9

La notte seguente lasciai il mio nascondiglio in solaio e uscii a cercare Dora. Non volevo più vedere né ascoltare David o Armand. Sapevo che nessuno avrebbe potuto impedirmi di fare ciò che dovevo.

Il problema era come intendevo farlo. Mi avevano inconsape­volmente confermato una cosa: non ero pazzo. Tutto quello che mi stava succedendo non era frutto della mia immaginazione. Forse ne stavo immaginando una parte, ma non tutto. Comun­que fosse, decisi di adottare un piano d’azione drastico con Do­ra, un piano che né David né Armand avrebbero mai potuto ap­provare.

Disponendo di qualche informazione in più sulle sue abitudi­ni e sui posti che frequentava, la raggiunsi mentre usciva dallo studio televisivo di Chartres Street, nel quartiere francese. Aveva passato tutto il pomeriggio a registrare il suo show di un’ora, e poi a fare quattro chiacchiere col suo pubblico. Rimasi ad aspet­tare sulla soglia di un negozio vicino mentre salutava l’ultima delle sue «sorelle» o seguaci: erano giovani donne, non ragazze, fermamente convinte di poter cambiare il mondo insieme con lei, e sfoggiavano un’aria disinvolta, anticonformista.

Si allontanarono rapidamente in direzioni opposte, e Dora s’incamminò verso la piazza e la sua macchina. Indossava un at­tillato cappotto di lana nero, una calzamaglia di lana e scarpe dal tacco molto alto, le sue preferite per ballare durante il program­ma; col suo caschetto di capelli corvini sembrava estremamente fragile e vulnerabile in un mondo di maschi mortali.

L’afferrai per la vita prima che potesse rendersi conto di ciò che stava succedendo. Ci sollevammo nell’aria con una tale rapi­dità che sapevo che non poteva vedere o capire nulla, e le sussur­rai all’orecchio: «Sei con me, sei al sicuro». Poi l’abbracciai ben stretta, affinchè non potesse risentire del vento o della velocità a cui stavamo viaggiando, e salii tanto quanto osavo salire con lei, indifesa, vulnerabile e dipendente da me, ascoltando attentamente, al di sotto dell’ululato del vento, per assicurarmi che il suo cuore e i suoi polmoni funzionassero normalmente.

La sentii rilassarsi tra le mie braccia, o, meglio, rimase sempli­cemente fiduciosa. Un fatto sorprendente come qualunque altra sua caratteristica. Aveva affondato il viso nel mio cappotto, come se fosse troppo spaventata per cercare di guardarsi intorno, ma in realtà questo suo atteggiamento aveva soprattutto una funzio­ne pratica, quella di ripararsi dal vento. A un certo punto mi sbottonai il cappotto e coprii Dora con uno dei lembi, e conti­nuammo a volare.

Il viaggio durò più del previsto; non potevo portare un fragile essere umano così in alto nell’aria, tutto qui. Tuttavia non fu af­fatto monotono o rischioso come avrebbe potuto essere se aves­simo preso un jet fumante e puzzolente e altamente esplosivo.

Dopo meno di un’ora mi ritrovai, con lei, appena oltre le por­te di vetro dell’Olympic Tower. Dora si svegliò tra le mie braccia come da un sonno profondo. Capii che era stato inevitabile. Era svenuta, per una serie di motivi fisici e mentali, ma riprese subito i sensi, i suoi tacchi che colpivano il pavimento, e mi guardò con enormi occhi da gufo, poi fissò la fiancata di San Patrizio che svettava in tutta la sua gloria sul lato opposto della strada.

«Vieni, voglio accompagnarti a vedere gli oggetti di tuo pa­dre», la invitai. Ci dirigemmo verso gli ascensori.

Mi seguì rapidamente, con zelo — proprio come i vampiri so­gnano che facciano i mortali, cosa che non succede mai e poi mai —, come se tutto ciò fosse magnifico e non esistesse un solo motivo al mondo per avere paura.

«Non ho molto tempo», aggiunsi. Ci trovavamo nell’ascenso­re, che stava sfrecciando verso l’alto. «C’è un Essere che mi dà la caccia e non so cosa voglia da me. Ma dovevo portarti qui a tutti i costi, e farò in modo che tu torni a casa sana e salva.»

Spiegai che non conoscevo entrate situate sul tetto, in quell’e­dificio; in realtà l’intero fabbricato non mi era affatto familiare, altrimenti l’avrei fatta passare da lassù, e le illustrai il problema, imbarazzato perché avevamo sorvolato un intero continente da costa a costa in un’ora e poi prendevamo un ascensore sferragliante che sembrava solo un po’ meno strabiliante della facoltà vampiresca di volare.

Le porte si aprirono sul piano giusto. Le misi in mano la chia­ve e la guidai verso l’appartamento. «Apri la porta, tutto quello che troverai all’interno è tuo.»

Dora mi guardò per un istante, accigliata, poi si scostò distrat­tamente i capelli arruffati dal vento, infilò la chiave nella serratu­ra e aprì la porta. «Le cose di Roger», sussurrò col primo respiro che fece.

Le riconobbe dall’odore, quelle icone e reliquie, così come avrebbe potuto fare qualunque antiquario. Poi vide l’angelo di marmo, sistemato nel corridoio, davanti alla parete di vetro, e pensai che stesse per svenirmi tra le braccia. Si afflosciò all’indietro, come se fosse sicura che l’avrei afferrata e sorretta. La strinsi con la punta delle dita, temendo come sempre di ferirla inavvertitamente.

«Santo cielo», mormorò. Il cuore le batteva all’impazzata, ma era sano, giovane e robusto. «Siamo qui, e mi hai detto la ve­rità.»

Si staccò bruscamente da me prima che potessi rispondere, oltrepassò svelta l’angelo ed entrò nella stanza anteriore più am­pia. Le guglie di San Patrizio erano visibili appena sotto il livello della finestra. E dappertutto si vedevano ingombranti colli rive­stiti di strati di plastica attraverso la quale si poteva distinguere la forma di un crocifisso o di un santo. I libri di Wynken si trovava­no sul tavolo, naturalmente, ma non intendevo farle pressioni in proposito, almeno per il momento.

Si voltò verso di me e sentii che mi stava studiando, valutan­do. Sono talmente sensibile a questo tipo di esame che credo davvero che la vanità sia radicata in ogni mia cellula.

Mormorò qualche parola in latino, ma non riuscii ad afferrar­la, e nessuna traduzione automatica mi balenò nel cervello.

«Cos’hai detto?»

«Lucifero, Figlio del Mattino», sussurrò, fissandomi con sin­cera ammirazione. Poi si lasciò cadere su una grande poltrona di pelle. Era una delle tante suppellettili troppo voluminose dell’appartamento, destinata agli uomini d’affari ma decisamente scomoda. I suoi occhi erano ancora fissi su di me.

«No, non è questo che sono. Sono soltanto ciò che ti ho detto e niente di più. Ma è proprio lui che mi sta dando la caccia», spiegai.

«Il Diavolo?»

«Sì. Ora ascoltami, voglio raccontarti tutto e poi devi darmi un consiglio. Nel frattempo...» Mi voltai, sì, lo schedario c’era. «La tua eredità, ogni cosa, denaro che adesso ti appartiene ma di cui non sei a conoscenza, pulito, tassato e perfettamente lecito... è tutto spiegato nei fascicoli che sono in quei raccoglitori neri. Tuo padre è morto desiderando che tu ricevessi queste cose per la tua chiesa. Se adesso le rifiuti, non essere così sicura che que­sta sia la volontà di Dio. Ricorda che tuo padre è morto. Il suo sangue ha mondato il denaro.» Ci credevo? Be’,era sicuramente ciò che Roger voleva che le dicessi. «Roger mi ha chiesto di dir­telo», aggiunsi, cercando di sembrare sicuro di me.

«Ti capisco», rispose lei. «Ti stai preoccupando di una cosa che non ha nessuna importanza, adesso. Vieni qui, ti prego, la­scia che ti abbracci. Stai tremando.»

«Sto tremando?»

«Qui fa caldo, ma a quanto pare non lo senti. Vieni.»

M’inginocchiai davanti a lei e la presi tra le braccia, come ave­vo fatto con Armand. Posai il capo sul suo corpo. Era fredda ma non sarebbe stata mai, neanche nel giorno della sepoltura, fred­da com’ero io, niente di umano poteva essere così freddo. Avevo assorbito il peggio dell’inverno come se fossi stato marmo poro­so, e probabilmente lo ero.

«Dora, Dora, Dora», sussurrai. «Come ti amava e come desi­derava che per te tutto andasse per il meglio, Dora.»

Il suo profumo era forte, ma lo ero anch’io.

«Lestat, raccontami del Diavolo.»

Mi sedetti sulla moquette per poterla guardare. Stava appol­laiata sul bordo della poltrona, il cappotto nero aperto scompo­stamente, e un lembo di sciarpa dorata in bella mostra; il suo viso era pallido ma molto accaldato, in un modo che la faceva sembrare radiosa e allo stesso tempo un po’ incantata, come se non fosse più umana di me.

«Nemmeno tuo padre è riuscito a descrivere adeguatamente la tua bellezza, vergine del tempio, ninfa dei boschi», sospirai.

«Te l’ha detto lui?»

«Sì. Ma il Diavolo, ah, il Diavolo mi ha detto di farti una do­manda. Di chiederti qual è la verità sull’occhio di zio Mickey.» Me n’ero appena ricordato. Mi ero dimenticato di parlarne a Da­vid o ad Armand, ma quale differenza poteva fare?

Rimase stupita e profondamente impressionata a quelle paro­le. Affondò nello schienale della poltrona. «È stato il Diavolo a dirtelo?»

«Lo considera un dono, perché desidera il mio aiuto. Dichia­ra di non essere malvagio. Dice che Dio è il suo avversario. Ti racconterò tutto, ma mi ha dato queste parole come una specie di regalino extra — com’è che lo chiamiamo a New Orleans, lagniappe? — per convincermi che è chi sostiene di essere.»

Lei fece un gesto che rivelava la sua confusione, la mano che scattava verso la tempia mentre scuoteva il capo. «Aspetta. La verità sull’occhio di zio Mickey: sei sicuro che abbia detto così? Mio padre non ti ha parlato di zio Mickey?»

«No, e neanche ho mai captato un’immagine simile nel suo cuore o nella sua anima. Il Diavolo ha detto che Roger non cono­sceva la verità. Cosa significa?»

«Mio padre non la conosceva», confermò. «Non l’ha mai scoperta. Sua madre non gliel’ha mai raccontata. Stiamo parlan­do di suo zio Mickey, il fratello di mia nonna. E sono stati i geni­tori di mia madre a raccontarmi la vera storia; i genitori di Terry. Andò così: la madre di mio padre era ricca e aveva una splendida casa in St. Charles Avenue.»

«Conosco il posto, so tutto al riguardo. È là che Roger ha co­nosciuto Terry.»

«Sì, infatti, ma mia nonna era stata povera, da giovane. Sua madre aveva lavorato come cameriera nel Garden District, come molte ragazze irlandesi. E Mickey, lo zio di Roger, era uno di quei personaggi che non facevano una grande impressione su nessuno. Mio padre non seppe mai niente della vera vita di zio Mickey. Mia nonna me lo raccontò per dimostrarmi quante arie si dava mio padre, quanto fosse stupido, e come fossero umili le sue origini.»

«Sì, capisco.»

«Mio padre aveva voluto bene a zio Mickey, morto quando lui era ragazzo. Mickey aveva il palato spaccato e un occhio di vetro, e ricordo papà che mi mostrava una sua fotografia e mi spiegava come aveva perso l’occhio. Zio Mickey aveva amato i fuochi d’artificio e una volta, mentre stava giocando coi petardi, uno era scoppiato in una lattina che, uam, lo aveva colpito nel­l’occhio. Questa è la storia cui avevo sempre creduto, perché co­noscevo zio Mickey solo dalla foto, e mia nonna e il mio prozio erano morti prima che io nascessi.»

«Giusto. E poi i genitori di tua madre ti raccontarono una storia diversa.»

«Il padre di mia madre era un poliziotto. Sapeva tutto della famiglia di Roger, sapeva che suo nonno era stato un ubriacone, e anche zio Mickey, più o meno. Zio Mickey, da giovane, aveva lavorato per un allibratore, informandolo sul comportamento dei cavalli in allenamento. E una volta intascò il denaro di una scommessa; in altre parole, lo tenne per sé anziché puntarlo co­me avrebbe dovuto fare e, sfortunatamente, il cavallo vinse.»

«Ti seguo.»

«Zio Mickey, molto giovane e molto spaventato, immagino, si trovava nel Corona’s Bar dell’Irish Channel.»

«Oh, certo, a Magazine Street. Quel bar è rimasto aperto per anni e anni. Forse un secolo», intervenni.

«Sì, e gli scagnozzi dell’allibratore vi entrarono e trascinarono zio Mickey nel retro del locale. Il padre di mia madre vide tutto, perché si trovava là, ma non poteva fare niente. Nessuno poteva. Nessuno voleva. Nessuno osava. Ma ecco cosa vide mio nonno. Gli uomini presero a calci e pugni zio Mickey. Furono loro a ro­vinargli il palato tanto da costringerlo a parlare come se avesse qualche difetto congenito. E gli cavarono l’occhio con un calcio e continuarono a prenderlo a calci facendolo rotolare sul pavi­mento. E mio nonno, ogni volta che raccontava l’avvenimento, diceva: ‘Dora, avrebbero potuto salvare l’occhio, solo che quei tizi lo calpestarono. Lo calpestarono deliberatamente con le loro scarpe a punta’.» S’interruppe.

«E Roger non lo scoprì mai.»

«Tutti quelli che lo sapevano sono morti, ormai», disse. «Tranne me, ovviamente. Mio nonno è morto. Per quanto ne so, chiunque si trovasse nel bar è già morto. Zio Mickey morì all’ini­zio degli anni ‘50. Roger mi portava spesso al cimitero a visitare la sua tomba. Gli aveva sempre voluto bene. Zio Mickey, con la sua voce sepolcrale e il suo occhio di vetro. In un certo senso, tutti gli volevano bene, secondo Roger. E persino i genitori di mia madre lo dicevano. Era un vero tesoro. Lavorò come guar­diano notturno prima di morire. Aveva preso in affitto alcune stanze a Magazine Street, sopra la panetteria Baer. Morì di pol­monite in ospedale ancor prima che qualcuno scoprisse che era malato. E Roger non seppe mai la verità sul suo occhio. In caso contrario ne avremmo parlato, naturalmente.»

Rimasi seduto a riflettere, o, meglio, a rievocare la scena che lei aveva descritto. Dora non trasmetteva nessuna immagine, la sua mente era ben serrata, ma la sua voce era fluita generosa, senza sforzo. Conoscevo il Corona’s, così come lo conosceva chiun­que avesse percorso Magazine Street, in quei famosi isolati del periodo d’oro degli irlandesi. Conoscevo i criminali con le scarpe a punta, quelle che avevano schiacciato l’occhio di zio Mickey.

«Si limitarono a calpestarlo e spappolarlo», spiegò Dora, co­me se riuscisse a leggermi nel pensiero. «Mio nonno ripeteva sempre: ‘Avrebbero potuto salvarlo, se non lo avessero calpesta­to con quelle scarpe a punta’.»

Seguì una pausa di silenzio.

«Questo non prova niente», dichiarai.

«Prova che il tuo amico, o nemico, conosce dei segreti, ecco cosa prova.»

«Ma non dimostra che lui sia il Diavolo e non spiega perché mai dovrebbe scegliere proprio questa storia, tra tutte quelle possibili.»

«Forse si trovava là», ipotizzò lei con un sorriso amaro.

Reagimmo entrambi con una risatina.

«Hai detto che era il Diavolo, ma non era malvagio», mi sollecitò Dora. Sembrava persuasiva e fiduciosa, perfettamente pa­drona di sé. Provai la sensazione di aver fatto la cosa migliore, chiedendole un consiglio. Mi stava fissando intensamente. «Rac­contami cosa ha fatto questo Diavolo», chiese.

Le narrai tutta la storia. Fui costretto ad ammettere di aver pedinato suo padre, e non riuscivo a ricordare se glielo avevo già confessato. Le dissi che il Diavolo mi aveva pedinato in modo si­mile, spiegando ogni cosa proprio come avevo fatto con David e Armand, e mi ritrovai a concludere il racconto con queste scon­certanti parole: «E voglio dirti una cosa su di lui: chiunque sia, ha una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile! Ed è ve­ro. Quando ho usato per la prima volta queste parole per descri­verlo, mi sono salite improvvisamente e inspiegabilmente alle labbra. Non so quale parte della mia mente lo abbia intuito. Ma è vero».

«Ripetilo», chiese.

Lo feci.

Lei scivolò in un silenzio totale. I suoi occhi si ridussero a una fessura e lei rimase seduta con una mano piegata sotto il mento.

«Lestat, sto per farti una richiesta assurda. Ordina del cibo. Oppure trovami qualcosa da mangiare e da bere. Devo riflettere su questa faccenda.»

Mi ritrovai a balzare in piedi. «Tutto ciò che vuoi», dissi prontamente.

«Non ho preferenze. Semplice sostentamento. Non mangio da ieri. Non voglio che i miei pensieri vengano distorti da un di­giuno accidentale. Va’ a prendere del cibo e portamelo. Voglio restare sola, a pregare, a riflettere e a passeggiare avanti e indie­tro tra le cose di papà. Non c’è il rischio che questo demone ven­ga a prenderti prima di quando ha promesso?»

«So solo ciò che ti ho raccontato. Comunque non credo che lo farà. Senti, vado a cercarti qualcosa da mangiare e da bere.»

Mi dedicai subito alla commissione, lasciando l’edificio alla maniera mortale e cercando uno degli affollati ristoranti di midtown in cui comprarle un pasto completo che potesse essere impacchettato e tenuto in caldo fino al mio ritorno. Acquistai per lei parecchie bottiglie di acqua minerale di marca, visto che è ciò che i mortali sembrano amare tanto di questi tempi, e poi, strin­gendo il fagotto, tornai su con tutta calma.

Solo quando l’ascensore si aprì sul nostro piano mi accorsi di come fossero state inconsuete le mie azioni. Il sottoscritto, vec­chio di duecento anni, feroce e orgoglioso per natura, aveva ap­pena fatto una commissione per una ragazza mortale perché lei gliel’aveva chiesto.

Naturalmente c’erano delle attenuanti! L’avevo rapita e por­tata a centinaia di chilometri di distanza! Avevo bisogno di lei. Diavolo, l’amavo.

Tuttavia ecco cosa avevo imparato da questo semplice avveni­mento: Dora aveva il potere, spesso tipico dei santi, di farsi ob­bedire. Senza discutere, ero andato a prenderle da mangiare. Ero uscito allegramente, come se fosse un’attività piacevole.

Portai dentro il cibo e lo posai sul tavolo, per lei.

L’appartamento era invaso dalla mescolanza degli aromi di Dora, incluso quello delle sue mestruazioni, quel particolare san­gue profumato che si raccoglieva tra le sue cosce. L’ambiente respirava insieme con lei.

Ignorai il prevedibile, bruciante desiderio di nutrirmi di lei finché non crollava.

Era seduta in poltrona, china in avanti, le mani intrecciate, e guardava fisso davanti a sé. Vidi che i raccoglitori di pelle nera erano disseminati, aperti, su tutto il pavimento. Sapeva della sua eredità o almeno ne aveva un’idea. Ma non stava studiando quel­lo, e non parve sorpresa dal mio ritorno.

Raggiunse lentamente il tavolo, come se non riuscisse a scuotersi dalle sue fantasticherie. Nel frattempo, frugai nei cassetti della cucina cercando piatti e posate; trovai forchette e coltelli di acciaio inossidabile e un piatto di porcellana. Li posai sul ta­volo e sistemai lì accanto le confezioni di cibo fumante: carne, verdura, roba simile, e una specie d’intruglio dolce, cose che mi risultavano del tutto sconosciute, come sempre, quasi che di re­cente non mi fossi trovato in un corpo mortale e non avessi as­saggiato del cibo vero e proprio. Non volevo ripensare a quell’e­sperienza!

«Grazie», disse, distratta, senza neanche guardarmi. «Sei stato un vero tesoro.» Aprì una bottiglia d’acqua e bevve avida­mente a collo.

Osservai la sua gola mentre lo faceva. Non mi concessi di pen­sare a lei se non con affetto, eppure il suo profumo era sufficien­te per farmi scappare da lì.

Niente scuse, giurai. Se senti di non poter controllare questo desiderio, vattene!

Lei mangiò il cibo con assoluta indifferenza, quasi meccanica­mente, poi alzò gli occhi per guardarmi. «Oh, perdonami, siedi­ti, ti prego. Non puoi mangiare, vero? Non puoi assimilare que­sto tipo di nutrimento.»

«No», confermai. «Ma posso sedermi.» Presi posto accanto a lei, cercando di non fissarla o di annusarne il profumo più del necessario. Guardai, al di là della parete di vetro che avevo da­vanti, il cielo bianco. Non riuscii a stabilire se stesse nevicando, ma era probabile, perché non vedevo altro che il candore. Sì, ciò significava che New York era scomparsa senza lasciare traccia oppure che stava nevicando.

Dora impiegò meno di sei minuti a divorare il pasto. Non ave­vo mai visto nessuno mangiare così in fretta. Impilò tutto e lo portò in cucina. Fui costretto a strapparla dai lavori domestici e a ricondurla nella stanza. Questo mi offrì la possibilità di stringe­re le sue tiepide, fragili mani e di restarle vicino.

«Cosa mi consigli di fare?»

Si sedette per riflettere o per raccogliere le idee. «Credo che tu abbia ben poco da perdere collaborando con questo essere», disse infine. «È evidente che potrebbe distruggerti in qualsiasi momento. Ha parecchi modi per farlo. Hai dormito a casa tua persino dopo aver scoperto che lui, quello che chiami l’Uomo Comune, ne conosceva l’ubicazione. Ovviamente, non lo temi a livello materiale. E nel suo reame sei riuscito a esercitare abba­stanza forza per respingerlo. Cosa rischi aiutandolo? Supponi che sia in grado di portarti in paradiso e all’inferno. È sottinteso che tu puoi ancora rifiutargli il tuo aiuto, vero? Puoi ancora dire, per usare le sue belle parole: ‘Non vedo la situazione dal tuo punto di vista’.»

«Sì.»

«Quello che voglio dire è che, se ti apri a ciò che vuole mo­strarti, questo non significa che hai accettato lui, vero? Anzi, è lui ad avere l’obbligo di farti adottare il suo punto di vista, o così sembrerebbe. Inoltre, la cosa importante è che tu infrangi le re­gole, quali che siano.»

«Non può trascinarmi all’inferno con l’inganno, vuoi dire.»

«Dici sul serio? Credi che Dio lascerebbe che la gente venga trascinata all’inferno con l’inganno?»

«Io non sono la gente, Dora. Sono ciò che sono. Non intendo fare paragoni con Dio, nei miei epiteti ripetitivi. Voglio solo dire che sono malvagio. Molto malvagio. Lo so. Lo sono sin da quan­do ho cominciato a nutrirmi degli umani. Sono Caino, l’assassi­no dei suoi fratelli.»

«Allora Dio potrebbe relegarti all’inferno in qualunque mo­mento volesse. Perché no?»

Scossi il capo. «Magari lo sapessi. Magari sapessi perché non l’ha ancora fatto. Vorrei tanto saperlo. Ma quello che stai dicen­do è che qui sono coinvolte forme di potere su entrambi i lati della barricata.»

«È evidente.»

«E credere in una sorta di stratagemma equivarrebbe quasi alla superstizione.»

«Precisamente. Se vai in paradiso, se parli con Dio...» S’in­terruppe.

«Lo seguiresti se lui ti stesse chiedendo di aiutarti, se ti stesse dicendo che non è malvagio, ma che è l’avversario di Dio e po­trebbe farti cambiare idea sulla situazione?» le chiesi.

«Non lo so», rispose. «Forse sì. Conserverei il mio libero ar­bitrio durante l’intera esperienza, ma potrei benissimo seguirlo.»

«Proprio così. Libero arbitrio. Sto forse perdendo il libero arbitrio e la ragione?»

«Mi sembri nel pieno possesso di entrambi e di un’enorme forza sovrannaturale.»

«Percepisci in me la presenza del male?»

«No, sei troppo bello, lo sai.»

«Ma dentro di me dev’esserci qualcosa di marcio e crudele che riesci a percepire e vedere.»

«Mi stai chiedendo un conforto che non posso darti», spiegò. «No, non lo percepisco. Credo a ciò che mi hai detto.»

«Perché?»

Rifletté a lungo. Poi si alzò e raggiunse la parete di vetro. «Ho fatto una richiesta al sovrannaturale, gli ho chiesto una visione», mormorò, guardando giù, forse fissando il tetto della cattedrale. Non potevo stabilirlo, da quella distanza.

«E pensi che io potrei rappresentare la risposta.»

«Forse», congetturò, voltandosi per fissarmi di nuovo. «Non voglio dire che tutto ciò stia succedendo a causa di Dora e di quello che Dora desidera. Dopotutto, sta succedendo a te. Ma io ho chiesto una visione e mi è stata concessa una serie di avveni­menti miracolosi, e, sì, ti credo, con la stessa certezza con cui cre­do nell’esistenza e nella bontà di Dio.» Si avvicinò a me, posan­do con cautela i piedi tra i raccoglitori sparsi a terra. «Sai, nessu­no di noi può dire perché Dio tolleri l’esistenza del male.»

«Già.»

«O quando il male sia apparso nel mondo. Eppure nel mon­do intero siamo milioni, noi popolo della Bibbia — musulmani, ebrei, cattolici, protestanti —, discendenti di Abramo, e conti­nuiamo a essere coinvolti in storie e schemi in cui è presente il male, in cui c’è un Diavolo, in cui c’è un elemento tollerato da Dio, un avversario, per usare la definizione del tuo amico.»

«Sì. Avversario. E proprio così che ha detto.»

«Confido in Dio», disse.

«E stai dicendo che dovrei farlo anch’io?»

«Cosa mai potresti perdere, facendolo?»

Non risposi.

Lei si aggirò per la stanza, riflettendo, i capelli neri che si spo­stavano in avanti formandole un ricciolo sulla guancia, le lunghe gambe fasciate di nero che sembravano penosamente magre ep­pure eleganti, mentre camminava. Si era tolta il cappotto ormai da tempo, ma solo allora notai che indossava un sottile vestito di seta nera. Sentii di nuovo l’odore del sangue, il suo recondito, profumato sangue femminile. Distolsi lo sguardo da lei.

Disse: «Io so che cosa ho da perdere, in simili faccende. Se credo in Dio, e non esiste nessun Dio, posso perdere la vita. Posso finire sul letto di morte rendendomi conto di aver sprecato l’unica autentica esperienza dell’universo che mai mi sarà con­cessa».

«Sì, è proprio ciò che pensavo anch’io quand’ero vivo. Non intendevo sprecare la mia vita credendo in qualcosa che non po­teva essere dimostrata ed era fuori questione. Volevo conoscere ciò che mi era permesso di vedere, percepire e assaporare nel corso della mia esistenza.»

«Precisamente. Ma, vedi, la tua situazione è diversa. Sei un vampiro. Sei, in termini teologici, un demone. Hai una potenza tutta tua e non puoi morire di morte naturale. Sei avvantaggia­to.»

Ci pensai su.

«Sai cos’è successo oggi nel mondo?» chiese. «Cos’è succes­so solo oggi? Cominciamo sempre la nostra trasmissione televisi­va con notizie d’attualità; sai quante persone sono morte in Bosnia? In Russia? In Africa? Quante battaglie sono state combat­tute e quanti omicidi commessi?»

«So cosa vuoi dire.»

«Voglio dire che è altamente improbabile che questa creatura abbia il potere di farti fare qualcosa con l’inganno, quindi segui­la. Lascia che ti mostri ciò che promette. E se mi sbaglio... se vie­ni trascinato all’inferno con l’inganno, allora avrò commesso un terribile errore.»

«No, non l’avrai fatto. Avrai vendicato la morte di tuo padre, tutto qui. Ma sono d’accordo con te. I trucchi sono troppo me­schini per poter essere inclusi in questa faccenda. Mi affiderò al­l’istinto. E voglio dirti un’altra cosa su Memnoch il Diavolo, una cosa che forse ti stupirà.»

«Che ti piace? Lo so. L’ho sempre saputo.»

«Com’è possibile? Io non piaccio a me stesso, capisci. Mi vo­glio bene, naturalmente, sarò devoto a me stesso sino alla fine dei miei giorni. Ma non mi piaccio.»

«Ieri notte mi hai detto una cosa», ricordò. «Mi hai detto che, se avessi avuto bisogno di te, avrei dovuto chiamarti con la niente, col cuore.»

«Sì.»

«Fa’ altrettanto. Se segui questa creatura e hai bisogno di me, chiamami. Se non riesci a staccartene spontaneamente e hai biso­gno della mia intercessione, lancia quella chiamata! Ti sentirò. E urlerò ai cieli la mia preghiera per te, non per giustizia, ma per misericordia. Me lo prometti?»

«Certo.»

«Cos’hai intenzione di fare, adesso?» chiese.

«Passare con te le ore rimaste, occupandomi dei tuoi affari. Accertando, tramite i miei numerosi alleati mortali, che niente possa danneggiarti per quanto riguarda tutti questi beni.»

«L’ha già fatto mio padre. Credimi. Ha sistemato tutto in mo­do brillante.»

«Ne sei sicura?»

«L’ha fatto con la sua consueta ingegnosità. Ha lasciato a di­sposizione dei suoi nemici una fortuna più ingente di quella de­stinata a me, proprio perché possano impossessarsene. Non han­no nessun bisogno di cercare chicchessia. Una volta saputo della sua morte, cominceranno ad arraffare tutte le sue proprietà di­sponibili, a destra e a manca.»

«Ne sei sicura?»

«Sicurissima. Sistema i tuoi affari, stanotte. Non hai motivo di preoccuparti dei miei. Prenditi cura di te stesso, assicurati di essere pronto a imbarcarti in quest’avventura.»

La osservai a lungo. Ero ancora seduto al tavolo, mentre lei era in piedi, dando le spalle alla parete di vetro. Ebbi l’impres­sione che fosse stata disegnata su di essa con dell’inchiostro ne­ro, eccettuato il suo viso bianco.

«Esiste un Dio, Dora?» sussurrai. Avevo pronunciato queste parole così tante volte! Avevo fatto questa stessa domanda a Gretchen, quando ero di carne e sangue tra le sue braccia.

«Sì, esiste un Dio, Lestat», rispose. «Siine certo. Forse lo hai pregato così ad alta voce e così a lungo che finalmente ti ha pre­stato attenzione. A volte mi chiedo se non sia quella l’inclinazio­ne di Dio, non sentirci quando piangiamo, chiudere volutamente le orecchie!»

«Vuoi che ti lasci qui o preferisci che ti riporti a casa?»

«Lasciami qui. Non voglio mai più fare un viaggio come quello. Trascorrerò buona parte della mia vita nel tentativo di ram­mentarlo, senza riuscirci. Voglio restare qui a New York con le cose di mio padre. Quanto ai soldi, la tua missione è compiuta.»

«E tu accetti le reliquie, il patrimonio.»

«Sì, naturalmente. Conserverò i preziosi libri di Roger finché non arriverà il momento in cui potranno essere esposti al pubbli­co: il suo amato eretico Wynken de Wilde.»

«Posso fare altro per te?» chiesi.

«Pensi... pensi di amare Dio?»

«Assolutamente no.»

«Perché dici una cosa del genere?»

«Come potrei amarlo?» domandai. «Come potrebbe amarlo chiunque? Cosa mi hai appena detto del mondo? Non capisci? Ormai tutti odiano Dio. Non è che Dio sia morto nel XX secolo. È che tutti lo odiano! Almeno secondo me. Forse è questo che Memnoch sta cercando di dire.»

Era sbalordita; si accigliò per la delusione e il desiderio. Vole­va dire qualcosa. Fece uno strano gesto, come se stesse cercando di prendere dal cielo dei fiori invisibili per mostrarmene la bel­lezza, chissà.

«No, lo odio.»

Lei si fece il segno della croce e giunse le mani.

«Stai pregando per me?»

«Sì», rispose. «Se non ti rivedrò mai più dopo stasera, se non troverò un solo straccio di prova che dimostri che tu esisti davve­ro o sei stato qui con me o che una qualunque di queste cose è stata davvero detta, rimarrò comunque trasformata da te come lo sono ora. Tu rappresenti il mio miracolo. Sei una prova più sbalorditiva di quelle mai concesse a milioni di mortali. Non sei soltanto la prova dell’esistenza del sovrannaturale e del misterio­so e del meraviglioso, sei la prova di ciò in cui credo

«Capisco.» Sorrisi. Era tutto così logico e simmetrico. E veri­tiero. Sorrisi, sorrisi sinceramente, e scossi il capo. «Odio dover­ti lasciare», confessai.

«Vai», rispose, poi serrò i pugni. «Chiedi a Dio cosa vuole da noi!» aggiunse in tono irato. «Hai ragione. Lo odiamo!» La rabbia sfavillò nei suoi occhi, poi si placò, e lei tornò a fissarmi, gli occhi apparentemente più grandi e brillanti perché bagnati di lacrime.

«Addio, mio tesoro», mi congedai. Era tutto così straordina­rio e doloroso.

Uscii, nella neve farinosa che si stava accumulando.

Il portale della cattedrale di San Patrizio era chiuso col chiavi­stello, e io mi fermai ai piedi della gradinata di pietra a guardare verso l’alta Olympic Tower, chiedendomi se Dora potesse veder­mi mentre restavo lì, congelandomi al freddo e lasciando che la neve mi colpisse il viso, dolce, insistente, dolorosamente leggia­dra.

«D’accordo, Memnoch, è inutile aspettare ancora. Vieni su­bito, ti prego, se vuoi», dissi ad alta voce.

Sentii immediatamente i passi! Era come se stessero echeg­giando nel mostruoso vuoto della Quinta Avenue, tra le orrende torri di Babele, e io mi fossi affidato alla tromba d’aria.

Girai più volte su me stesso. Non si vedeva nessun mortale!

«Memnoch il Diavolo!» gridai. «Sono pronto!» Stavo mo­rendo di paura. «Dimostrami che hai ragione, Memnoch. Devi farlo!» urlai.

Il rumore dei passi stava diventando più forte. Oh, lui si stava dedicando a uno dei suoi trucchetti più raffinati.

«Ricorda, devi farmi vedere la situazione dal tuo punto di vi­sta! È questo che mi hai promesso!»

Si stava alzando il vento, ma non avrei saputo dire da dove provenisse. La metropoli sembrava deserta, gelata, la mia tomba. La neve mulinò e si addensò davanti alla cattedrale. La vista delle torri si affievolì.

Sentii la sua voce accanto a me, incorporea e intima: «D’ac­cordo, mio caro, cominceremo subito».

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