VII

Il giorno dopo, a mezzodì, noi sei — più Kralick — salimmo a bordo della sotterranea intercittà per New York… non-stop Un’ora dopo arrivammo, giusto in tempo per assistere ad una dimostrazione degli Apocalittici davanti al terminal della sotterranea. Avevano saputo che Vornan-19 stava per arrivare a New York, e facevano un po’ di baccano preliminare.

Salimmo nell’immenso atrio del terminal e trovammo un mare di figure irsute e sudate. Striscioni di luce viva svolazzavano nell’aria, proclamando slogan insensati o pure e semplici oscenità. I poliziotti del terminal stavano cercando disperatamente di mantenere l’ordine. Sul baccano predominava il tuono cupo di un canto apocalittico, incoerente e sbrindellato, un grido d’anarchia in cui riuscivo a distinguere soltanto le parole «fine del mondo… fiamme… fine del mondo…»

Helen McIlwain era affascinata. Gli Apocalittici, per lei, erano interessanti quanto gli stregoni tribali, e infatti cercò di squagliarsela per assaporare l’esperienza a distanza ravvicinata. Kralick la pregò di tornare indietro, ma ormai era tardi: Helen si precipitò verso la folla. Un barbuto profeta della fine del mondo l’abbrancò e le strappò la rete di dischetti di plastica che costituiva il suo abbigliamento, quella mattina. I dischetti schizzarono via in tutte le direzioni, mettendo allo scoperto un pezzo di Helen, per una ventina di centimetri, sul davanti, dalla gola alla cintura. Si affacciò un seno nudo, sorprendentemente sodo in una donna della sua età, sorprendentemente sviluppato per una donna magra come lei. Helen aveva gli occhi vitrei per l’eccitazione; si aggrappò al suo nuovo conquistatore, cercando di estrargli l’essenza dell’Apocalittismo mentre quello la scrollava, la graffiava e la prendeva a pugni. Spinti dalle insistenze di Kralick, tre robusti poliziotti si avventurarono al salvataggio. Helen accolse il primo con un calcio all’inguine che lo fece arretrare barcollando: l’uomo sparì sotto una marea di fanatici avanzanti e non lo vedemmo ricomparire. Gli altri due brandirono le sferze neurali e le usarono per disperdere gli Apocalittici. Si levarono urla di furore, grida stridule di sofferenza, sul sottofondo di «fine del mondo… fiamme… fine del mondo…» Una truppa di ragazze nude, con le mani sui fianchi, ci sfilò davanti come un corpo di ballo, nascondendomi la visuale; quando riuscii a vedere di nuovo in mezzo all’orda, mi accorsi che i poliziotti avevano fatto il vuoto intorno ad Helen e la stavano portando indietro. Sembrava trasfigurata da quell’esperienza. «Meraviglioso,» continuava a dire, «meraviglioso, meraviglioso, che frenesia orgiastica!» Le pareti echeggiavano di «fine del mondo… fiamme… fine del mondo…»

Kralick offrì ad Helen la sua giacca, ma lei la rifiutò con un cenno: non si preoccupava di essere seminuda, o forse si preoccupava di farsi vedere bene. Non so come, riuscirono a tirarci fuori. Mentre varcavamo la porta, udii un terribile urlo di dolore levarsi più forte di tutti gli altri suoni, il grido, immagino, di un uomo squartato vivo. Non ho mai scoperto chi avesse lanciato quell’urlo, né perché.

«…fine del mondo…» udii ancora, e poi uscimmo.

Le macchine ci aspettavano. Ci condussero in un albergo nel centro di Manhattan. Al cento venticinquesimo piano avevamo una splendida vista dell’area di risanamento del centro. Helen e Kolff, spudoratamente, presero una stanza matrimoniale; ognuno degli altri ne ebbe una singola. Kralick fornì a ciascuno un grosso pacco di bobine che suggerivano i metodi per trattare con Vornan. Misi via le mie senza guardarle. Dalla finestra vidi, sulla strada lontana, una marea frenetica di figure che si muoveva sul livello pedonale: gruppi che si formavano e si scioglievano, qualche urtone, braccia che gesticolavano, i movimenti di formiche furibonde. Di tanto in tanto, un cuneo volante arrivava ruggendo dal centro della via. Erano Apocalittici, pensai. Da quanto tempo continuava quella storia? Avevo perduto ogni contatto con il mondo: non avevo capito che in ogni momento, in ogni città, si era esposti all’assalto del caos. Mi allontanai dalla finestra.

Morton Fields entrò in camera mia. Quando gli offrii da bere accettò, ed io premetti i pulsanti di programmazione sul quadro dei comandi del servizio in camera. Restammo seduti in silenzio a sorseggiare il rum. Mi augurai che non cominciasse a blaterare nel gergo degli psicologi. Ma non era il tipo che blaterava; era diretto, incisivo, lucido, secondo il suo stile.

«Sembra un sogno, eh?» chiese.

«La faccenda dell’uomo venuto dal futuro?»

«L’intero ambiente culturale. Questa atmosfera fin de siècle.»

«È stato un secolo molto lungo, Fields. Forse il mondo è felice di vederlo finire. Forse tutta questa anarchia intorno a noi è un modo di festeggiarlo, eh?»

«Potresti avere ragione,» ammise lui. «Vornan-19 è un po’ come il Fortebraccio mell’Amleto, venuto a rimettere in sesto i tempi.»

«Ne sei certo?»

«È una possibilità.»

«Fino ad ora non è stato molto utile,» dissi io. «Sembra che provochi guai dovunque vada.»

«Non intenzionalmente. Non è ancora sintonizzato su noi selvaggi, e continua a inciampare nei tabù tribali. Lasciagli un po’ di tempo, in modo che impari a conoscerci, e comincerà ad operare prodigi.»

«Perché dici così?»

Fields si tirò solennemente l’orecchio sinistro. «Ha poteri carismatici, Garfield. Il potere divino. Lo si vede dai suoi sorrisi, non ti sembra?»

«Sì. Sì. Ma cosa ti fa pensare che userà razionalmente quel carisma? Perché non divertirsi un po’, scatenare le turbe? È qui come salvatore, o soltanto come turista?»

«Questo lo scopriremo da noi, tra qualche giorno. Ti dispiace se ordino un altro rum?»

«Ordinane anche tre,» dissi io, allegramente. «Tanto, non sono io che pago il conto.»

Fields mi fissò, molto serio. Sembrava che faticasse a mettere a fuoco gli occhi chiari, come se si fosse messo un paio di lenti a contatto e ancora non sapesse come servirsene. Dopo un lungo silenzio disse: «Conosci qualcuno che sia andato a letto con Aster Mikkelsen?»

«No. Dovrei conoscerlo?»

«Domandavo così. Potrebbe essere lesbica.»

«Ne dubito,» dissi io. «Non so. È importante?»

Fields rise, controvoglia. «Ieri notte ho tentato di sedurla.»

«L’ho notato.»

«Ero molto sbronzo.»

«Ho notato anche questo.»

Fields fece: «Aster mi ha detto una cosa strana, mentre cercavo di portarmela a letto. Ha detto che non andava a letto con gli uomini. Lo ha detto in un modo secco e inflessibile, come se dovesse essere assolutamente chiaro a chiunque che non sia un idiota. Mi domandavo se c’è qualcosa che dovrei sapere di lei e che invece non so.»

«Potresti chiederlo a Sandy Kralick,» gli suggerii. «Lui ha un fascicolo su ciascuno di noi.»

«Preferirei non farlo. Voglio dire… è un po’ indecoroso, da parte mia…»

«Aver voglia di andare a letto con Aster?»

«No, circuire quel burocrate nel tentativo di raccogliere qualche soffiata. Preferirei che la cosa restasse tra noi.»

«Tra noi professori?» precisai.

«In un certo senso.» Fields sogghignò: uno sforzo che doveva costargli una certa fatica. «Senti, vecchio mio, non volevo seccarti con i miei problemi. Pensavo solo… se tu sapevi qualcosa delle… delle…»

«Delle sue tendenze?»

«Delle sue tendenze.»

«Non so niente di niente. È una biochimica geniale,» dissi. «Come persona, mi sembra piuttosto riservata. È tutto quello che posso dirti.»

Dopo un po’, Fields se ne andò. Sentii la risata chiassosa di Lloyd Kolff risuonare per i corridoi. Mi sentivo prigioniero. E se avessi telefonato a Kralick per chiedergli di mandarmi subito Martha/Sidney? Mi spogliai e feci la doccia, lasciando che le molecole eseguissero la loro danza ronzante, asportando il sudiciume del viaggio da Washington a New York. Poi lessi per un po’. Kolff mi aveva regalato il suo ultimo libro, un’antologia di liriche metafisiche d’amore che aveva tradotto dai testi fenici ritrovati a Byblos. Avevo sempre ritenuto i fenici abili affaristi levantini, senza tempo da perdere con la poesia, erotica o no; ma quella era roba sorprendente, brutale e fiammeggiante. Non avevo mai immaginato che esistessero tanti modi di descrivere gli organi genitali femminili. Le pagine erano festonate da lunghe sfilze di aggettivi: un catalogo di libidine, un inventario di merci. Era tutto così. Mi chiesi se ne aveva regalto una copia anche ad Aster Mikkelsen.

Probabilmente mi assopii. Verso le cinque del pomeriggio fui svegliato da alcuni fogli che uscivano frusciando dalla fenditura dei dati, alla parete. Kralick ci informava dell’itinerario di Vornan-19. La solita roba: la Borsa di New York, il Gran Canyon, un paio di fabbriche, un paio di riserve indiane, e aggiunta a matita in via ipotetica, Luna City. Mi chiesi se avremmo dovuto accompagnarlo sulla Luna, nel caso che ci andasse. Probabilmente sì.

Quella sera, a cena, Helen e Aster cominciarono a parlottare fitto fitto di non so che cosa. Io mi trovai arenato accanto a Heyman, che mi sciorinò un sermone sulle interpretazioni spengleriane del movimento apocalittico. Lloyd Kolff raccontava barzellette sconce in varie lingue a Fields, che lo ascoltava mesto e beveva parecchio. Kralick ci raggiunse al dessert per annunciarci che Vornan-19 avrebbe preso il razzo per New York la mattina dopo e sarebbe stato tra noi a mezzogiorno, tempo locale. Ci augurò buona fortuna.


Non andammo a prendere Vornan all’aeroporto. Kralick prevedeva che ci sarebbero stati guai, là, e aveva ragione; rimanemmo in albergo, ad assistere alla scena dell’arrivo sui nostri schermi. Due fazioni rivali erano accorse all’aeroporto per accogliere Vornan. C’era una massa di Apocalittici, ma ciò non era sorprendente; in quei giorni sembrava che ci fossero masse di Apocalittici dappertutto. Un po’ più sconcertante era la presenza di un migliaio di dimostranti che, in mancanza di una parola più adatta, il cronista chiamava «discepoli» di Vornan. Erano venuti per adorarlo. La telecamera inquadrò amorosamente le loro facce. Non erano pazzi invasati come gli Apocalittici: no, erano quasi tutti tipici esponenti del ceto medio, molto tesi, molto controllati, per nulla sgavazzatori dionisiaci. Vedevo i visti contratti, le labbra strette, l’espressione sobria… e avevo paura. Gli Apocalittici rappresentavano la feccia della società, gli spostati, gli sradicati. Quelli che erano venuti ad inchinarsi a Vornan erano gli inquilini dei piccoli appartamenti suburbani, i piccoli risparmiatori, quelli che andavano a letto presto la sera, la spina dorsale del mondo di vita americano. Lo feci osservare a Helen McIlwain.

«Ma certo,» disse lei. «È la controrivoluzione, la reazione agli eccessi degli Apocalittici. Costoro vedono l’uomo venuto dal futuro come l’apostolo della restaurazione dell’ordine.» Fields aveva detto più o meno la stessa cosa.

Pensai ai giovani che ruzzolavano ed alle cosce rosee in una sala da ballo di Tivoli. «Probabilmente resteranno delusi,» risposi, «se pensano che Vornan li aiuterà. A giudicare da quel che ho visto, è assolutamente schierato dalla parte dell’entropia.»

«Forse cambierà, quando si renderà conto del potere che può avere su di loro.»

Delle tante cose spaventose che vidi ed udii in quei primi giorni, le tranquille parole di Helen McIlwain, ora che ci ripenso, furono le più terrificanti.

Naturalmente, il governo aveva una lunga esperienza, in fatto d’importazioni di celebrità. Vornan fu annunciato su di una pista, e invece arrivò su di un’altra, all’estremità opposta dell’aeroporto, mentre un razzo partito apposta da Città del Messico atterrava dove avrebbe dovuto scendere l’uomo venuto dal 2999. I poliziotti tennero a bada la folla abbastanza bene, tutto considerato. Ma quando i due gruppi si precipitarono sul campo, si fusero, gli Apocalittici si mescolarono ai discepoli di Vornan, e poi, bruscamente, non fu più possibile distinguerli. La telecamera zumò su una massa pulsante di umanità, e poi altrettanto rapidamente controzumò, quando scoprì che in mezzo a quella confusione era in atto uno stupro. Migliaia di figure turbinavano intorno al razzo, le cui fiancate azzurre luccicavano tentatrici nel debole Sole di gennaio; e intanto Vornan era tranquillamente fatto uscire dal razzo vero a quasi due chilometri di distanza. Per mezzo di un elicottero e poi di un veicolo da trasporto giunse sino da noi, e intanto intere cisterne di schiumogeni venivano vuotate addosso alla turba esagitata intorno al razzo azzurro. Kralick ci telefonò per informarci che stavano portando Vornan nell’appartamento dell’albergo che fungeva da nostro quartier generale newyorchese.

Provai un attimo di panico accecante e improvviso, quando Vornan-19 si avvicinò alla stanza.

Come potrei esprimere a parole l’intensità di quella sensazione? Posso dire che per un istante gli ormeggi dell’universo parvero scardinarsi, così che la Terra andava alla deriva nel vuoto? Posso dire che mi sentii vagare in un mondo privo di ragione, privo di strutture e di coerenza? Lo dico in tutta serietà: fu un momento di assoluta paura. Le varie pose ironiche, beffarde, distaccate mi abbandonarono: rimasi senza la mia armatura di cinismo, nudo in un uragano sferzante, di fronte alla prospettiva d’incontrare un vagabondo del tempo.

Era la paura che l’astrazione si trasformasse in realtà. È facile parlare tanto dell’inversione temporale; si può persino spingere qualche elettrone per un breve tratto nel passato, eppure ogni cosa rimane sostanzialmente astratta. Non ho mai visto un elettrone, e non posso dire dove si può trovare il passato. E adesso, all’improvviso, il tessuto del cosmo si era lacerato ed un vento gelido mi spirava adosso dal futuro: sebbene cercassi di recuperare il mio vecchio scetticismo, mi accorsi che era impossibile. Dio mi aiuti, credetti che Vornan fosse autentico. Il suo carisma lo precedette in quella stanza, convertendomi in anticipo. A che serve l’ostinazione? Ero diventato di gelatina prima ancora che lui comparisse. Helen McIlwain era in estasi. Fields si agitava inquieto. Kolff e Heyman sembravano turbati; persino lo scudo glaciale di Aster era stato trapassato. Tutto quello che io sentivo, lo provavano anche loro.

Vornan-19 entrò.

L’avevo visto sui teleschermi così spesso, in quelle due ultime settimane, che sentivo di conoscerlo: ma quando giunse fra noi, mi trovai alla presenza di un essere così alieno da apparire inconoscibile. E una traccia di quella sensazione perdurò per i mesi che seguirono: Vornan era sempre qualcosa di unico.

Era ancora più piccolo di quanto avessi immaginato, al massimo cinque centimetri più alto di Aster Mikkelsen. In una stanza di uomini piuttosto alti, sembrava sopraffatto, con il torreggiante Kralick da una parte ed il montagnoso Kolff dall’altra. Eppure era perfettamente padrone della situazione. Girò lo sguardo su tutti noi, tranquillamente, e disse: «Siete molto gentili a darvi tanto disturbo per me. Sono lusingato.»

Dio mi aiuti. Credetti.

Ognuno di noi è il riepilogo degli eventi del nostro tempo, i grandi avvenimenti e quelli piccoli. I nostri modelli di pensiero, i nostri pregiudizi, sono determinati dal distillato degli eventi che aspiriamo ad ogni respiro. Io sono stato forgiato dalle piccole guerre della mia vita, dall’esplosione delle armi atomiche nella mia infanzia, dal trauma dell’assassinio di Kennedy, dall’estinzione delle ostriche dall’Atlantico, dalle parole che la mia prima donna mi disse nei momenti d’estasi, dal trionfo dei computer, dal formicolio del Sole dell’Arizona sulla mia pelle nuda, e da molte altre cose. Quando tratto con altri esseri umani, so di avere un’affinità con loro, so che sono stati forgiati da alcuni degli eventi che hanno dato forma alla mia anima, che abbiamo almeno certi punti di riferimento in comune.

Che cosa aveva forgiato Vornan?

Nessuna delle cose che avevano dato forma a me. E questo era un motivo di sgomento e di reverenza. La matrice da cui proveniva era completamente diversa dalla mia. Un mondo che parlava altre lingue, che aveva avuto altri dieci secoli di storia, che aveva subito impensabili alterazioni di cultura e motivazioni… quello era il mondo da cui veniva. Nella mia mente balenò una visione immaginaria del mondo di Vornan, un mondo idealizzato di campi verdi e di guglie scintillanti, di controlli meteorologici e di vacanze tra le stelle, di concetti incomprensibili e d’incomprensibili progressi; e sapevo che qualunque cosa immaginassi sarebbe stata inferiore alla realtà, che non avevo nessun punto di riferimento in comune con lui.

Mi dissi che ero sciocco a cedere ad una simile paura.

Mi dissi che quell’uomo apparteneva al mio tempo, era soltanto un abile manipolatore dei suoi simili.

Mi sforzai di recuperare il mio scetticismo difensivo. E non ci riuscii.

Ci presentammo a Vornan. Lui stava al centro della stanza, un po’ altezzoso, ascoltandoci mentre gli recitavamo le nostre specializzazioni scientifiche. Il filologo, la biochimica, l’antropologa, lo storico e lo psicologo si presentarono a turno. Io dissi: «Sono un fisico specializzato nei fenomeni dell’inversione temporale,» e attesi.

Vornan-19 disse: «Straordinario. Avete scoperto l’inversione temporale così presto, nella vostra civiltà! Dovremo riparlarne molto presto, Sir Garfield.»

Heyman si fece avanti ed abbaiò: «Come sarebbe a dire, ’così presto nella vostra civilità’? Se crede che noi siamo un branco di luridi selvaggi…»

«Franz,» mormorò Kolff, afferrando Heyman per il braccio, ed io scoprii che cosa rappresentava la F. in «F. Richard Heyman». Heyman si acquietò, impietrito. Kralick gli rivolse una smorfia. Non si accoglieva un ospite, neppure un ospite sospetto, con una sfida ringhiante.

Kralick disse: «Le abbiamo organizzato una visita al quartiere finanziario per domani mattina. Il resto di quest’oggi, penso, potrebbe venire trascorso in libertà. Le va…»

Vornan non gli badava. Si era mosso in modo strano, come se planasse attraverso la stanza, e stava faccia a faccia con Aster Mikkelsen. Sottovoce disse: «Purtroppo il mio corpo si è sporcato in queste lunghe ore di viaggio. Vorrei pulirmi. Mi concede l’onore di fare il bagno con me?»

Restammo a bocca aperta. Eravamo tutti preparati all’abitudine, da parte di Vornan, di fare richieste oltraggiose, ma non avevamo previsto che tentasse qualcosa così subito, e per giunta con Aster. Morton Fields s’irrigidì e si girò come una statua di selce, cercando evidentemente un modo per salvare Aster da quella difficile situazione. Ma Aster non aveva bisogno di salvatori. Accettò l’invito a dividere la stanza da bagno con Vornan, graziosamente e senza tracce d’esitazione. Helen sogghignò. Kolff strizzò l’occhio. Fields sibilò. Vornan fece un piccolo inchino, flettendo le ginocchia e non soltanto la spina dorsale, come se non sapesse bene come doveva fare, e scortò Aster fuori dalla stanza, con fare deciso. Era successo tutto così in fretta da lasciarci completamente storditi.

Alla fine, Fields riuscì a dire: «Non possiamo lasciargli fare una cosa simile!»

«Aster non ha obiettato,» osservò Helen. «Spettava a lei decidere.»

Heyman si picchiò il pugno sull’altra mano. «Mi dimetto!» tuonò. «È un’assurdità! Me ne tiro completamente fuori!»

Kolff e Kralick si girarono all’unisono verso di lui. «Franz, calmati,» ruggì Kolff, e Kralick, nello stesso istante, disse: «Dottor Heyman, la prego…»

«Supponete che avesse domandato a me di fare il bagno con lui!» esclamò Heyman. «Dobbiamo soddisfare tutti i suoi capricci? Mi rifiuto di rendermi complice di questa idiozia!»

Kralick disse: «Nessuno le chiede di accedere a richieste evidentemente eccessive, dottor Heyman. La signorina Mikkelsen non era costretta ad acconsentire. Lo ha fatto per l’armonia, per… ecco, per ragioni scientifiche. Sono fiero di lei. Tuttavia, non era obbligata a dire di sì, e non voglio che vi sentiate…»

Helen McIlwain l’interruppe serenamente. «Mi dispiace che tu abbia deciso di dimetterti così presto, Franz, amore. Non ti ti sarebbe piaciuto discutere con lui la storia dei prossimi mille anni? Ormai, non ne avrai più la possibilità. Non credo che il signor Kralick possa permetterti d’interrogarlo a tuo piacere, se non collabori, e naturalmente ci saranno molti altri storici ben felici di prendere il tuo posto, no?»

Il suo trucco fu diabolicamente efficace. Il pensiero di lasciare ad un disprezzato rivale la possibilità di arrivare per primo ad interrogare Vornan straziò Heyman; poco dopo, si mise a borbottare che non si era dimesso veramente, aveva soltanto minacciato di dimettersi. Kralick lo lasciò sulle spine per un po’, prima di decidere di dimenticare lo spiacevole incidente, e alla fine Heyman promise, non troppo garbatamente, di assumere un atteggiamento più temperato nei confronti del suo incarico.

Fields, nel frattempo, continuava a guardare la porta oltre la quale erano svaniti Aster e Vornan. Alla fine disse, innervosito: «Non pensate che dovremmo cercare di sapere che cosa stanno facendo?»

«Il bagno, immagino,» disse Kralick.

«Lei se la prende con molta calma!» esclamò Fields. «Ma… e se l’avessimo lasciata andare con un maniaco omicida? Ho notato certi segni, nel portamento e nell’espressione facciale di quell’uomo, che m’inducono a credere che non sia il caso di fidarsi di lui.»

Kralick inarcò un sopracciglio ispido. «Davvero, dottor Fields? Le spiacerebbe dettare una relazione al riguardo?»

«Non ancora,» fece quello, incupendosi. «Ma credo che la signorina Mikkelsen vada protetta. È troppo presto per cominciare a ritenere che quest’uomo del futuro sia condizionato dalla morale e dai tabù della nostra società, e…»

«È giusto,» disse Helen. «Può darsi che abbia l’abitudine di sacrificare una vergine bruna ogni giovedì mattina. La cosa più importante che dobbiamo ricordare è che lui non pensa come noi, né nelle cose grandi, né nei piccoli particolari.»

Era impossibile giudicare, dal suo tono impassibile, se parlava sul serio; io, comunque, sospettavo di no. In quanto all’angoscia di Fields, era abbastanza semplice spiegarla: poiché era stato frustrato nelle sue mire su Aster, era sconvolto dalla constatazione che Vornan se l’era portata via così facilmente. Era tanto sconvolto, anzi, da indurre l’esasperato Kralick a rivelarci qualcosa che evidentemente non aveva avuto nessuna intenzione di dire.

«Il mio staff sorveglia in continuazione Vornan,» scattò, rivolto allo psicologo. «Gli teniamo addosso un collegamento completo, audio, video e tattile, e non credo che lui lo sappia; e le sarò grato se non glielo farà sapere. La signorina Mikkelsen non corre alcun pericolo.»

Fields fu colto alla sprovvista. Fu un colpo per tutti, ne sono sicuro.

«Vuol dire che i suoi uomini li stanno osservando… in questo momento?»

«Guardi» ribatté Kralick, evidentemente irritato. Afferrò il telefono interno e fece un numero. Immediatamente la parete a schermo s’illuminò, trasmettendo ciò che riprendevano i suoi apparecchi. Vedemmo un’immagine a colori e in tre dimensioni di Aster Mikkelsen e di Vornan-19.

Erano completamente nudi. Vornan voltava le spalle alla telecamera, Aster no. Aveva un corpo snello, agile, sottile di fianchi, ed i seni di una dodicenne.

Erano insieme sotto una doccia molecolare. Lei gli grattava la schiena.

Sembrava che si divertissero molto.

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