13

«Lei mi portò all’accampamento, accompagnandomi oltre i can­celli. Uomini e donne, seduti accanto ai fuochi, si alzarono subito e i bambini corsero verso di me. Sapevo di possedere una bellez­za angelica e non rimasi stupito dai loro sguardi ammirati. Tutta­via mi chiesi cosa, in nome del cielo, intendessero fare. Mi fecero sedere e mi offrirono da mangiare e da bere. Ne avevo bisogno. Per tre giorni avevo bevuto solo acqua e mangiato qualche bacca raccolta qua e là nei boschi. Mi sedetti a gambe incrociate con lo­ro e mangiai la carne cotta che mi diedero, mentre lei, la mia don­na, la mia figlia degli uomini, si premeva contro di me, come per sfidare chiunque a contestare il nostro legame; quindi parlò. Si alzò, protese le braccia verso l’alto e con voce stentorea raccontò agli altri quello che aveva visto. Usò un linguaggio semplice, ma disponeva di parole sufficienti per descrivere tutto... come mi aveva incontrato sulle rive del mare e aveva visto che ero nudo e si era concessa a me in sacralità e venerazione, sapendo che non potevo essere un uomo della terra. Non appena il mio seme era sgorgato dentro di lei, una splendida luce proveniente dall’alto aveva riempito la caverna. Lei era fuggita, impaurita, ma io mi ero addentrato nella luce, impavido, dando l’impressione di conoscerla, e, davanti ai suoi stessi occhi, ero cambiato tanto che lei era riuscita a vedere attraverso di me, pur continuando a veder­mi. Ed ero diventato altissimo, con immense ali di piume bian­che! Questa visione — questa creatura attraverso la quale lei pote­va vedere come attraverso l’acqua — era durata solo un istante. Poi ero scomparso. Questo era indubbio come il fatto che adesso fossi seduto lì. Lei era rimasta nei paraggi, tremando, osservan­do, pregando gli antenati, il Creatore, i demoni del deserto, tutti i poteri affinchè la proteggessero, poi all’improvviso mi aveva vi­sto di nuovo... trasparente, per riassumere le sue semplici parole, ma visibile, mentre precipitavo, alato ed enorme, piombando sulla terra, in una caduta che avrebbe sicuramente ucciso un uo­mo, anche se è questo che diventai: un uomo, solido come chiun­que poteva notare, seduto nella polvere.

«‘Dio, cosa faccio? Ciò che ha detto questa donna è vero! Ma io non sono Dio. Tu sei Dio. Cosa devo fare?’ pregai. Dal paradi­so non giunse nessuna risposta, non alle mie orecchie, non al mio cuore, non al mio cervello ingombrante e sviluppato. Quanto al­la folla di ascoltatori, che dovevano essere una trentina, se non si contavano i bambini, nessuno parlò. Tutti stavano meditando sul racconto. Nessuno lo accettò subito come veritiero, però nessu­no intendeva farsi avanti per metterlo in dubbio. Qualcosa nei miei modi e nel mio atteggiamento li teneva a freno. La cosa non mi stupì. Certo non mi feci piccino né tremai né rivelai ciò che stavo soffrendo. Non avevo imparato a esprimere la sofferenza angelica attraverso la carne. Mi limitai a restare seduto lì, ren­dendomi conto che, in base ai loro parametri, ero giovane, avve­nente e rappresentavo un mistero. Loro non erano abbastanza coraggiosi per cercare di farmi del male come facevano così spes­so con gli altri, per cercare di pugnalarmi, trafiggermi o bruciar­mi, torture che li avevo visti infliggere abbastanza spesso ai loro nemici o ai compagni che disprezzavano. All’improvviso l’intero gruppo cominciò a mormorare. Un uomo vecchissimo si alzò. Le sue parole furono ancora più semplici di quelle della ragazza. Di­rei che possedeva forse metà del vocabolario di lei, ma gli basta­va per potersi esprimere, e mi chiese: ‘Cos’hai da dire?’

«Gli altri reagirono come se questa domanda fosse un esem­pio di autentica genialità. E forse era davvero così. In quel mo­mento la donna si strinse ancora di più a me; seduta al mio fian­co, lanciandomi un’occhiata supplichevole, mi abbracciò. Mi re­si conto di una cosa: il suo destino era legato al mio. Era spaven­tata da tutta quella gente, dai suoi consanguinei. Mentre non aveva paura di me! Interessante. Ecco che cosa sono capaci di fa­re la tenerezza e l’amore, e anche i miracoli, pensai. E Dio sostie­ne che questa gente è parte della natura! Chinai il capo, ma non a lungo. Alla fine mi alzai in piedi, facendo alzare anche lei, la mia compagna, per così dire, e, usando tutte le parole che conoscevo della sua lingua, persino alcune che i bambini di quella genera­zione avevano coniato e che gli adulti non conoscevano ancora, dissi: ‘Non voglio farvi del male. Sono venuto dal paradiso. Sono venuto qui per conoscervi e amarvi. E vi auguro solo tutte le cose belle che esistono al di sotto di Dio!’

«Scoppiò un grande clamore, un clamore felice, con la gente che batteva le mani e si alzava in piedi, i bambini che saltavano su e giù. Si raggiunse un accordo unanime sul fatto che Lilia, la donna con cui ero stato, poteva adesso rientrare nel gruppo. Era appena stata scacciata per morire in solitudine, quando mi aveva incontrato. Ma adesso godeva di un certo prestigio, era tornata con un dio, una divinità, un essere celeste... Cercarono di espri­merlo con numerose sillabe abbinate in vari modi.

«‘No!’ dichiarai. ‘Non sono un dio. Non ho creato il mondo. Venero, proprio come voi, il Dio che lo ha creato.’ Anche questa mia affermazione venne accolta con esultanza. In realtà, la frene­sia generale cominciò ad allarmarmi. Percepivo i limiti del mio corpo con tutti questi altri che ballavano, gridavano, strepitavano e prendevano a calci la legna nel fuoco, e con questa adorabi­le Lilia che si aggrappava a me. ‘Adesso devo dormire!’ dissi im­provvisamente. E non era altro che l’assoluta verità. Non avevo mai dormito per più di un’ora consecutiva durante i miei tre giorni nella carne, e adesso ero esausto, contuso e bandito dal paradiso. Avrei voluto girarmi verso questa donna e seppellire il mio dolore tra le sue braccia. Tutti dimostrarono la loro appro­vazione. Ci prepararono una capanna. La gente corse qua e là ra­dunando per noi le pelli e le pellicce più pregiate, la pelle masti­cata più morbida, poi ci spinse in silenzio dentro la capanna, e io mi sdraiai sulla pelliccia, la pelle di una capra di montagna, lunga e morbida.

«‘Dio, cosa vuoi che faccia?’ chiesi ad alta voce. Non ebbi ri­sposta. C’erano solo il silenzio e il buio nella capanna, e poi le braccia di una figlia degli uomini intorno a me, sensuali, affettuo­se, piene di tenerezza e di passione, quel mistero, quell’abbina­mento, quel vero e proprio miracolo vivente, tenerezza e lussuria che diventavano una cosa sola.» Memnoch s’interruppe. All’im­provviso sembrò sfinito. Si alzò e raggiunse di nuovo la riva del mare. Si fermò sulla soffice sabbia e sui ciottoli. Vidi balenare il contorno delle sue ali, forse nello stesso modo in cui l’aveva visto la donna, e poi lui fu semplicemente la consueta figura imponente, con le spalle incurvate mentre mi dava la schiena, il viso na­scosto tra le mani.

«Memnoch, cosa accadde?» chiesi. «Di certo Dio non ti la­sciò là! Cosa hai fatto? Cosa successe il mattino dopo, quando ti svegliasti?»

Lui sospirò e si voltò, finalmente. Tornò verso il masso e si se­dette di nuovo. «Quando giunse il mattino avevo già conosciuto Lilia una mezza dozzina di volte ed ero sfiancato, il che rappre­sentò di per sé un’ennesima lezione. Ma non avevo la più pallida idea di cosa avrei potuto fare. Mentre lei dormiva, io avevo pre­gato Dio, Michele e gli altri angeli. Avevo pregato e pregato, chiedendo cosa dovevo fare. Riesci a indovinare chi mi rispo­se?» chiese.

«Le anime di Sheol», azzardai.

«Sì, esatto! Furono loro a rispondermi. Come facevi a saper­lo? Quegli spiriti — le anime più forti di Sheol che udirono le mie preghiere al Creatore e udirono l’impeto, l’essenza delle mie gri­da, le mie scuse e le mie imploranti richieste di misericordia, per­dono e comprensione — sentirono tutto ciò, lo assorbirono, lo as­similarono, come facevano coi desideri spirituali dei loro figli an­cora in vita. E quando sorse il sole, quando tutti gli uomini del gruppo avevano già cominciato a radunarsi, sapevo solo che qua­lunque cosa mi accadesse, qualunque fosse la volontà di Dio, le anime di Sheol non sarebbero più state le stesse! Avevano appre­so troppe cose dalla voce di quest’angelo caduto che aveva av­ventatamente supplicato il paradiso e Dio. Non afferrai sino in fondo l’impatto della cosa, perché non rimasi seduto lì a ragio­narci sopra. Le anime più forti avevano intravisto per la prima volta il paradiso; ormai sapevano di una luce che induceva un an­gelo a piangere e a supplicare disperato perché temeva di non ri­vederla mai più. Non ci pensai. No. Dio mi aveva lasciato lì. Ec­co cosa pensai. Dio mi aveva abbandonato. Uscii per unirmi alla folla. L’accampamento traboccava di gente. Da tutti gli insedia­menti vicini stavano giungendo uomini e donne ansiosi di veder­mi. E fummo costretti a lasciare il luogo cintato per spostarci al­l’aperto, in uno dei campi. Guarda laggiù a destra, dove il terreno declina. Vedi il punto in cui il campo si allarga e l’acqua volge verso...?»

«Sì.»

«Fu lì che ci radunammo. E ben presto divenne evidente che tutti questi uomini e queste donne si aspettavano qualcosa da me, che parlassi, che facessi miracoli, che mi spuntassero le ali, qualcosa, ma ignoravo cosa. Quanto a Lilia, si aggrappava a me come sempre, seducente e bellissima, e colma di un vago stupo­re. Ci arrampicammo insieme su quella roccia... guarda, il masso lasciato milioni di anni fa dai ghiacciai. Là. Ci arrampicammo e lei si sedette mentre io rimanevo in piedi davanti a quella gente. A quel punto guardai verso il paradiso e allargai le braccia. Con tutto il cuore implorai Dio di perdonarmi, di riaccogliermi in pa­radiso, di portare al climax quest’intrusione tra gli uomini per mezzo della mia misericordiosa sparizione, cioè di lasciarmi as­sumere la mia forma angelica, invisibile, e salire al cielo. Lo desi­derai, lo immaginai, cercai di riacquistare la mia precedente natura in ogni modo possibile e immaginabile. Fu tutto inutile. Nei cieli soprastanti vidi ciò che vedevano gli uomini: l’azzurro del cielo e le sottili nubi bianche spinte verso est dal vento, e la fioca luna diurna. Il sole mi feriva le spalle. Feriva la sommità della mia testa. E in tutto quell’orrore qualcosa mi divenne chiaro: sa­rei morto in quel corpo! Avevo perso la mia immortalità! Dio mi aveva reso mortale e mi aveva voltato le spalle. Ci riflettei a lun­go. Lo avevo sospettato sin dal primo istante, ma allora, con la rapidità di un uomo, me ne convinsi, e in me nacque una profon­da rabbia. Guardai tutti quegli uomini e quelle donne. Pensai al­le parole che mi aveva détto Dio, al suo ordine di unirmi a coloro che avevo scelto, alla carne che preferivo al paradiso. E una deci­sione prese forma nella mia mente. Se quella doveva essere la mia fine, se dovevo morire in quel corpo mortale così come muoiono tutti gli uomini, se mi restavano solo giorni o settimane o addirit­tura anni — a seconda di quanto quel corpo poteva sperare di so­pravvivere tra le insidie della vita —, allora dovevo farne la cosa più sublime che conoscevo. Dovevo offrire a Dio il dono più su­blime: estinguermi in qualità di angelo, se l’estinzione rappresen­tava il mio destino!

«‘Tì amo, mio Signore’,proclamai ad alta voce. E mi spremet­ti le meningi cercando di stabilire quale fosse l’atto più splendi­do che potessi compiere. La risposta che mi balenò nella mente fu logica e immediata, e forse ovvia. Avrei insegnato a quella gen­te tutto ciò che sapevo! Non mi sarei limitato a raccontare loro del paradiso, di Dio e degli angeli: a cosa sarebbe servito? Anche se, naturalmente, gliene avrei parlato, e avrei esortato tutti a cer­care una morte tranquilla e la pace a Sheol, perché questo pote­vano ottenerlo. Ma quello sarebbe stato il meno, tra ciò che avrei fatto, anzi non era niente! Ecco cos’era invece di gran lunga mi­gliore: avrei insegnato a queste persone, nel loro mondo, tutto ciò che io percepivo con la logica, ma che loro ancora non avevano appreso. Cominciai subito a parlare. Li guidai verso le montagne e li accompagnai all’interno delle caverne, mostrai loro le vene di metallo prezioso e spiegai che, quando questo metallo era caldis­simo, sgorgava dalla terra in forma liquida, ribollendo, e che, se fossero riusciti a riscaldarlo nuovamente, avrebbero potuto ammorbidirlo e ricavarne degli oggetti. Tornando verso il mare, rac­colsi del terriccio soffice e lo modellai creando statuette antropo­morfe per mostrare com’era facile! Con un bastoncino tracciai un cerchio sulla sabbia e parlai dei simboli. Spiegai come poteva­mo disegnare un simbolo per Lilia che somigliasse al fiore da cui era tratto il suo nome e che loro chiamavano lilium. E come po­tevamo creare un simbolo di ciò che ero... un uomo alato. Trac­ciai disegni ovunque, mostrando alla gente come fosse semplice associare un’immagine a un concetto o a un oggetto concreto. Quando scese la sera, avevo già radunato intorno a me tutte le donne, cui stavo spiegando come legare le loro corregge di pelle masticata, cosa che non avevano mai pensato di fare, mostrando modi elaborati per intrecciarle e ricavarne grosse pezze di mate­riale uniforme. Tutto logico. Era ciò che deducevo da quello che, come angelo, sapevo del mondo intero. Ora, queste persone co­noscevano già le stagioni della luna, ma ignoravano il calendario solare. Glielo illustrai in modo dettagliato. Spiegai quanti giorni avrebbero dovuto essere inclusi in un anno a seconda dei movi­menti del sole e dei pianeti, e come potevano prender nota di tutto ciò usando dei simboli. E ben presto raccogliemmo l’argilla dalla riva del mare e ne ricavammo tavolette su cui, usando dei bastoncini, disegnai le stelle, il paradiso e gli angeli. E poi le la­sciammo essiccare al sole. Per diversi giorni e notti rimasi con la mia gente. Cominciai a insegnare loro sempre più cose, ancora e ancora. Quando un gruppo si stancava e non poteva seguire altre lezioni, mi rivolgevo a un altro ed esaminavo quello che stavano facendo i suoi membri, cercando costantemente di perfezionar­ne i metodi. Sapevo che avrebbero appreso molte cose da soli. Ben presto avrebbero scoperto la tessitura, per confezionare in­dumenti migliori. Tutto ciò era un bene. Mostrai loro dei pig­menti simili al rosso ocra che già utilizzavano. Dalla terra grezza estrassi sostanze che avrebbero fornito colori diversi. Comunica­vo loro ogni idea che mi balenava nella mente, ogni miglioria che riuscivo a immaginare, ampliando nel frattempo il loro vocabo­lario, insegnando loro a scrivere. Inoltre li iniziai anche a un tipo di musica completamente nuova, e ai canti. Le donne vennero da me, ripetutamente — e Lilia si fece da parte —, affinchè il seme dell’angelo potesse entrare in molte, moltissime di loro, ‘le avve­nenti figlie degli uomini’.» S’interruppe di nuovo; sembrava che gli si fosse spezzato il cuore, mentre ricordava quel periodo. I suoi occhi avevano un’espressione distante e riflettevano il cele­ste del mare.

Cominciai a parlare in tono sommesso e cauto, attingendo alla mia memoria e pronto a interrompermi se lui avesse dato segno di non gradire. Citai una frase del libro di Enoch. «‘E Azazel... mostrò loro i metalli e l’arte di lavorarli, e braccialetti e orna­menti, e l’uso dell’antimonio, e l’abbellimento delle palpebre, e pietre preziose di ogni genere, e tutte le tinture colorate.’»

Memnoch si voltò a guardarmi, apparentemente incapace di proferire verbo. La sua voce giunse poi fioca, quasi come la mia, mentre recitava le righe successive del libro di Enoch. «‘E nac­que parecchia empietà, e loro si diedero alla fornicazione, e ven­nero fuorviati...’» Fece una nuova pausa e poi riprese: «‘E men­tre gli uomini perivano gridavano, e il loro grido saliva fino al cielo’». Ancora una volta s’interruppe, con un lento, amaro sor­riso. «E il resto, Lestat, ciò che viene detto tra i versi che hai cita­to tu e quelli che ho citato io? Menzogne! Insegnai a quella gente la civiltà. Insegnai loro la conoscenza del paradiso e degli angeli! È tutto quello che ho insegnato loro. Non ci furono né sangue né illegalità né mostruosi giganti sulla terra. Sono tutte menzogne, frammenti su frammenti sepolti nelle menzogne!»

Annuii, senza paura, e piuttosto sicuro della questione, ve­dendola con estrema chiarezza e dal punto di vista degli ebrei, che in seguito credettero così fermamente nella purificazione e nella legge, mentre prima l’avevano considerata un insieme di impurità e male... e narrarono di questi osservatori, questi inse­gnanti, questi angeli che si erano innamorati delle figlie degli uo­mini.

«Non ci fu nessuna magia», dichiarò Memnoch in modo pa­cato. «Non ci furono incantesimi. Non insegnai loro a forgiare le spade! Non insegnai loro la guerra. Se esisteva la conoscenza tra altri popoli della terra, e io ne ero al corrente, gliela trasmettevo. Dicevo loro che nella vallata di un altro fiume gli uomini sapeva­no raccogliere il grano con le falci! Che in paradiso c’erano gli ophanim, angeli rotondi, angeli che erano ruote, e spiegai che se questa forma veniva imitata con la materia, se un semplice pezzo di legno collegava due pezzi arrotondati, si poteva costruire un oggetto capace di rotolare su queste ruote!» Sospirò. «Non dor­mivo mai, ero impazzito. Mentre la conoscenza sgorgava da me e loro ne venivano logorati, arrancando sotto il suo fardello, io en­travo nelle caverne e incidevo i miei simboli sulle pareti. Incide­vo immagini del paradiso, della terra e degli angeli. Incidevo la luce di Dio. Lavoravo senza sosta finché ogni muscolo mortale, in me, non cominciava a dolere. E poi, incapace di sopportare ol­tre la loro compagnia, sazio di donne bellissime e aggrappando­mi a Lilia per trame consolazione, mi addentravo nella foresta, dichiarando che avevo bisogno di parlare col mio Dio immerso nel silenzio, e lì crollavo. Giacevo immobile, confortato dalla si­lenziosa presenza di Lilia, e ripensavo a tutto ciò che era succes­so. Ripensavo al caso che avevo progettato di esporre a Dio e a come ciò che avevo appreso da quel momento in poi vi si era adattato alla perfezione! Niente di quello che avevo visto negli uomini poteva indurmi a cambiare parere. Pensavo di aver offe­so Dio, di averlo perduto per sempre, di avere Sheol cui aspirare, per tutta l’eternità; queste cose erano reali e le conoscevo, e per­cuotevano la mia anima e il mio cuore. Ma non potevo cambiare idea! L’arringa che avevo progettato di esporre all’Onnipotente sosteneva che queste persone erano al di sopra della natura e al di là della natura, e richiedevano una parte più cospicua di Dio; tutto ciò di cui ero stato testimone non faceva che confermare la mia convinzione. Avevo visto come avevano accolto i segreti ce­lesti, come soffrivano e cercavano un significato che giustificasse quelle sofferenze! Se solo ci fosse stato un Creatore e se solo il Creatore avesse avuto i suoi motivi... Oh, era un’autentica ago­nia. E nel suo nucleo sfavillava il segreto della lussuria. Durante l’orgasmo, quando il mio seme era sgorgato nella donna, avevo provato un’estasi simile alla gioia del paradiso, l’avevo provata e la provavo solo in relazione al corpo sdraiato sotto di me; e, per una frazione di secondo o forse meno, avevo capito, capito, capi­to che gli uomini non erano parte della natura, no, erano meglio: il loro posto era con Dio e con noi! Quando venivano da me con le loro confuse credenze — non c’erano forse mostri invisibili ovunque? — rispondevo loro di no. C’erano solo Dio e la corte celeste che stabilivano ogni cosa, e le anime dei loro simili a Sheol. Quando mi chiesero se gli uomini e le donne malvagi, cioè che non obbedivano alle loro leggi, venissero gettati tra le fiam­me per morire in eterno — idea molto diffusa tra loro e altri popo­li —, io rimasi orripilato e risposi che Dio non avrebbe mai per­messo una cosa del genere. Una minuscola anima appena nata che veniva punita per sempre nel fuoco? Un’atrocità, risposi. Ancora una volta spiegai che dovevano venerare le anime dei morti per alleviare la propria sofferenza e la sofferenza di quelle anime, e che, quando fosse giunta la morte, non avrebbero dovu­to averne paura ma andare tranquillamente nella semioscurità e tenere lo sguardo fisso sulla brillante luce della vita sulla terra. Dissi la maggior parte di queste cose solo perché non sapevo co­sa dire. Oh, empietà. L’avevo fatto, l’avevo fatto davvero. E per­ciò quale sarebbe stato il mio destino? Sarei invecchiato e poi morto, un maestro assai venerato, e prima di morire — o prima che una pestilenza o una bestia selvatica mettessero prematura­mente fine alla mia esistenza — avrei inciso nella pietra e nell’argilla tutto il possibile. E infine sarei andato a Sheol, avrei comin­ciato a radunare intorno a me le anime e le avrei incitate: ‘Grida­te, gridate verso il paradiso!’ E avrei insegnato loro a guardare in alto. Avrei detto che la luce era là!» Riprese fiato, come se ogni parola lo riempisse di bruciante dolore.

Io ricominciai a citare sommessamente dal libro di Enoch. «‘E ora, guardate, le anime di coloro che sono morti stanno gri­dando e appellandosi alle porte del paradiso.’»

«Sì, conosci le Scritture come un buon Diavolo», dichiarò con amarezza, eppure il suo viso era talmente stravolto dalla tri­stezza e dalla compassione e questa frase beffarda fu pronuncia­ta con un tale sentimento che io non percepii nessuna acredine. «E chissà cosa sarebbe potuto succedere!» aggiunse. «Chi po­teva saperlo? Sì, sì, avrei rafforzato Sheol finché quelle grida non avessero colpito le porte del paradiso, abbattendole. Se hai delle anime e queste sono capaci di crescere, puoi essere come gli an­geli! Quella era la mia unica speranza, la speranza di regnare tra i dimenticati da Dio.»

«Ma Dio non ha permesso che accadesse, vero? Non ti ha la­sciato morire in quel corpo.»

«No. E neanche ha mandato il diluvio. Tutto quello che ave­vo insegnato non fu spazzato via da un’inondazione. Ciò che è ri­masto, ciò che ha trovato posto nel mito e nelle Scritture, è che io ero stato là, quelle cose erano state insegnate ed era alla portata di un uomo insegnarle; lo si poteva fare grazie alla logica, non al­la magia, e persino i segreti del paradiso rappresentavano ciò che forse le anime sarebbero arrivate a capire da sole. Presto o tardi, avrebbero capito.»

«Ma come te ne sei andato? Che ne è stato di Lilia?»

«Lilia? Ah, Lilia. Morì venerata come la moglie di un dio. Li­lia.» Il suo viso s’illuminò e lui rise. «Lilia», ripetè, la memoria che estrapolava la donna dalla storia per portarla vicino a lui. «La mia Lilia. Bandita, e pronta a legare la sua sorte a quella di un dio.»

«A quel punto Dio ti aveva già ripreso con sé? Aveva messo fine alla tua vita tra gli uomini?» domandai.

Ci fissammo per un istante.

«Non è così semplice», mormorò. «Mi trovavo là da circa tre mesi quando mi svegliai per scoprire che Michele e Raffaele era­no venuti da me; dissero con chiarezza: ‘Dio ti vuole’.

«E io, essendo Memnoch l’irriducibile, risposi: ‘Davvero? Al­lora perché non mi prende e mi porta fuori di qui, oppure fa ciò che desidera?’

«A quel punto, Michele sembrò dispiaciuto per me e disse: ‘Memnoch, per l’amor di Dio, riprendi spontaneamente la tua debita forma. Senti il tuo corpo aumentare di statura; lascia che le tue ali ti riconducano in paradiso. Dio ti desidera solo se vuoi venire! Ora, Memnoch, rifletti prima di...’

«‘No, non hai bisogno di mettermi in guardia, mio caro’,lo prevenni. ‘Vengo, con le lacrime agli occhi, vengo.’ M’inginoc­chiai per baciare Lilia, ancora addormentata. Lei alzò gli occhi su di me. ‘Questo è un addio, mia compagna, mia maestra’,sussur­rai. La baciai e poi, voltandomi, divenni angelo per lei visibile, la­sciando che la materia mi delineasse in modo che Lilia, appoggia­ta ai gomiti e piangente, avesse quest’ultima visione di me e ma­gari se la stringesse al cuore quando ne avesse avuto bisogno. In­fine, invisibile, mi unii a Michele e Raffaele, e tornai in paradiso. Nei primi istanti non riuscii quasi a crederci; mentre attraversavo Sheol, le anime gridarono di dolore e io allungai le mani per con­solarle. ‘Non vi dimenticherò! Lo giuro. Porterò in paradiso il vostro appello’,e poi salii sempre più su, la luce che scendeva ad accogliermi e ad avvilupparmi, e il caldo amore di Dio — non sa­pevo se rappresentasse un preludio al giudizio o al castigo — mi circondò e mi sostenne. Le grida di gioia in paradiso risultarono assordanti persino alle mie orecchie. Tutti gli angeli del bene ha elohim erano riuniti. La luce di Dio pulsava in mezzo a loro.

«‘Devo essere punito?’ chiesi. Tutto ciò che riuscivo a sentire era la gratitudine per aver potuto vedere ancora una volta, sep­pure per pochi istanti, questa luce. Non riuscivo a guardare al suo interno. Dovetti alzare le mani. E, come sempre succede in occasione di una riunione plenaria in paradiso, i serafini e i che­rubini si strinsero intorno a Dio in modo che la luce arrivasse suddivisa in raggi da dietro le loro spalle, gloriosa, e trasformata in una radiosità che potevamo sopportare.

«La voce di Dio risuonò immediata e totale. ‘Ho qualcosa da dirti, mio audace, arrogante Memnoch. Ho da comunicarti un concetto su cui potrai riflettere nella tua saggezza angelica. È il concetto della Gehenna, dell’inferno.’ Questa parola mi si spa­lancò davanti con tutte le sue implicazioni. ‘Fuoco e tormento eterno, il contrario del paradiso’,disse Dio. ‘Memnoch, rispon­dimi ascoltando il tuo cuore. Sarebbe il castigo adatto a te, l’esat­to contrario della gloria cui hai rinunciato per le figlie degli uo­mini? Sarebbe la condanna appropriata, una sofferenza perenne o che duri finché il tempo non cessa di esistere?’»

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