficiali, un po’ dietro insistenze di Vornan. Lui riusciva a combinarci guai quasi dappertutto. Forse per mettere in chiaro che era superiore alla morale «medievale», abusava dell’ospitalità in una grande varietà di modi delicatamente oltraggiosi: seduceva vittime di tutti i sessi disponibili, insultava sfacciatamente le vacche sacre, e faceva capire senza equivoci che considerava il nostro mondo tecnologico e formidabilmente scientifico come qualcosa di curiosamente primitivo. Questa sua insolenza sbarazzina, secondo me, era consolante: Vornan incantava e suscitava ripugnanza nello stesso tempo. Ma altri, dentro e fuori dal nostro gruppo, non la pensavano così. Comunque, la stessa scandalosità del suo comportamento sembrava garantire l’autenticità della sua rivendicazione, e stranamente le sue stranezze suscitavano poche proteste. Era immune, era l’ospite del mondo, il viandante venuto dal tempo; e il mondo, sebbene sconcertato ed incerto, l’accoglieva cordialmente.

Facevamo del nostro meglio per stornare le calamità. Imparammo a tenere Vornan lontano dagli individui pomposi e troppo suscettibili che avrebbero sicuramente suscitato qualche sua reazione maliziosa. L’avevamo visto fissare con giocosa reverenza l’immenso seno di una matronale protettrice delle arti che ci faceva da guida nello splendido museo di Cleveland. Lui fissava la profonda valle tra le due candide vette con una tale concentrazione che noi avremmo dovuto prevedere il guaio; ma non riuscimmo ad intervenire quando Vornan tese improvvisamente un dito, lo infilò gaiamente in quel crepaccio cosmico, e produsse la più blanda scossa elettrica del suo sconcertante repertorio. Da quella volta, gli tenemmo lontane le donne di mezza età molto prospere e scollate. Imparammo a mantenerlo alla larga da altri bersagli del genere e se ci riuscivamo una volta su dodici, lo consideravamo già un successo.

Non ce la cavavamo altrettanto bene nell’estorcergli notizie sull’epoca da cui affermava di provenire, o su quello che era accaduto in quei mille anni d’intervallo. Di tanto in tanto ci lanciava un boccone, come quando si richiamava vagamente ad un sovvertimento politico imprecisato che lui chiamava il Tempo della Pulizia. Accennava a visitatori venuti da altre stelle, e parlava un po’ della struttura politica dell’ambigua entità nazionale che chiamava Centralità: sostanzialmente, però non ci diceva niente. Non c’era niente di concreto nelle sue parole: ci forniva soltanto vaghissime tracce.

Ognuno di noi aveva ampie possibilità d’interrogarlo. Lui si assoggettava con noia evidente alle nostre domande, ma ci eludeva quando cercavamo di torchiarlo sul serio. Gli parlai per parecchie ore, un pomeriggio a St. Louis, cercando di farlo cadere sugli argomenti che per me avevano l’interesse più immediato. Non ne cavai nulla.

«Non vuoi spiegarmi un po’ come sei arrivato nel nostro tempo, Vornan? Del meccanismo di trasporto?»

«Vuoi sapere della mia macchina del tempo?»

«Sì. Sì. La tua macchina del tempo.»

«In realtà non è proprio una macchina, Leo. Cioè, non devi pensare che abbia leve e quadranti e cose del genere.»

«Vuoi descrivermela?»

Vornan scrollò le spalle. «Non è facile. È… beh, più un’astrazione che altro. Non ne ho visto molto. Entri in una stanza, e comincia ad entrare in funzione un campo, e poi…» Non concluse la frase. «Mi dispiace. Non sono uno scienziato. Ho solo visto la stanza, in effetti.»

«Sono altri che fanno funzionare la macchina?»

«Sì, sì, naturalmente. Io ero soltanto il passeggero.»

«E la forza che ti sposta attraverso il tempo…»

«Sinceramente, caro, non so immaginare come sia.»

«Neppure io, Vornan. E il guaio è proprio questo. Tutto ciò che io so in fatto di fisica grida che non è possibile mandare indietro nel tempo un uomo vivo.»

«Ma io sono qui, Leo. Ne sono la prova.»

«Presumendo che tu abbia veramente viaggiato attraverso il tempo.»

Mi guardò avvilito. Mi prese la mano; le dita erano fresche, stranamente morbide. «Leo,» disse, addolorato, «stai esprimendo un sospetto?»

«Io sto semplicemente cercando di scoprire come funziona la tua macchina del tempo.»

«Te lo direi, se lo sapessi. Credimi, Leo. Nei tuoi confronti non provo altro che i sentimenti più affettuosi, e così pure per tutti gli individui sinceri, laboriosi e premurosi che ho trovato qui nel vostro tempo. Ma davvero non lo so. Vedi, se tu salissi sulla tua macchina e tornassi nell’anno 800 e qualcuno ti chiedesse di spiegare come funziona quella macchina, saresti in grado di farlo?»

«Sarei in grado di spiegare alcuni principi fondamentali. Non saprei costruire un’automobile, Vornan, ma so che cosa la fa muovere. Tu non mi dici neppure questo.»

«È infinitamente più complesso.»

«Forse potrei vedere quella macchina.»

«Oh, no,» fece Vornan, in tono leggero. «È mille anni più avanti nel tempo. Mi ha lanciato qui e mi riporterà indietro quando deciderò di andarmene, ma la macchina stessa, che come ti ho detto non è esattamente una macchina, è rimasta là.»

«E come farai a dare il segnale perché ti riporti indietro?» domandai.

Vornan finse di non aver sentito. Cominciò invece a interrogarmi sulle mie responsabilità universitarie; era il suo trucco tipico, rispondere ad una domanda imbarazzante con altre domande. Non riuscii a strappargli un briciolo d’informazione. Al termine del colloquio, il mio scetticismo fondamentale era rinato. Vornan non poteva dirmi niente della meccanica del viaggio nel tempo perché non aveva viaggiato nel tempo. Come volevasi dimostrare. Era egualmente evasivo anche a proposito della conversione dell’energia. Non voleva dirmi quando era entrata nell’uso comune, come funzionava, a chi era attribuita l’invenzione.

Gli altri, però, di tanto in tanto avevano un po’ più di fortuna con lui. Soprattutto Lloyd Kolff, il quale probabilmente aveva espresso allo stesso Vornan vari dubbi sulla sua autenticità, ebbe l’onore di una straordinaria disquisizione. Kolff non si era dato molto da fare per interrogare Vornan durante le prime settimane del nostro giro turistico, forse perché lo considerava fasullo, forse perché era troppo pigro per prendersi un simile disturbo. Il vecchio filologo aveva dimostrato una vena d’indolenza impressionante. Era chiaro che campava sugli allori professionali guadagnati venti o trent’anni prima, e adesso preferiva passare il tempo andando a donne e facendo baldoria, e accettando il sincero omaggio degli esponenti più giovani della sua specializzazione. Avevo scoperto che il vecchio Lloyd non aveva più pubblicato un saggio importante dal 1980. Sembrava quasi che considerasse il nostro incarico come uno spasso, un modo divertente per passare un inverno che altrimenti avrebbe dovuto trascorrere nel grigiore di Morningside Heights. Ma a Denver, in una nevosa notte di febbraio, Kolff si decise finalmente ad affrontare Vornan dal punto di vista linguistico. Non so perché lo fece.

Rimasero in conciliabolo per parecchio tempo. Attraverso le sottili pareti dell’albergo potevamo sentire la voce tonante di Kolff cantilenare ritmicamente in una lingua che nessuno di noi capiva: forse recitava a Vornan versi erotici in sanscrito. Poi tradusse, e noi riuscimmo ad afferrare qualche parola salace, addirittura qualche verso pepato sui piaceri dell’amore. Dopo un po’, ce ne disinteressammo; avevamo già avuto occasione di assistere a quei recital di Kolff. Quando mi presi la briga di origliare di nuovo, captai la risata leggera di Vornan che tagliava come un bisturi argenteo i tuoni rimbombanti di Kolff, e poi, vagamente, sentii il visitatore parlare in una lingua sconosciuta. Sembrava che là dentro la faccenda diventasse seria. Kolff l’interruppe, gli fece una domanda, recitò qualcosa a sua volta, e Vornan parlò di nuovo. A questo punto Kralick venne da noi per consegnarci le copie dell’itinerario della mattina dopo (dovevamo condurre Vornan nientemeno che a visitare una miniera d’oro) e non facemmo più caso all’interrogatorio.

Un’ora dopo, Kolff entrò nel salotto dove stavamo noi. Era agitato e rosso in viso. Si tirò pesantemente un lobo carnoso dell’orecchio, si strinse i rotoli di grasso sulla nuca, fece crocchiare le dita con un suono simile ad un crepitare di pallottole. «Accidenti,» borbottò. «Per l’eterna dannazione!» Attraversò il salotto a grandi passi, si fermò per un po’ davanti alla finestra, fissando i grattacieli coronati di neve e poi chiese: «Cosa c’è da bere?»

«Rum, bourbon, scotch,» disse Helen. «Serviti pure.»

Kolff si precipitò verso il tavolo dove stavano le bottiglie semivuote, prese il bourbon e se ne versò una dose che avrebbe paralizzato un ippopotamo. Lo buttò giù liscio, in tre o quattro sorsate avide, e lasciò cadere il bicchiere sul pavimento spugnoso. Restò lì, con i piedi piantati saldamente, tormentandosi il lobo dell’orecchio. Lo sentii bestemmiare in una lingua che poteva essere il Middle English.

Alla fine Aster chiese: «Hai imparato qualcosa da lui?»

«Già. Moltissimo.» Kolff si lasciò cadere su una poltrona e attivò il meccanismo che la faceva vibrare dolcemente, rilassando. «Ho imparato da lui che non è un impostore!»

Heyman soffocò un gemito. Helen sembrava sbalordita, ed io non l’avevo mai vista così scossa. Fields proruppe: «Cosa diavolo vorresti dire, Lloyd?»

«Mi ha parlato… nella sua lingua,» disse Kolff, con voce impastata. «Per mezz’ora. Ho registrato tutto. Domani lo passerò al computer per l’analisi. Ma posso dire che non era un falso. Soltanto un genio della linguistica avrebbe potuto inventare una lingua come quella, e non avrebbe saputo farlo così bene.» Kolff si diede una manata sulla fronte. «Mio Dio! Mio Dio! Un uomo venuto dal futuro! Com’è possibile?»

«E l’hai capito?» chiese Heyman.

«Datemi ancora da bere,» disse Kolff. Prese la bottiglia di bourbon che Aster gli porgeva e se la portò alle labbra. Si grattò il ventre peloso. Si passò la mano davanti agli occhi, come se cercasse di togliere delie ragnatele. Finalmente disse: «No, non l’ho capito. Ho afferrato soltanto gli schemi. Parla una derivazione dell’inglese… ma è un inglese lontano dal nostro tempo quanto lo è la lingua della Anglo-Saxon Chronicle. È pieno di radici asiatiche. Un po’ di mandarino, un po’ di bengali, un po’ di giapponese. C’è anche dell’arabo, ne sono sicuro. E di malese. È una macedonia di lingue.» Kolff ruttò. «Sapete, il nostro inglese è già un grosso guazzabuglio. C’è dentro il danese, il francese dei normanni, il sassone, un pasticcio, e due filoni principali, quello latino e quello teutonico. Perciò abbiamo molte parole in duplicato, abbiamo preface e foreword, abbiamo perceive e know, power e might. Entrambi i filoni, tuttavia, provengono dalla medesima fonte, l’antica madrelingua indoeuropea. Nel tempo di Vornan hanno cambiato tutto. Hanno adottato parole provenienti da altri gruppi ancestrali. E hanno mescolato tutto. Che lingua! In una lingua simile si può dire qualunque cosa. Qualunque cosa! Ma ci sono soltanto le radici. Le parole sono levigate come ciottoli in un ruscello, con tutte le rozzezze eliminate, le inflessioni scomparse. Lui emette dieci suoni, e comunica venti frasi. La grammatica… mi ci vorrebbero cinquant’anni per scoprire la grammatica. E cinquecento per capirla. La fine della grammatica… una bouillabaisse di suoni, un pot-au-feu di linguaggio… incredibile, incredibile! C’è stato un altro cambiamento di vocali, più radicale dell’ultimo. Parla… come in poesia. Una poesia onirica che nessuno può capire. Io ho afferrato soltanto qualche frammento…» Kolff tacque. Si massaggiava la pancia enorme. Non l’avevo mai visto così serio. Era un momento di profonda commozione.

Fields l’infranse. «Lloyd, come puoi essere sicuro di non avere immaginato tutto questo? Una lingua che non puoi capire, come puoi interpretarla? Se non riesci a individuare una grammatica, come sai che non stava snocciolando soltanto suoni senza senso?»

«Sei un cretino,» rispose disinvolto Kolff. «Dovresti farti pompare dalla testa tutto il veleno che hai dentro. Ma allora, il tuo cranio si sfascerebbe.»

Fields sibilò. Heyman si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, in rapidi passi da pinguino; sembrava in preda ad una nuova crisi interiore. Io stesso mi sentivo molto a disagio. Se Kolff era stato convertito, quali speranze restavano che Vornan non fosse quel che affermava di essere? Le prove si accumulavano. Forse era solo il frutto dell’immaginazione decadente di Kolff. Forse Aster aveva letto erroneamente i dati degli esami medici di Vornan. Forse. Forse. Dio mi aiuti, non volevo credere che Vornan tosse autentico, perché sarebbe stato un disastro per le mie convinzioni scientifiche, e mi addolorava sapere che stavo violando quella confusa astrazione che è il codice della scienza, creando una struttura a priori per la mia tranquillità emotiva. Mi piacesse o no, quella struttura stava crollando. Forse. Per quanto tempo ancora, mi chiesi, avrei cercato di tenerla in piedi? Quando avrei accettato, come aveva fatto Aster, come adesso faceva Kolff? Quando Vornan avrebbe compiuto un viaggio nel tempo sotto i miei occhi?

Helen disse dolcemente: «Perché non ci fai ascoltare la registrazione, Lloyd?»

«Sì. Sì. La registrazione.» Tirò fuori un piccolo registratore a forma di cubo e, pasticciando un po’, riuscì a inserirlo nella fenditura di un’unità di playback. Premette il pulsante del sonoro e all’improvviso fluì nella stanza un torrente di suoni sommessi ed erosi. Tesi l’orecchio per ascoltare. Vornan parlava con una cantilena, giocosamente, abilmente, variando tono e timbro, così che la sua parlata era simile ad un canto, e qua e là c’era un frammento tentatore di una parola comprensibile che fuggiva rapido. Ma non ne compresi nulla. Kolff aveva intrecciato le grosse dita, annuiva e sorrideva, agitava i piedi in qualche momento particolarmente critico, e di tanto in tanto mormorava «Sì? Capite? Capite?»; ma io non capivo, e non udivo neppure. Era puro suono, ora madreperlaceo, ora azzurrino, ora turchese, tutto misterioso, per nulla intelligibile. Il cubo ronzò, finì, e quando tacque restammo seduti in silenzio, come se la melodia delle parole di Vornan aleggiasse ancora; ed io compresi che per me non era stato provato nulla, sebbene Lloyd poteva anche accettare quei suoni come figli dell’inglese. Kolff si alzò solennemente e intascò il cubo. Si rivolse a Helen McIlwain, i cui lineamenti erano trasfigurati, come se avesse assistito ad un rito incredibilmente sacro. «Vieni,» disse lui, toccandole il polso ossuto. «È ora di andare a dormire, e non è una notte per dormire soli. Vieni.» Uscirono insieme. Io udivo ancora la voce di Vornan declamare gravemente un lungo brano in una lingua che sarebbe nata solo di lì a molti secoli; o forse si limitava a snocciolare una sfilza di rumori privi di senso. E mi sentii cullato, dal suono del futuro o dal suono di una frode ingegnosa.

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