«Vieni nel deserto con me,» disse Jack. «Vorrei parlarti, vecchio mio.»
Erano passati due giorni dalla trasmissione della conferenza stampa di Vornan-19. Non avevamo più riacceso il teleschermo, e la tensione si era allentata. Io avevo intenzione di tornare a Irvine il giorno dopo. Il mio lavoro mi chiamava, e sentivo anche di dover lasciare Jack e Shirley alla loro intimità, perché risolvessero gli abissi che si stavano aprendo nelle loro vite. Jack aveva parlato pochissimo, in quei due giorni; sembrava facesse uno sforzo cosciente per nascondere il dolore provato quella sera. Il suo invito mi stupì e mi fece piacere.
«Viene anche Shirley?» chiesi.
«Non è necessario. Solo noi due.»
La lasciammo sdraiata al Sole di mezzogiorno, con gli occhi chiusi, il corpo agile offerto nella sua incantevole nudità alla carezza della luce. Jack ed io ci allontanammo per un paio di chilometri dalla casa, avviandoci per un sentiero che usavamo di rado. La sabbia era ancora segnata dalla pioggia violenta, e gli arbusti eruttavano la loro verzura.
Jack si fermò in un punto dove tre alti monoliti incrostati di mica formavano una sorta di Stonehenge naturale, e si accoccolò davanti ad uno dei macigni, per tirare un ciuffo d’erba che cresceva alla base. Quando fu riuscito a strappare la pianta, la gettò via e chiese: «Leo, ti sei mai domandato perché ho abbandonato l’Università?»
«Sai bene che me lo sono domandato.»
«Che cosa ti avevo raccontato?»
«Che eri arrivato ad un punto morto con il tuo lavoro,» dissi io. «Che eri annoiato, avevi perduto fiducia in te stesso e nella fisica, e volevi semplicemente andarti a rifugiare nel tuo nido d’amore con Shirley, a scrivere e a meditare.»
Jack annuì. «Era una menzogna.»
«Lo so.»
«Beh, in parte era una menzogna. Dovevo venire qui e vivere isolato dal mondo, Leo. Ma la faccenda del punto morto… non era affatto vero. Il mio problema era esattamente il contrario. Non ero a un punto morto. Dio sa quanto l’avrei desiderato. Ma vedevo chiaramente la mia strada, fino alla conclusione della mia tesi. Le soluzioni erano ormai in vista, Leo. Tutte le soluzioni.»
Un tic mi fece tremare la guancia sinistra. «E sei stato capace di fermarti, pur sapendo di avere tutto in pugno?»
«Sì.» Colpì la base del macigno, s’inginocchiò, raccolse una manciata di sabbia e la fece scorrere tra le dita. Non mi guardò. Dopo un po’ disse: «Era un atto di grandezza morale, mi domando, o solo un atto di viltà? Tu cosa ne pensi, Leo?»
«Devi dirmelo tu.»
«Sai dove stava portando il mio lavoro?»
«Questo penso di averlo capito prima di te,» dissi. «Ma non intendevo fartelo notare. Dovevo lasciare che fossi tu a decidere. Neppure una volta mi avevi fatto capire di avere visto le implicazioni più importanti, Jack. A quanto potevo immaginare io, pensavi di essere alle prese con le forze della coesione interatomica, ma non avevi ancora messo a punto una teoria per spiegare le tue intuizioni.»
«Infatti. Durante il primo anno e mezzo.»
«E poi?»
«E poi conobbi Shirley, ti ricordi? Lei non capiva molto, di fisica. Sociologia, storia: quelli erano i suoi campi. Le descrissi il mio lavoro. Lei non capiva, perciò glielo spiegai in termini più semplici, e poi ancora più semplici. Era un buon esercizio per me, tradurre in parole ciò che in realtà era stato soltanto un mucchio di equazioni. E alla fine dissi che stavo scoprendo ciò che tiene insieme gli atomi, internamente. E lei osservò: ’Quindi potremmo farli a pezzi senza far scoppiare niente?’ ’Sì,’ dissi io. ’Potremmo prendere qualunque atomo e liberarne abbastanza energia da mandare avanti una casa, suppongo.’ Shirley mi diede un’occhiata strana e disse: ’Sarebbe la fine di tutta la nostra struttura economica, non è vero?’»
«E prima non ti era mai venuto in mente?»
«Mai, Leo. Mai. Ero quel ragazzo magro uscito dal MIT, no? Non mi preoccupavo della tecnologia applicata. Shirley mi sconvolse. Cominciai a fare calcoli, e poi chiamai la biblioteca e feci cercare dal computer alcuni testi d’ingegneria, e Shirley mi tenne una piccola lezione di economia elementare. E allora capii; sì, maledizione, qualcuno poteva prendere le mie equazioni e trovare un modo di liberare un’energia illimitata. Era E — MC2, tutto daccapo. Fui preso dal panico. Non potevo assumermi la responsabilità di sovvertire il mondo. Il mio primo impulso fu di venire da te per chiederti cosa dovevo fare.»
«E perché non venisti da me?»
Jack scrollò le spalle. «Era la via d’uscita più facile. Scaricare il fardello su di te. Comunque, mi resi conto che probabilmente avevi già intuito il problema, e che mi avresti detto qualcosa in proposito, se non fossi stato convinto che l’aspetto morale dovevo risolverlo da solo. Così chiesi quell’anno di aspettativa, e passai il tempo pasticciando con l’acceleratore mentre ci pensavo sopra. Pensai ad Oppenheimer ed a Fermi ed agli altri che avevano costruito la bomba atomica, e mi chiesi che cosa avrei fatto al loro posto. Lavoravano in tempo di guerra, per aiutare l’umanità contro un nemico veramente feroce, eppure anche loro erano stati assillati da dubbi. Io non stavo facendo qualcosa che avrebbe salvato l’umanità da un pericolo chiaro e imminente. Svolgevo soltanto una ricerca gratuita che avrebbe sfasciato il sistema monetario mondiale. Vedevo me stesso come un nemico dell’umanità.»
«Con la vera conversione d’energia,» dissi io, sottovoce, «non vi sarebbero più la fame, la cupidigia, i monopoli…»
«E ci sarebbe anche un sovvertimento generale della durata di cinquant’anni, mentre prenderebbe forma il nuovo ordine di cose. E il nome di Jack Bryant sarebbe maledetto. Leo, non me la sono sentita. Non sono stato capace di assumermi la responsabilità. Alla fine del terzo anno, lasciai perdere tutto. Abbandonai il mio lavoro e venni a rifugiarmi qui. Ho commesso un delitto contro la scienza per non commetterne uno peggiore.»
«E te ne senti colpevole?»
«Naturalmente. Ho la sensazione che tutta la mia vita, in questi ultimi dieci anni, sia stata la penitenza della mia fuga. Ti sei mai chiesto che razza di libro sto scrivendo, Leo?»
«Molte volte.»
«È una sorta di saggio autobiografico: un’Apologia pro vita sua. Spiego il progetto su cui stavo lavorando all’Università, e come arrivai a comprenderne la vera natura, perché smisi di lavorare, e quale è stato il mio atteggiamento nei confronti di questo rifiuto. Il libro è una disanima delle responsabilità morali della scienza, si potrebbe dire. E come appendice, includo il testo completo della mia tesi.»
«Così com’era il giorno in cui smettesti di lavorare?»
No,» disse Jack. «Il testo completo. Ti ho detto che le soluzioni erano in vista, quando piantai tutto. Ho finito il mio lavoro cinque anni fa. C’è tutto nel manoscritto. Con un miliardo di dollari ed un laboratorio decentemente attrezzato, qualunque grande società appena un po’ sveglia potrebbe tradurre le mie equazioni in un sistema energetico perfettamente efficiente, grosso come una noce e capace di funzionare per sempre mediante l’immissione di un po’ di sabbia.»
In quel momento, mi sembrò che la Terra avesse sobbalzato leggermente sul proprio asse. Dopo una lunga pausa, dissi: «Perché hai aspettato tanto prima di affrontare l’argomento?»
«Quella stupida trasmissione dell’altra sera mi ha dato la spinta decisiva. Il cosidetto uomo del 2999, con quei suoi discorsi idioti di una civiltà decentrata in cui ogni individuo è autosufficiente perché può contare sulla conversione totale dell’energia. È stato come avere una visione del futuro… un futuro che io ho contribuito a formare.»
«Ma non crederai davvero…»
«Non so, Leo. È certamente un’assurdità immaginare un uomo che scende in mezzo a noi arrivando da mille anni nel futuro. Ero convinto quanto te che quell’individuo fosse un impostore… fino a quando ha cominciato a parlare del decentramento.»
«L’idea della liberazione totale dell’energia atomica è in circolazione da parecchio tempo, Jack. Quell’uomo è stato abbastanza intelligente da afferrarla e sfruttarla. Non significa per forza di cose che provenga dal futuro e che le tue equazioni siano state utilizzate veramente. Scusami, Jack, ma temo che tu abbia sopravvalutato la tua unicità. Hai preso un’idea dalla massa dei sogni dei futurologi, e l’hai trasformata in realtà, d’accordo: ma questo non lo sa nessuno, tranne te e Shirley, e non devi lasciare che quell’impostore ti induca a credere…»
«Ma supponi che sia vero, Leo.»
«Se è veramente questo che ti preoccupa, perché non bruci il tuo manoscritto?» suggerii.
Mi guardò, scandalizzato e sconvolto come se gli avessi proposto di automutilarsi.
«Non potrei mai farlo.»
«Proteggeresti l’umanità dal sovvertimento che ti fa sentire tanto colpevole.»
«Il manoscritto è al sicuro, Leo.»
«Dove?»
«Nel sotterraneo. Ho costruito una camera blindata e l’ho collegata al reattore della casa. Se qualcuno cerca di entrare in quella camera a mia insaputa, le sicure scattano ed il reattore fa saltare in aria la casa. Non ho bisogno di distruggere quello che ho scritto. Non cadrà mai in mani indegne.»
«E tuttavia, tu presumi che sia caduto in mani indegne nei prossimi mille anni; e così, nel tempo in cui è nato Vornan-19, il mondo vive già grazie al tuo sistema energetico. Esatto?»
«Non so, Leo. È una faccenda pazzesca. Ho l’impressione di essere anch’io sul punto d’ammettere.»
«Diciamo, per amor di discussione, che Vornan-19 non è un simulatore e che quel sistema energetico è in uso nel 2999. Si? Bene, ma non sappiamo se si tratta del sistema ideato da te. Supponiamo che tu bruciassi il tuo manoscritto. Questa azione cambierebbe il futuro, in modo tale che l’economia descritta da Vornan-19 non esisterebbe mai. Lui stesso scomparirebbe nel momento in cui il tuo libro finisse nell’inceneritore. E in questo modo sapresti che il futuro sarebbe stato salvato dal fatto terribile che tu avevi creato.»
«No, Leo. Anche se bruciassi il manoscritto, io sarei ancora qui. Riuscirei sempre a ricreare a memoria le mie equazioni. Il pericolo sta nel mio cervello. Bruciare quel libro non dimostrerebbe niente.»
«Esistono droghe che cancellano i ricordi…»
Jack rabbrividì. «Non potrei.»
Lo guardai inorridito. Con una sensazione simile a quella di chi precipita in un trabocchetto, per la prima volta scoprii la paranoia di Jack: e l’uomo sano, abbronzato, estroverso degli anni del deserto svanì per sempre. Pensare che si era ridotto così! Tormentato dalla possibilità che un impostore astuto ma implausibile rappresentasse il vero ambasciatore di un lontano futuro, modellato dalla creazione soppressa dello stesso Jack!
«C’è qualche cosa che io possa fare per aiutarti?» gli chiesi sottovoce.
«C’è, Leo. Una cosa.»
«Qualunque cosa.»
«Trova il modo di incontrarti personalmente con Vornan-19. Sei una personalità importante del mondo scientifico. Sei in grado di girare le maniglie giuste. Parla con lui. Scopri se è veramente un impostore.»
«Certo che lo è.»
«Scoprilo, Leo.»
«E se è veramente quel che dice di essere?»
Gli occhi di Jack brillarono con un’intensità sconvolgente. «Interrogalo sulla sua epoca, allora. Inducilo a dirti qualcosa di più su quella faccenda dell’energia atomica. Inducilo a spiegarti quando è stata inventata… da chi. Forse è stata scoperta soltanto di qui a cinquecento anni… una scoperta indipendente, che non ha niente a che fare con il mio lavoro. Strappagli la verità, Leo. Io devo sapere.»
Cosa gli potevo dire?
Potevo dirgli: Jack, sei ammattito? Potevo supplicarlo di farsi curare? Potevo offrirgli una rapida diagnosi dilettantesca di paranoia? Sì, potevo farlo: e avrei perduto per sempre il mio migliore amico. Ma diventare complice della sua psicosi interrogando in quel modo Vornan-19 mi appariva disgustoso. Anche ammettendo che riuscissi ad entrare in contatto con lui, che ci fosse un modo per ottenere un’udienza privata, non me la sentivo di degradarmi trattando quel saltimbanco, sia pure per un momento, come se le sue finzioni dovessero venire prese sul serio.
Potevo mentire a Jack. Potevo inventare una conversazione rassicurante con quell’uomo.
Ma sarebbe stato un tradimento. Gli occhi scuri e tormentati di Jack invocavano un aiuto onesto e sincero. Cercherò di assecondarlo, pensai.
«Farò tutto il possibile,» promisi.
Mi strinse forte la mano. In silenzio, ci incamminammo verso casa.
La mattina dopo, mentre stavo facendo le valige, Shirley entrò in camera mia. Aveva addosso qualcosa di aderente e di perlaceo che esaltava in modo miracoloso i contorni del suo corpo. Io che mi ero abituato alla sua nudità, ricordai di nuovo che era bellissima, e che il mio affetto da vecchio zio includeva un piccolo nucleo di concupiscenza repressa ma insopprimibile.
Lei chiese: «Cosa ti ha detto ieri, là fuori?»
«Tutto.»
«Ti ha parlato del manoscritto? Di quello che gli fa tanta paura?»
«Sì.»
«Puoi aiutarlo, Leo?»
«Non lo so. Lui vuole che affronti l’uomo venuto dal 2999 e controlli se dice la verità. Può darsi che non sia molto facile. E probabilmente non servirebbe a molto neppure se ci riuscissi.»
«È molto turbato, Leo. Sono preoccupata per lui. Sai, in apparenza ha l’aria così sana, eppure questa ossessione ha continuato a bruciare dentro di lui, per anni ed anni. Ha perduto il senso della prospettiva.»
«Hai pensato mai di metterlo nelle mani di uno specialista?»
«Non ne ho il coraggio,» mormorò Shirley. «È l’unica cosa che non posso neppure proporre. È la grande crisi morale della sua vita, ed io sono costretta ad accettarla come tale. Non posso insinuare che si tratta di un’infermità. Non ancora, almeno. Forse, se tu tornerai qui in grado di convincerlo che quell’uomo è un impostore, Jack comincerà a liberarsi della sua ossessione. Sei disposto a farlo?»
«Tutto quello che posso, Shirley.»
All’improvviso me la trovai fra le braccia, il viso premuto tra la guancia e la spalla; i globi dei seni, visibili attraverso la stoffa trasparente si premettero contro il mio petto, e le punte delle sue dita quasi affondarono nella mia schiena. Tremava e singhiozzava. La tenni stretta, fino a quando incominciai a tremare anch’io, per un’altra ragione, e gentilmente la staccai da me. Un’ora dopo, stavo avanzando a sobbalzi sulla strada sterrata, diretto verso Tucson e verso il trasporto che mi aspettava per ricondurmi in California.
Arrivai ad Irvine al cader della notte. Appoggiai il pollice alla lastra della porta, e la mia casa mi lasciò entrare. Isolata da tre settimane e inaccessibile alle variazioni climatiche, aveva odore di chiuso, di tomba. Mi rassicurò la vista del solito caos di carte e di bobine sparse dappertutto. Entrai proprio mentre incominciava a cadere una pioggerella sottile. Vagando da una stanza all’altra, provai quel senso della fine che provavo sempre il giorno dopo il termine dell’estate; ero di nuovo solo, la vacanza si era conclusa, il fulgore dell’Arizona aveva lasciato il posto al buio nebuloso dell’inverno californiano. Non potevo aspettarmi di vedere Shirley che si aggirava per la casa, vivace come un folletto, né Jack che districava qualche sua idea tipicamente involuta per sottoporla al mio esame. Questa volta la mestizia del ritorno era ancora più acuta del solito, perché avevo perduto il Jack forte e solido su cui avevo fatto conto per tanti anni, ed al suo posto era comparso uno sconosciuto sconvolto, pieno di dubbi irrazionali. Persino l’aurea Shirley si era rivelata, non già come una dea, ma come una moglie preoccupata. Ero andato da loro con un male oscuro nell’anima, e ne ero tornato guarito: ma quella visita era costata cara.
Spensi gli opacizzatori e guardai le onde incalzanti del Pacifico, la fascia rossiccia della spiaggia, le spire bianche di nebbia che si insinuavano fra i pini contorti, là dove la sabbia lasciava posto all’humus. L’odore di chiuso della casa scomparve via via che l’aria odorosa di salmastro e di pini entrava attraverso gli aspiratori. Misi un musicubo nell’apparecchio, e le migliaia di minuscoli altoparlanti incorporati nelle pareti presero a tessere intorno a me una trama di Bach. Mi concessi un sorso di cognac. Per un po’ me ne rimasi seduto tranquillo a sorseggiare il liquore, lasciandomi avvolgere nel bozzolo della musica, e poco a poco mi sentii invadere da un senso di pace. L’indomani mattina mi attendeva un lavoro senza speranza. I miei amici erano angosciati. Il mondo era sconvolto da un culto apocalittico, e adesso era anche assediato da un sedicente emissario delle epoche future. Eppure c’erano sempre stati falsi profeti, gli uomini avevano sempre lottato contro problemi schiaccianti che tormentavano le loro anime, ed i buoni erano sempre stati assillati da dubbi e turbamenti strazianti. Non c’era niente di nuovo. Non provavo pietà per me stesso. Vivi giorno per giorno, pensai, affronta i problemi via via che si presentano, non rimuginare, fai del tuo meglio, e spera in una gloriosa resurrezione. Benissimo. Lascia che venga il domani.
Dopo un po’, mi ricordai di riattivare il telefono. E fu un errore.
Quelli del mio staff sanno che quando sono in Arizona è impossibile comunicare con me. Tutte le telefonate in arrivo vengono dirottate sulla linea della mia segretaria, e lei le sbriga come ritiene opportuno, senza mai consultarmi. Ma se capita qualcosa di veramente importante, lei lo trasmette al registratore del mio telefono di casa, in modo che io ne venga subito informato al rientro. Nell’istante in cui riattivai il telefono, il microregistratore scaricò il suo fardello; il campanello squillò ed io, automaticamente, premetti il pulsante di ricezione. Sullo schermo apparve il viso lungo e ossuto della mia segretaria.
«La sto chiamando il cinque gennaio, dottor Garfield. Ci sono state parecchie chiamate per lei, oggi, da parte di un certo Sanford Kralick detto staff della Casa Bianca. Il signor Kralick vuole parlarle urgentemente ed ha molto insistito perché lo mettessi in comunicazione con lei in Arizona. Ha persino sbraitato e minacciato. Quando finalmente sono riuscita fargli capire che lei non voleva assolutamente essere disturbato, mi ha chiesto di dirle di chiamarlo alla Casa Bianca al più presto possibile, a qualunque ora del giorno o della notte. Ha detto che si trattava di una questione d’importanza vitale per la sicurezza della nazione. Il numero è…»
Tutto qui. Io non avevo mai sentito nominare Sanford Kralick, ma naturalmente gli assistenti presidenziali vanno e vengono. Era forse la quarta volta, quella, che la Casa Bianca mi aveva cercato negli ultimi otto anni, da quando era entrato inavvertitamente a far parte della riserva disponibile dei «santoni» scientifici. Una mia biografia pubblicata su una rivista settimanale per lettori scemi mi aveva presentato come un uomo da tener d’occhio, un avventuriero alle frontiere del pensiero, una forza dominante della fisica americana, e da allora ero stato assunto alla gloria di scienziato-divo. Qualche volta venivo pregato di prestare il mio nome a questa o quella dichiarazione ufficiale sulle Finalità Nazionali o sulla Struttura Etica dell’Umanità; ero stato chiamato a Washington per fare da guida a personalità piuttosto tonte del Congresso nel labirinto della teoria delle particelle, quando si discutevano gli stanziamenti per i nuovi acceleratori; ero stato precettato per far da tappezzeria quando a qualche esploratore dello spazio veniva consegnato il Premio Goddard. Quella stupidità aveva contagiato anche l’ambiente accademico, che avrebbe dovuto essere un po’ più smaliziato; di tanto in tanto mi capitava di fare da attrazione a una assemblea annuale dell’AAAS, o di cercare di spiegare ad una delegazione di oceanografi o di archeologi cosa succedeva sulla mia frontiera del pensiero. Ammetto, con una certa esitazione, che avevo finito per gradire queste assurdità, non tanto per la notorietà che mi assicuravano, ma solo perché mi fornivano un virtuoso pretesto per sfuggire al mio lavoro sempre meno soddisfacente. Ricordate la Legge di Garfield: gli scienziati-divi sono di solito uomini personalmente afflitti da una crisi creativa. Poiché hanno smesso di produrre risultati significativi, s’immettono nel circuito delle apparizioni in pubblico e si beano della reverente ammirazione degli ignoranti.
Tuttavia non era mai capitato che una di quelle chiamate da Washington fosse formulata in termini tanto urgenti. «Di importanza vitale per la sicurezza nazionale,» aveva detto Kralick. Davvero? Oppure era uno di quegli washingtoniani per i quali l’iperbole è la lingua madre?
La mia curiosità si era ridestata. Alla capitale era l’ora di cena. Kralick aveva detto di chiamarlo a qualunque ora. Mi augurai di disturbarlo proprio mentre sedeva a tavola davanti ad una suprême de volaille, in qualche assurdo ristorante affacciato sul Potomac. Mi affrettai a fare il numero della Casa Bianca. Sul mio schermo apparve lo stemma presidenziale, ed una spettrale voce computerizzata mi chiese cosa desideravo.
«Vorrei parlare con Sanford Kralick,» dissi io.
«Un momento, prego.»
Ci volle più di un momento. Ci vollero circa tre minuti, mentre il computer cercava il numero lasciato da Kralick, che era fuori ufficio, lo chiamava e lo faceva venire all’apparecchio. Alla fine, lo schermo mi mostrò un giovanotto dall’aria cupa, sorprendentemente brutto, con la faccia a cuneo e certe arcate sopracciliari sporgenti che avrebbero fatto l’orgoglio di un uomo di Neanderthal. Per me fu un sollievo: mi ero aspettato uno di quegli yes-men plastici e smontabili tanto numerosi a Washington. Qualunque cosa fosse Kralick, almeno non era stato coniato con il solito stampo. La sua bruttezza era un elemento a favore.
«Dottor Garfield,» disse immediatamente, «speravo proprio che mi chiamasse! Ha passato una piacevole vacanza?»
«Eccellente.»
«La sua segretaria merita una medaglia per la sua devozione, professore. In pratica l’ho minacciata di chiamare in causa la Guardia Nazionale se non mi avesse messo in comunicazione con lei. Ma ha rifiutato egualmente.»
«Avevo avvertito quelli del mio staff che avrei vivisezionato chiunque si permettesse di violare la mia intimità, signor Kralick. In cosa posso esserle utile?»
«Può venire a Washington domani? Completamente spesato.»
«Di che cosa si tratta, questa volta? Di una conferenza sulle nostre possibilità di sopravvivere fino al ventunesimo secolo?»
Kralick sorrise seccamente. «Non è una conferenza, dottor Garfield. Abbiamo bisogno della sua collaborazione in senso molto speciale. Vorremmo cooptare qualche mese del suo tempo e assegnarle un incarico che nessun altro al mondo potrebbe svolgere.»
«Qualche mese? Non credo di poter…»
«È indispensabile, signore. Non mi sto limitando a spacciarle le solite chiacchiere. È una faccenda veramente grossa.»
«Posso conoscere qualche particolare?»
«Non per telefono, purtroppo.»
«E lei vorrebbe che accorressi a Washington con un giorno di preavviso per discutere di qualcosa di cui lei non può dirmi niente?»
«Sì. Se preferisce, verrò io in California per discuterne. Ma questo comporterebbe ulteriori ritardi, e abbiamo già perduto tanto tempo che…»
Tesi la mano verso il pulsante che interrompeva la comunicazione, facendo in modo che Kralick se ne accorgesse. «Se non ne ho almeno un’idea, signor Kralick, purtroppo dovrò porre fine a questa conversazione.»
Lui non si lasciò intimidire. «Un solo accenno, allora.»
«Sì?»
«È al corrente del cosiddetto uomo venuto dal futuro che è arrivato qualche settimana fa?»
«Più o meno.»
«Il nostro progetto riguarda proprio lui. Abbiamo bisogno che lei l’interroghi su certe cose. Io…»
Per la seconda volta in tre giorni, ebbi la sensazione di precipitare in un trabocchetto. Pensai a Jack che mi supplicava di parlare con Vornan-19: e adesso il governo mi ordinava di fare la stessa cosa. Il mondo era impazzito.
Interruppi Kralick, precipitosamente: «Sta bene. Domani sarò a Washington.»