18

Ci trovavamo nella città, una città fatta di pietra e argilla marro­ne scuro e giallo chiaro. Erano passati tre anni. Doveva essere così. Tutto ciò che sapevo era che facevamo parte di un’enorme folla di persone in tunica, velate e cenciose; sentivo l’odore del sudore umano, il tepore del fiato stantio e il tanfo soffocante di rifiuti umani e stereo di cammello. E, sebbene nessuno badasse a noi, sentivo la gente accalcarsi tutt’intorno, uomini non lavati che premevano contro di me e mi passavano davanti struscian­domi, e la sabbia rendeva salata l’aria entro le mura della città, nelle stradine anguste, proprio come aveva reso salata l’aria del deserto.

La gente era riunita in piccoli androni circolari, sbirciava dal­le finestre soprastanti. La fuliggine si mescolava alla sabbia pe­renne. Donne, che si coprivano il volto col velo, si aggrappavano l’una all’altra, oltrepassandoci. Più su riuscivo a sentire urla e grida. All’improvviso, mi accorsi che la folla era talmente accal­cata intorno a noi che non potevo muovermi. Cercai Memnoch, disperato.

Era proprio accanto a me, osservando ogni cosa; nessuno di noi due riluceva di uno sfavillio sovrannaturale tra quegli umani scialbi e sudici, quelle creature quotidiane di un’epoca antica e austera.

«Non voglio farlo!» gemetti, puntando i piedi, spinto dalla folla eppure resistendo. «Non penso di poterci riuscire! Non posso guardare, Memnoch, no, non sono obbligato a farlo. No... non voglio procedere oltre. Memnoch, lasciami andare!»

«Zitto. Siamo quasi arrivati nel posto in cui Lui passerà», ri­spose in tono severo.

Cingendomi col braccio sinistro, stringendomi con aria pro­tettiva, fendette la folla davanti a noi, quasi senza sforzo, finché non sbucammo nella prima fila formata da quanti aspettavano su una via più ampia mentre la processione avanzava. Le urla erano assordanti. Alcuni soldati romani ci oltrepassarono, gli indu­menti sporchi di terriccio, i visi stanchi, addirittura annoiati, cupi. Dall’altra parte della strada, sul lato opposto del corteo, una donna bellissima e con la testa coperta da un lungo velo bianco levò le mani al cielo e gridò.

Stava guardando il Figlio di Dio. Era appena comparso. Per prima cosa vidi il grosso braccio orizzontale della croce le cui estremità, posate sulle spalle di Cristo, sporgevano sui due lati, e poi le sue mani, legate al braccio verticale, che penzolavano dalle funi e dalle quali sgocciolava già il sangue. La sua testa era china in avanti; i capelli castani erano arruffati e sporchi e coperti dalla rozza corona nera di rovi spinosi; gli spettatori erano accalcati sui due lati, alcuni lo schernivano, altri rimanevano in silenzio.

Aveva a malapena lo spazio sufficiente per avanzare col suo carico, la tunica lacera, le ginocchia livide e sanguinanti, ma con­tinuò a camminare. Il tanfo di urina proveniente dai muri vicini era terribile. Arrancò verso di noi, il viso nascosto, poi cadde, un ginocchio che piombava sui sassi della strada. Alle sue spalle vidi altri che trasportavano il lungo palo della croce che sarebbe stato piantato nel terreno.

I soldati accanto a Lui lo tirarono in piedi e gli risistemarono la croce sulle spalle. Il suo viso era ben visibile, a meno di un me­tro da noi, e Lui ci guardò. Bruciato dal sole, le guance scavate, la bocca aperta e tremolante, gli occhi scuri sgranati e fissi su di noi, ci guardò, senza nessuna espressione, senza lanciare nessun appello. Il sangue colava dalle spine nere conficcate nella fronte; formava minuscoli rivoletti sulle palpebre e lungo le guance. Il petto era nudo sotto la veste stracciata e aperta che indossava, e coperto dalle striature gonfie e rosse lasciate dalla frusta!

«Mio Dio!» Avevo di nuovo perso ogni volontà. Memnoch mi sorresse mentre fissavamo entrambi il volto di Dio. E la folla, la folla continuava a urlare e imprecare, e strepitare e spingere; alcuni bambinetti sbirciavano attraverso le gambe degli adulti; molte donne gemevano. Altri ridevano; un’enorme, orrida e puz­zolente moltitudine sotto il sole implacabile che insinuava i suoi raggi tra i muri ravvicinati e macchiati di urina!

Lui si avvicinò ancora! Ci riconosceva? Fremette nell’agonia, il sangue gli colò sul viso, fino alle labbra tremanti. Emise un ran­tolo, come se stesse soffocando, e vidi che la tunica sulle sue spalle, sotto il legno grezzo del braccio della croce, era impre­gnata di sangue per la flagellazione. Lui era al limite della sop­portazione, ma lo spinsero in avanti e si ritrovò proprio di fronte a noi, gli occhi bassi, il viso madido di sudore in cui nuotava il sangue, e si voltò a guardarmi.

Stavo piangendo senza nessun controllo. A cosa stavo assi­stendo? A una brutalità indescrivibile in qualunque tempo e luo­go, ma le leggende e le preghiere della mia infanzia ardevano con grottesca vitalità; riuscivo a sentire l’odore del sangue. Lo sentiva il vampiro dentro di me. Riuscii a sentire i miei singhiozzi, allar­gai le braccia. «Mio Dio !»

Il silenzio calò sul mondo intero. La gente gridava e spingeva, ma non nel reame in cui ci trovavamo. Lui si fermò a guardare me e Memnoch, si astrasse dal tempo e fermò l’istante nella sua pienezza, nella sua atroce sofferenza, mentre ci fissava.

«Lestat», disse, la voce così flebile e straziata, che la sentii a malapena. «Vuoi assaggiarlo, vero?»

«Signore, cosa stai dicendo?» gridai, le mie parole talmente piene di lacrime che riuscivo a stento a controllarle.

«Il sangue. Assaggialo. Assaggia il sangue di Cristo.» E un terribile sorriso di rassegnazione apparve sul suo volto, quasi una smorfia, il suo corpo che si contorceva sotto l’immensa trave, e il sangue fresco che colava mentre, con ogni respiro, Lui si confic­cava più a fondo le spine nella fronte, e le striature sul suo petto cominciarono a gonfiarsi diventando piaghe da cui colava il san­gue.

«No, mio Dio!» urlai, e allungai una mano e sentii le sue braccia fragili, legate alla gigantesca asse orizzontale della croce, le sue braccia doloranti e magre sotto le maniche lacere, e il san­gue sfavillò davanti a me.

«Il sangue di Dio, Lestat», sussurrò. «Pensa a tutto il sangue umano che è fluito nelle tue labbra. Il mio sangue non ne è de­gno? Hai paura?»

Singhiozzando, gli cinsi il collo con le mani, le mie nocche contro la croce, e gli baciai la gola, e poi la mia bocca si aprì sen­za volontà né lotta e i miei denti penetrarono nella carne. Lo sentii gemere, un lungo gemito echeggiante che parve levarsi e riem­pire il mondo col suo suono, e il sangue m’inondò la bocca.

La croce, i chiodi conficcati nei suoi polsi, non nelle mani, il suo corpo che si contorceva e si dimenava come negli ultimi istanti, voleva fuggire, e la sua testa piombò violentemente sul braccio orizzontale della croce, tanto che le spine gli si piantaro­no nello scalpo, e poi i chiodi conficcati nei suoi piedi, e i suoi occhi che si alzavano verso il cielo, il ritmico picchiare del mar­tello, e poi la luce, l’immensa luce che saliva com’era salita al di sopra della balaustrata del paradiso, e riempiva il mondo, e can­cellava persino questo tiepido, denso, squisito sorso di sangue che scendeva dentro di me. La luce, la luce stessa e l’essere al suo interno, a sua immagine! La luce si ritrasse, rapida, silenziosa, e lasciandosi dietro un lungo tunnel o sentiero, e sapevo che il sen­tiero portava direttamente dalla terra alla luce.

Dolore! La luce stava scomparendo. La separazione era inde­scrivibile! Un colpo repentino si abbattè su tutto il mio corpo con enorme violenza.

Venni scagliato all’indietro, tra la folla. La sabbia mi punse gli occhi. Le urla si levarono tutt’intorno a me. Il sangue mi era ri­masto sulla lingua. Mi colò dalle labbra. Il tempo incalzava con un calore soffocante. E Lui era davanti a noi, fissandoci, e le lacri­me scesero dai suoi occhi, solcando il sangue che già lo copriva.

«Oh, mio Dio, mio Dio, mio Dio!» gridai, deglutendo le ulti­me gocce di sangue. Cominciai a singhiozzare.

La donna sul lato opposto della strada diventò visibile, sfolgo­rante. All’improvviso la sua voce sovrastò il mormorio e le im­precazioni, l’orrenda cacofonia prodotta dagli umani rozzi e in­sensibili che cercavano di vedere la scena.

«Mio Dio!» urlò lei, e la sua voce fu come uno squillo di tromba. Si parò davanti a Cristo. Si fermò di fronte a Lui, si tolse il sottile velo bianco dai capelli, e lo tenne sollevato con entram­be le mani davanti al viso di Cristo. «Signore, Dio, sono Veroni­ca», gridò. «Ricorda Veronica. Per dodici anni ho sofferto di un’emorragia, ma quando ho toccato l’orlo della tua veste sono guarita.»

«Impuro, sudicio!» urlarono i presenti.

«Criminale, blasfemo!»

«Figlio di Dio? Come osi?»

«Immondo, immondo, immondo!»

Le grida divennero frenetiche. La gente protese le braccia verso di lei, eppure sembrava restia a toccarla. Sassi e pietre piovvero dall’alto, verso di lei. I soldati apparivano indecisi, sconcertati e ostili.

Ma Dio Incarnato, le spalle curve sotto la croce, si limitò a guardarla e poi disse: «Sì, Veronica, delicatamente, il tuo velo, mia cara, il tuo velo».

Lei gli posò il velo candido, virginale e sottile sul viso, per tamponare il sangue e il sudore, per calmare, per confortare, il profilo di Cristo visibile sotto il suo biancore per un attimo, e poi, mentre la donna faceva per spostarlo gentilmente, i soldati la tirarono indietro e lei si fermò, sollevando il tessuto con en­trambe le mani perché tutti potessero vederlo.

Il viso di Dio era impresso sul velo!

«Memnoch, guarda! Guarda il velo di Veronica!» gridai.

Il volto era stato trasferito, era stato impresso nel tessuto così come nessun pittore avrebbe saputo raffigurarlo, come se il velo avesse catturato la copia perfetta del viso di Cristo come una mo­derna macchina fotografica, ma in modo addirittura più vivido, come se un sottile strato di pelle avesse creato la pelle nell’imma­gine, e il sangue avesse creato il sangue, e gli occhi avessero stam­pato nel tessuto il loro duplicato, e anche le labbra vi avessero la­sciato la loro impronta di carne.

Tutti gli astanti più vicini videro l’immagine. La gente spinge­va e premeva contro di noi per guardarla. Si levarono delle grida.

La mano di Cristo si liberò dalla fune che la legava alla croce, si allungò e prese il velo di Veronica, e lei cadde in ginocchio piangendo, coprendosi il viso con le mani. I soldati erano sbalor­diti, confusi, respingevano la folla coi gomiti, ringhiavano contro quelli che incalzavano.

Cristo si voltò e mi offrì il velo. «Prendilo, tienilo! Nascondi­lo, portalo via!» sussurrò.

Lo afferrai, terrorizzato dal rischio di danneggiare o macchiare l’immagine. Molte mani si protesero verso di esso, ma io me lo strinsi al petto, con forza.

«Ha lui il velo», urlò qualcuno. Venni spinto all’indietro.

«Prendete il velo!» Una mano cercò di strapparmelo.

Coloro che si lanciavano verso di noi vennero improvvisa­mente bloccati da quanti giunsero sgomitando dalle retrovie per assistere allo spettacolo e ci scostarono istintivamente dalla loro strada. Fummo spinti all’indietro dall’onda, cadendo tra i corpi sudici e cenciosi, tra il frastuono, le grida e le imprecazioni.

La processione era scomparsa; le grida di «il velo» erano di­speratamente lontane.

Lo piegai, tenendolo ben stretto, mi voltai e corsi via.

Non sapevo dov’era Memnoch; non sapevo dove stavo an­dando. Corsi lungo una stretta stradina e un’altra e un’altra an­cora, la gente che mi passava accanto senza badare a me, diretta verso il luogo della crocifissione oppure arrancando sul suo con­sueto tragitto. Mi bruciavano i polmoni a forza di correre, i miei piedi erano pieni di lividi e tagli, sentii di nuovo il gusto del san­gue di Cristo e vidi la luce in un lampo abbagliante. Accecato, strinsi forte il velo e lo infilai sotto la veste e lo tenni ben stretto. Nessuno me l’avrebbe sottratto. Nessuno.

Un terribile lamento mi sgorgò dalle labbra. Guardai in su. Il cielo cambiò; il cielo azzurro sopra Gerusalemme, l’aria piena di sabbia si spostò; la tromba d’aria mi aveva misericordiosamente circondato, e il Sangue di Cristo mi scese nel petto e nel cuore, avviluppandomi, la luce che mi colmava gli occhi, le mie mani strette sul velo ripiegato.

La tromba d’aria mi portò via, in silenzio e quietamente. Con un enorme sforzo di volontà mi costrinsi a guardare in basso, a infilare una mano sotto la tunica, che adesso non era più la mia tunica ma la mia giacca e la mia camicia — l’abito che avevo in­dossato tra le nevi di New York — e tra l’una e l’altra sentii il velo ripiegato! Sembrava che il vento stesse per lacerarmi gli indu­menti, per strapparmi i capelli. Ma mi aggrappai forte al pezzo di tessuto ripiegato che era al sicuro contro il mio cuore.

Vidi del fumo levarsi dalla terra. Altre urla e grida. Erano più terribili delle grida che circondavano Cristo sulla strada verso il Calvario?

Con un colpo violento, rovinoso, piombai contro un muro e poi su un pavimento. Dei cavalli mi sfrecciarono accanto, gli zoc­coli che mancavano per un pelo la mia testa, scintille che sgorga­vano dalle pietre. Una donna sanguinante e moribonda era river­sa davanti a me, il collo spezzato, il sangue che sgorgava copioso da naso e orecchie. La gente fuggiva in ogni direzione. Di nuovo l’odore degli escrementi misto a quello del sangue.

Era una città in guerra, i soldati impegnati a saccheggiare e a trascinare gli innocenti fuori dei passaggi ad arco, grida che echeggiavano come se rimbalzassero su soffitti senza fine, le fiamme che mi arrivavano così vicino da strinarmi i capelli.

«Il velo, il velo!» esclamai, e lo tastai con la mano, al sicuro, ancora infilato tra la giacca e la camicia. Il piede di un soldato si sollevò e mi sferrò un violento calcio su uno zigomo: finii lungo disteso sulle pietre.

Guardai in alto. Non mi trovavo affatto in una strada, bensì in un’enorme chiesa dal soffitto a cupola, con innumerevoli gallerie di archi e colonne romanici. Tutt’intorno a me, contro lo scintillio di mosaici dorati, uomini e donne venivano falciati. I cavalli li sta­vano calpestando. Il corpo di un bambino colpì la parete sopra di me, il cranio si ruppe e le minuscole membra caddero ai miei pie­di come macerie. I cavalieri menavano violenti fendenti alla gente in fuga, con spadoni che recidevano spalle e braccia. Una violen­ta esplosione illuminò tutto come se fosse mezzogiorno. Uomini e donne uscivano correndo dai portali. Ma i soldati li inseguivano. Il sangue inzuppava il terreno. Impregnava il mondo.

Tutt’intorno a me e molto più in alto, i mosaici dorati sfavilla­vano di visi che ora sembravano paralizzati dall’orrore mentre as­sistevano alla carneficina. Santi e santi e santi. Le fiamme si leva­vano e danzavano. Pile di libri stavano bruciando! Icone veniva­no fatte a pezzi e statue erano accumulate qua e là, fumanti e an­nerite, l’oro che scintillava mentre veniva divorato dalle fiamme.

«Dove siamo?» gridai.

La voce di Memnoch risuonò dietro di me. Era seduto, com­posto, contro la parete di pietra.

«Nella basilica di Hagia Sophia, amico mio», rispose. «Non è niente, davvero. È solo la quarta crociata.»

Protesi verso di lui la mano sinistra, non volendo staccare la destra dal velo.

«Ciò che stai vedendo sono i cristiani di Roma che massacra­no i cristiani greci. Tutto qui. Per il momento l’Egitto e la Terra Santa sono stati dimenticati. Ai veneziani sono stati concessi tre giorni per saccheggiare la città. È stata una decisione di carattere politico. Naturalmente, erano tutti venuti qui per riconquistare la Terra Santa, dove noi due siamo stati di recente, ma la batta­glia non ha potuto aver luogo, così le autorità hanno sguinzaglia­to le truppe contro Costantinopoli. Il cristiano massacra il cri­stiano. Romano contro greco. Vuoi uscire di qui? Vorresti vedere altri dettagli? Adesso milioni di libri stanno andando perduti per sempre. Manoscritti in greco, siriano, etiope e latino. Libri di Dio e libri degli uomini. Vuoi passeggiare tra i conventi dove le suore vengono trascinate fuori delle loro celle e stuprate da altri cristiani? Stanno saccheggiando Costantinopoli. Non è niente, credimi, niente di niente.»

Rimasi sdraiato, piangendo, cercando di chiudere gli occhi per non vedere, ma incapace di non vedere... trasalendo per il frastuono degli zoccoli dei cavalli così pericolosamente vicini, soffocato dal puzzo del sangue del bimbo morto che mi premeva sulla gamba, pesante e floscio come qualcosa di gonfio e bagnato uscito dal mare. Piansi e piansi. Accanto a me giaceva il cadavere di un uomo con la testa semistaccata dal collo, il sangue che for­mava una pozza sulle pietre. Un’altra figura gli cadde addosso, il ginocchio slogato, una mano insanguinata che cercava qualcosa cui appoggiarsi e trovava solo il roseo corpicino nudo del picco­lo, che buttò subito da parte. Adesso la sua testolina era quasi spaccata.

«Il velo», sussurrai.

«Oh, sì, il prezioso velo», rispose lui. «Preferiresti un cam­biamento di scena? Possiamo passare oltre. Possiamo andare a Madrid e regalarci un autodafé, sai di cosa si tratta, è quando torturano e bruciano vivi gli ebrei che rifiutano di convertirsi al cristianesimo. Forse dovremmo tornare in Francia per vedere i catari che vengono massacrati in Linguadoca? Devi aver sentito queste storie mentre crescevi. L’eresia venne spazzata via, sai, estirpata alle radici. Una missione di enorme successo da parte dei padri domenicani, che subito dopo cominceranno a occupar­si delle streghe, naturalmente. Ci sono così tante possibilità di scelta. Supponiamo di andare in Germania per assistere al marti­rio degli anabattisti. Oppure in Inghilterra a guardare Maria la Cattolica che brucia sul rogo quanti si sono ribellati al papa du­rante il regno di suo padre, Enrico VIII. Voglio raccontarti di una scena straordinaria che sono spesso tornato a rivedere. Strasburgo, 1349. Lì duemila ebrei verranno arsi sul rogo nel feb­braio di quell’anno, incolpati della Morte Nera. Cose simili acca­dranno in tutta Europa...»

«Conosco la storia», urlai, cercando di riprendere fiato. «La conosco!»

«Sì, ma vederla è un po’ diverso, vero? Come ti ho già detto, queste sono solo bazzecole. Tutto questo non avrà altro effetto che dividere per sempre i cattolici greci da quelli romani. E men­tre Costantinopoli s’indebolisce, il nuovo popolo della Bibbia, i musulmani, oltrepasseranno le difese indebolite, invadendo l’Europa. Vuoi assistere a una di quelle battaglie? Possiamo tra­sferirci direttamente nel XX secolo, se vuoi. Possiamo andare in Bosnia o in Erzegovina, dove musulmani e cristiani stanno com­battendo in questo preciso momento. Quei due Paesi sono nomi sulle labbra della gente che riempie le strade di New York, oggi. E mentre prendiamo in considerazione tutto il popolo della Bib­bia — musulmani, ebrei, cristiani — perché non raggiungere l’Iraq meridionale per ascoltare il grido dei curdi affamati, le cui paludi sono state prosciugate e la cui gente viene sterminata? Se vuoi potremmo concentrarci sul saccheggio dei luoghi sacri... mo­schee, cattedrali, chiese. Potremmo utilizzare quel metodo per viaggiare fino all’epoca attuale. Bada bene, non una delle propo­ste che ti ho fatto coinvolge gente che non crede in Dio o in Cri­sto. Del Popolo della Bibbia, ecco di cosa stiamo parlando, la Bibbia che inizia con il Dio Unico e continua a cambiare e ad ampliarsi. E oggi e stanotte documenti d’inestimabile valore fini­scono in fumo. È lo sviluppo della creazione; è l’evoluzione; è sofferenza santificata da parte di qualcuno, sicuramente, perché tutti i popoli che vedi qui venerano lo stesso Dio.»

Non risposi.

Per fortuna la sua voce cessò, ma non la battaglia. Ci fu un’esplosione. Le fiamme ruggirono così alte che riuscii a vedere i santi sulla cupola. In un lampo l’intera, splendida prospettiva della basilica sfavillò intorno a me: l’enorme ovale, gli innumere­voli ordini di colonne, i grandi semiarchi che sostenevano la cu­pola. La luce si affievolì, poi esplose di nuovo, mentre le grida ri­suonavano con rinnovato vigore.

Allora chiusi gli occhi e rimasi immobile, ignorando i calci e i piedi che mi calpestavano, premendo con violenza sulla mia schiena mentre passavano. Avevo il velo ed ero sdraiato lì, immobile.

«L’inferno può essere peggiore di questo?» chiesi. La mia vo­ce era flebile e pensavo che lui non potesse sentirmi, dato il fra­stuono della battaglia.

«Non lo so davvero», rispose, con lo stesso tono intimo, co­me se il nostro imprecisato legame portasse messaggi dall’uno al­l’altro, senza sforzo.

«È Sheol l’inferno?» domandai. «Le anime possono uscire?»

Lui non rispose. «Pensi che intraprenderei questa battaglia con Lui a qualunque condizione, se le anime non potessero far­lo?» chiese poi, come se l’idea stessa di un inferno eterno lo of­fendesse.

«Portami via di qui, ti prego», sussurrai. La mia guancia era posata sulla fredda pietra del pavimento della chiesa. Il tanfo dello stereo dei cavalli si mescolava a quello dell’urina e del san­gue, ma la cosa peggiore erano le grida! Le grida e l’incessante tintinnio del metallo! «Memnoch, portami fuori di qui! Dimmi il motivo di questa battaglia tra te e Lui! Dimmi quali sono le re­gole!» Mi sforzai di mettermi seduto, accostando le ginocchia al corpo, asciugandomi gli occhi con la mano sinistra, la destra an­cora stretta sul velo. Cominciai a sentirmi soffocare dal fumo. Mi bruciavano gli occhi. «Dimmi, cosa intendevi quando hai di­chiarato di aver bisogno di me e che stavi vincendo la battaglia? Cosa è la battaglia tra voi due? Cosa vuoi che faccia? In che senso sei il suo avversario? Cosa dovrei fare, in nome di Dio?» Alzai gli occhi.

Lui era seduto con atteggiamento rilassato, un ginocchio sol­levato, le braccia conserte, il volto per un attimo ben visibile nel bagliore delle fiamme e sfocato nell’attimo seguente. Era coperto di sporcizia da capo a piedi, e sembrava piuttosto debole, im­merso in una strana, leggiadra infelicità. La sua espressione non era amareggiata né sarcastica, solo meditabonda: un’espressione tollerante e statica, come statici erano i volti sui mosaici, inani­mati testimoni di ciò che accadeva.

«Quindi dovremo tralasciare così tante guerre? Trascurare così tanti massacri? Abbiamo già sorvolato su così tanti marti­rii», dichiarò. «Ma in fin dei conti l’immaginazione non ti man­ca, Lestat.»

«Lasciami riposare, Memnoch. Rispondi alle mie domande. Non sono un angelo, solo un mostro. Ti prego, andiamocene.»

«D’accordo», acconsentì. «Ce ne andiamo subito. Sei stato coraggioso, in realtà, proprio come avevo previsto. Le tue lacri­me sono copiose e vengono dal cuore.»

Non risposi. Mi posai la mano sinistra sull’orecchio. Come potevo muovermi? Mi aspettavo che lui evocasse la tromba d’a­ria per portarci via? Avevo ancora membra capaci di obbedire ai miei ordini?

«Andiamo, Lestat», ripetè. Sentii levarsi il vento: era la trom­ba d’aria, e le pareti si erano già ritratte di scatto. Premetti la ma­no sul velo e udii la voce di Memnoch nel mio orecchio: «Ripo­sa, adesso».

Le anime mulinarono intorno a noi nell’oscurità. Sentii la mia testa contro la sua spalla, il vento che mi scompigliava i capelli. Chiusi gli occhi e vidi il Figlio di Dio entrare in un luogo vasto, buio e triste. I raggi di luce venivano emanati in ogni direzione dalla sua figura minuta e ben visibile, illuminando centinaia di forme umane, forme di anime, forme spettrali che lottavano.

«Sheol», cercai di dire. Ma ci trovavamo nella tromba d’aria, e questa era un’immagine impressa solo sul nero dei miei occhi chiusi. La luce si fece più intensa, i raggi che si fondevano in un unico splendido bagliore, come se mi trovassi in Sua presenza, e i canti si levarono, più forti e chiari, sovrastando le anime geme­bonde intorno a noi, finché la mescolanza di gemiti e canti non divenne la natura della visione e la natura della tromba d’aria. Ed erano una cosa sola.

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