Quella sera, Kralick aveva preso accordi perché Vornan-19 partecipasse ad una festa in suo onore nella casa che Wesley Bruton, il magnate dei servizi pubblici, aveva sul fiume Hudson. La casa era stata ultimata soltanto due o tre anni prima; era opera di Albert Ngumbwe, il giovane e geniale architetto che attualmente sta progettando la capitale panafricana nella foresta di Ituri. Era così sensazionale che ne avevo sentito parlare persino io, nel mio isolamento californiano: era il prodotto più straordinario dell’architettura contemporanea, si diceva. La mia curiosità era vivissima. Passai quasi tutto il pomeriggio a leggere un libro praticamente incomprensibile di un critico d’architettura, per inserire la casa di Bruton nel suo contesto… era il mio compitino, per così dire. Gli elicotteri sarebbero partiti alle sei e trenta dall’eliporto sul tetto del nostro albergo, e avremmo viaggiato protetti dal più rigoroso servizio di sicurezza. Il problema logistico sarebbe stato serio, in quella visita, me ne rendevo conto, e avrebbero dovuto trasferirci da un posto all’altro come merce di contrabbando. Parecchie centinaia di giornalisti ed altre pesti dei mass media tentavano di seguire Vornan dappertutto, benché ci fosse l’accordo che limitava l’accesso ad un gruppo di sei giornalisti al giorno, a rotazione. Un nugolo di Apocalittici furibondi seguiva i movimenti di Vornan, gridando che non gli credevano. E adesso c’era anche la preoccupazione della massa crescente dei discepoli, una contro-orda di tranquilli e rispettabili piccoli borghesi che vedevano in lui l’apostolo della legge e dell’ordine, e che calpestavano la legge e l’ordine nel loro desiderio frenetico di adorarlo. Con tutta questa gente con cui contendere, dovevamo muoverci in fretta.
Verso le sei cominciammo a radunarci nell’appartamento principale. Quando arrivai, trovai Kolff e Helen. Kolff era bardato in grande stile, ed era uno spettacolo imponente: una tunica luccicante avvolgeva la sua mole monumentale e scintillava di tutti i colori dell’iride ed una gigantesca fusciacca blu notte richiamava l’attenzione sul ventre prominente. Si era allisciato i radi capelli bianchi sulla volta cranica. Sull’ampio petto era appuntata una fila di medaglie accademiche conferitegli da vari governi. Ne riconobbi una sola, di cui anch’io ero stato insignito, la francese Legion des Curies. Kolff ostentava una dozzina di quelle sciocche onorificenze.
Al confronto, Helen sembrava quasi sobria. Aveva un abito fluente fatto di non so che malizioso polimero, che un momento era trasparente, un altro momento opaco; vista da una data angolazione, sembrava nuda, ma lo spettacolo durava solo un istante, prima che le lunghe catene di molecole sguscianti cambiassero orientamento e la nascondessero. Era un abito ingegnoso, attraente, persino di buon gusto, a modo suo. Alla gola portava un curioso amuleto, sfacciatamente fallico, al punto da smentire se stesso e da apparire innocente. Il trucco consisteva di un rossetto verde luminescente e di aloni scuri intorno agli occhi.
Fields arrivò poco dopo, con un abito normale, e quindi sopraggiunse Heyman, con abito da sera fuori moda almeno da vent’anni. Sembravano entrambi a disagio. Poco dopo entrò Aster, vestita di un semplice abito che le arrivava alle cosce, e ornata da una fila di piccole tormaline che le cingevano la fronte. Il suo arrivo suscitò una certa tensione.
Mi voltai di scatto, con aria colpevole: quasi non riuscivo a reggere il suo sguardo. Come tutti gli altri, l’avevamo spiata; anche se non era stata un’idea mia accendere lo schermo per vederla nella doccia, l’avevo guardata come tutti gli altri, avevo accostato l’occhio al buco della serratura ed avevo sbirciato furtivamente. I suoi seni minuscoli e le natiche piatte da ragazzetto ormai non erano più un segreto, per me. Fields tornò a irrigidirsi, stringendo i pugni; Heyman arrossì e strusciò i piedi sul pavimento di spugna di vetro. Ma Helen, che non credeva a concetti come la colpa, la vergogna o il pudore, rivolse ad Aster un caloroso saluto imperturbato, e Kolff, che nella sua lunga vita ne aveva combinate di tutti i colori e non aveva spazio per un rimorso causato da un episodio non intenzionale di voyeurismo, tuonò tutto felice: «Ti è piaciuta la doccia?»
Aster rispose tranquilla: «È stato divertente.»
Non fornì particolari. Vedevo benissimo che Fields bruciava dalla smania di sapere se era stata a letto con Vornan-19. Per me, era una questione di scarso interesse; il nostro ospite aveva già dato prova di una voracità sessuale straordinaria ed indiscriminata, ma d’altra parte Aster appariva perfettamente in grado di difendere la propria castità anche contro un uomo con cui aveva fatto il bagno. Aveva l’aria gaia e rilassata, e non pareva che avesse subito una fondamentale violazione della sua personalità in quelle ultime tre ore. Quasi mi auguravo che fosse andata veramente a letto con lui; sarebbe stata un’esperienza salutare per lei, così fredda ed isolata.
Kralick arrivò pochi minuti dopo, con Vornan-19 a rimorchio. Ci portò sull’eliporto del tetto, dove ci aspettavano gli apparecchi. Erano quattro: uno per i sei membri del cartello della stampa, uno per un’infornata di funzionari della Casa Bianca, ed uno per gli agenti del servizio di sicurezza. Il nostro fu il terzo a decollare. Con un sommesso rombo di turbine si lanciò nel cielo notturno e s’involò verso Nord. Durante il volo non riuscimmo a vedere gli altri elicotteri. Vornan-19 guardava con interesse, dal finestrino, la città splendente di luci.
«Qual è la popolazione di questa città, prego?» chiese.
«Compresa l’area metropolitana circostante, circa trenta milioni di persone,» disse Heyman.
«Tutte umane?»
La domanda ci sconcertò. Dopo un momento, Fields disse: «Se vuol intendere che qualcuno di loro proviene da altri mondi, la risposta è no. Non ci sono esseri di altri mondi, sulla Terra. Non abbiamo mai scoperto esseri intelligenti nel Sistema Solare, e nessuna delle nostre sonde stellari è ancora tornata.»
«No,» disse Vornan. «Non stavo parlando degli abitanti di altri mondi. Mi riferivo ai nativi della Terra. Quanti dei vostri trenta milioni di abitanti, qui, sono umani purosangue, e quanti sono servitori?»
«Servitori? Vuol dire robot?» chiese Helen.
«Nel senso di forme di vita sintetiche, no,» disse pazientemente Vornan. «Mi riferisco a coloro che non hanno una posizione di esseri umani perché, geneticamente, non sono umani. Non avete ancora i servitori? Fatico un po’ a trovare le parole esatte per chiederlo. Non avete ancora costruito la vita partendo da esseri viventi inferiori? Non ci sono…» S’interruppe. «Non so come dirlo. Non ci sono le parole adatte.»
Ci scambiammo occhiate di turbamento. Quella era in pratica la prima conversazione che noi avevamo con Vornan-19, e già eravamo impegolati nei dilemmi della comunicazione. Ancora una volta provai quel brivido di paura, la consapevolezza di essere alla presenza di qualcosa di estraneo. Ogni atomo scettico e razionalista del mio essere mi diceva che quel Vornan non era altro che un abilissimo truffatore, eppure quando parlava in quel modo casuale di una Terra popolata da umani e da men-che-umani, i suoi tentativi brancolanti di spiegare ciò che intedeva dire erano fin troppo convincenti. Lasciò cadere l’argomento. Il volo proseguì. Sotto di noi il fiume Hudson si snodava torpido verso il mare. Dopo un poco, la zona metropolitana si diradò e cominciammo a distinguere le aree scure dei parchi pubblici, e poi scendemmo verso la pista d’atterraggio privata della tenuta di cento acri di Wesley Bruton, centoventi chilometri a Nord della città. Bruton era proprietario del più ampio tratto di terra privata non edificata a oriente del Mississippi, si diceva. Ed io ci credevo.
La casa era radiosa. La vedemmo da una distanza di quattrocento metri, quando scendemmo dagli elicotteri; si trovava su di un’altura affacciata sul fiume, e splendeva di un chiarore verde che lanciava verso le stelle fasci di luce. Un marciapiedi mobile coperto ci portò su per la china, in mezzo ad un giardino d’inverno di ghiacci scolpiti, fantasie colorate realizzate con mano maestra. Quando fummo più vicini, potemmo distinguere la creazione di Ngumbwe: una serie di gusci concentrici traslucidi, che racchiudevano un padiglione a punta, più alto degli alberi circostanti. Otto a nove archi sovrapposti formavano il tetto, e giravano lentamente, in modo che la forma della casa cambiava continuamente. Trenta metri al di sopra dell’arco più alto era librato un grande faro di luce vivente, un immenso globo giallo che girava e fremeva e turbinava sul tenue piedistallo. Si sentiva una musica acuta e vibrante che proveniva da festoni di minuscoli altoparlanti drappeggiati lungo i rami gelati di solenni alberi monumentali. Il marciapiedi mobile ci portò verso la casa: una porta sbadigliò, come una bocca, allargandosi lateralmente per inghiottirci. Intravvidi la mia immagine rispecchiata sulla superficie vitrea dell’uscio: ero solenne, un po’ grassoccio, impacciato.
Nella casa regnava il caos. Ngumbwe, evidentemente, era in combutta con le potenze delle tenebre; non c’era un solo angolo comprensibile, non c’era una linea che ne incontrasse un’altra. Dal vestibolo in cui ci trovavamo, si scorgevano dozzine di locali che si diramavano in tutte le direzioni, ma era impossibile discernere una struttura coerente, perché anche le stanze erano in movimento, e mutavano di continuo non soltanto le forme individuali, ma anche le relazioni tra di loro. Le pareti si formavano, si dissolvevano e si reincarnavano altrove. I pavimenti si sollevavano, diventavano soffitti, mentre al di sotto nascevano nuove stanze. Avevo la sensazione che macchinali colossali sferragliassero nelle viscere della terra per realizzare quegli effetti, ma tutto si compiva con scioltezza, senza rumore. Nel vestibolo, la struttura era relativamente stabile, ma l’alcova ovale aveva pareti rosee e viscide d’un materiale simile a pelle che scendeva in un declivio brusco, e risaliva proprio appena al di là del punto in cui stavamo noi, torcendosi a mezz’aria in modo che la superficie, senza giunture, era quella di una «striscia di Moebius». Si poteva camminare su per la parete, superare il punto d’inversione, e lasciare quel locale per passare in un altro, eppure non si vedevano uscite. Dovetti mettermi a ridere Un pazzo aveva progettato quella casa, e un altro pazzo ci abitava; ma si poteva provare un certo orgoglio perverso per tutta quella ingegnosità così mal usata.
«Straordinario!» tuonò Lloyd Kolff. «Incredibile! Cosa ne pensa, eh?» chiese a Vornan.
Vornan sorrise vagamente. «Molto divertente. E la terapia è efficace?»
«La terapia?»
«Questa è una casa di cura per squilibrati? Un manicomio, è la parola giusta?»
«È la casa di uno degli uomini più ricchi del mondo,» fece stizzito Heyman, «progettata dal giovane e geniale architetto Albert Ngumbwe. Viene considerata un eccezionale monumento di valore artistico.»
«Affascinante,» disse Vornan-19, con un effetto devastante.
Il vestibolo ruotò e noi ci muovemmo lungo la superficie viscida fino a quando, all’improvviso, ci trovammo in un’altra sala. La festa era in pieno svolgimento. Almeno cento persone erano raccolte nella sala a forma di rombo, dalle dimensioni immense ed insondabili; facevano un baccano spaventoso, sebbene grazie a qualche ingegnoso gioco acustico non avessimo udito nulla fino a quando avevamo superato la zona critica della «striscia di Moebius». Adesso eravamo in mezzo ad un’orda di ospiti eleganti che chiaramente avevano festeggiato l’evento della serata molto tempo prima dell’arrivo dell’ospite d’onore. Ballavano, cantavano, bevevano, lanciavano sbuffi di fumo multicolore. I riflettori giocavano sopra di loro. Riconobbi dozzine di facce, in un solo sguardo abbagliato che lanciai nella sala: attori, finanzieri, uomini politici, playboy, spaziali. Bruton aveva gettato una rete fitta nella società catturando soltanto i personaggi illustri, straordinari, vivaci. Mi stupii di essere in grado di assegnare nomi a tante di quelle facce, e mi resi conto che era una misura del successo di Bruton, aver potuto raccogliere sotto quei tetti molteplici tanti individui che persino un eremita come me poteva riconoscere.
Un torrente di scintillante vino rosso fluiva da una apertura in alto, su di una parete, e scorreva in un fiume denso e gorgogliante, diagonalmente, attraverso il pavimento, come l’acqua in un abbeveratoio per maiali. Una ragazzina bruna, vestita esclusivamente di cerchi argentei, stava sotto la cascata e rideva mentre il getto la infradiciava. Cercai mentalmente il suo nome, ed Helen disse: «Deona Sawtelle, l’ereditiera dei computer.» Due bei giovani in smoking di tessuto a specchio la tiravano per le braccia, cercando di trascinarla via, ma lei si liberò per piroettare sotto la fontana di vino. Dopo un attimo, i due la imitarono. Lì accanto, una superba donna dalla carnagione scura e dalle narici ingemmate strillava allegramente nella stretta di una titanica figura metallica che la serrava ritmicamente al petto. Un uomo dalla testa rasata e lucida giaceva lungo disteso sul pavimento, mentre tre ragazzine poco più che decenni gli sedevano addosso a cavalcioni e, credo, cercavano di slacciargli i calzoni. Quattro gentiluomini dall’aria di studiosi e dalle barbe tinte cantavano, rauchi, in una lingua a me sconosciuta, e Lloyd Kolff andò a salutarli con grida di piacere misteriosamente espresse. Una donna dalla pelle dorata piangeva silenziosamente alla base di una mostruosa struttura rotante d’ebano, giada e bronzo. Nell’aria fumosa volteggiavano esseri meccanici dalle sferraglianti ali metalliche e dalle code di pavone, lanciando grida stridule e gettando sugli ospiti escrementi scintillanti. Un paio di grosse scimmie incantenate con cerchi di avorio si accoppiavano allegramente all’intersezione di due angoli acuti della parete. Quella era Ninive; era Babilonia. Mi sentivo abbagliato e stordito, disgustato da quegli eccessi e tuttavia deliziato, animato dall’esaltazione che si può provare di fronte ad una audacia cosmica. Quella era una tipica festa alla Wesley Bruton? Oppure era stata messa in scena per far colpo su Vornan-19? Non riuscivo a immaginare che le gente si comportasse in quel modo, in circostanze normali. Tuttavia, sembravano tutti molto naturali; sarebbe bastato aggiungere una patina di sudiciume e cambiare la scena, e quella avrebbe potuto essere una manifestazione degli Apocalittici, non un convegno dell’élite. Intravvidi Kralick… era sgomento. Stava a lato dell’entrata scomparsa, enorme e sbiancato in volto; la sua brutta faccia non era più affascinante, adesso che lo sbigottimento traspariva dai suoi lineamenti. Non aveva certo immaginato di portare Vornan in un posto del genere.
Dov’era il nostro visitatore, fra l’altro? Durante il trauma iniziale dell’ingresso in quel caos, l’avevamo perduto di vista. Vornan aveva avuto ragione: quello era un manicomio. E lui era proprio là in mezzo. Lo vidi, finalmente, accanto al fiume di vino. La ragazza dai cerchi d’argento, l’ereditiera dei computer, si sollevò sulle ginocchia, con il corpo chiazzato di cremisi, e si passò lievemente la mano sul fianco. I cerchi si aprirono al delicato comando, e caddero. Lei ne offrì uno a Vornan, che l’accettò con aria seria, e lanciò in aria gli altri. Gli uccelli meccanici li afferrarono in volo e cominciarono a divorarli. L’ereditiera dei computer, ormai completamente nuda, batté le mani, felice. Uno dei giovanotti dallo smoking a specchio estrasse dalla tasca una bombola e spruzzò i seni e l’inguine della ragazza, formando un sottile rivestimento di plastica. La ragazza lo ringraziò con una riverenza, e voltandosi di nuovo verso Vornan-19, raccolse il vino nel cavo delle mani e glielo offrì. Lui bevve. La metà sinistra della sala entrò in convulsioni, il pavimento si alzò di sei metri per rivelare un gruppo completamente nuovo di invitati che uscivano da chissà quale cantina. Kralick, Fields ed Aster sparirono alla nostra vista, insieme ad altri, nella rotazione del pavimento. Decisi di restare accanto a Vornan, visto che nessun altro membro della nostra commissione se ne assumeva la responsabilità. Kolff rideva pazzamente insieme ai suoi quattro eruditi barbuti; Helen era immobile, abbagliata, e cercava di imprimersi nella mente ogni particolare della scena; Heiman si allontanò volteggiando tra le braccia di una bruna voluttuosa con artigli artificiali fissati alle dita. Mi feci largo a spallate in mezzo alla calca. Un giovane cereo mi afferrò la mano e me la baciò. Una vecchia dama eruttò un getto di vomito a venti centimetri dalle mie scarpe, ed uno scarabeo metallico ronzante e dorato, dal diametro di trenta centimetri, emerse dal pavimento per pulire, emettendo ticchettii di soddisfazione: vidi i suoi ingranaggi muoversi sotto le ali, mentre guizzava via. Un attimo dopo fui a fianco di Vornan.
Aveva le labbra macchiate di bevanda, ma il suo sorriso era ancora magnifico. Quando mi scorse, si liberò della Sawtelle, che cercava di trascinarlo nel rivoletto di vino, e mi disse: «È eccellente, Sir Garfield. È una splendida serata.» Aggrottò la fronte. «Sir Garfield è errato, lo ricordo. Tu sei Leo. È una splendida serata, Leo. Questa casa… è una commedia materializzata!»
Tutto intorno a noi il baccanale infuriava ancora più freneticamente. Bolle di luce vivente fluttuavano all’altezza degli occhi: vidi uno degli illustri ospiti catturarne una e mangiarla. Era scoppiato un pugilato tra due accompagnatori di una donna dalle forme troppo abbondanti che era, notai con timore e disgusto, una reginetta di bellezza della mia gioventù. Lì vicino, due ragazze si rotolavano sul pavimento lottando con veemenza, strappandosi a vicenda gli abiti. Si formò una cerchia di spettatori, che applaudivano ritmicamente via via che venivano rivelate zone di carni nude; all’improvviso le natiche rosee lampeggiarono e la rissa si trasformò in un amplesso saffico e disinibito. Vornan sembrava affascinato dalle gambe flesse della ragazza che stava sotto, dal monte di Venere della vincitrice, dai suoni umidi e risucchianti delle loro labbra congiunte. Inclinò la testa per vedere meglio. Ma nello stesso momento qualcuno si avvicinò e Vornan mi chiese: «Conosci questo uomo?» Ebbi la sconvolgente sensazione che Vornan avesse guardato contemporaneamente in due direzioni, inquadrando con ognuno degli occhi un diverso settore della sala. Era davvero così?
Il nuovo arrivato era un uomo piccolo e grasso, non più alto di Vornan-19, ma almeno due volte più largo. L’ossatura immensamente possente era il supporto di una testa massiccia, dolicocefala che, senza il sostegno di un collo, s’innalzava dalle enormi spalle. Non aveva capelli, e neppure ciglia e sopracciglia: questo lo faceva sembrare più nudo dei vari individui spogliati o semispogliati che sgavazzavano ebbri intorno a noi. Senza badare a me, l’uomo tese una zampa enorme verso Vornan-19 e disse: «Dunque è lei, l’uomo venuto dal futuro? Lieto di conoscerla. Io sono Wesley Bruton.»
«Il nostro ospite. Buonasera.» Vornan gli dedicò una variante del suo sorriso, meno abbagliante, più urbano, e quasi subito il sorriso si spense ed entrarono in gioco gli occhi: acuti, freddi, penetranti. Con un gentile cenno del capo nella mia direzione, disse: «Conosce Leo Garfield, naturalmente?»
«Soltanto di fama,» ruggì Bruton. Teneva ancora la mano protesa. Vornan non gliel’aveva stretta. L’espressione di attesa negli occhi di Bruton si trasformò poco a poco in sbalordito disappunto e in furore appena dissimulato. Rendendomi conto che dovevo fare qualcosa, afferrai io la mano, e mentre quello maciullava la mia, gridai: «È stato molto gentile ad invitarci, signor Bruton È una casa miracolosa.» E aggiunsi, in tono più basso: «Lui non capisce tutte le nostre usanze. Non credo che abbia l’abitudine di stringere la mano.»
Il magnate sembrò raddolcirsi. Mi lasciò andare e chiese: «E lei cosa ne pensa della casa, Vornan?»
«Deliziosa. Incantevole nella sua delicatezza. Ammiro il gusto del suo architetto, la sua sobrietà, il classicismo.»
Non riuscivo a capire se quello era un elogio sincero o una derisione. Bruton parve accettare il complimento alla lettera. Afferrò Vornan per un polso, con l’altra mano abbrancò me, e disse: «Vorrei mostrarvi un po’ dei meccanismi dietro le quinte, amici. Dovrebbero interessarla, professore. E so che a Vornan piaceranno. Venite!»
Temevo che Vornan si accingesse ad usare quella tecnica della scossa di cui aveva dato una dimostrazione sulla scalinata di Trinità dei Monti e mandasse Bruton a ruzzolare lontano una decina di metri, per aver avuto l’ardire di mettergli le mani addosso. Ma no, il nostro ospite lasciò fare. Bruton si fece largo a spintoni in mezzo al caos vorticoso della festa, rimorchiandoci nella sua scia. Arrivammo ad un podio al centro della sala. Un’orchestra invisibile attaccò un accordo terrificante e proruppe in una sinfonia che non avevo mai udita, facendo scaturire gorghi di suono da ogni angolo. Una ragazza vestita come una principessa egizia danzava sul podio. Bruton le posò le mani sulle cosce nude e la sollevò, spostandola, come se fosse una sedia. Salimmo sul podio accanto a lui; Bruton fece un segnale, e improvvisamente sprofondammo attraverso il pavimento.
«Siamo a sessanta metri di profondità,» annunciò Bruton. «Questa è la sala comandi centrale. Guardate!»
Agitò grandiosamente le braccia. Tutto intorno a noi c’erano schermi che riproducevano immagini della festa. L’azione si svolgeva, caleidoscopicamente, in una dozzina di sale nel contempo. Vidi il povero Kralick che barcollava, mentre una specie di femme fatale gli montava sulle spalle. Morton Fields s’era avvinghiato in una posizione compromettente intorno ad una donna corpulenta dal grosso naso camuso; Helen McIlwain dettava appunti nell’amuleto che portava alla gola, un compito che le imponeva una buona imitazione di un atto di fellatio: e Lloyd Kolff si godeva l’atto, dal vero, non molto lontano, e rideva cavernosamente mentre una ragazza dagli occhi sbarrati stava accoccolata davanti a lui. Aster Mikkelsen era al centro di una sala dalle pareti umide e palpitanti, e appariva imperturbabile mentre la frenesia infuriava intorno a lei. Tavole cariche di vivande si muovevano da sole nelle varie sale; vidi gli ospiti afferrare i manicaretti, rimpinzarsi, e lanciarsi l’un l’altro bocconcini prelibati. C’era una sala dal cui soffitto pendevano rubinetti di vini e liquori, a quanto presumo, in modo che chiunque poteva afferrarli e premerli e servirsi; c’era una stanza immersa nell’oscurità più totale, ma non deserta; c’era un’altra sala in cui gli ospiti facevano a turno nel mettersi in testa la cuffia di non so che congegno d’alterazione sensoriale.
«State a vedere!» esclamò Bruton.
Vornan ed io osservammo, lui con blando interesse, io angosciato, mentre Bruton girava interruttori, chiudeva contatti, batteva ordini al computer con allegria demenziale. Le luci si accesero e si spensero nelle sale superiori; pavimenti e soffitti cambiarono posto; piccole creature artificiali volarono pazzamente in mezzo agli ospiti che urlavano e ridevano. Suoni scroscianti, troppo tremendi per poterli chiamare musica, si avventavano attraverso l’edificio. Pensai che la Terra stessa avrebbe incominciato ad eruttare per protesta, e che la lava fusa ci avrebbe inghiottiti tutti quanti.
«Cinquemila chilowatt all’ora,» proclamò Bruton.
Appoggiò le mani contro un globo argenteo d’una trentina di centimetri di diametro e lo spinse lungo un binario ingemmato. Immediatamente una parete della sala comandi si ripiegò e sparì, rivelando l’albero gigantesco di un generatore magnetoidrodinamico che scendeva in un altro sotterraneo ancora più basso. Gli aghi dei monitor danzavano come pazzi; i quadranti lampeggiavano verdi, rossi e violacei. Il sudore colava sul volto di Wesley Bruton mentre elencava, quasi istericamente, le caratteristiche tecnologiche della centrale elettrica su cui era piazzato il suo palazzo. Ci cantò un inno frenetico di chilowatt. Afferrò alcuni grossi cavi e li massaggiò, con aperta oscenità. Ci fece cenno di scendere per vedere il cuore del suo generatore, e lo seguimmo, guidati nel profondo dell’abisso da quello gnomo magnate. Wesley Bruton, ricordavo vagamente, aveva messo insieme la grande società che distribuiva l’energia elettrica su metà continente, e sembrava che tutta la potenza generatrice di quel monopolio tentacolare fosse concentrata lì, sotto i nostri piedi, imbrigliata al solo scopo di far funzionare il capolavoro architettonico di Albert Ngumbwe. A quel livello, l’aria era rovente. Il sudore mi colava a rivoli sulle guance. Bruton si aprì la giacca, mettendo a nudo il torace glabro segnato da grossi fasci di muscoli. Soltanto Vornan-19 rimaneva imperturbato in quel calore; avanzava a passo di danza a fianco di Bruton, parlando poco, osservando molto, per nulla contagiato dall’umore febbrile dell’ospite.
Arrivammo in fondo. Bruton accarezzò la parete curvilinea del suo generatore come se fosse il fianco di una donna. All’improvviso, dovette balenargli nella mente che Vornan-19 non era andato in estasi davanti a quella parata di meraviglie. Si girò di scatto e domandò: «C’è qualcosa di simile, nel posto da dove viene? C’è una casa che si possa paragonare alla mia?»
«Ne dubito,» disse gentilmente Vornan.
«Come vive la gente, là? In case grandi? o piccole?»
«Tendiamo alla semplicità.»
«Quindi non ha mai visto una casa come la mia! Niente che possa eguagliarla, nei prossimi mille anni!» Bruton s’interruppe. «Ma… la mia casa non esiste ancora, nel suo tempo?»
«Non mi risulta.»
«Ngumbwe mi aveva promesso che sarebbe durata mille anni! Cinquemila! Nessuno abbatterebbe mai una casa come questa! Senta, Vornan, provi un po’ a pensarci bene. Deve essere da qualche parte. Un monumento del passato… un momento della storia antica…»
«Forse c’è ancora,» disse Vornan, con fare indifferente. «Vede, questa zona si trova fuori dalla Centralità. Non ho informazioni precise su ciò che vi si può trovare. Tuttavia, credo che la barbarie primitiva di questo edificio potrebbe essere apparsa offensiva a coloro che vissero nel Tempo della Pulizia, quando cambiarono parecchie cose. Allora molto andò distrutto a causa dell’intolleranza.»
«Barbarie… primitiva…» borbottò Bruton. Sembrava sull’orlo di un colpo apoplettico. Avrei voluto avere Kralick a portata di mano per tirarmi fuori da quel pasticcio.
Vornan continuò a piantare spilli nella pelle inaspettatamente delicata del miliardario. «Sarebbe stato affascinante, conservare un posto simile,» disse. «Per organizzarvi festival, cerimonie curiose in onore del ritorno della primavera.» Vornan sorrise. «Potremmo addirittura avere di nuovo gli inverni, se non altro per poter vivere il ritorno della primavera, appunto. E allora danzeremmo e faremmo baldoria in casa sua, Sir Bruton. Ma penso che sia andata perduta. Credo che sia scomparsa, centinaia di anni or sono. Non ne sono sicuro. Non ne sono sicuro.»
«Vuol prendermi in giro?» urlò Bruton. «Ride della mia casa? Per lei sono soltanto un selvaggio? Le…»
Mi affrettai ad intromettermi. «Come esperto di elettricità, signor Bruton, forse le interesserà sapere qualcosa delle fonti di energia nell’era di Vornan-19. Nel corso di una delle sue interviste, un paio di settimane fa, ha detto qualcosa a proposito delle fonti autonome a conversione totale d’energia, e forse adesso potrebbe spiegarsi meglio, se lei glielo chiedesse.»
Bruton dimenticò immediatamente la sua indignazione. Con un braccio si asciugò il sudore che gli colava negli occhi privi di ciglia e grugnì: «Cos’è questa storia? Me ne parli!»
Vornan accostò le mani, dorso contro dorso, in un gesto comunicativo quanto alieno. «Purtroppo me ne intendo pochissimo di questioni tecniche.»
«Mi dica qualcosa, comunque!»
«Sì,» dissi io, pensando ai tormenti di Jack Bryant e chiedendomi se era venuto il momento di scoprire ciò che dovevo. «Questo sistema d’energia autosufficiente, Vornan. Quando è entrato in funzione?»
«Oh… molto tempo fa. Rispetto ai miei tempi, voglio dire.»
«Quanto tempo fa?»
«Trecento anni?» si chiese Vornan. «Cinquecento? Ottocento? È così difficile calcolare queste cose. È stato molto tempo fa… molto tempo.»
«E com’era?» domandò Bruton. «Quand’era grande ogni unità generatrice?»
«Molto piccola,» rispose evasivamente Vornan. Posò leggermente la mano sul braccio nudo di Bruton. «Vogliamo risalire? Perderò la sua festa così interessante.»
«Vuol dire che questo sistema elimina completamente la necessità di trasmettere l’energia?» Bruton non intendeva lasciar perdere. «Ognuno produce l’energia che gli serve? Proprio come faccio io qui?»
Salimmo per una passerella intricata, sottile come una ragnatela, che ci trasportò al piano superiore. Bruton continuò a tempestare Vornan di domande, mentre ritornavamo alla sala comandi principale. Io cercavo d’intromettermi con qualche domanda che servisse a chiarire in quale epoca si era compiuto il rivoluzionario cambiamento, sperando di poter mettere l’animo in pace a Jack, dicendogli che era accaduto in un remoto futuro. Vornan eludeva allegramente le nostre domande, senza dire nulla di concreto. Il suo spensierato rifiuto di soddisfare ogni richiesta d’informazioni ridiede vita e vigore ai miei sospetti. Come potevo fare a meno di oscillare come un pendolo, ora torchiando appassionatamente Vornan sugli eventi della storia futura, ora imprecando contro la mia ingenuità quando mi rendevo conto che era un impostore? Nella sala comandi, Vornan scelse un metodo molto semplice per liberarsi del peso ossessivo della nostra curiosità. Si avvicinò ad uno dei complessi quadri, rivolse a Bruton un sorriso ad altissimo voltaggio e disse: «È deliziosamente divertente, questa sua sala. La ammiro moltissimo.» Fece scattare tre interruttori e premette quattro pulsanti; poi girò un volano per novanta gradi e abbassò una lunga leva.
Bruton ululò. La sala diventò buia. Le scintille volarono come indemoniate. Dall’alto giunse il gemito cacofonico degli strumenti musicali disincarnati e poi suoni di scrosci e di tonfi. Sotto di noi, due passerelle mobili sbatterono una contro l’altra, con un forte clangore; uno stridio stregato uscì dal generatore. Uno schermo si riaccese, mostrandoci nel suo pallido chiarore la sala da ballo principale, con gli ospiti ammassati in un mucchio disordinato. Cominciarono a lampeggiare le luci rosse dell’allarme. L’intera casa era sghemba, le sale orbitavano intorno ad altre sale. Bruton artigliava pazzamente i comandi, premendone uno, girandone un altro, ma ogni correzione da lui compiuta pareva soltanto accrescere la disgregazione. Il generatore sarebbe scoppiato? Mi chiesi. Ci sarebbe crollato tutto addosso? Ascoltai un torrente di imprecazioni che avrebbero mandato in estasi Kolff. I macchinari cigolavano e stridevano ancora, sopra e sotto di noi. Lo schermo mi presentò una immagine sfocata di Helen McIlwain nuda che cavalcava sulle spalle di un angosciato Sandy Kralick. C’erano frastuoni di allarme e di agitazione. Dovetti muovermi. Dov’era Vornan-19? Nel buio, lo avevo perduto di vista. Trasalendo, avanzai a tentoni, cercando la uscita della sala comandi. Intrawidi una porta: era in preda ad un parossismo di convulsioni, e si muoveva sui cardini in aritmici sussulti tremanti. Mi chinai, contai cinque cicli completi e poi, augurandomi di aver calcolato esattamente il tempo, spiccai un balzo e passai appena in tempo per non venire stritolato.
«Vornan!» urlai.
Una nebbia verdognola aleggiava nell’atmosfera della sala in cui ero entrato. Il soffitto s’inclinava ad angoli inverosimili. Gli ospiti di Bruton giacevano afflosciati sul pavimento, alcuni privi di sensi, alcuni feriti; almeno una coppia era avvinta in un amplesso appassionato. Mi parve d’intravvedere Vornan in una sala vagamente visibile alla mia sinistra, ma commisi l’errore di appoggiarmi ad una parete: un pannello reagì alla mia pressione e ruotò su se stesso spingendomi in un altro locale. Fui costretto a rannicchiarmi: il soffitto era alto forse un metro e mezzo. L’attraversai correndo, spalancai uno schermo pieghevole e mi trovai nella sala da ballo. La cascata di vino era diventata una fontana, e spruzzava il liquido gorgogliante verso il soffitto luminoso. Gli ospiti mulinavano con espressioni vacue, afferrandosi l’un l’altro per cercare conforto e stabilità. Intorno ai miei piedi ronzavano gli insetti metallici che portavano via i rottami; cinque o sei avevano catturato uno degli uccelli metallici di Bruton e lo stavano facendo a pezzi con i minuscoli becchi. Non riuscivo a scorgere nessuno del nostro gruppo. Dalla struttura dell’edificio, adesso, proveniva un acuto suono sibilante.
Mi preparai a morire, pensando che era giustamente assurdo perire nella casa di un pazzo per il capriccio di un altro pazzo, mentre ero impegnato in quella missione folle. Tuttavia, continuai a lottare, avanzando tra il fumo ed il frastuono, tra le figure aggrovigliate ed urlanti degli ospiti, tra pareti che slittavano e pavimenti che crollavano. Mi sembrò, ancora una volta, di vedere Vornan muoversi più avanti. Con insistenza demenziale lo seguii, convinto che fosse mio dovere trovarlo e trascinarlo fuori dall’edificio prima che questo si demolisse in un’espressione finale di petulanza. Ma arrivai ad una barriera che non potevo superare. Invisibile, eppure impenetrabile, mi teneva bloccato. «Vornan!» urlai, perché adesso lo vedevo chiaramente. Chiacchierava con una donna alta e bella di mezza età, che sembrava del tutto imperturbata da quanto stava accadendo. «Vornan! Sono io, Leo Garfield!» Ma lui non poteva udirmi. Porse il braccio alla donna, e insieme si allontanarono, in una corsetta irregolare, in mezzo al caos. Battei rabbiosamente i pugni contro la parete invisibile.
«Non c’è possibilità di uscire di lì,» disse una voce femminile, gutturale. «Non riusciresti a spezzarlo neanche in un milione di anni.»
Mi voltai. Una visione argentea era apparsa dietro di me: una ragazza snella, che non aveva più di diciannove anni, interamente scintillante di biancore. I capelli avevano una lucentezza serica; gli occhi erano specchi d’argento; le labbra erano inargentate; il corpo era racchiuso in un abito argenteo. Guardai meglio e mi accorsi che non era un abito, era soltanto uno strato di vernice: scorsi i capezzoli, l’ombelico, i muscoli del ventre piatto, la peluria sul sesso. Dalla gola alla punta delle dita dei piedi era vestita di spray argenteo, e nella luce spettrale sembrava radiosa, irreale, irraggiungibile. Non l’avevo vista, prima alla festa.
«Cos’è successo?» domandò.
«Bruton ci ha portati a visitare la sala comandi. Vornan ha schiacciato alcuni pulsanti, mentre non lo stavamo guardando. Credo che la casa stia per esplodere.»
Lei si accostò la mano argentea alle argentee labbra. «No, non esploderà. Ma faremo bene egualmente ad andarcene. Se continua con questi cambiamenti a casaccio, potrebbe schiacciare tutti quanti, prima che torni la normalità. Vieni con me.»
«Sai come uscire?»
«Naturalmente,» disse lei. «Basta che mi segui! C’è una uscita tre sale più in là… a meno che non si sia spostata.»
Non stetti a riflettere. La ragazza sfrecciò attraverso una botola che si aprì improvvisamente, e ipnotizzato dalla vista del suo grazioso posteriore inargentato, la seguii. Mi guidò per un lungo tratto, finché cominciai ad ansimare per la stanchezza. Scavalcammo a balzi soglie che ondulavano come serpenti; passammo in mezzo a mucchi di ubriachi storditi; veleggiammo al di sopra di ostacoli che andavano e venivano in palpiti dementi. Non avevo mai visto niente di bello quanto quella statua brunita e animata, quella ragazza d’argento, nuda e snella e svelta, che si muoveva decisa in mezzo agli spostamenti della casa. Si fermò accanto ad un tratto fremente di parete e disse: «Qui dentro.»
«Dove?»
«Lì.» La parete si spalancò, come in uno sbadiglio. La ragazza mi spinse dentro ed entrò dopo di me, poi, con una rapida piroetta, mi girò attorno, premette qualcosa, e ci trovammo all’esterno della casa.
Il soffio del vento di gennaio ci traffisse come una spada turbinante.
Avevo dimenticato la stagione; eravamo sempre stati completamente protetti per l’intera serata. All’improvviso eravamo esposti al maltempo, io nel mio leggero abito da sera, la ragazza nella sua nudità coperta soltanto da uno strato monomolecolare di vernice argentea. Barcollò e cadde in un mucchio di neve e vi rotolò sopra, come se fosse avvolta dalle fiamme e cercasse di spegnerle; la rimisi in piedi di peso. Dove potevamo andare? Dietro di noi la casa si rigirava e pulsava come un cefalopodo impazzito. Fino a quel momento la ragazza aveva avuto l’aria di sapere cosa doveva fare, ma l’aria gelida l’aveva intirizzita e stordita, e adesso tremava paralizzata, spaventata e patetica.
«Il parcheggio,» dissi io.
Corremmo da quella parte. Era lontano quasi mezzo chilometro, e noi non stavamo viaggiando su un marciapiedi mobile coperto, questa volta; correvamo sul terreno gelato, reso pericoloso da mucchi di neve e fiumi di ghiaccio. Ero tanto agitato che sentivo appena il freddo, ma per la ragazza era un’esperienza brutale. Cadde parecchie volte, prima che raggiungessimo il parcheggio. Finalmente vi arrivammo. I veicoli dei ricchi e dei potenti erano schierati in bell’ordine sotto uno schermo protettivo. Non so come, passammo; i servoparcheggiatori di Bruton erano impazziti nello sfacelo generale dell’impianto elettrico e non cercarono di fermarci. Si aggiravano in cerchio, in preda ad uno sbigottimento ronzante, accendendo e spegnendo le loro luci. Trascinai la ragazza verso la berlina più vicina, spalancai la portiera, la spinsi a bordo e mi lasciai cadere seduto accanto a lei.
Là dentro era caldo, come un grembo materno. La ragazza ansimava, tremante e congelata. «Tienimi stretta,» gridò. «Sto gelando! Per amor di Dio, tienimi stretta!»
La cinsi con le braccia. La sua figura snella si annidò contro di me. In un attimo, il suo panico svanì; ridivenne calda, padrona di sé come lo era stata quando mi aveva guidato fuori dalla casa. Sentivo le sue mani contro di me. Mi arresi volentieri al suo fascino argenteo. Le mie labbra trovarono le sue e si staccarono, cariche d’un sapore metallico; le sue cosce fresche mi cinsero; ed ebbi la sensazione di fare l’amore con una macchina ingegnosissima, ma la vernice argentea era sottile, e la sensazione svanì quando raggiunsi la carne calda che stava sotto quello strato. Nel nostro agitarsi appassionato, la sua chioma argentea si rivelò una parrucca: scivolò via, scoprendo una testa non inargentata, calva come porcellana. La riconobbi: doveva essere la figlia di Bruton, che aveva ereditato da lui l’assenza dei capelli. Sospirò e mi trascinò nell’oblio.